La trasuta di li miricani
Mini storia racalmutese
di CALOGERO TAVERNA
APPARECCHIU MIRICANU ....
di Nicolò Falci |
APPARECCHIU
MIRICANU ...
(“apparecchiu
miricaaanu, jetta bummi e sinni vaaaaa,
apparecchiu miricaaanu jetta bummi e sinni vaaaaa ...”
Passanu
‘n cìalu tanti aeroplani
e ‘n testa a mia pinzera luntani (su comu granci ca vannu ‘nnarrìari) e mi riviju carusu arrìari.
La
guerra aviva finutu d’allura.
A lu paisi la vita era dura e ni li gruìcchi ancora guzzìava l’ecu di bumma ca ‘n terra scuppiava.
L’allavancavanu
li miricani
-ca chini avivanu l’aeroplani- p’arrigalari la dimucrazìa a la Sicilia, a l’Italia mìa.
Ma
tutti sannu ca a li carusi
-pi fari un juacu cu antri vavusi- ogni occasioni ci duna lu spuntu, comu la cosa ca ora vi cuntu.
Si n’apparecchiu
passava, vulannu,
li picciliddri, currìann’e ridìannu, ‘n coru cantavanu na filastrocca ... ... ... ma chiddru già era junt’a Milocca!
(((“apparecchiu
miricaaanu, jetta bummi e sinni vaaaaa,
apparecchiu miricaaanu jetta bummi e sinni vaaaaa ...”))).
Passa
lu tìampu ma li miricani
bumm’arrigalan’a cu voli pani, dimucrazìa pinsannu di dari a cu cujetu vulissi arristari.
Spirassi,
allura, ca ddri picciliddri,
ca hannu pi tettu sulu li stiddri, uguali a nantri putissiru fari e ddra canzuna assìami cantari:
ca
ddr’apparecchi ca volanu gantu
ad iddri ‘un portanu lacrimi e chiantu: eranu fansi, ma ora su mansi! Genti trasportanu ni li so’ panzi,
genti
pacifica ca viaggia in paci
e pò firriari unn’è ca cci piaci. Chista è la spranza ca tutti avìammu, ed è cosa fatta si lu vulìammu. |
Da San
Giuliano, nel primo pomeriggio del 14 o 15 o 16 luglio del 1943 affacciato
nell’ “astracu” della mia vecchia casa natia di Via Fontis dei documenti
(divenuta poi via Fontana ed ora Via Gramsci), vedo scendere una ronda di tre
soldatoni, marziale il passo. Martellante l’incedere, armatissimi, casco in
testa. Fucili in pugno. “ I tedeschi .. i tedeschi” gridavano alcuni. A
Racalmuto i tedeschi non c’erano. Soldati italiani tanti, a lu cannuni,
davanti a “ma mamma Cuncittì”. A frotte. Mangiavano nelle loro gavette. Molti
seduti sul marciapiede lungo tutta la facciata del fortilizio; altri appoggiati
alle inferriate di “lu Cannuni”. Un pacioso in divisa grigio-verde prese in
braccio mio fratello Luigi, allora belloccio e biondiccio, e cominciò a
baciarlo. Mia nonna terrorizzata voleva levaglielo di mano ma quel pacioso
militare gli disse in dialetto nordico: me lo lasci baciare un po’: ho un bambino
come questo che non vedo da mesi. E’ bello come questo qui. Mio fratello aveva
manco tre anni.
“ Che
tedeschi e tedeschi” risposero altri. “Questi, americani sono”. Sgomento,
prima, perplessità, dopo. Infine come una folgorazione: “viva gli americani”. Figli
di taliani sunnu. Abbasso il duce, stu’ gran curnutazzu, ca nni rruvinà.
E giù battimano , tutti a batter le mani. La ronda si rasserenò, sorrise
persino. Gli americani “eranu trasuti a Racalmuto”.
Sciascia
sapidamente irride al noto proclama Roatta. Come ho precisato, lo ebbi a
leggere in una gita fatta con Enzo Macaluso visitando il museo sullo sbarco di
Catania, un museo molto agghindato. Ne vale la pena visitarlo, anche se forse
molto esuberante per una sola decina di giorni di storia siciliana. Ma trattasi
di inquietanti vicende a raggio planetario. Altre priorità della tanto
incalzante Sicilia, se aspettano, non è poi malanno esiziale.
A leggere
le invocazioni roattiane non si può non dare ragione a Sciascia. Quando
Sciascia scriveva, non credo che si soppesasse ancora a pieno il movimento di
Bossi, considerato a torto o a ragione antisiciliano. Poi quel movimento crebbe
e per reazione il sentire siciliano divenne nazionalista e gli empiti
separatisti del primo dopoguerra si afflosciarono. Un tantinello anche i miei.
Solo che ora mi sento cittadino del mondo nato a Racalmuto. Se ho bisogno di
una patria fisica, mi rifugio a Racalmuto, se mi si parla di valori nazionali
ne rifuggo reputandomi uomo alla pari di quei sei o sette miliardi di esseri
umani sparsi per l’intero mondo. Ce l’ho con l’Italia intera dopo che ho ben
capito che cosa significò l’essere stato mio nonno disperso di guerra.
Della guerra del 15-18, per intenderci. Mio nonno aveva soltanto 37 anni nel
’17. La strategia militare dei generali del tempo rimase terribilmente nota per
usare gli esseri umani in grigio-verde come muraglia all’avanzare del nemico:
che avanzava e sparava e falcidiava. Mio nonno aveva comprato una mula; stava
salendo di grado nella scala sociale dell’era giolittiana: da mezzadro a
coltivatore diretto. Aveva già cinque figli. La moglie ancor più giovane
divenne subito vedova per la faccenda di Caporetto. Mio nonno sparì e nella
burocrazia militare fu segnato come disperso. Ancor oggi non si sa ove fu sepolto.
Sinceramente non gliene importava nulla a mio nonno di liberare Trento e
Trieste. Non capiva neppure una parola di quel dialetto veneto, lui analfabeta
che le lettere alla moglie se le faceva scrivere da qualcuno lì al fronte che lu
cuocciu di la littra ce l’aveva.
Dal
fronte mio nonno urgeva: che si recasse mia nonna a supplicare la suocera. Mio
nonno padre di cinque figli era; ben tre altri suoi fratelli erano sotto le
armi. Lui aveva diritto a venire congedato, gli avevano detto. Bastava che la
madre ne facesse istanza. Mia bisnonna, mamma Pippina – matriarca vera e
dispotica e tutta la famiglia, maschi e femmine teneva sotto di sé – non se ne
dava per intesa: “sì, fazzu turnari Caliddu .. e cchi bbeni intra nni mia;
intra nni tia ssi nni va … va … va, vattinni va” . Mia nonna la odiò per
tutta la vita. A noi nipoti, ci fuorviava con quelle invettive contro la
suocera. Noi nipoti finimmo col crederle … e la bisnonna divenne una odiosa
“mamma Pippina” come se non fossimo sangue del suo sangue.
Sarà! I
miei ricordi stridono. Una mia zia monaca che mi sembrava tanto vecchia ed
invece aveva appena 33 anni, aveva dovuto lasciare il convento per i tremendi
bombardamenti americani ed era venuta a dimorare a casa nostra. Tutta nera di
vestito, destava preoccupazione. Si diceva che gli americani scambiassero chi
andava vestito di nero per fascista e lo mitragliavano di colpo. Un carrettiere
racalmutese ebbe a morire per le mitraglie americane sol perché – si
diceva – aveva la camicia nera per un lutto strettissimo: altrettanto si disse
per un contadino racalmutese trucidato dagli anglo-americani. Brava gente si
vorrebbe oggi.
A far
levare l’abito monacale e farla vestire da cristiana qualunque, non c’era verso
e la monaca, provvisoriamente di casa, non si sapeva come nasconderla. Fu così
che anzitempo andammo “fori”, nella casettina di la Curma, mia nonna, la
figlia monaca, una nipote cresciutella, mio fratello Giacomo, ed anche Giovanni
e Luigi.
Questo
avvenne nei primissimi di Luglio. Si sussurrava dappertutto che la guerra era
persa e francamente questo non interessava ad alcuno: sia pure vagamente
si pensava che i disagi potessero diminuire. Va detto che a Racalmuto, fame
vera e propria non ve ne fu. Si coltivava la terra e l‘arriconta bastava
per tutti; il pane – non quello della tessera che era immangiabile e serviva ai
bambini per appallottolare la mollica e farne palline da gioco – che si
mangiava veniva accompagnato dalla pasta, dal sugo di pomodoro maturato al sole
o dall’astrattu nel periodo invernale. Racalmuto ha sempre prodotto
vino, non di eccelsa qualità, ma sempre vino genuino era; nutriente. Favi,
ciciri, piseddi, cacuocciuli, puma, piruna, ficu, e fucudinii, in
abbondanza. Chi non aveva terra comprava al mercato nero da chi ce l’aveva. V’era
l’obbligo dell’ammasso. Sciascia, che per via dello zio gerarca era
privilegiato, ebbe subito un posticino negli uffici comunali dell’ammasso.
Credo che dopo se ne vergognasse un po’. In FUOCO ALL’ANIMA qualcosa dice,
molto nasconde.
Quella
storiellina del contadino e dell’arciprete va un tantinello rettificata: a
Racalmuto tutti in quel tempo facevano il mercato nero con il grano, cercando
di non darlo per nulla all’ammasso, ove bivaccavano due baldi giovanotti
raccomandati. Sciascia dice di non essere andato militare perché gracilino. Se
non avesse avuto un paio di zii quasi federali, ci sarebbe andato e come. I due
– il contadino e l’arciprete – finirono nei guai il primo per testardaggine, il
secondo per astiosa vendetta. La storia del contadino, che contadino non era ma
un buon burgisi con figlie femmine che non tutte sposarono e con tre
figli maschi divenuti professionisti di tutto rilievo, quando me la
raccontarono molto mi son divertito. Ora non la ricordo più bene. Aveva un
figlio ufficiale il contadino e si credeva una parte dello stato; come potevano
molestarlo per una sciocchezza che, se reato era, tutti i racalmutesi erano
colpevoli, anche l’arciprete. L’arciprete subì anch’egli l’onta del processo,
ma più accorto ne uscì assolto, l’altro, invece, cominciò a sbraitare, ad
insolentire e forse aveva ragione: appunto per questo indispettì oltre misura i
giudici, che la coscienza pulita al riguardo non ce l’avevano neppure loro, ed
ecco una bella condanna a dispetto.
I due
giovanottoni, per essersi acquistata una buona dose di malevolenza da parte di
un dottore non medico, alquanto irritabile, dovevano finire dopo tra i
berberi in Africa. Il famiglio del grande mafioso Calogero Vizzini – già quando
come dice Sciascia in fuoco all’anima, “la mafia era la mafia” ed è
frase se non elogiativa almeno lievemente ammiccante – evitò a Canicattì presso
il comando alleato la deportazione, come si disse, e così Sciascia poté dopo
persino vincere il concorso a maestro elementare. Insegnò a Racalmuto, svogliatamente,
se vogliamo esser sinceri. I suoi meriti sono letterari, non didattici, né
storici (almeno nel campo della microstoria locale) e per quel che mi riguarda
nemmeno politici. Né con lo Stato né con le Brigate rosse non fu frase molto
felice. La cena con Berlinguer, Guttuso e lo scrittore finì in tribunale
ma ancora non c’è sentenza. Io sono per Berlinguer e per Guttuso. Il
giornalista racalmutese, molto bravo, Macaluso è rissosamente per
Sciascia: si vede che ne sa più di me.
In NERO
SU NERO di Sciascia, a pag. 118, trovo questa chicca: «Ho vivo il ricordo di
quel che è successo quando, nel ’43, l’amministrazione militare alleata nei
territori occupati AMGOT: ne ripeto la sigla assaporando l’amarezza di un
tempo, (più che perduto, deluso) mostrò di avercela coi fascisti e di gradire
denuncie contro i più pericolosi e disonesti. Non uno ne fu denunciato e subì
deportazione in Algeria che non fosse degli onesti, degli innocui, dei ‘fessi’
(e cioè di quelli che dal regime in articulo mortis avevano accettato
quelle cariche da cui i furbi ormai si defilavano). I facinorosi , i
profittatori, i ladri furono non solo risparmiati, con una selezione a rovescio
che si può dire senz’altro perfetta, ma furono segnalati alla fiducia degli
ufficiali americani ed inglesi, che gliene accordarono.»
Certo
quella ‘i’ in più nelle denunce, lascia un po’ stupiti. Il quadro è
dilettevole. A voler fare le pulci al grandissimo Sciascia, diciamo che tra
quei “fessi” vi fu a Racalmuto solo don Bardiddu, che maresciallo e
segretario politico, chi per devozione fanatica e chi per il pane quotidiano
che insieme al companatico elargiva la benemerita, non potevano passare tra i
“furbi” tra i quali Sciascia qualche suo parente stretto (meglio affine, forse)
sapeva vi annidasse. E meno male che tra i “facinorosi, i profittatori e
i ladri”, vi fu qualcuno che, dopo, impedì la deportazione in Africa del
Nostro. Il quale, ora lassù, mentre col profittatore (fulminato dalla lupara
davanti Danieli) sta a rimembrare “questo pianeta”, un qualche “ingrato” se lo
becca. Queste vicende mi sono state narrate da don Pinu Matina, per me
un gran signore, un “galantuomo”, uno di quelli di cui si sono perse le tracce
al Circolo Unione. Anche lui prossimo alla deportazione. Lui sempre grato ed
obiettivo anche. D’altronde poteva urtare la suscettibilità di chi talora gli
stava vicino impettito nella signorile poltrona del Circolo.
Nella sua
primavera letteraria Sciascia scrisse KERMESSE. Quattro o cinque pagine sapide,
deliziose, ironiche, veritiere. Solo un po’ pudiche nella parte finale.
Prende
subito di mira ROATTA e il suo proclama: lo lessi al museo dello sbarco di Gela
a Catania. I generali, non solo non sanno fare la guerra ma se si
cimentano nelle cose della storia, sanno anche, loro malgrado, divertire. A
Roatta attribuisce il merito di essere stato il «primo ad avvertire i siciliani
che italiani proprio non potevano considerarsi e che gli italiani si
proponevano di difendere i siciliani allo stesso modo e nello stesso sentimento
dei “camerati” tedeschi.»
Che i
miei compaesani di Racalmuto avessero il complesso del “cambiar bandiera” non
ha riscontro nella mia memoria. Preoccupazione, invece, tanta, perché non si
sapeva che fine potessero fare i loro cari che – poco raccomandati – erano
finiti in Grecia; quelli d’Algeria, come mio zio Luigi, presi prigionieri
dagli inglesi, abbiamo saputo dopo, finirono in Inghilterra, stivati per giorni
in navi, sotto tiro di aerei e a rischio di siluramento dai sottomarini tedeschi,
quando non italiani. Mio zio Luigi, classe ’14, nel 1939 parte per la leva; non
fa tempo a concluderla e su un trabiccolo sorvola il Mediterraneo per finire in
Africa a fare il meccanico. Preso prigioniero dagli inglesi approda nella
grande isola britannica, si rifiuta di collaborare e viene sfruttato come uomo
della terra: un ritorno coatto al mestiere del padre. Ritornerà in Italia
il 29 giugno 1945. Parte ventunenne, ritorna trentunenne: non ebbe
giovinezza. Era un grande affabulatore, ma appena settantaquattrenne
muore di cancro, dopo ampie metastasi alla gola e per quasi dieci anni non poté
parlare, privo dell’unico suo piacere, quello della loquacità. Che strano mondo
questo qui! A mio nonno non importava nulla di Trento e Trieste e lo spogliano
della vita a 37 anni. A mio zio gli piaceva tanto vivere e parlare e per un
quinquennio lo costringono a coltivar patate in terra di Albione, terra a lui
del tutto estranea e che non amava di certo. Mia nonna paterna, sempre vestita
di nero, col fazzoletto bianco in testa non so se a trent’anni piangesse il
marito che per cinque volte l’aveva resa madre in manco nove anni; sembrò uscir
di mente per il figlio disperso, per oltre un anno. Poi tramite vaticano ebbe
notizia della prigionia in Inghilterra. In quell’anno, mia nonna andava dalle
cartomanti che pullularono a Racalmuto. Maria la Billizza la più rinomata. Mia
nonna però preferiva quella della straduzza di ‘gnura Annidda. Non era
facoltosa, eppure i soldi per sapere se il figlio era vivo dall’arcano linguaggio
delle carte della “maga” se li faceva uscire. Per la chiesa faceva peccato; mia
nonna non se ne dava per intesa; credo che non ne parlasse nel confessionale e
si faceva egualmente la comunione. Subito dopo magari passava per la “maga” che
sempre buone notizie aveva.
Nel 1943
mio zio l’aveva scampata per miracolo in Africa sotto un bombardamento a
tappeto: volle che si portassero due buchè alla Madonna del Monte, due buchè
con fiori, erano alti filiformi vitrei. Nicu Lu Sardu, il barbiere
fotografo, venne a casa mia, a tutti i nipoti ci fece mettere a scala per
altezza e ci fece la fotografia con avanti i due buchè. Non erano ancora
nati mio fratello Angelo e Lina la figlia di mio zio paterno Calogero. Non
eravamo allegri, non sorridevamo, specie io che assumevo l’area pretesca ad
appena nove anni. Questo non significa che eravamo tristi, solo compunti,
dignitosi come possono essere sette bambini il più anziano di soli nove anni.
Non capivamo che stavamo vivendo un periodo tragico della storia d’Italia,
stavamo perdendo la guerra che aveva voluto Mussolini.
Nessun commento:
Posta un commento