GIROLAMO
II DEL CARRETTO
«Nella
chiesa del Carmine c’è un massiccio sarcofago di granito, due pantere
rincagnate che lo sorreggono. Vi riposa “l’ill.mo don Girolamo del Carretto,
conte di questa terra di Regalpetra, che morì ucciso da un servo a casa sua, il
6 maggio 1622.» Così esordisce Sciascia nelle sue “parrocchie di Regalpetra”.
Con tali ricordi inizia la folgorante carriera letteraria del più grande figlio
di Racalmuto
A Leonardo
Sciascia, Girolamo II del Carretto portò dunque fortuna, lui che nella vita ne
ebbe ben poca; lui che da morto resta ancora vituperato, e non proprio a
ragione.
Il
famigerato padre, dopo una moglie sterile di Cerami, dopo un’amante prolifica,
ebbe a sposare, di là negli anni, la nobile Margherita Tagliavia-Aragona
attorno al 1596. Un solo figlio da questo matrimonio, appunto Girolamo II,
battezzato in Palermo il 28 ottobre 1597.
Giovanni
IV del Carretto lasciò il figlioletto
(l’unico legittimo) di appena nove anni. Il ragazzino non riuscirà mai più a
togliersi di dosso l’anatema e l’ingiuria (cocu)
di cui lo gratifica a distanza di oltre tre secoli anche Sciascia. Girolamo II
del Carretto viene raccolto fanciulletto a Palermo e portato nel suo castello
di Racalmuto, affidato alle cure (chissà se affettuose) del fratellastro, il
neo arciprete di Racalmuto don Vincenzo del Carretto.
Non
resistiamo neppure alla tentazione di spettegolare con Sciascia (op. cit. pag.
16): «Il conte [Girolamo II del Carretto] stava affacciato al balcone alto tra
le due torri guardando le povere case ammucchiate [invero non poteva, perché da
lì le case non si vedono, n.d.r.] ai piedi del castello quando il servo Antonio
di Vita “facendoglisi da presso, l’assassinò con un colpo d’armi da fuoco”. Era
un sicario, un servo che si vendicava: o il suo gesto scaturiva da una più
segreta e sospettata vicenda? Donna Beatrice, vedova del conte, perdonò al
servo Di Vita, e lo nascose, affermando con più che cristiano buonsenso che “la
morte del servo non ritorna in vita il padrone”. Comunque la sera di quel 6
maggio 1622, i regalpetresi certo mangiarono
con la salvietta, come i contadini dicono per esprimere solenne
soddisfazione; appunto in casi come questi lo dicono, quando violenta morte
rovescia il loro nemico, o l’usuraio, o l’uomo investito di ingiusta autorità.»
E nella Morte dell’Inquisitore (pag. 180): «Che
un fondo di verità sia in questa tradizione, riteniamo confermato dall’epilogo
stesso del racconto popolare, che dice il servo di Vita averla fatta franca
grazie a donna Beatrice, ventitreenne vedova del conte: la quale non solo perdonò
al di Vita, fermamente dicendo a chi voleva fare vendetta che la morte del servo non ritorna in vita il padrone, ma lo liberò
e lo nascose. Ora chiaramente traluce ed arride, in questo epilogo, l’allusione
a un conte del Carretto cornuto e
scoppettato...».
Purtroppo
ci divertiamo meno, quando sacrilegamente lo scrittore prosegue: «ma questa
viene ad essere una specie di causa secondaria della sua fine, principale
restando quella del priore. Insomma: se non ci fossero stati elementi reali a
indicare il priore degli agostiniani come mandante, volentieri il popolo
avrebbe mosso il racconto dalle corna del conte. Il priore non era certamente
uno stinco di santo: ma quel colpo di scoppetta il conte lo riceveva consacrato
da un paese intero. Una memoria della fine del ’600 (oggi introvabile, [ma ora
trovata dal Nalbone, n.d.r.], autore di una buona storia del paese) dice della
vessatoria pressione fiscale esercitata dal del Carretto, e da don Girolamo II
in modo particolarmente crudele e brigantesco. Il terraggio ed il terraggiolo,
che erano canoni e tasse enfiteutiche, venivano applicati con pesantezza ed
arbitrio...»
E’ ora
disponibile una documentazione - quella del Fondo Palagonia - che restituisce alla verità la faccenda del terraggio e del terraggiolo pretesi dai del Carretto. Crediamo che queste non siano
tasse enfiteutiche o che sia inesatto definirle così. Erano diritti feudali
spettanti al baronaggio siciliano e legati al semplice fatto che contadini
abitassero nella terra del barone:
dovevano al feudatario (di solito al suo arrendatario o esattore delle imposte
cui queste venivano concesse in soggiogazione) una certa misura di frumento per
ogni salma di terra coltivata nel feudo (terraggio)
ed un’altra (di solito doppia) per quella coltivata fuori dal feudo (terraggiolo). A preti e conventi
racalmutesi codesti gravami feudali non andavano giù ed essi fecero cause
memorabile (e secolari) per sottrarsi e sottrarre agli odiati terraggio e terraggiolo. La spuntarono,
come si disse, solo il 27 settembre 1787.
Invero il
Tinebra Martorana ebbe tra le mani le carte feudali del terraggio e del terraggiolo:
gliele misero a disposizione i suoi protettori i Tulumello, già baroni e
maggiorenti del paese. Quel che il giovane vi capì è riportato fideisticamente
da Sciascia e cioè:
«Oltre
alle numerose tasse e donativi e
imposizioni feudali, che gravavano sui poveri vassalli di Regalpetra, i suoi
signori erano soliti esigere, sin dal secolo XV, due tasse dette del terraggio e del terraggiolo dagli abitanti delle campagne e dai borgesi. Questi
balzelli i del Carretto solevano esigere non solo da coloro che seminavano
terre nel loro stato, benché le possedessero come enfiteuti, e ne pagassero
l'annuale censo, ma anche da coloro che coltivassero terre non appartenenti alla
contea, ma che avessero loro abitazioni in Regalpetra. Ne avveniva dunque, che
questi ultimi ne dovevano pagare il censo, il terraggio e il terraggiolo a quel
signore a cui s'appartenevano le terre, ed inoltre il terraggio e il
terraggiolo ai signori del nostro comune... Già i borgesi di Regalpetra, forti
nei loro diritti, avevano intentata una lite contro quel signore feudale per
ottenere l'abolizione delle tasse arbitrarie. Il conte si adoperò presso alcuni
di essi, e finalmente si venne all'accordo, che i vassalli di Regalpetra
dovevano pagargli scudi trentaquattromila, e sarebbero stati in perpetuo liberi
da quei balzelli. Per autorizzazione del regio Tribunale, si riunirono allora
in consiglio i borgesi di Regalpetra, con facoltà di imporre al paese tutte le
tasse necessarie alla prelevazione di
quella ingente somma. Le tasse furono imposte, e ogni cosa andava per la buona
via. Ma, allorché i regalpetresi credevano redenta, pretio sanguinis, la loro libertà, ecco don Girolamo del Carretto
getta nella bilancia la spada di Brenno
... e trasgredendo ogni accordo, calpestando ogni promessa e giuramento,
continua ad esigere il terraggio e il
terraggiolo, e s'impadronisce inoltre di quelle nuove tasse».
Sciascia
commenta: «Il documento riassunto dal Tinebra dice che appunto durante la
signoria di Girolamo II i borgesi di
Racalmuto, che già avevano mosso ricorso per l'abolizione delle tasse
arbitrarie, subirono gravissimo inganno: ché il conte simulò condiscendenza, si
disse disposto ad abolire quei balzelli per sempre; ma dietro versamento di una
grossa somma, esattamente trentaquattromila scudi. L'entità della somma, però,
a noi fa pensare che non si trattasse di un riscatto da certe tasse, ma del
definitivo riscatto del comune dal dominio baronale; del passaggio da terra
baronale a terra demaniale, reale.»
La
ricostruzione sciasciana non ci convince molto. Un fatto singolare si
verificava frattanto a Racalmuto. Era diventato arciprete un illegittimo, sia
pure figlio di Giovanni IV del Carretto. Era quel don Vincenzo del Carretto su
cui si è già avuto modo di fornire
taluni ragguagli. Anche lui venne colpito dalla violenta morte del padre (5
di maggio 1608) e così aveva raccolto il
fratellastro novenne Girolamo II che per diritto ereditario era divenuto
novello conte di Racalmuto (la legge contemplava il maggiorascato, e sarebbe
toccato quindi a don Vincenzo essere conte, ma escludeva i figli illegittimi.
Non sappiamo come abbia accolta quell’infamante esclusione, quello scorno a la faccia di lu munnu).
Don Vincenzo diviene comunque il tutore del conte minorenne:
nel 1609 pasticcia quell’infame accordo sul terraggio e terraggiolo che Tinebra
Martorana e Sciascia affibbiano al “vorace e brigantesco don Girolamo II del
Carretto”, all’epoca uno smarrito bambino. Lo desumiamo da un diploma:
Sotto le quali convenzioni ed
accordio detta università ed il conte di detto stato hanno campato ed osservato
per insino all’anno settima indizione prox: pass: 1609, nel qual tempo detta
università, e per essa li suoi deputati eletti per publico consiglio a
quest’effetto, ed il dottor Don Vincenzo del Carretto Balio e Tutore di detto
Don Geronimo, moderno conte allora pupillo, con intervento e consenso del
reverendissimo don Giovanni de Torres Osorio, giudice della Regia Monarchia
protettore sopraintendente di detto pupillo e con la sua promissione di rato,
devennero à novo accordio e transazione in virtù di nuovo consiglio confirmato
per il signor Vicerè e Regio Patrimonio, per il quale promisero detti deputati
à nome di detta università pagare al detto conte don Geronimo scuti
trentaquattromila infra quattro mesi, e
quelli depositarli nella tavola di Palermo per comprarne feghi ò rendite tuti e
sicuri, con l’intervento e consenso di detta Università, con diversi patti e
condizioni in cambio per l’integra soluzione e satisfazione di detti terraggi e
terraggioli dentro e fuora di detta terra e suo territorio, e per contra detto
tutore cessi lite alla detta exazione di detti terraggi, quali ci relasciò e
renunciò, essendoli prima pagata detta somma di scuti trentaquattromila,
promettendo non molestare più detti cittadini ed abitatori di detta università
di detti terraggi e terraggioli come più diffusamente appare per detto
contratto all’atti di notar Geronimo Liozzi [a.v.: Liezi] à 17 luglio settima
indizione 1609., confirmato per Sua Eccellenza e Regio Patrimonio
A porre una qualche attenzione alle date, abbiamo che Die 22 Junii VI Ind.is 1608 Don Vincenzo
viene riconosciuto Arciprete (sia pure a metà con quella specie di mitateri quale appare il vassallo don Paulino d’Asaro); il
successivo 17 luglio si sbilancia nella gestione delle sopraffazioni
feudatarie.
Investigando
i processi d’investitura emerge che don Vincenzo del Carretto esercita questa
funzione tutoria sino al luglio del 1610. Ma da questa data, quando il
bambinello Girolamo II viene d’autorità - pare - fidanzato a Beatrice figlia
bambina del Ventimiglia, il tutore diviene il futuro suocero del conte.
Beatrice
del Carretto
Il Tinebra Martorana (pag. 125) vorrebbe Girolamo II sposato
ad una ”certa Beatrice, di cui s’ignora il cognome”. Niente di più falso: di
donna Beatrice sappiamo tanto. Non crediamo che finché si protrasse il breve
legame matrimoniale si sia indotta all’adulterio, come maliziosamente insinua
lo Sciascia. Da vedova, qualche leggerezza può averla commessa (ma noi non lo
diremo dinanzi a voi stelle pudiche.)
Sembra che dopo la morte del conte avvenuta il primo ( e non
il 6) maggio 1622, una rivolta popolare
sia esplosa a Racalmuto: vi sarebbe stato l’assalto al munito castello ed il
popolino rivoltoso abbia fatto man bassa di tutto. La giustizia - che pure era
mera espressione dei del Carretto - non fu in grado di far nulla e così alla
giovane vedova ed a suo cognato, tutore, non rimase nient’altro da fare che
chiedere la comminatoria delle canoniche sanzioni da parte della sede vacante
del vescovado di Agrigento. Ne avesse avuto sentore Leonardo Sciascia, crediamo
che avrebbe più succulentamente imbandita la tavola della “mangiata cu la salvietta” dei racalmutesi nell’estate del 1622.
Poi, con gli anni, il terrore della morte ebbe a
sorprenderlo: si costruì una chiesetta (Itria) tutta per lui e la dotò. I suoi
eredi - nobili - dovettero corrispondere le rendite al cappellano di quella
chiesetta perlomeno sino 1902.
GLI ARCIPRETI DI RACALMUTO SOTTO GIROLAMO II DEL CARRETTO
Don Vincenzo del Carretto, arciprete di Racalmuto lo fu (o
volle essere) per poco tempo. Ancora vivo, l’arcipretura risulta passata a tale
Pietro Cinquemani , originario, forse, di Mussomeli. () Secondo il prof.
Giuseppe Nalbone, costui sarebbe stato prima rettore e poi arciprete del nostro
paese:
1613 PIETRO CINQUEMANI RETTORE e
poi nel 1614 ARCIPRETE
Viene annotato, nel Liber
in quo a f. 1, n°. 11 come «D. Pietro Cinquemani - Arciprete 1614. » Gli
atti della Matrice ce lo confermano ancora tale nel 1615, ma l’anno successivo
arciprete è don Filippo Sconduto. Il 7 gennaio 1616 benedice, ad esempio le
nozze di Silvestre Curto di Pietro con
Giovanna Bucculeri del fu Francesco (vedi atti di matrimonio del 1616).
Don Filippo Sconduto regge a lungo la nostra arcipretura,
fino alla morte avvenuta il 6 novembre 1631. (Cfr. Liber in quo adnotata .. f. 2 n.° 42). Sotto il suo arcipretato
avvengono fatti memorabili a Racalmuto, tristi, lieti e rissosi: la famigerata
peste è appunto del 1624; la vedova del Carretto, vuole reliquie di S. Rosalia
e manda 80 cavalieri a Palermo a prenderle, in una con una bolla che si conserva in Matrice; torna a
nuovo splendore la chiesetta dedicata alla santa eremitica nel centro del
paese.
* * *
Ma ritorniamo indietro, agli esordi del comitato
dell’infelice Girolamo II del Carretto. Arriva, frastornato, a Racalmuto nel
1608, subito dopo la morte violenta e scioccante del padre. Ha quasi nove anni;
finisce sotto le grinfie del fratellastro Vincenzo del Carretto che, per
eccessiva benevolenza del vescovo Bonincontro, diviene frattanto arciprete
della importante comunità ecclesiale di
Racalmuto. Non ci sembra un prete molto degno. Non finirà la sua vita da
arciprete, ma come balio di Giovanni V del Carretto, dopo esserlo stato del
padre Girolamo II. Conclude la sua esistenza in stretta intimità con la cognata
donna Beatrice del Carretto e Ventimiglia, almeno giuridica ed economica. Per
il resto, chissà. Quel volersi salvare l’anima, alla fine dei suoi giorni, con
l’erezione della minuscola chiesetta dell’Itria, può far sospettare ancor di
più come può farlo assolvere: dipende dai punti di vista.
Vincenzo del Carretto, arciprete, ma soprattutto “balio e
tutore” dell’illustre conte, vede vedersela con le procedure della successione
comitale, e non è agevole. Soprattutto sono esborsi cospicui da approntare.
Vincenzo del Carretto, non ne ha voglia o possibilità. Tergiversa. I processi
di investitura che qui pubblichiamo mostrano una sfilza di rinvii a richiesta
appunto di codesto strano arciprete. Una proroga è del 2 maggio 1609; un’altra
del 2 giugno; un’altra del 26 giugno; un’altra del 28 luglio; un’altra del 2 settembre
1609. Ma a questo punto subentra l’abile e potente Giovanni di Ventimiglia
marchese di Gerace e principe di Castelbuono. Il vecchio patrizio risiede -
come la migliore nobiltà - a Palermo, vigile sulla corte viceregia. Ha potere e
lo dispiega per altre proroghe del suo nuovo protetto, il nostro Girolamo II
del Carretto.
L’arcigno
marchese di Geraci era stato il padrino di battesimo del piccolo Girolamo.
Abbiamo l’atto battesimale della chiesa parrocchiale di San Giovanni dei
Tartari in Palermo:
Die 28 octobris XI ind. 1597
Ba: lo ill.ri et molto Rev.do don Francisco Bisso v.g. lo
figlio delli ill.mi SS.ri D. Gioanne et donna Margarita del Carretto et Aragona
conti et constissa di Racalmuto jug: nomine Geronimo; lo compare lo ill.mo et
excellentissimo don Giovanni Vintimiglia, la commare la ill.ma et ex.ma donna
Dorothea Vintimiglia et Branciforti.
Il
marchese va oltre: fidanza la figlia Beatrice con il suo pupillo. Sono due
bambini, ma l’impegno matrimoniale è inderogabile.
Girolamo II ha meno di tredici anni; la sua futura sposa ha
appena dieci anni (nacque nel 1600 a credere ai dati anagrafici contenuti nel
noto cartiglio del sarcofago del Carmine). Il matrimonio avverrà comunque
attorno al 1616, quando il giovane conte
era quasi ventenne e la splendida Beatrice Ventimiglia sedicenne (nell’atto di donazione di Girolamo II del
1621, la primogenita è appena di 4 anni - Dorothea
aetatis annorum quatuor incirca).
L’arciprete don Vincenzo del Carretto e la questione del terraggiolo
Don Vincenzo del Carretto ebbe comunque modo di interessarsi
alla scottante questione del terraggio e del terraggiolo. Se ne è parlato
sopra: vi ritorniamo per la rilevanza di quei gravami feudali. Nel 1609,
l’arciprete pensa che una trasformazione del tributo comitale da annuale e
circoscritto ai coltivatori di terre nello stato e fuori dello stato di
Racalmuto in una rendita perpetua di un capitale costituita da un’imposizione
generalizzata su tutti gli abitanti, possa finalmente dirimere e chiudere le
annose controversie. Pensa ad un’imposta straordinaria di 34.000 scudi che al
saggio allora corrente del 7% potevano fruttare
2.380 scudi, sicuramente molto di più di quel che rendeva l’invisa
tassazione tradizionale.
Non sappiamo se l’idea fosse buona o iniqua; sappiamo però
che fu un fallimento. Sembra che vi sia stata una fuga di vassalli (soprattutto
mastri e gente che non aveva terra da coltivare); gli abitati feudali vicini
(Grotte, in testa) furono ben lieti di raccogliere quei profughi che non vollero essere tartassati. Anziché
l’imposizione dell’intero capitale, si tentò allora di ripartire i soli frutti
pari a 2.380 scudi ma annualmente. Anche questa via fallì. Nel 1613, il vigile
tutore e futuro suocero di Girolamo II pensò bene di ritornare all’antico, ai
patti stipulati nel 1580, di cui abbiamo già detto. Altro che frate Evodio o
Odio che dir si voglia; altro che insinuazioni sacrileghe alla Sciascia. Ci
ripetiamo, ma è pagina di storia, di microstoria se si vuole, che va riproposta
con il debito rispetto della verità, senza spumeggiamenti anticlericali.
In una memoria del 1738 , quando lo stato di Racalmuto era
stato arraffato dai duchi di Valverde, i Caetani, la vicenda del terraggio e
del terraggiolo racalmutese ci pare molto bene inquadrata.
Ancora nel 1738 i possessori dello stato di Racalmuto
avevano il diritto di esigere dai vassalli, che coltivavano terre fuori del
territorio, il terraggiolo nella misura di due salme per ogni salma di terra
coltivata, sia che si trattasse di secolari sia che si trattasse di
ecclesiastici. Il diritto si originava dalla transazione del 1580 intercorsa
tra il conte ed il popolo. Era stata una transazione che aveva dimezzato la
misura del terraggiolo (da quattro a due salme di frumento per ogni salma di
terra coltivata).
Nel 1609
c’era stata la riforma che abbiamo prima specificata. Ma poiché fuggirono da
Racalmuto oltre 700 famiglie, nel 1613 si ritenne di tornare all’antico.
La
questione si risolleva nel 1716, quando D. Luigi Gaetano sanzionò la ridotta
misura di due salme per salma relativamente al terraggiolo.
Vi fu un
ricorso presso la Magna Curia datato 23 settembre 1716. Il fatto era che il
Monastero di San Martino pretendeva l’esonero dal terraggiolo per i racalmutesi
che andavano a coltivare i feudi benedettini di Milocca, Cimicìa e Aquilia. Ma
questa è faccenda che esula dai limiti di questo studio. In calce il documento
in latino per l’eventuale curioso.
Il 1613 è
dunque data importante per la storia del terraggiolo (e terraggio) di Racalmuto;
quasi contemporaneamente (nel 1614) il giovanissimo conte Girolamo II
concordava con l’agostiniano di S. Adriano, fra Evodio, la fondazione del
convento di San Giuliano. Due vicende distinte e separate: non
interrelazionabili. Una era di natura fiscale, un bene accolto ritorno
all’antico; l’altra aveva un profondo significato religioso, era un segno della
pia devozione del giovane conte, sorgeva un cenobio tanto a cuore dei
racalmutesi sino alla sua estinzione verso la fine del Settecento: gli agostiniani
furono confessori di fiducia di tanti peccatori incalliti che non mancarono
certo a Racalmuto.
Le note
sciasciane stridono con siffatte vicende che una sia pur superficiale lettura
dei documenti rende incontrovertibili.
Fra Diego
La Matina (secondo noi).
Un anno prima della morte di Girolamo II del Carretto, nasce
fra Diego la Matina. Era il 1621 (e non il 1622, come vorrebbe Sciascia e come
disinvoltamente si continua a scrivere).
Trattasi
del povero fraticello dell’ordine centerupino dei sedicenti riformati di S. Agostino. Ebbe la sventura di
finire in un convento che già nel 1667 () si tentava di scardinare, almeno in
quel di Racalmuto, per disposizione vescovile. Visse da brigante ma finì sul
rogo a S.Erasmo in Palermo per un atto inconsulto di rabbia omicida. Morì con
ignominia, ma da tre secoli e mezzo non trova più pace, oggetto di
mistificazioni, magari letterariamente sublimi, ma sempre mistificazioni.
Lo si dice
di Racalmuto, sol perché di sfuggita tale lo indica il suo accusatore inquisitoriale.
Gli si attribuisce un atto di battesimo rinvenuto nei registri dell’Archivio
della locale Matrice, ma per una imperdonabile svista lo si fa nascere un anno
dopo: nel 1622 anziché nel 1621 (ovviamente per scarsa consuetudine con le
datazioni indizionarie, ché diversamente si sarebbe saputo che la chiara
indicazione della quarta indizione corrispondeva appunto al 1621). E dire che
in tal modo tornava l’età di 35 anni assegnata al La Matina dal Matranga per il
tragico anno della fine raccapricciante del frate, avvenuta nel 1656. Ma lungi
da noi il sospetto che in tal modo Sciascia non avrebbe potuto irridere ai
vezzi astrologici del Padre Matranga ().
Lo si
vuole ad ogni costo di ‘tenace concetto’ in materia di fede per farne un
martire del pensiero e si trascura quanto l’inquisitore Matranga dice circa i
vagabondaggi ed i ladroneschi del monaco agostiniano: scrive da cane il frate
della Santa Inquisizione - si dice - ma se deve definire il valore dell’eretico
frate racalmutese “la penna gli si affina, gli si fa precisa ed efficace”. E
così a Racalmuto è ora ‘fino’ attribuire a qualcuno - a proposito e non -
quella locuzione matranghesca.
Si deve
credere all’Inquisitore quando si arrabatta nel retorico addebito al frate di
colpe dello spirito (bestemmiatore
ereticale, dispreggiatore delle Sagre Imagini, e de’ Sagramenti .. superstizioso ... empio ... sacrilego ..
eretico non solo, e Dommatista, ma di sfacciatissime innumerabili eresie
svirgognato, e perfido difensore). Non è invece più consentito dargli
ascolto quando accenna alle tendenze di fra Diego a vivere da ‘fuoriscito, e scorridore di campagna, in
abito secolaresco’ tanto da finire nella maglie della giustizia ‘laicale’. Ora il nostro grande Sciascia ama fare lo
‘sprovveduto’ e risponde di no al quesito: «se nell’anno 1644, in Sicilia, un
individuo pervenuto al secondo degli ordini maggiori ma dedito a scorrere le
campagne in abito secolaresco, dedito cioè ai furti e alle grassazioni, potesse
invocare, una volta catturato dalla giustizia ordinaria, il foro del
Sant’Uffizio; o dalla giustizia
ordinaria essere rimesso al Sant’Uffizio come a foro a lui competente; o dal
Sant’Uffizio, per uguale considerazione, essere sottratto alla giustizia
ordinaria.»
Di questi
tempi bazzichiamo l’archivio segreto del Vaticano alla ricerca delle notizie
sul vescovo spagnolo di Agrigento Horozco Cavarruvias y Leyva, finito
all’indice nel 1602 per avere scritto un’operetta in latino, ove
malaccortamente il presule si era
sbilanciato ai fogli dal 119 al 230 «in diverse figure et proposizioni»
risultate indigeste alla potente e prepotente famiglia dei del Porto del
capoluogo agrigentino. () Da un contesto di canonici libertini e concubini,
maneggioni e corrotti, affiora la figura di un canonico cantore e dottore,
imposto dalla curia papale per l’esercizio della giustizia della lontana
diocesi di Sicilia. Non è personaggio gradevole, ma della giustizia del suo
tempo - che è poi tanto prossimo a quello messo sotto accusa da Sciascia -
doveva pure intendersene. Dalle sue ruffianesche relazioni alla Congregazione
sopra i vescovi ci va di stralciare questo illuminante passo: «Nella Diocese, che è molto grande, vi sono
molti chierici, e molti di essi si sono ordenati per godere il foro
ecclesiastico, già che alcuni hanno chi trenta e chi quaranta anni e chi più,
et hanno il modo ed habilità per ordenarsi, e tutta volta non si ordinano, e
quel che è peggio ogni dì ci fanno incontrare con li superiori temporali e
laici per defenderli delli errori che commettono e disordini che fanno, vorrei
sapere se conviene à costoro assegnarci un tempo conveniente acciò si ordinino,
e, non lo facendo, dechiararli non essere più del foro ecclesiastico che
sarebbe liberarsi da molti inconvenienti.» ().
Alla luce
di queste considerazioni coeve, ci pare che al quesito posto da Leonardo
Sciascia sembra doversi dare una risposta del tutto opposta a quella data dallo
scrittore.
Un
contemporaneo ebbe, pure, ad interessarsi di fra Diego, il dottor Auria di
Palermo nei suoi notissimi diari di Palermo. Sciascia lo segnala «come uomo
talmente intrigato al Sant’Uffizio, e così ben visto dagli inquisitori, che era
riuscito a far diventare eresia l’affermazione che il beato Agostino Novello
fosse nato a Termini». Quel dottore acquista, però, tutta intera la fiducia
quando ci vuol far credere che il frate di Racalmuto sia finito nel 1647 (a
ventisei anni) tra le grinfie dell’Inquisizione essendogli stato trovato nelle
“sacchette” “un libro scritto di sua mano
con molti spropositi ereticali”. Ma di un tal crimine - veramente grave per
l’Inquisizione - l’accusatore Matranga tace. Per Sciascia, l’accorto
Inquisitore avrebbe taciuto «ché sarebbe apparso strano il fatto che un “ladro
di passo” avesse scritto un libro». E dire che gli sarebbe tornato tanto comodo,
potendo, per di più, evitare l’imbarazzo di doversi arrampicare per gli specchi
al fine di conclamare la competenza del Sant’Ufficio.
Lo
scrittore di Racalmuto cercò quel libro per tutta la vita: non ebbe fortuna.
«Volentieri - scrisse con tocco blasfemo - [si sarebbe dato] al diavolo con una
polisa, avesse potuto avere quel libro che fra Diego scrisse di sua mano con mille spropositi ereticali,
ma senza discorso e pieno di mille ignoranze». Credette che «gli atti del
processo, e il libro scritto di sua mano agli atti alligato come corpus
delicti, si consumarono tra le fiamme, nel cortile interno dello Steri, il
Venerdì 27 giugno del 1783».
Molto più semplicemente, invece, se un libro eretico fosse
stato rinvenuto, sarebbe stato bruciato con tanto d’intervento della Sacra
Congregazione dell’Indice. Ma Diego La Matina - erculeo, sanguigno, ‘ladro di
passo’, appena ventiseienne - non pare tipo da scrivere libri. Arriva al
secondo degli ordini maggiori, il diaconato: è quindi ad un passo dal sacerdozio
che, tra messe e prebende, era all’epoca anche un invidiabile traguardo
economico. Non procede, però: si ferma ed a ventitré anni si dà alla macchia da
‘fuoriuscito’ e diviene ‘scorridor di campagna, in abito secolaresco’. Sembrerà
un’amenità, ma non lo è: la fuga dal convento di S. Giuliano per l’avventura
palermitana sarà stata una fuga dallo scarso cibo del convento (e dalla dura
disciplina) con cui il gigantesco giovanottone, tutto appetito (in ogni senso)
e scarso cervello (non è in grado di approdare al terzo ordine maggiore), non
riesce a convivere. Per rendersene conto, basta scorrere la rigida regola degli
agostiniani del tempo.
Allora,
essere sorpresi a “scorridar campagne” non era una bazzecola. Sempre in
Vaticano, tra gli atti del processo di beatificazione del contemporaneo p.
Lanuza, gesuita, si rinviene la descrizione di un evento che si attaglia al
caso nostro.
Alcuni compagni di religione del padre La
Nuza, dagli altisonanti nomi aristocratici, battevano le campagne
dell’Alcantara, in Messina, per loro cosiddette Missioni che erano poi qualcosa
di molto simile alle nostre predicazioni del mese mariano. Si imbatterono in
briganti di passo, alla fin fine benevoli con loro, a riverbero della fama di
santità del celebre padre La Nuza. Presero, sì, qualcosa, ma i padri, in cambio
di una solenne promessa di non sporgere denuncia alcuna, ebbero salva la vita.
I gesuiti non mantennero la promessa. Appena incontrati i militari di
pattuglia, rivelarono la loro avventura. La caccia all’uomo fu immediata e
proficua. I ‘ladri di passo’ ebbero subito segnata la loro sorte: furono senza
indugio giustiziati sul posto. ()
Il
latrocinio di passo era crimine da condanna a morte. E tale rimase anche ai
primi dell’ottocento, sotto i Borboni, ad Inquisizione cessata, pur dopo lo
scioglimento del Sant’Uffizio da parte del conclamato Marchese Caracciolo.
Negli archivi della Matrice di Racalmuto leggesi un atto di morte di un
brigante datosi alla macchia (così ce lo accredita Eugenio Napoleone Messana)
che desta tuttora grande raccapriccio: era il 23 novembre 1811 ed il ‘miserandus’ - un uomo di 42 anni - «susceptis sacramentis penitentiae et
viatici, necato capite multatus a Tribunali nostrae regiae Curiae Criminalis,
animam in patibulo expiravit, in medio plateae et resecatis capite et manibus:
corpus per me D. Paulo Tirone sepultum [fuit] in ecclesia Matricis, in fovea
Communi», come a dire che il “povero
disgraziato, confessato e ricevuto il Viatico, dopo essere stato condannato
alla decapitazione dal Tribunale penale della nostra regia Curia, spirò sul
patibolo in mezzo alla piazza, avendo avuto tagliate testa e mani: il suo
corpo, con l’accompagnamento di me Sac. D. Paolo Tirone, fu seppellito in
Matrice, nella fossa comune.” ()
Il
Matranga sostiene che il frate di Racalmuto aprì i suoi conti con la giustizia,
non certo, per questioni ideali, per eresia o per le sue idee, ma solo perché
datosi al brigantaggio in abiti secolari, pur essendo già un diacono. A
prenderlo fu la Corte Laicale che ebbe a passarlo, per lo stato religioso del
monaco, al Tribunale del Santo Ufficio. Non abbiamo elementi per non credere al
Matranga. Anzi, la vicenda appare del tutto plausibile. Fu dunque una fortuna
per fra Diego La Matina potersi avvalere del Tribunale dell’Inquisizione, diversamente
i suoi giorni li avrebbe finiti subito, a 23 anni, nel 1644. I crimini commessi
sono per l’accusatore P. Girolamo Matranga fatti delittuosi ascrivibili alla
‘crudeltà’ del frate agostiniano (giudizio che lo si rigiri come meglio
aggrada, resta sempre di censura morale)
e a ’libertà di coscienza’, locuzione oggi adoperata più per esaltare che per
condannare. E Sciascia vi si appiglia per la glorificazione di quel tipo di
reo. Nel linguaggio del tempo, quel modo di dire alludeva, però, solo alla sfrenatezza
dei costumi, a non avere coscienza morale, o ad averla sfrenata, libertina.
«Siamo
convinti, - scrive Sciascia, nella “Morte dell’Inquisitore” op. cit. pag. 222 -
convintissimi, che nel giro di quattordici anni il Sant’Ufficio poteva ben
riuscire a fare di uomo religioso, che
dentro la religione in cui viveva mostrava qualche segno di libertà di
coscienza (l’espressione è del Matranga) un uomo assolutamente religioso,
radicalmente ateo». Lo snaturamento del pensiero del Matranga è fin troppo
scoperto. L’intento polemico e l’idea preconcetta giocano un brutto scherzo
allo scrittore, peraltro sempre molto circospetto. Il Tribunale
dell’Inquisizione era non migliore degli altri organi di giustizia dell’epoca,
ma neppure peggiore se si faceva a gara nell’invocarne la competenza per
sfuggire alle corti laicali. Si leggano le pagine del Di Giovanni in “Palermo
Restaurato” così lapidarie nel descrivere le manfrine del conte di Racalmuto
Giovanni del Carretto per sottrarsi alle grinfie del Viceré, conte d’Albadalista, e darsi in pasto all’Inquisizione. La fece
franca da un irridente assassinio.
E la
misera storia di fra Diego si chiude con un omicidio: del suo aguzzino, si
dirà, ma sempre uccisione era. Una tragica legge del taglione venne applicata.
Stigmatizziamo pure quell’esecuzione capitale, ma parlare di martirio, è
blasfemo.
La mamma
di fra Diego non ebbe motivo di scagliarsi contro la chiesa. Era una terziaria
francescana, intrisa di tanta pietà cristiana. Morì, assistita dai frati
racalmutesi, con esemplare forza d’animo e tanto attaccamento al Cristo, senza
alcuna voglia di ribellismo eretico. Pianse, sì, il figlio, ma lo pianse come
un infelice peccatore, giammai come un eroico martire, dal “tenace concetto”.
L’archivio della Matrice è pieno di testimonianze al riguardo. Andava
opportunamente consultato. Ma era lettura ostica.
Riandando
indietro nel tempo, un antenato di fra Diego La Matina fu Vincenzo Randazzo, un
giurato racalmutese che ebbe parte di rilievo nelle tassazioni del 1577;
nell’adunata presso l’«ecclesiola della Nunziata» pare addirittura farla da
presidente del consiglio popolare. Viene indicato con il titolo di Magnifico,
ma è plebeo, forse appartenente alla piccola borghesia agricola, un “burgisi”
come si direbbe oggi. La madre di Diego La Matina era una Randazzo, famiglia
questa genuinamente racalmutese. Il padre di Diego La Matina, Vincenzo, era
invece figlio di un oriundo da Pietraperzia.
Tralascio
l’irrisolta questione della vera identità di fra Diego La Matina. Non è per
nulla poi certo che corrisponda al condannato a morte il Diego La Matina
battezzato da don Paolino d’Asaro il 15 marzo 1621 in base a quest’atto che va
correttamente letto:
Eodem [nello stesso giorno del 15 marzo 1621
quarta indizione] DIECHO f.[figlio] di Vinc.° [Vincenzo] et Fran.ca
[Francesca] La matina di Gasparo giug. [giugali o coniugati] fui ba—tto
[battezzato] per il sud.^ [suddetto e cioè don Paolino d’Asaro] p./ni [patrini] iac.° [ illeggibile secondo Sciascia, ma in effetti
Jacopo o Giacomo] Sferrazza et Giov.a
[Giovanna] di Ger.do [Gerlando] di Gueli.
Sovverte
ogni consolidata credenza sul frate dal tenace
concetto la presenza a Racalmuto nel 1664 (anno a cui risale la seconda
delle numerazioni delle anime della parrocchia della Matrice che ci sono state
tramandate) - e cioè a sei anni di
distanza dell’esecuzione dell’agostiniano fra Diego - di tal clerico Diego La Matina che ha tutta
l’aria di essere lo stesso che era stato battezzato nel 1621.
In
definitiva, la vicenda emblematica di Fra Diego La Matina ci appare un fervido
parto letterario del pur grande Leonardo Sciascia. Lo scrittore diede enfasi
alle dubbie affermazioni di un cronista secentesco e prese alla lettera accuse
palesemente rigonfiate. Un Fra Diego La Matina autore di libelli eretici è
ipotesi infondata e comunque non potuta documentare dallo Sciascia. A noi
risulta, invece, - come si è detto - che
un chierico di tal nome dimorasse nel 1660 e rigorosamente assolvesse al
precetto pasquale. Il dato della più antica ‘Numerazione delle Anime’ che gli
Archivi Parrocchiali della Matrice hanno tramandato sino a noi, è sconcertante:
va indagato. Forse non si riferisce al frate giustiziato a Palermo, ma un
ragionevole dubbio lo inculca. Per nulla al mondo stipuleremmo una polisa con il diavolo per risolvere un
tale rebus; porteremmo tanti ceri per convenire con Sciascia sulla nobile
eresia di fra Diego; temiamo purtroppo che Sciascia abbia irrimediabilmente
travisato i fatti della veridica storia del turbolento fraticello di Racalmuto.
*
* *
L’atto di donazione della contea di Racalmuto da parte di
Girolamo II del Carretto in favore del figlio Giovanni V del Carretto
Assistito dal notaio racalmutese Angelo Castrogiovanni,
Girolamo II del Carretto si produce in uno strano atto di donazione ai suoi
figli della contea di Racalmuto e di tutti gli altri beni che possiede. E’ il 4
luglio del 1621. Non ha ancora raggiunto i ventiquattro anni. Nomina la moglie
“governatrice”. Il fratellastro don Vincenzo del Carretto ha un ruolo
preminente come esecutore delle volontà del conte, ma non appare beneficiario
di alcunché. Cosa mai sarà successo? Forse è stato un trucco per aggirare le
imposte spagnole, sempre lì in agguato. Forse sentiva alito di morte sulla
nuca.
L’atto viene nascosto dai gesuiti di Naro. Mistero, anche
qui. Resta un fatto provvidenziale: quando, l’anno successivo, un servo spara
al giovane conte una schioppettata - se concediamo fede totale alla
trascrizione settecentesca del cartiglio che si conserva (o si conservava?) nel
sarcofago del Carmine - quell’atto di donazione universale torna molto
acconcio. Il figlioletto Giovanni può assurgere a conte incontrastato come
quinto con tal nome. La sorella - Dorotea - ha beni sufficienti per aspirare ad
un matrimonio altamente prestigioso. I due fratellini, carucci e distinti,
vengono ritratti dal pennello di Pietro d’Asaro nel bel quadro della «Madonna
della Catena» (le pretenziose note di
coloro che vi scorgono i ritratti di Maria Branciforti e di Girolamo III del
Carretto, quando sarebbero stati “promessi sposi”, sono davvero forsennate.)
Quel sotterfugio della consegna dell’atto di donazione ai
gesuiti di Naro - quale si coglie nella varia documentazione disponibile -
resta in ogni caso inspiegabile visto che il 27 luglio del 1621 il rogito era
stato insinuato nella conservatoria notarile della Curia Giurazia di Racalmuto
sotto tutela del notaio Grillo. Un tocco di mistero in più.
Il 2 aprile del 1619 era frattanto nato il primogenito
destinato alla successione nella contea.
Nel cartiglio del Carmine il conte Girolamo II è dato per
ucciso da un servo sotto la data del 6 maggio del 1622. Stranamente, alla
Matrice, il suo atto di morte suona così:
[Dal Libro dei morti del 1614. Alla colonna n.° 83, n.°
d’ordine 17 è annotato:]
Die
2 dicto (maggio 1622), il ill.mo d. Ger.mo del Carretto fu morto et sepp.to in
ecc.a S.ti Fra.sci per lo clero.
Ecco
un ulteriore elemento d’incertezza che si aggiunge al quadro tutt’altro che
chiaro delle vicende feudali racalmutesi di questo conte ucciso a soli
venticinque anni.
Don Vincenzo del Carretto, ormai non più arciprete, che
sembrava essersi eclissato negli ultimi tempi della vita curtense racalmutese,
eccolo ora riapparire vigile ed intrigante accanto alla vedova Beatrice
Ventimiglia. Costei frattanto era divenuta principessa di Ventimiglia, come
unica erede del genitore, il citato Marchese di Geraci. I documenti la chiamano
principessa di Ventimiglia.
Sembra donna energica. Dopo due anni dalla morte del marito,
ne riesuma le spoglie dalla tomba di famiglia di San Francesco e le tumula nel
grifagno sarcofago descritto da Sciascia al Carmine. I francescani non le
dovevano essere simpatici: i carmelitani riscuotevano, invece, le sue
preferenze.
Giovanni V del Carretto non ha manco sei anni per avere un
qualche peso: la contea è ora davvero nelle mani della giovane ma volitiva
vedova.
I tempi
dell’interregno di Beatrice del Carretto Ventimiglia.
Non erano passati molti mesi dalla esecuzione del giovane
conte Girolamo II che dei ladri audaci si erano introdotti nel castello per
compiere una vera e propria razzia. L’ordine pubblico a Racalmuto era oltremodo
precario: furti, abigeato, rapine nelle campagne (fascine di lino, “vaxelli” di
api, frumento, buoi “formentini”) sono ricorrenti. La vedova Facciponti tutrice
dei figli ed eredi di Antonino Facciponti, disperata, non ha altro da fare che
invocare le sanzioni spirituali (una scomunica a tutti gli effetti) per gli
incalliti malviventi che la curia vescovile accorda di buon grado. La curia invia il provvedimento al rev.do
arciprete. Vi leggiamo dati sul feudo di Gibillini, su quello di Laicolia.
Sappiamo di furti alla vedova di “molta quantità di filato, robbi di lana,
robbi bianchi .. denari et altre robbe, stigli di casa et di massaria”. Se da
un lato si ha il disappunto per siffatte malandrinerie, dall’altro c’è la piacevole sorpresa di venire a sapere
che sussisteva uno stato di discreto benessere in diffusi strati della
popolazione racalmutese del Seicento.
Ma la crisi dell’ordine pubblico, qui, investe addirittura l’avvenente
giovane vedova del conte. Sempre gli archivi vescovili ci ragguagliano su
un’altra scomunica, stavolta comminata ai ladri del castello. Il 3 settembre
1622 altra missiva al locale arciprete
(e qui è ribadito che non è più don Vincenzo del Carretto, che peraltro è
ancora vivo). “ Semo stati significati da parti di donna Beatrice del Carretto
et Ventimiglia - recita il diploma vescovile - contissa di detta terra nec non
da parti di don Vincenzo lo Carretto tutori et tutrici de li figli et heredi di
del quondam don Ger.mo lo Carretto olim conti di detta terra qualmenti li sonno
stati robbati occupati et defraudati molta quantità di oro, argento, ramo,
stagni et metallo, robbi bianchi, tila, lana, lino, sita, cosi lavorati come
senza, et occupati scritturi publici et privati, derubati debiti et nome di
debitori, rubato vino di li dispensi ... animali grossi et vari stigli con
arnesi, cosi di casa come di fori.” Un disastro dunque.
Don Vincenzo del Carretto riemerge come tutore dei figli del
fratellastro. Affianca la cognata che in quanto donna, anche se contessa, non
ha integra personalità giuridica per l’ordinamento del tempo. Ella necessita di
un “mundualdo”, compito che ben volentieri l’ex arciprete si accolla. Ed in
tale veste lo ritroviamo nei processi d’investitura del piccolo Giovanni V del
Carretto risalenti al 1621 (vedansi gli esordi dell’investitura n. 4074 del
1621 sotto la data del primo settembre 1621
). Ma non è da pensare che la volitiva vedova concedesse troppo spazio
al cognato anche se prete. Nell’anno di vita del conte Girolamo II del Carretto
seguente il bizzarro (almeno per noi che scriviamo a distanza di quasi quattro
secoli) atto espoliativo di donazione universale, il potere di donna Beatrice
del Carretto-Ventimiglia è già esclusivo. Figuriamoci dopo che l’ingombrante
marito si era fatto uccidere da un servo. La tradizione tutta racalmutese di
corna, di servi amanti, di perdoni adulterini etc. un qualche fondamento ce
l’avrà pure. Indulgervi, però, da parte nostra, sarebbe fuorviante.
La vedova riaffiora dalle ombre del passato con contorni
netti allorché, mietendo la peste vittime desolatamente, si decide di postulare
al potente cardinale Doria una qualche reliquia di Santa Rosalia, atta a
debellare il flagello a Racalmuto.
Il
culto di Santa Rosalia è ben provato in Racalmuto, sin dal primo decennio del
1600, un quarto di secolo almeno anteriore alla discutibile invenzione delle
spoglie mortali in Monte Pellegrino da parte del cardinale Doria.
In
un appunto manoscritto del 15 ottobre del 1922 rinvenibile in Matrice, si
riferisce - credo dall'arciprete Genco - che Santa Rosalia sarebbe nata a
Racalmuto nel natale del 1120. Le prove documentali le avrebbe avute il
canonico Mantione ma le avrebbe distrutte per dispetto al vescovo riluttante a
finanziargli la pubblicazione di un suo libro. Tra l'altro, in quell’appunto
manoscritto leggesi che «fui il 13
ottobre 1921 nella Biblioteca Nazionale di Palermo ed ebbi il piacere di
leggerlo [un libro del Cascini] per summa capita. » In quel libro
si parla di antiche iscrizioni e di
chiese anche fuori Palermo. Viene inclusa
"quella di Rahalmuto,
della quale non appare altro millesimo. che questo M.CC. ed il muro è guasto"». Il testo riportato
dall’Arciprete Genco non comprova certo che il 1200 fosse la data di
costruzione di quell'antica chiesa, essendo sicuramente abrase le successive
lettere della data, appunto per quel 'muro guasto'.
II
mio spirito laico mi spinge ad essere alquanto scettico sull'attendibilità di
tante notizie contenute nel manoscritto: è certo, comunque, che di esse ebbe ad
avvantaggiarsi il padre gesuita Girolamo Morreale nel suo "Maria SS. del
Monte di Racalmuto" , stando a quel che si legge nelle pagine 23, 24, 69, 97, 98, 99 e 101.
Senza dubbio la fonte storica sulla Chiesa di
Santa Rosalia più antica ed accreditata è quella del PIRRI. (A pag. 697 abbiamo
un’esauriente notizia). Il passo, in latino, può venire così tradotto: «A
Racalmuto v'era una chiesetta [aedes] - antichissima - che risaliva all'anno
1400 circa. Fino al 1628 vi si poteva vedere dipinta un'immagine di santa
Rosalia in abito d'eremita e portante una croce ed un libro tra le mani.
Purtroppo, è andata distrutta per
incuria di alcuni, ormai tutti presi
dalla nuova chiesa dedicata alla medesima Vergine, di cui venerano alcune
reliquie, essendosi peraltro costituita una confraternita denominata delle
Anime del Purgatorio. La chiesa ha rendite per 70 once.» Non saprei se la nuova
chiesa di Santa Rosalia sia sorta in altro posto oppure sopra quella vecchia.
Quella vecchia, nel 1608, collocavasi nel mezzo della bisettrice
Carmine-Fontana. Sappiamo che travavasi dalla parte della parrocchia di S.
Giuliano.
Per il prof. Giuseppe Nalbone non vi sono dubbi: «la chiesa
di Santa Rosalia eretta nell’omonimo rione fu sempre la medesima dal 1593, anno
dal quale inizia la documentazione consultabile, sino al 1793, anno di cessione
dell’ “edificio” al sac. Salvatore Maria Grillo.»
Di recente, ricercatrici universitarie hanno ritenuto un
rudere (ampiamente fotografato) nei
pressi della Barona essere l’antica chiesetta di S. Rosalia. E’ tesi che
respingiamo: la Santa Rosalia del 1608 doveva ubicarsi nella parte sud-est di
via Marc’Antonio Alaimo, qualche isolato a ridosso dell’attuale Corso
Garibaldi. I documenti vescovili sembrano non dare adito a dubbi. Certo, c’è da
interpretare l’aggettivo “nuova” usato
dal Pirri. Per “nuova” chiesa si deve intendere un edificio nuovo ubicato
altrove o il riadattamento del vecchio stabile? Un interrogativo, questo, che
non ha ancora soluzione certa. Non si sa neppure dov’era ubicato il rudere
venduto al nobile sacerdote Salvatore Maria Grillo, e dire che siamo nel
recente 1793. L’abate Acquista parla nel 1852 di ben quattro distinti luoghi di
culto in vario modo dedicati a Santa Rosalia. Il Prof. Nalbone trova, però,
molte inesattezze nell’opera dell’Acquista.
Don Vincenzo del Carretto si fa rilasciare un nulla osta
ecclesiastico dalla curia vescovile agrigentina, costruisce la chiesetta della
Modonna dell’Itria; la dota piuttosto consistentemente. Non gli porta fortuna:
tra il 1624 ed il 1625 scocca il suo ultimo giorno di vita terrena. Crediamo
sia una delle vittime del flagello endemico che in quel biennio si abbatté a
Racalmuto. Il giovane medico Marco Antonio Alaimo - trasferitosi a Palermo -
dava preziosi consigli ai fratelli rimasti in paese. Non potevano avere - e non
avevano - grande efficacia.
Donna Beatrice del Carretto esce indenne dalla peste del
1624. La troviamo ancora solerte e dispotica nel 1626. Ella ha deciso che le
reliquie di Santa Rosalia, portate a Racalmuto il 31 agosto 1625, vengano
traslate da S. Francesco alla nuova (o rimessa a nuovo) chiesetta di Santa
Rosalia.
Nella nuova chiesa di Santa Rosalia - che entra sotto la tutela
della locale Universitas - il culto della santa è intenso. Il comune si fa
carico di una lampada ad olio perennemente accesa. La delibera è adottata dai
giurati dell’epoca Francesco Fimia, Giacomo Montalto, Benedetto Troiano e
Francesco Lauricella. Ma non varrebbe nulla senza il benestare della potente
vedova. E’ il giorno 18 aprile 1626. “Ad effectum in dicta ecclesia Sancte
Rosalie detinendi lampadam accensam ante magnum altare ubi est collocata
Reliquia sancta dictae dive Rosalie pro sua devotione et elemosina et non
aliter nec alio modo”, sanziona un comma della decisione comunale. “Praesente
ad hec ill.me D. Beatrice del Carretto et Xxliis comitissa dictae terre
Racalmuti tutrice eius filiorum et affittatrice status eiusdem terre
Racalmuti”, soggiunge il documento. La contessa avalla ed autorizza l’impegno
giurazio: diversamente il tutto sarebbe stato senza effetto. Va invece bene
“quoniam predicta ipsa D. Comitissa sic voluit et vult et contenta fuit et
est”, giacché essa signora Contessa così volle e vuole, fu contenta ed è
contenta.
Per di più “la predetta signora Contessa per la devozione
che nutre verso la suddetta chiesa di Santa Rosalia e la sua santa reliquia,
graziosamente concedette e concede quale tutrice e balia dei predetti suoi
figli, alla venerabile chiesa di Santa Rosalia ed alla confraternita in essa
esistente che si possa celebrare la festività con fiera in luoghi congrui ed
opportunamente benedetti, da scegliersi dai signori Giurati. E siffatta
festività e fiera (festivitas et nundinae) volle e vuole, nonché ne diede
incarico e ne dà essa signora Donna Beatrice Contessa come sopra acciocché
siano franche, libere ed esenti dai diritti di gabella spettanti al signor
Conte della terra di Racalmuto. E l’esenzione vale per otto giorni cioè a dire
da quattro giorni dalla detta festa sino a quattro giorni dopo». Un editto
feudale con tutti i crismi come si vede. Ma è l’ultimo atto della chiacchierata
contessa Beatrice del Carretto Ventimiglia di cui siamo a conoscenza che
testimonia la sua presenza a Racalmuto.
Dopo, si sarà trasferita a Palermo. Il figlio resta sotto la sua tutela sino al
diciottesimo anno. Nell’archivio di Stato di Agrigento sono conservati i
documenti del convento del Carmelo di Racalmuto. Vi si rintraccia una nota comprovante
i diritti del convento a valere sulle doti di paragio di donna Eumilia del
Carretto (argomento in seguito sviluppato). Vi si legge fra l’altro: «Don
Joannes del Carretto comes Racalmuti et Princeps de XXlijs ... concessit cum
auctoritate donnae Beatricis del Carretto et XXlijs Comitissae Racalmuti et
Principissae XXlijs eius curatricis seu procuratricis» Era il 7 maggio
1636.
GIOVANNI V DEL
CARRETTO
Giovanni V del Carretto non lascia traccia alcuna di sé a
Racalmuto. Vi nacque soltanto (6 aprile 1619); gli si danno quattro nomi:
Giovanni Francesco Carlo Giuseppe; i padrini non sono illustri: Leonardo
Scibetta e Giovanna La Conta; l’arciprete non reputa di somministrare il
battesimo, delega don Giuseppe Sanfilippo. Nell’agosto del 1621 Girolamo II
ritiene di abdicare a suo favore: è un bambino di quattro anni. L’anno dopo è
già orfano di padre. Qualche anno ancora a Racalmuto e subito dopo il 1626
emigra a Palermo, senza dubbio nella nuova residenza che il padre Girolamo
aveva un tempo comprato dai Vernagallo .
La giovinezza di Giovanni IV a Palermo dovette essere
davvero scapigliata; ricco, senza veri freni inibitori, con una madre che ormai
non ha peso alcuno, con consiglieri predaci e compiacenti, è proprio sulla via
che lo porterà alla forca allo Steri nel 1650, per una dubbia partecipazione ad
un colpo di stato, in cui veramente implicato era il cognato che furbamente se
la squaglia in tempo.
Sciascia sbaglia dati anagrafici ma non personaggio quando
scrive «il terzo [Girolamo, ma in effetti
era Giovanni V del Carretto] moriva per mano del boia: colpevole di una
congiura che tendeva all’indipendenza del regno di Sicilia. E non è da credere
si fosse invischiato nella congiura per ragioni ideali: cognato del conte di
Mazzarino per averne sposato la sorella (anche questa di nome Beatrice [errore anche qui: invero si chiamava Maria
Branciforte, n.d.r.]), vagheggiava di avere in famiglia il re di Sicilia.
Ma l’Inquisizione vegliava, vegliavano i gesuiti: e, a congiura scoperta, il
conte ebbe l’ingenuità di restarsene in Sicilia, fidando forse in amicizie e
protezioni a corte e nel Regno. Una congiura contro la corona era cosa ben più
grave dei delittuosi puntigli, delle inflessibili vendette cui i del Carretto
erano dediti.»
Ma passando dalla letteratura alla storia, è bene attenersi
a quello che sul nostro conte scrisse Giovan Battista Caruso:
«Rappresentava
il Giudice a costoro, che l'accennato conte del Mazzarino (il quale avea nome
D. Giuseppe Branciforte), essendo indubitato successore del principato di
Butera, che godeva la prerogativa di primo titolo del regno e di capo del braccio militare, potea con l'appoggio
de' suoi parenti e de' suoi amici aspirare ad essere riconosciuto per principe
di tutto il regno, e così li persuase facilmente a scuoter dal collo il giogo
straniero in tempo, che, mancata la legittima successione degli Austriaci di
Spagna, e minorata di forza e di autorità la monarchia spagnuola, poteano i
Siciliani ristabilire l'antica gloria della nazione, e godere come prima un re
proprio ed interessato al comune vantaggio.
Di tali
false lusinghe ingannati gli accennati nobili, e più di ogni altro il conte di
Mazzarino, si unirono al consiglio degli avvocati e pensarono davvero
all'elezione di un nuovo principe nazionale [tutto ciò per la falsa notizia
della morte di re Filippo IV]. Al contempo i due avvocati Giudice e Pesce
tramavano [p. 117] in favore del duca di Montalto, personaggio di maggiore
importanza e che con più simulazione
aspirava al principato. Seppe egli da D. Pietro Opezzinghi, suo
confidente, i dubbi promossi per la
successione al regno di Sicilia ... Introdottone dunque col mezzo dell'istesso
Opezzinghi il trattato co' due avvocati e con gli altri lor confidenti, e molto
cooperandosi a tal disegno il celebre D. Simone Rao e Requesens, cavaliere, che
alla nobiltà della nascita accoppiava una sopraffina politica e grandissima
destrezza nel maneggiare gli affari, avvalorossi una tal pratica a segno tale,
che si vide in breve accresciuto il numero de' congiurati con persone di prima
qualità, fra le quali il conte di
RAGALMUTO, cognato di quel del Mazzarino, D. Giuseppe Ventimiglia, fratello
del principe di Geraci, l'abbate D. Giovanni Gaetani, fratello del principe del
Cassaro, D. Giuseppe Requesens, fratello del Principe del Cassaro, D. Giuseppe
Requesens, fratello del principe di Pantelleria. D. Ferdinando Afflitto, de'
principi di Belmonte, D. Pietro Filingeri, fratello del marchese di Lucca, e
molti altri.
[p.118]
Certo però si è, che, ito egli [il conte di Mazzarino] a trovare il padre
SPUCCES, uomo de' più stimati allora fra' Gesuiti, e confidatogli tutto il
trattato, lo richiese di consiglio e di aiuto. [.....] Fu rispedito il MERELLI [genovese e spia] in Palermo con
un ordine [da parte del vicerè Don Giovanni] al capitano di giustizia, che era
allora don Mariano Leofante, ed al pretore della città D. Vincenzo Landolina,
di assicurarsi prima di ogni altro degli avvocati. Il che riuscito ... servì ai
congiurati di porsi in salvo [e cioè] l'Opezzinghi, l'Afflitto, il Filingeri ed
il Requesens ... prima che don Giovanni d'Austria colà venisse; il che fu a' 12
di novembre dell'intero anno 1649. Uscì ancor fuori dell'isola il conte di
Mazzarino per sua maggior sicurezza.... e ben potea fare l'istesso il conte di RAGALMUTO suo cognato. Temendo
però egli d'incolparsi maggiormente con la fuga, lusingossi di non venir
nominato come complice da' due avvocati e dall'abbate Gaetano, caduti nelle
mani de' regi. Mentre però il Vicerè era ancora a Messina, confessarono il Gaetani
ed il Giudice tutto ciò, che sapevano dell'accennata consulta; ed ancorché il
Pesce ed insieme il procurator Potomia negassero costantemente avervi avuto
parte, furono tutti condannati alla morte. Allora il Giudice, che di tanto male
si conosceva la prima cagione, dettò in difesa de' compagni una sì eloquente
orazione, che dal Ronchiglio consultore del vicerè venne onorato l'infelice suo
autore col titolo di Tullio Siciliano.
Né meno
dell'eloquenza del Giudice fu ammirata l'intrepidezza e la costanza del Pesce, il quale pria di morire scrisse alla
madre una moralissima lettera. Giustiziati costoro, fu ancor maggiore la
discussione del processo del conte di
Ragalmuto, e nella corte la compassione. Corse anche voce, che fosse a lui
facilitata dal viceré stesso la fuga, per non macchiarsi le mani nel sangue di
un sì nobile e principalissimo barone: ma non ostando a ciò il segretario
Leiva, gli fu concessa almeno la scelta della morte. Contentatosi intanto il
viceré D. Giovanni del castigo di costoro, fu imposto silenzio alle accuse
contro gli altri, de' quali il numero era assai grande, e principalmente contro
il duca di Montalto, a cui la grandezza della casa, la quantità de' parenti, il
numero de' vassalli ed il pericolo di suscitare nuovi torbidi servirono, per
così dire, di scudo. »
La cronaca dell’incarcerazione e dell’esecuzione di Giovanni
V del Carretto l’abbiamo in un diarista palermitano: quel Vincenzo Auria che
Sciascia infilza impietosamente forse perché non tenero con fra Diego La Matina
. Non credo che se ne possa mettere in dubbio l’attendibilità cronachistica.
Seguiamolo, dunque:
«Martedì, 11 di detto [gennaio 1650]. Fu preso D. Giovanni
del Carretto conte di Ragalmuto, come uno dei capi principali della congiura. [v. pag. 359]
«A dì 14 di detto [gennaio 1650]. - [...] Ma se è vero ciò
che si diceva, egli [il Pesce] aveva consigliato il conte di Mazzarino, che in
caso della morte del re poteva farsi re di Sicilia, come primo signore del
regno, e che il conte, posto a cavallo con le genti del conte di Racalmuto la
notte di Natale di nostro Signore, doveva occupare il castello ed uccidere gli
Spagnoli. [v. pag. 364]
«Sabbato, 26 [febbraio 1650] di detto. Fu affogato
privatamente dentro del castello D. Giovanni del Carretto conte di Ragalmuto, e
nell’istesso modo il dottor D. Antonino lo Giudice. Il conte fu convinto da
testimonii d’avergli sentito dire, ch’egli rimproverava il conte del Mazzarino
della tardanza del suo trattato, e che gli aveva promesso molte genti a cavallo
de’ suoi vassalli, per effettuare quanto egli aveva machinato. Ebbe il conte di
Ragalmuto molto tempo da fugire e liberarsi del pericolo della vita; ma
infatti, violentato dal suo avverso destino, dimorava a Palermo e vi
passeggiava, come non avesse mai avuto nessuna parte ne’ disegni del conte del
Mazzarino. Onde fu stimata giustissima disposizione di S.A. e suoi ministri,
per non avergli perdonato la vita, usando sopra tutti egualmente il meritato
castigo.» [v. pag. 367]
Forse il conte qualche parola pietosa la meritava, ma
Sciascia - come si è visto - è stato inflessibile. E dire che forse fra quei
vassalli di cui Giovanni V disponeva a Palermo, pronti ad un colpo di stato,
c’era proprio fra Diego La Matina, allora un giovanottone scappato dal convento
ed abbagliato dalle chimere della capitale palermitana.
Ma a parte questa storia di vassalli racalmutesi agli ordini
di Giovanni V del Carretto, non riusciamo a cogliere un qualche spunto che
possa legare la vita terrena del nostro conte con le faccende del nostro paese.
Il testamento di donna Aldonza e le pretese del monastero di
Santa Rosalia di Palermo
Tra le
altre sventure Giovanni V del Carretto ebbe quella di essere pronipote della
terribile donna Aldonza del Carretto, proprio quella che passa per benefattrice
di Racalmuto per avervi voluto il chiostro femminile della Badia.
Donna
Aldonza era figlia, come si disse, di Girolamo I del Carretto, il primo conte
di Racalmuto che lasciò ben sei figlie femmine (la stessa Aldonza, Diana,
Ippolita, Giovanna, Eumilia e Margherita)
e tre figli maschi (Giovanni IV, Aleramo e Giuseppe). Sull’erede
Giovanni IV caddero i pesi del cosiddetto “paragio” - una cospicua dote per
ogni fratello e per ogni sorella. Pare
che il violento conte non se ne desse eccessivo pensiero. Snobbò principalmente
di dotare le sorelle specie quella zitellona che fu donna Aldonza. Questa non
glielo perdonò mai, pure sul letto di morte. Redasse un testamento, tanto pio
quanto subdolo verso l’inviso fratello conte. Lo escluse, innanzi tutto, dal
nutrito numero dei suoi eredi universali, che invece limitò alle sorelle donna
Diana, donna Ippolita, donna Giovanna, donna Eumilia e donna Margherita del
Carretto «...eius sorores pro equali portione, salvis tamen legatis, fidei
commissis, dispositionibus praedictis et
infrascriptis».
Dopo aver
fatto alcuni lasciti per la sua anima ed aver
dato le disposizioni per l’erezione del convento di Santa Chiara, si
ricorda del non amato fratello maggiore Giovanni in questi termini: «..et
perché a detta D. Aldonza ci competiscono li doti di paraggio sopra lo stato di
Racalmuto et beni di detto quondam suo Padre una con li frutti di essi doti,
pertanto essa D. Aldonza testatrici declara volere detti doti di paraggio una
con li detti frutti di essi et volersi letari di quelli, in virtù di tutti e
qualsivoglia leggi et altri ragioni in suo
favore dittarsi et disponersi, non obstante si potesse pretendere in contrario,
in virtù di qualsivoglia testamento et dispositione, delle quali leggi in suo
favore disponenti, essa voli et intendi servirsi et usari in juditiarij et
extra, sempre in suo favore, conforme alle leggi et ragione di essa testatrice
tiene, le quali doti di paraggio, una con li frutti di quelle, siano et s’intendano instituti heredi universali
per equale porzione atteso che di li frutti detti doti ni lassao et lassa à D.
Gio: lo Carretto conte di Racalmuto suo frate onze duecento una volta tantum
pro bono amore et pro omni et quocumque jure eidem Don Joanni quolibet
competenti et competituro et non aliter.
«Item
dicta testatrice vole et comanda che della liti la quale have fatto di
conseguitare la sua legittima che non ni possa consequire più di onze 600,
oltra di quelli li quali essa D. Aldonza testatrici si ritrova havere havuto;
li quali onze 600 essa testatrice lassao et lassa à d. Gio: Battista et D.
Eumilia del Carretto soi soro oltre della loro portione [parte corrosa, n.d.r.] [di cui alla] presente heredità modo quo supra fatta et hoc pro
bono amore et non aliter..»
Il
chiostro di Santa Chiara aprì i battenti poco prima del 1649. Ad Agrigento
(Archivio di Stato - inventario n. 46 Vol. 533) si custodisce il “Libro d’esito
del Venerabile Monasterio di S. Chiara fundato in questa terra di Racalmuto
dell’anno terza inditione 1649”. La prima registrazione è del 24 agosto 1649.
Dalla morte della testatrice (1605) alla realizzazione dell’opera passano
dunque 44 anni. Se non vi furono latrocini, dovettero essere spesi 4.400 onze,
come dire due miliardi e mezzo circa delle nostre lire pre Euro. Tutto quel
tempo impiegato per costruire il convento, ha dell’inspiegabile; ma alla fin
fine le sorelle superstiti di donna Aldonza (o i loro eredi) rispettarono la
volontà testamentaria della terribile virago. Nel chiostro, però, non andarono
solo giovanette chiamate dal Signore di bisognevoli condizioni economiche.
Verso la fine del Seicento vi può entrare una Lo Brutto. L’omonimo arciprete
annota nei libri della matrice: «Victoria figlia di Giaijmo LO BRUTTO e della quondam Melchiora, entrò nel
monastero di Santa Clara per monacharsi di questa terra di Racalmuto a 24
giugno 8.a Ind. 1685 in presenza dell'Ecc.mi Sig.ri d. Geronimo e Donna
Melchiora del CARRETTO conte e contessa di detta terra, dell'ecc.mo Prencipino
don Gioseppe et ill.mi donna Maria e donna Gioseppa figli di d.i sig.ri
eccell.mi - Dr don Vincenzo LO BRUTTO Archip. di detta terra.»
Nel
1807 il convento è ormai luogo di preghiera (o di frustrazione) delle sole
signorine di buona famiglia che i genitori reputano di non dovere sposare per
esigenze di bilancio familiare.
Dovevano bene ricordarsene i Matrona, i
Savatteri, i Grillo, i Vinci, i Farrauto, i Cavallaro, gli Alfano, i Tulumello,
i Tirone, quando con le leggi Siccardi, dopo l’Unità d’Italia, non parve loro
vero di arraffare i beni della chiesa e di trasformare quel convento secolare
in una fabbrica di San Pietro per sperperare soldi pubblici in nome del decoro
della costruenda casa comunale. Ed oggi, la chiesa ove vennero sepolte quelle
“poverette” è luogo di raduno pubblico e vi si fanno concerti profani, sopra le
obliate ceneri di quelle monache. Neppure una lapide a ricordarle. (Basterebbe
scorrere i libri di morte della Matrice per farne una doverosa ricognizione).
Neppure un fiore. Neanche un segno esteriore, un monito. I soldi di donna
Aldonza sono stati rapinati dai governi sabaudi. Anche a Racalmuto, alla fine, risultarono
stregati, come la sua non molto pia donatrice testamentaria.
Il fatto
poi è che il testamento di donna Aldonza, per una sorta di ricorso perverso,
viene riesumato a danno sul nostro
Giovanni V del Carretto. Un documento del Fondo Palagonia ci svela
l’arcano. E’ il 10 ottobre del 1645:
Giovanni V del Carretto ha ora 36 anni, sta a Palermo, non crediamo che avesse
voglia di fare dei colpi di stato per far nominare re di Sicilia il cognato, il
conte di Mazzarino. E’ costretto a stipulare un contratto (in effetti una
transazione) con il dottore in utroque
Giuseppe Bonafante. Su questa figura di prelato vedasi il Nalbone. () Si
trattava in effetti del “procuratore generale e protettore del venerabile
convento di Santa Rosalia” in Palermo.
Costui
aveva ottenuto dal consultore Don Diego de Uzeda una “provvisionale” datata 5
luglio 1643. L’ingiunzione seguiva ad una sentenza del 5 maggio 1643 che
investiva in pieno il conte di Racalmuto. Questi veniva condannato a pagare entro un mese al monastero di Santa
Rosalia di Palermo «dotes de paragio D. Aldonzae, d. Margaritae, d. Eumiliae et
d. Joannae de Carretto», le doti di paragio (quelle che abbiamo prima citate)
di quattro delle sorelle del trucidato conte Giovanni IV del Carretto. E non
era una bazzecola: si trattava di once 7.687, diciassette tarì e tre grani. Un
calcolo in moneta attuale? era la cospicua cifra di quasi quattro miliardi e
mezzo.
Ma che
diavolo era avvenuto?
Come si
disse, anche sul letto di morte presso il pauroso convento di Santa Caterina,
donna Aldonza del Carretto non sia acquietò contro il fratello Giovanni per la
faccenda del paragio. V’era in corso una causa: la vecchia non voleva che con
la sua morte, la lite andasse in nulla a favore del fratello. Stabilì dunque
che il paragio, dedotte duecento onze per tacitazione dei diritti del conte del
Carretto, andasse alle sorelle che istituiva sue eredi universali.
In base ad
una clausola del testamento di Donna Aldonza,
il destino del futuro conte Giovanni V del Carretto viene segnato. E
siamo nel giorno 31 marzo del 1605.
Nel 1625,
sotto l’egida di un sacerdote troppo intraprendente, sorge una sorta di
monastero patrocinato e sovvenzionato dalle tante sorelle del Carretto. Sia
come sia, le doti di paragio di Donna Aldonza, donna Margherita, e donna
Eumilia finiscono sotto le grinfie del convento. Si sostiene che sarebbero
state devolute per volontà testamentaria in dote del chiostro palermitano.
Attorno al
1635, l’indomabile prete Bonafante intenta causa, quale protettore e procuratore
del convento di Santa Rosalia in Palermo, contro il sedicenne conte Giovanni V
del Carretto. Si nominano periti, si fanno conteggi, si tentano espedienti
formali, ma il 15 luglio del 1643 don Diego de Uzeda, consultore di Sua
eccellenza, condanna irrimediabilmente il giovane conte ad una cifra enorme.
Sulla base delle ricostruzioni contabili di tal Gaspare Guarneri, il conte -
sui beni di Racalmuto - deve corrispondere a quell’alieno convento di Santa
Rosalia 7.687 onze, 17 tarì e 3 grani (abbiamo detto circa quattro miliardi di
lire). Il conte soprassiede, ma il 10 ottobre del 1645, la pretesa viene
elevata ad onze 7.977.29.9.
A questo
punto il conte, un po’ più agguerrito, si rammenta di paragi pagati, di
biancheria pregiata fornita in dote, di altri pagamenti a quelle tremende
prozie. Sarebbero oltre mille onze da decurtare dalla pretesa conventuale.
Inoltre,
chiede che si nominino altri periti di sua fiducia. E’ una corsa ad ostacoli
... giudiziari. Soprattutto si offre la cessione dei diritti di baglia di
Racalmuto. Questa offerta viene gradita dagli organi giudicanti. Il padre
Bonafante annusa la trappola e si oppone. Le suorine palermitane giammai
sarebbero state in grado di conseguire quelle tassazioni sui poveri e
riluttanti racalmutesi.
I diritti
di baglia su Racalmuto erano ingenti: 823 onze annuali.
In un arido documento palermitano v’è comunque
uno spaccato delle condizioni economiche di Racalmuto che va qui sottolineato.
Ogni capo famiglia doveva dunque corrispondere al conte 12 tarì per il tugurio
ove abitava; era lo jus proprietatis del feudatario che stava a gozzovigliare
nell’opulenta capitale panormitana. Non desta meraviglia che i 1.500 fuochi
(per una popolazione di oltre 5.000 abitanti) tenessero ad apparire alloggiati
in dimore povere, non idonee a sopportare quell’imposta catastale, ed erano
abili nel vantare titoli d’esenzione. Il prete Bonafede lo sa e non vuole
incappare nelle astiose incombenze esattoriali avverso evasori e gente con
pretese di ogni sorta di franchigia (preti, monache, conventi, indigenti,
confraternite etc.)
Non accetta
la cessione dei diritti feudali e congegna un accordo con il conte: ridurre il
tasso da 5 a 4%, ma il pagamento della rendita annua (ma perpetua) dovrà
avvenire sotto la diretta responsabilità del conte e dei suoi successori e con
la garanzia di tutte le entrate feudali di Racalmuto.
Giovanni V
del Carretto sembra ora più avveduto - o ha migliori consiglieri. Dice che gli
sta bene il minor tasso ed il diverso modo di pagamento delle rendite annuali,
ma è la sorte capitale che va tutta revisionata.
Contrario
in un primo momento è il sullodato sacerdote Bonafede.
Ma deve,
il prete, fare buon viso a cattivo gioco.
Si
consegue l’avallo delle superiori autorità.
La
conclusione è una soggiogazione da parte del conte di Racalmuto per onze 160, 3
tarì e grani 7 annuali, in favore del monastero di Santa Rosalia in Palermo.
La mappa
agricola di Racalmuto c’è tutta: i gravami feudali messi in bella mostra; i
dati sui mulini dell’epoca hanno il fascino della rievocazione e inducono ad un
interessamento nei riguardi di questi antichi opifici, spesso capolavori di
ingegneria idraulica, che oggi, diruti ed abbandonati, corrono il rischio di
sparire per sempre.
L’intricato
carteggio si conclude con l’accordo transattivo che nel suo nucleo essenziale
contiene i termini giuridici della soggiogazione delle predette 160 onze (più
tre tarì e sette grani) nella ragione del 4 per cento di un capitale pari ad
onze 4.002, 24 tarì e 14 grani.
Vi erano
molte riserve: non credo che il monastero le abbia potute far rispettare. Il
conte Giovanni V morì di lì a cinque anni con le modalità e per le vicende
prima ricordate.
Ma il
censo annuale fu corrisposto e, quando in ritardo, con gli interessi di mora,
come sta ad indicare questo resoconto del 1693:
13 Le
onze 253.11.9. pagati al ven. monasterio di Santa Rosalia di questa città per
l'interusurio dell'anno 14^ ind. come per apoca in d.ti atti a 30 sett. 1692:
onze 253, tarì 1, grani 9.=
Alla fine
dunque il conte Giovanni V del Carretto dovette sobbarcarsi a soggiogare 160
onze a valere sui diritti feudali racalmutesi. Circa 80 milioni di lire annuali
prendevano il largo da Racalmuto per finire nelle ingorde mani degli
amministratori del monastero di Santa Rosalia di Palermo. Nulla legava
l’economia racalmutese a quella claustrale di Palermo: un esborso dunque a
vuoto; un impoverimento monetario della illiquida realtà curtense dei nostri
compaesani del Seicento. Si dirà: tanto sempre a Palermo andavano quelle
imposte. Se nelle tasche dello scervellato Giovanni V del Carretto o in quelle
del monastero, non v’era poi grande differenza. Magari il fine era più nobile!
Ma si racchiude tutta qua la
giustificazione di quell’asfissiante prelievo fiscale di mera natura feudale.
Giovanni V
del Carretto qualche contraccolpo finanziario lo ebbe. Ebbe bisogno di alienare
un feudo in quel di Cerami. Fu il barone Antonio Grillo che comprò “il feudo di
Donna Maria nel territorio di Cerami - annota il San Martino de Spucches - avendolo comprato sub verbo regio da Giovanni DEL CARRETTO, e se ne legge l'investitura a 16 settembre
10 Ind. 1641 ....”.
Anagrafe
di Giovanni V del Carretto
Sarà il
figlio a confermarci i dati anagrafici di questo conte.
Ex dicto don Hieronymo natus fuit illustris don Joannes de
Carretto et de Viginti Milijs filius primogenitus qui duxit in uxorem illustrem
donnam Mariam Branciforte filiam legitimam et naturalem quondam illustris don
Nicolai Placidi Branciforte, principis Leonfortis, et Catharinae Branciforte,
Barresi et Santapau.
Racalmuto sotto Giovanni V del Carretto
Qui la vita scorre come può.
Sotto l’arciprete Filippo Sconduto (vedi sopra) inizia la controversia
per sottrarre Racalmuto all’indesiderata giurisdizione dell’ingordo vescovo
Traina e passarlo a quella del Metropolita di Palermo. Ci informa il Pirri:
dopo il maggio del 1631, «paucos post menses litterae Romae
13 Decembr. , 14 ind. exaratae mandato Marci Antonii Franciotti Apostol.
Camarae Auditoris advenere, quibus decretum erat, ut oppida Ducatus Sancti
Joannis et comitatus Camaratae, item et Juliana, Burgium, Clusa et postea Rahyalumutum dioecesis Agrigentinae in
criminalibus, et civilibus causis ab ordinaria jurisditione subtraherentur et Panormitano Metropolitae subijcerentur.»
Il nocciolo della questione era dunque che San Giovanni
Gemini, Cammarata, Giuliana, Clusa e Racalmuto ne avevano le scatole piene
delle pretese del vescovo Traina. Un delatore, canonico, ebbe a scrivere in
Vaticano che il prelato era talmente sordido ed avaro, da avere accumulato
montagne di denaro contante che deteneva in cassapanche sotto il letto. La
notte, preso da raptus estraeva le
casse, le apriva, e ci si curcava sopra.
Questi paesi si erano consorziati ed avevano adito le vie legali della corte
pontificia, chiedendo di passare da sottoposti di Agrigento a sottoposti di
Palermo. L’uditore della Camera Apostolica, Marco Antonio Franciotto comunicava
l’esito positivo in data 14 dicembre 1631, quando lo Sconduto, sicuramente
ispiratore della lite, era già deceduto. Noi abbiamo cercato di rintracciare in
Vaticano questa importante documentazione, ma non ci siamo riusciti. Le carte
furono disperse dopo la presa di Porta Pia. Ma sappiamo dal Pirri che esse si
trovano presso l’Archivio Metropolitano della curia palermitana “in
registr....13 januar. [1632].” Tanto per
chi avrà voglia di cercarle. Qualcosa abbiamo trovato nel Fondo Palagonia, ma
quei diplomi ci dicono poco. Disponiamo solo di una scrittura del 4 gennaio
1632 (A.S.P. Fondo Palagonia - atti privati - n.° 631 - anni 1502-1706). Il
seguito della faccenda, così ce la
racconta il Pirri:
«Quod Philippo IV, summopere displicuisse, datis ad proregem
litteris, quibus animi sui acerbitatem, ac facinoris indignitatem ostendit,
ipsemet aperte testatur. Romae tandem causa agitata, inataque pace inter
Episcopum et oppidorum dominos, ad pristinum rediere locum omnia.»
Filippo IV, dunque, appena saputa la notizia, andò su tutte
le furie: se ne dispiacque proprio summopere,
forte ma tanto forte che più forte non si può, investì in malo modo il viceré a
Palermo scaricandogli la rabbia per quell’impertinenza dei paesi agrigentini,
caduti in un indegno crimine (indignitas
facinoris). Di fronte all’ira del re spagnolo, al viceré toccò prendere
penna e carta e supplicare la corte papale per una revisione della causa. Forse
il vescovo Traina - sicuramente non ignaro di tutti questi maneggi - avrà profuso anche a Roma il suo copioso
denaro (e già perché anche allora Roma era ...
Roma ladrona). Fatto sta che
immediatamente si ridiscute la causa presso la Camera Apostolica ed ecco che
Roma si rimangia tutto: impone la pace tra il vescovo Traina ed i padroni oppidorum, dei paesi agrigentini: tutto
deve tornare come prima: ad pristinum
rediere locum omnia.
Ma chi
erano i domini terrae Racalmuti?
Sulla carta Giovanni V del Carretto. Ma costui - come vedesi nella foto della
copertina della pubblicazione racalmutese su Pietro d’Asaro «il Monocolo di
Racalmuto», ove vi appare con la sorella Dorotea - era soltanto un fanciullo
tredicenne, peraltro trasferitosi a Palermo. Le carte del Palagonia ci vengono
in soccorso. Furono i giurati - espressione del potere feudale - a volere
l’eversione dal vescovo Traina: basta scorrere l’atto notarile riportato infra per desumere gli artefici dell’incauta iniziativa: è l’intera
Universitas ma rappresentata e coartata dai seguenti notabili:
Universitas terrae et comitatus Racalmuti Agrigentine
dioecesis ex statu temporalis dominis comitis dittae terrae Racalmuti legitime
congregata et pro ea Nicolaus Capilli, Benedictus Troianus, Petrus de Alfano,
et ar: me: dott. Joseph Amella uti jurati dittae terrae Racalmuti
E’ stata l’intera Universitas Racalmuti, ritualmente
congregata, e rappresentata dai giurati, al tempo Nicolò Capilli, Benedetto
Troiano, Pietro Alfano ed il medico Dott. Giuseppe Amella. Su costoro comunque
non si abbatté l’ira del re di Spagna. Anzi, nel 1639, anno di grande miseria,
un provvidenziale decreto viceregio impone sgravi fiscali ed accorda altre
agevolazioni ai borgesi racalmutesi
che si cerca di mettere in condizione di seminare senza le espoliazioni
feudali: ()
Il Viceré comunica ai Giurati delle terre di Bivona, Adernò,
Termini, RACALMUTO, Bisacquino,
Castrogiovanni, Taormina, Caltavuturo, Mazzara e Lentini le istruzioni emanate
sul modo di dare i soccorsi ai borgesi e massari.
(Trib. del R. Patrimonio. Lettere viceregie e dispacci
patrimoniali, di Particolari, dell'anno indizionale 1639-1640, f. 48 e s.) - Il margine si legge che la stessa lettera
fu spedita ai Giurati di Adernò, di Termini, di RACALMUTO, Bisacquino, Castrogiovanni, Taormina, Caltavuturo,
Mazzara. - A pag. 64 del medesimo registro trovasi riportato la stessa lettera
diretta ai giurati di Lentini.
Philippus
etc.
Locumtenens
et capitaneus generalis in hoc Siciliae Regno nobilibus Juratis terre Bibone Racalmuti fidelibus regi dilectis
salutem.
Siamo
stati informati che per la povertà di borgesi, massari et arbitrarianti della
[contea di Racalmuto] non ponno attendere al seminerio nè quello coltivare nè
fare maysi per l'anno futuro essendo detrimento al regno et convinendo che un
tanto beneficio universale habbia essecutione habbiamo commesso a voi il
negotio acciò con la diligentia necessaria compliate al dovere conforme sarrà
di giustizia osserbando quanto vi si ordina per l'infrascritti istrutioni sopra
ciò fatti del tenor seguente Videlicet.
Panormi
die octobris 4^ inditioni 1636.
Instructioni
fatti in detto anno sopra il seminerio attorno di far dar soccorso alli
borgisi. Si dovereranno con ogni diligenza informare delli borgesi che sono in detta [contea di
Racalmuto] dell'apparecchio che habbiano di terre così per seminare come per
ammaisare e della bestiame che hanno per il seminerio presentato per li maysi
futuri e per il governo delli seminati e terre
et si sono persone che, essendo soccorsi, si serviranno veramente del
soccorso per seminare e governare li seminati et a quelli che saranno tali et
haviranno bisogno li farrete soccorrere dalli padroni et affittatori degli
feghi et terri delli quali essi borgesi hanno di apparecchio et in caso che
detti padroni et affittatori non siano abili a soccorrere essendo habili di
denari, farrete che coprino [comprino] li formenti per dare li soccorsi et in
caso chi padroni o affittatori siano affatto inhabili a dar soccorso ne di
formento ne di denari per comprarli, farrete dar soccorso da persone facultuse
habili a darlo promettendo loro che se li terrà memoria del servito che in ciò
faranno nelle occorrenze et occasioni et che per la restitutione se li daranno
cautele bastanze preferendoli ad ogni altra gravezza etiamdio delli terraggi []
et che per la restitutione non se li concederà per il pagamento di detti
soccorsi dilatione alcuna, declarandosi che essendovi borgesi che avessero
apparecchio o terre di ammaisare baronie, feghi, o terre disabitate, questi
ancora verranno esser soccorsi o di padroni o di affittatori, o di facultosi
del più vicino loco habitato con le medesime prelationi nel pagamento di
soccorso. Li borgesi che si soccorrino per seminare doveranno dare pleggeria [malleveria]
di seminare quel soccorso che per tal effecto se li da sotto pena di haver a
restituire il soccorso datogli passato il tempo del seminerio. E Voi passato il
tempo suddetto, essendovene fatta instantia, procedirete alla esecutione delle
pene inremissibilmente, nel tempo del raccolto haverete cura che il primo sia
pagato il soccorso preferendoli ad ogni altro debito quantunque privilegiato,
etiamdio a terraggi o a debiti di bolle che la recuperatione si facci in
prontezza e senza lite. Perciò vi ordiniamo che attorno il dar soccorso alli
borgesi et massari della [contea di Racalmuto] osserverete er essequirete tutto
quello et quanto nelle preinserte instructioni del seminerio si dichiarando in
ciò la diligenza possibile a cui sortisca e passi innanti il servizio essendo
di tanto benefitio universale al regno e servitio di sua Maiestà che Voi circa
le cose premisse ve ni danno la potestà bastante et cossì essequirete per
quanto la gratia di S. Maestà tenete cara.
Datum Panormi 6 octobris, 8 inditionis, 1639. El Cardinal IOAN DORIA. Dominus
locumtenens mandavit, etc.
Erano vane promesse, qualcosa di simile alle grida di manzoniana memoria? Vox
clamantis in deserto? Sia quel che sia il cardinale Doria sembra più
commendevole come luogotenente che come dispensatore delle reliquie di Santa
Rosalia.
Nell’ottobre del 1639, i borgesi racalmutesi erano davvero
nelle condizioni tali da non avere più la semente per le loro chiuse? O era un
piangere miseria, veniale peccato ricorrente nel costume contadino di un tempo?
Per avere alleggerite le onnivore tasse.
Gli
arcipreti di Racalmuto sotto Giovanni V del Carretto
A Racalmuto, nella cura delle anime, allo Sconduto era
succeduto il sac. dott. Giuseppe Cicio che dopo un quinquennio cessò i suoi
giorni terreni (+ 6 novembre 1636). Il successore nell’arcipretura, D. Antonino
Molinaro (28 febbraio 1637) dura ancor
meno. Subito dopo muore don Santo d’Agrò (+ 22 luglio 1637) cui infondatamente
Tinebra Martorana, Sciascia e qualche altro ricercatore ancor oggi vogliono
assegnare il merito della moderna Matrice sub titulo S. Mariae
Annunciationis.
Il Vescovo Traina, frattanto, seduto sulla sponda del fiume
aspetta il momento della sua vendetta. Finalmente può arraffare l’arcipretura
di Racalmuto, vi manda un suo parente da Cammarata: è anche per quei tempi un
giovanotto e risulterà di scarso discernimento. Si chiama Traina come lui, di
nome Tommaso. Vanta un dottorato, chissà se effettivo. Ha solo 24 anni. Lo
segue una caterva di parenti. Molti sono religiosi e qualcuno finirà la sua
vita terrena a Racalmuto come don Filippo Traina (+ dopo il 1643); altri, i
più, finita la pacchia veleggeranno verso altri lidi, come Giuseppe e Michele
Traina. Particolare menzione merita codesto don Giuseppe Traina che nel 1639
figura come economo della Matrice, incarico che ricopre nel 1645; nel settembre
del 1652 viene indicato come pro-arciprete. Era stato nel frattempo costruito
il convento di Santa Chiara con il lascito di donna Aldonza del Carretto, che
vi aveva destinato taluni pretesi diritti di mora per mancata corresponsione
del “paragio” da parte del fratello Giovanni IV e dei suoi eredi Girolamo II,
prima; e Giovanni V, dopo.
Don Giuseppe Traina, pronubi l’arciprete ed il vescovo,
diviene l’esoso cappellano e confessore di quelle pie monache. Nei libri contabili,
reperibili presso l’archivio di Stato di Agrigento, v’è quasi un pianto per le
continue erogazioni che il convento è costretto a subire in favore di questo
prete venuto dai monti di Cammarata.
Varrebbe la pena spulciare le varie note spese che appaiono
nei libri contabili dell’archivio di Stato di Agrigento, presentate dal Traina
al Convento per l’immediata liquidazione, pronto cassa; ma non è questa la sede
per siffatte ricerche di sapore ragionieristico.
Il giovane arciprete
Tommaso Traina s’impania nella transazione con gli eredi di don Santo d’Agrò:
sobillatore ci appare l’esecutore testamentario, don Dn. Franciscus Sferrazza,
dichiaratosi Legatarius dicti quondam Dn.
Sancti de Agrò. Che cosa abbia
disposto in favore della Matrice don Santo d’Agrò, non mi è ancora dato di
sapere, non essendo stato rinvenuto il suo testamento, nonostante le tante
ricerche. Disposizioni in favore della sua tumulazione nella chiesa madre - che
in quel tempo risulta allargata dagli altari centrali a quelli laterali,
entrambi i primi a sinistra ed a destra dell’attuale edificio - non dovevano
mancare, ma dovevano essere ambigue ed indecifrabili. Familiari diretti del
defunto, sacerdote, l’esecutore del testamento ed il giovane arciprete
addivengono ad una transazione, come da rogito notarile. Il rogito cadde sotto
l’attenzione di Tinebra Martorana, procuratogli pare - guarda caso - da tal
signor Salvatore Sferlazza. Come da quel magari incerto latino notarile, il
Tinebra abbia potuto raffazzonare quel po’ po’ di fandonie che leggiamo a pag.
143 delle sue Memorie è arcano che non manca di sorprenderci. A
dire il vero l’alumbriamento più che
nel casto sacerdote Santo d’Agrò sembra doversi cogliere nei nostrani
scrittori, passati e presenti.
Tralasciamo qui di scrivere su Pietro d’Asaro, su Marco
Antonio Alaimo - che pure qualche attinenza, non foss’altro d’indole temporale,
con il Traina ce l’hanno - perché divagheremmo troppo, esulando appieno dai
limiti del presente lavoro, volto alla ricostruzione della storia dei del
Carretto di Racalmuto. Non mancherà tempo per restituire a Pietro d’Asaro
quello che è di Pietro d’Asaro e togliere a Marco Antonio Alaimo quello che una
secolare letteratura agiografica ha su di lui profuso in superfetazioni.
Il 30 agosto L’arciprete Traina muore a soli 35 anni. Gli
atti della Matrice segnano:
30/8/1648 Traijna Thomaso,
arciprete, sepolto in Matrice, gratis;
ed il
cappellano detentore dei libri annota:
Il d.re D. Thomaso
Traijna Sacerdote et Arciprete di. questa Terra di Racalmuto d’età' d'anni 35
et mese cinque si morse et fu sepellito in questa Matrice chiesa di detta
terra. Gratis
Ove giaccia in Matrice, si è persa la memoria.
Il 4 ottobre 1651, il vescovo Traina, dopo tante
peripezie, fra le quali una fuga notte tempo a Naro, cessa di vivere. Nella
macabra cappella funeraria della Cattedrale fece incidere, in orripilanti
caratteri bronzei, peracri ecclesiasticae
libertatis studio administravit. Chiamò libertà della chiesa il suo
pervicace attaccamento alle cose di questo mondo, come la giurisdizione sui
racalmutesi. Anche da morto non si smentì. Denis Mack Smith, un
protestante, non si esime, a distanza di secoli, dal punzecchiarlo nella sua
Storia della Sicilia.
L’interregno
di Maria Branciforti
Eseguita
la pena capitale, i beni feudali di Giovani V del Carretto furono prontamente
requisiti. La Corte però non li trattiene: li concede alla vedova donna Maria
Branciforti, quale tutrice di don Girolamo III del Carretto e Branciforti. Con
un privilegio di Filippo IV, rilasciato nel Cenobio di San Lorenzo il 28
ottobre del 1654 e reso esecutivo in Palermo il 13 novembre 1655, Racalmuto
torna in potere dei del Carretto.
Il
privilegio di Filippo IV non evita di fare riferimento alla tragica ma anche
ingloriosa fine di Giovanni V del Carretto, ma alla fine risulta più munifico
di quel che ci si aspettasse. Al figlio di Giovanni V del Carretto andrebbe
anche il feudo di Gibillini, ma noi crediamo che si sia trattato di un errore
dei curiali di Palermo.
Donna
Maria Branciforti - evidentemente giovanissima - resta nel 1650 vedova ma con
buone rendite specie per i beni paterni. Ma ci pare in mano di usurai. La sua
situazione economica è riepilogata in questo documento che si conserva alla
Gancia di Palermo:
(Anno 1651
vol. 609 - Archivio di Stato Palermo - Gancia - P.R.P.)
Donna
Maria del Carretto e Branciforte, contessa di Racalmuto, cittadina oriunda
della città di Palermo, relitta del Conte, figli don Girolamo di anni 3 e Anna
Beatrice. Rendite: don Nicolau Placido Branciforte, principe di Leonforte, once
300 ogni anno sopra detto stato di Branciforte che à raggione del 5% il
capitale spetta onze 6000;
inoltre
rende ogni anno donna Margherita d'Austria onze 382 e tt. 5 per il principato di Butera quale che
tiene il capitale di onze 5277 per un totale di 11277 onze, 13 deve a d.
Michele Abbarca della città di Palermo onze 2600 per tanto che ci ha dato; deve
a donna Maria Morreale e del Carretto onze 500 per tanto prestatoci.
Giovanni V
del Carretto lascia dunque due figli: Girolamo di anni 2 e Beatrice di cui
ignoriamo l’età.
GIROLAMO III DEL CARRETTO
Girolamo
III del Carretto può dirsi l’ultimo feudatario di Racalmuto della famiglia
carrettesca. Ebbe un figlio: Giuseppe; gli donò la contea mentre era ancora in
vita, sicuramente per ragioni fiscali; ma Giuseppe era malaticcio; premorì al
padre ed Girolamo III ritornò la contea di Racalmuto; Girolamo morì senza altri
figli maschi; la contea finì in mano alla moglie del defunto figlio Giuseppe;
era costei Brigida Schittini e Galletti che non seppe mantenere il feudo
racalmutese, finito - previa un’interposizione fittizia di una tal Macaluso -
in mano dei Gaetani.
Girolamo
III del Carretto nasce - crediamo a Palermo - attorno 1648. Con la morte del
padre, la vita a Palermo dovette essere ardua. Così la vedova con i due
figlioletti ritorna a Racalmuto, mentre nella capitale si infittiscono gli
approcci per il recupero dei beni feudali requisiti dalla corte spagnola.
Nel 1660,
secondo una numerazione delle anime che si custodisce in Matrice, i del
Carretto costituiscono il 1625° “fuoco” di Racalmuto con questa composizione:
1625 LA CARRETTA Xxa ECCELLENTISSIMO
SIG. DON GERONIMO C.TO ECC.MA SIGNORA DONNA MARIA C.TA ILLUSTRISSIMA DONNA BEATRICI CARRETTO C.TA
Girolamo
del Carretto è appena dodicenne; frequenta qualche scuola da qualche prete
locale; subisce l’autorità della madre che appare molto volitiva.
S’iniziano
i lavori della Matrice e donna Maria Branciforti è munifica nelle elemosine.
La
contessa, in effetti, versa a spizzichi e bocconi la sua “elemosina” di cento
onze in ben 19 rate di disparato importo (da pochi tarì a 30 onze) lungo un
arco di tempo che parte dal 15 dicembre 1654 per concludersi il 10 marzo 1660.
Sembra che
dopo il 1660 la famiglia del Carretto si sia trasferita ad Agrigento. Girolamo
III del Carretto ha voglia (o necessità) d’intrupparsi nell’esercito spagnolo
per andare a fronteggiare gli invasori francesi nei pressi di Messina nel 1674.
Aveva 26 anni. Non militò a lungo. Tornò a casa, si era sposato con una Lanza.
Decide di abitare nel suo castello di Racalmuto.
Il San
Martino-De Spucches è piuttosto esauriente nel fornirne il profilo araldico:
«Girolamo
del CARRETTO BRANCIFORTE, figlio
del precedente [Giovanni V], per grazia speciale di Filippo IV ebbe restituiti
i beni paterni e con nuova concessione, data nel cenobio di S. Lorenzo, a 28
ottobre 1654, fu nominato Conte di Racalmuto; il Privilegio fu esecutoriato nel
Regno, nell'anno IX Indiz. 1655, e propriamente il 13 novembre. In base al
suddetto privilegio egli s'investì a 14 agosto (R. Canc. IX Indiz. f. 73). Si reinvestì, a 16 settembre 1666, per
il passaggio della Corona (R. Cancell. V Indiz. f. 180). Sposò, in prime nozze,
Melchiorra LANZA MONCADA di LORENZO,
Conte di Sommatino, e di Aloisia MONCADA;
sposò in seconde nozze, Costanza
AMATO ed ALLIATA di Antonio, P.pe di Galati, e di Francesca ALLIATA LANZA (Villafranca). Fu maestro di campo
dell'esercito destinato a sedare la rivoluzione di Messina (1674); Vicario
Generale Viceregio a Noto, Girgenti, Licata, Caltagirone; Pretore di Palermo
nel 1682; Gentiluomo di Camera del Re Carlo II a 10 agosto 1688.»
Dal 1682,
dunque, risulta residente a Palermo; il richiamo della capitale era stato anche
per lui irresistibile.
Ha voglia
a Racalmuto di mettere mano a riforme: affida il vecchio ospedale di San
Sebastiano ai Fatebenefratelli. Da allora si chiamerà di San Giovanni di Dio.
E’
leggibile una copia del privilegio di erezione di quella pia fondazione. Sono ricavabili questi estremi:
"COPIA Della fondazione di questo nostro
Convento..." "ANNO 1693" Nell'anno 1693 l'Ill.mo
Sig.r d. GEROLAMO DEL CARRETTO E
BRANCIFORTE Conte di Racalmuto e P.pe di VENTIMIGLIA accumulatavi la Pietà, e Carità dell'Ill.ma D: MELCHIORA DEL CARRETTO E LANZA sua
moglie". ...." Ill.mo d: GIUSEPPE DEL CARRETTO BRANCIFORTE, e LANZA suo figlio. -Bolle Pontificie date in
Roma il .. 13|2|1693 .. in Palermo
l'8\4\1693 ed in Girgenti il 20\8\1693".
Il 16
giugno 1670 Girolamo è residente a Racalmuto. Le muore una figlioletta che
viene così registrata nei libri della Matrice:
1.
Domina
Joanna, Ignatia, Antonina Elisabetta filia Ill.mi et Ecc.mi D.ni Hijeronimi
Carretti et Branciforti comitis
Racalmuti et principis XXmiliarum, et ill.me et ecc.me D.ne Melchiorre eius
uxor; duorum annorum et mensium quatuor circiter, in domo palatii h. t. R.ti
animam Deo redidit, cujusque corpus sepultum est eodem die in ecc.sia S.te
Marie de Monte Carmeli in communione S. Matris Ecc,sie presente clero,
congregationibus confraternitatibusque et Senato. GRATIS
|
Sappiamo
che donna Melchiorra Lanza morì a Racalmuto il 10 aprile 1701 e vi fu sepolta
come attestano i soliti libri della matrice:
906 10.4.1701 D.
MELCHIORRA LANZA DEL CARRETTO UXOR HIERONIMI PRINCIP.A COMITISSA RACALMUTI di
anni 70 sepolta a S.MARIA DE IESU IN VENERABILI CAP. SS. ROSARII. Assistita
da D. FABRIZIO SIGNORINO ARCIPRETE. Morì in sua propria domo.
Girolamo
III del Carretto sarebbe dunque rimasto vedovo a soli 53 anni. Tra lui e la
prima moglie vi sarebbero stati diciassette anni di differenza. Questo, stando
ai dati che riportiamo. Confessiamo, però, di nutrire noi stessi forti dubbi:
forse gli anni della contessa defunta vanno rettificati in soli 50.
Girolamo
III del Carretto acquisisce contorni di litigiosità con i dati che emergono dal
Fondo Palagonia. Un atto soprattutto.
Il conte
ha modo di dire di sé:
Ex ditto d. Joanne natus est illustris don Hieronymus de
Carretto et Branciforte, cuius nomine et pro parte, illustris donna Maria de
Carretto et Branciforte cepit investituram de ditta terra, statu et comitatu
Racalmuti, pro ut per dittam investituram de ditta terra, statu et comitatu
Racalmuti pro ut per dittam investituram sub die decimo quarto Augusti nonae
indittionis 1656 per attum apparet et die sua melius etc.
Il feudo
di Racalmuto a fine del ’600
Ed ecco
come ci descrive il suo feudo, il nostro Racalmuto:
Item ponit et probare intendit non se tamen obstringens etc.
qualmente il fegho nominato di Racalmuto sito e posto in questo Regno di
Sicilia nel Val di Mazzara consistente in salme setticentocinque tummina
quindeci, mondelli tre e quarti dui cioè in salme seicento cinquantadue,
tummina undeci e mondelli uno di terre lavorative e salme cinquanta trè,
tummina dui e mondelli dui di terre rampanti, valloni, trazzeri ed altri
inclusi in dette salme cinquanta tre, tummina dui e mondelli dui, salme undeci
di terra nel circuito, delle quali e sita e posta la terra [134] che tiene il
nome da detto fegho è posto in menzo delli feghi nominati:
1.
delli
Gibillini e feghi
2.
delli
Cometi;
3.
e fegho
delli Bigini;
4.
del fegho
di Zalora;
5.
del fegho
di Scintilìa;
6.
del stato
e ducato delli Grotti;
7.
del fegho
e principato di Campofranco;
8.
e fegho della
Ciumicìa
e altri confini ...
Non v’era
dunque dubbio che le terre usurpate dai sacerdoti racalmutesi erano
integralmente sotto la giurisdizione del conte.
Item ponit et probare intendit non se tamen obstringens etc.
qualmente le contrate nominate di Bovo seu Montagna, Pinnavaira, della Rina seu
Scavo Morto, della Difisa, Jacuzzo, Zimmulù, Caliato, Serrone, Pietravella,
Saracino seu Molino dell’Arco, Menziarati e Culmitelli sono delli membri e
pertinenze del fegho e stato di Racalmuto ed intra li limini e confini di detto
fegho di Racalmuto come sopra stimato e confinato conforme fù ed è la verità,
notorio e fama publica et nihilominus dicant testes quicquid sciunt, sentiunt,
viderunt vel audiverunt etiam extra capitulum ad intensionem producentis et - -
-
Non
sappiamo come sia andato a finire quel processo. Sorto alla fine del Seicento,
con tutta probabilità non era concluso alla morte del litigioso conte. Il quale
pare ebbe molto a litigare anche con il figlio che pure aveva dotato della
contea ancor prima della sua stessa propria morte.
Girolamo
III del Carretto non era comunque un mangiapreti: sotto di lui l’arciprete Lo
Brutto - e con il suo esplicito e imperioso avallo - aveva potuto costituire la
“comunia” di Racalmuto con ben dodici mansionari, adorni di fregi appariscenti.
Religione, clero ed altri aspetti nella Racalmuto post
Giovanni V del Carretto.
Al Traina, frattanto, era subentrato nell’arcipretura don
Pompilio Sammaritano, un semplice dottore in teologia.
Porta con sé un parente sacerdote, don Pietro. Lo nomina
subito suo cappellano ed il racalmutese p. Antonino Morreale viene giubilato e
deve emigrare. Lo segue uno stretto
parente, forse un fratello, un tal Francesco Samaritano sposato con Gerlanda e
con una figlia, come ci tramanda il primo censimento di Racalmuto conservato in
Matrice. Già nel 1649, il nuovo
arciprete risulta dai registri della Matrice già in opera. Nel 1660 è
felicemente insediato in paese, ove ha messo su casa servito da “un famulo” di
nome Giuseppe ed una fantesca chiamata Lizzitella. (il solito censimento è
impertinente). Durante la sua arcipretura piombarono a Racalmuto la moglie ed i
figli dell’infelice Giovanni V del
Carretto.
La contessa ha i suoi guai: deve risolvere i problemi del
riottenimento dei beni feudali che sono stati requisiti dal re per l’alto
tradimento del marito. Vi riuscirà. I fondi Palagonia contengono, come si è
detto, gli atti di questa avvincente vertenza feudale. Il dottore in teologia è
prodigo di consigli e sa essere di supporto morale.
Frattanto giunge ad Agrigento il nuovo vescovo Ferdinandus
Sanchez de Cuellar. Il 28 novembre 1654 visita Racalmuto e subito mette in mora
l’arciprete per il latitare dei lavori della fabbrica della chiesa della
Matrice. Il giorno dopo si apre la contabilità dei lavori edili, il cui
pregevole rollo si conserva in Matrice: LIBRO D'INTROITO ED ESITO di denari per
conto della fabrica della Matrice Chiesa di Racalmuto incominciando dalli 29 di
novembre 8a Ind. 1654, reca in esordio per la penna di don Lucio Sferrazza. Il depositario è il dott. don Salvatore
Petruzzella, futuro arciprete. I primi soldi, cioè le prime 12 onze, sono dal
vescovo. Ma è un modo di dire: si tratta delle feroci molte comminate dal
vescovo in corso di visita. E pensare che sotto il vescovo Traina le autorità
diocesane avevano latitato. A noi fa un certo senso leggere:
Dall'Ill.mo
et rev.mo Monsignor frà Ferdinando Sancèz de Cuellar Vescovo di Girgenti hò
ricevuto per mano di D. Alonso de Merlo suo mastro notaro onze dudici quali d.o
Ill.mo Signore ha dato d'elemosina alla fabrica di d.a matrice chiesa dalle ..
pene esatte in discorso di visita in Racalmuto d. ........ onze -/ 12.
La pia contessa, vedova sconsolata,
è la più munifica nel contribuire alle spese per la costruzione della Matrice:
oltre 100 onze. Ma essa è la nuova contessa di Racalmuto, a titolo personale:
il figlio Girolamo III riacquisterà la contea il 28 ottobre 1654, ma ne avrà il
diploma solo il 5 novembre 1655, previo pagamento di 200 onze e 29 tarì.
La posa in opera delle colonne della Matrice - quelle di cui
si parlava nella transazione con gli eredi di don Santo Agrò del 1642 - avverrà
nel marzo del 1655. L’iter dei lavori è seguito passo passo e studenti di
architettura potrebbero utilizzare i rolli della “Fabrica” per avvincenti tesi
sulle chiese del Seicento siciliano, quelle minori dell’entroterra contadino,
come Racalmuto.
Il Samaritamo muore il 6 gennaio 1664 a 66 anni. Gli atti
della Matrice riportano:
1664
SAMMARITANO Pompilio ARCHIPRESBITER 66
huius matricis Ecclesie
Viene
sepolto in Matrice, presente clero. Aveva avuto l’estrema unzione da P. Antonio
ord. S. Marie Carmeli.
Gli succede don Salvatore Petruzzella, finalmente un
racalmutese; ma vive poco: muore il 29 maggio 1666. Non ha il tempo per
lasciare tracce durevoli del suo apostolato.
E’ ora la volta dell’altro arciprete racalmutese: il dott.
sac. Vincenzo Lo Brutto e costui di tempo ce ne ha per lasciare un segno
profondo, al di là della lapide funerea che ancora è visibile nella cappella
centrale della navata laterale di sinistra (per chi entra) della Matrice. Vanta
un elmo chiomato, come se fosse stato un nobile milite: debolezza del nipote
che quella tomba volle.
Il vescovo agrigentino Sanchez - si pensi quale ofelimità
potesse legare uno spagnolo all’amaro vivere contadino di Racalmuto - regge la
diocesi dal 26 maggio 1653 sino alla sua morte (+ 4 gennaio 1657). Subentra
Franciscus Gisulpfus (Gisulfo) - dal 30 settembre 1658 sino alla morte (17
dicembre 1664); e poi Ignatius Amico ( 15 dicembre 1666 - + 15 dicembre 1668);
Franciscus Ioseph Crespos de Escobar (e ci risiamo con gli spagnoli) - 2 maggio
1672, + 17 maggio 1674. Finalmente un buon vescovo per una cattedra durata
vent’anni: Franciscus Maria Rini (Rhini) - 10 ottobre 1676, + 14 agosto 1696.
Chiude il secolo un vescovo nefasto: 26 agosto 1697 - + 27 agosto 1715 (fuori
Agrigento, essendone stato espulso dalle autorità civili per il suo
atteggiamento provocatorio scaturente dalla nota questione liparitana). Su tale
controversia ebbe a scrivere Sciascia. Il valore storico di quel pezzo teatrale
fu denegato da Santi Correnti: comunque, oltre al valore - indubbio - sotto il
profilo letterario, il testo sciasciano ci immerge nel clima politico e
sociale, ma anche religioso e morale di quel tempo. Fu davvero una iattura il
vezzo di preti e religiosi ruffianeggianti con Roma che negavano il sacramento
della confessione ai moribondi, sol perché operava un interdetto dovuto
all’incauto comportamento di alcuni catapani
che avevano tentato di applicare
l’imposta di consumo ad un munnieddu di ceci o di fagioli - non si è capito bene -
del vescovo di Lipari (nominato, pare, al solo scopo di provocare un incidente
per consentire al Papa di rimangiarsi la medievale concessione della Legazia
Apostolica).
Se, un moribondo -
ossessionato dalla sola paura dell’inferno per i suoi tremendi peccati - in
stato di semplice attrizione, dunque,
avesse chiesto un confessore e non l’avesse avuto per l’interdetto dei fagioli,
era destinato alla dannazione eterna? Certa intelligenza della curia
agrigentina forse è in grado di dare una risposta. Ci serve per giudicare i
tanti, troppi, nostri antenati che tra il 1713 ed il 29 settembre 1728 morirono
in tale ambasce a Racalmuto (cfr. registro dei morti della Matrice).
Annotava il canonico Mongitore - tanto sgradito a Sciascia -
«a 13 agosto 1713. Il vescovo di Girgenti D. Francesco Ramirez, d’ordine del
pontefice, dichiarò scomunicati alcuni regi ministri, che concorsero al
sequestro delli beni del vescovo di Catania.» E soggiungeva: «a 13 settembre.
Partì da Palermo D. Isidoro Navarro, canonico della cattedrale, delegato della
Monarchia, per levar l’interdetto dalla città e diocesi di Girgenti. Entrò egli
non da ecclesiastico, ma da capitano; e armata mano levò il vicario generale il
padre Pietro Attardo, come pure altro vicario Giuseppe Maria Rini, che mandò
altrove carcerati. Mandò lettera circolare per la diocesi, che s’aprissero le
chiese e non s’ubbidisse a detti vicarii.» Le carte della Matrice ci svelano
che il clero racalmutese rimase ligio ai dettami del vescovo Ramirez e snobbò
il canonico-capitano di Palermo. Più abile l’arciprete del tempo - Fabrizio
Signorino - che in cambio di una bolla della crociata (anche con effetto
retroattivo) poteva consentire cristiana sepoltura in chiesa: per i non
abbienti, pazienza, l’ultima dimora era quella all’aperto a li fossi. Solo che quelli erano tempi davvero calamitosi e
tantissimi nostri antenati morirono con la paura dell’al di là per un interdetto
che non capivano ( e di cui non avevano responsabilità alcuna) ed una sepoltura
dissacrata dal vento, dal sole e dai cani randagi.
Quelli che venivano sepolti in chiesa “gratis pro Deo”
godevano di particolari privilegi: ma gli altri - la gran parte come si è visto
- finivano sepolti all’aperto, anche se ‘prope ecclesiam’ (vicino, ma non
dentro); per di più i loro parenti erano talmente poveri da non potere dare
l’elemosina o il c.d. diritto di stola all’immalinconito cappellano che
accompagnava il feretro in quel derelitto cimitero incustodito. “gratis, pro
Deo”, la formula latina, che era comunque un parlare e scrivere poco ... latino (nell’accezione sciasciana).
L’arciprete Lo Brutto fu in eccellenti rapporto col vescovo
Rini: si fece elevare a chiese “sacramentali” S.Anna, S. Michele Arcangelo, il
Monte. E’ consultabile la bolla di
elevazione della chiesa di S. Anna in chiesa “sacramentale”. Del tutto analoghe
sono le altre, come quella: Datis Agrigenti die 17 Junii 1686 - fr.
Franciscus Maria Episcopus Agrigentinus - Can Lumia Ass. - Vincentius Calafato
M.r notarius.
Del pari fece autorizzare l’istituzione della speciale
congregazione dei Filippini a Racalmuto, di cui parla il padre Morreale, ed al
presente oggetto di studio da parte del prof. Giuseppe Nalbone. Costituisce la
Comunia e ne fa nominare i mansionari.
Contro la devastante peste del 1671 nulla poté fare il
povero arciprete racalmutese della fine del Seicento, se non annotare in bella
calligrafia la iattura capitata tra capo e collo; e fu iattura per tanti versi: da quello
economico a quello sociale; da quello dell’umano vivere a quello del decomporsi
morale e spirituale; per il clero con tanti fedeli in meno e quindi tante
primizie assottigliate, per l’arciprete stesso, il cui gregge veniva
drasticamente ridimensionato; per l’Universitas che non sapeva dove andare a
racimolare le onze occorrenti, essendosi assottigliata la tassa del macinato
per morte di un quarto della popolazione in un anno; per i suoi giurati che
rispondevano dei tributi alla Spagna con la clausola “solve et repete”; per il
neo conte Girolamo III del Carretto, salassato dal re per il tradimento del
padre Giovanni V del Carretto, dalla mala gestione dei suoi antenati che non pagando i debiti di
“paragio” erano finiti sotto la mannaia delle condanne giudiziarie al pagamento
degli arretrati e della capitalizzazione degli interessi di mora relativi; ed
in più una sortita beffarda dell’uterina virago donna Aldonza del Carretto e
delle sue similissime sorelle, aveva finito con il dare in pasto allo spietato
convento di S. Rosalia di Palermo gran parte del patrimonio dei conti di
Racalmuto (come abbiamo già raccontato).
Girolamo
III del Carretto, esasperato, si rivalse sui ricchi preti di Racalmuto - su
quelli poveri, che erano tanti, nulla poteva: a sua chiamata finiscono sotto il
torchio della giustizia palermitana.
Girolamo
III del Carretto sembrò benevolo verso la locale Chiesa quando fece venire i
padri Benefratelli perché accudissero presso S. Giovanni di Dio ai malati di
Racalmuto e li dotò: ma a ben guardare si limitò ad assegnare loro le vecchie
rendite del vetusto ospedale racalmutese, la cui memoria si perdeva nella notte
dei tempi. Forse non si astenne dall’incamerare alcuni lasciti che a suo avviso
erano di dubbia origine.
Girolamo III aveva contratto matrimonio con una Lanza di
Mussomeli, di cui parla il Sorge nel suo studio su quella cittadina. Era una
Lanza decrepita per anni che riesce a partorire il figlio maschio Giuseppe,
quello che premuore al padre, ed una figlia femmina i cui discendenti dopo un
secolo consentono ai Requisenz di impossessarsi dell’ormai esausta contea di Racalmuto.
Quanto
fosse addolorato l’ancor possente marito non sappiamo: di certo, passò subito a
nuove nozze. Per il momento non sappiamo fare altro che dare la parola al
Villabianca per la prosecuzione della storia di Girolamo e Giuseppe del
Carretto:
GIROLAMO del CARRETTO e BRANCIFORTE,
investito a 15. Agosto 1656, Fu questi Maestro del Campo nella guerra di
Messina e sostenendo tale carica prese il Casal di Soccorso, avendo difeso
coraggiosamente SAMMICI da' Colli di Valdina, ed impedì lo sbarco de' Franzesi
presso Melazzo (c) [AURIA Cron. f. 211], onde poi insieme fu
eletto Vicario Generale nella Città di Noto, di Girgenti, Licata e Caltagirone.
Fu Pretore di Palermo nel 1682, Diputato di questo Regno, e gentiluomo di
camera del Ser.mo Rè Carlo II. pubblicato a 10. Agosto 1688 (e) [AURIA Cron. f. 211]. Sposo nelle prime sue nozze MELCHIORRA LANZA e MONCADA figlia di LORENZO C. di Sommatino, e
poscia ebbe in moglie COSTANZA di AMATO ed AGLIATA, figlia di ANTONIO P. di
GALATI. Dal primo suo letto coniugale venne alla luce GIUSEPPE del CARRETTO e LANZA.»
L’arciprete
Lo Brutto morì il cinque febbraio del 1696. Risale al 20 settembre 1699 una relatio ad limina del Vescovo di
Agrigento (e cioè una delle relazioni triennali che i vescovi erano tenuti a
fare alla Sede Apostolica dopo il Concilio di Trento sullo stato della propria
diocesi). Là troviamo un ampio
ragguaglio sulla vita religiosa di Racalmuto e val la pena di richiamarla
consentendoci un quadro di raffronto con quanto emerso dalla documentazione degli archivi statali.
''RECALMUTUM
- Cittadina (oppidum) di cinquemila abitanti sotto la cura di un arciprete, la
cui elezione ed istituzione sono da tanto tempo di diritto comune. Costui ha
per il proprio sostentamento quasi duecento scudi. Nella chiesa maggiore si
recitano quotidianamente le 'hore canonice' da parte di sacerdoti vestiti con paramenti canonicali
(Almutiis insigniti). Vi sono cinque conventi di religiosi:
- dei
Carmelitani, con tre sacerdoti e due laici;
- dei
Minori Conventuali, con tre sacerdoti e un laico;
- dei
Minori di Regolare Osservanza, con 4 sacerdoti e 3 laici;
- dei
Riformati di S. Agostino con tre sacerdoti e due laici;
- una casa
addetta ad ospedale in cui stanno i frati di S. Giovanni di Dio, al momento un
sacerdote e due laici.
Reputo qui di rappresentare che questi
religiosi, dopo avere accettato di accudire
all'ospedale, non hanno giammai pensato di rinunciare all'istituto
ospedaliero, e ne hanno percepito il reddito dell'ospedale. Ed essendo esenti
dalla giurisdizione del vescovo ordinario, non vi sono forze per
costringerli a rinunciare ai proventi o
a lasciare i locali del convento.
Sorge un
monastero di monache sotto la regola del terzo ordine di San Francesco ove
servono il Signore otto professe corali; due novizie e 5 converse.
Oltre alla
chiesa maggiore ed a quelle conventuali prima segnalate, vi sono quindici
chiese, con quarantasette sacerdoti e trentasei laici.''
Sul
vescovo Ramirez non è poca la letteratura - e noi ne abbiamo fatto sopra vari
riferimenti. Ma qualunque sia il giudizio su questo presule, una sua pagina è
profonda ed illuminante. Vi si scorgono le scaturigini della mafia.
GIUSEPPE I
DEL CARRETTO
Continuiamo
Con il Villabianca: « Videsi questo nell'onorato impiego di Capitano di Palermo
nel 1698, e premorendo al padre senza figli fece estinguere nella sua persona
la Famiglia illustrissima del CARRETTO de' Signori di SAVONA, che prendendo
origine Reale, stimavasi una delle più cospicue Prosapie di questo Regno (f) [Caso di Sciacca del SAVASTA cap. 15. f. 43]. Fu sua moglie BRIGIDA SCHITTINI e GALLETTI figlia di Gio: Battista primo M. di S. ELIA, la quale per il credito della
sua dote avvalorato da una sentenza proferita dalla R. G. Corte nel 1711.
pigliò possesso di questo Stato, e insieme di questo Titolo a 10. luglio 1716.
Venendo essa a morte succedette in questi feudi sua sorella OLIVA SCHITTINI e GALLETTI maritata a
Giacomo P. Lanza, il di cui figlio
ANTONINO LANZA e SCHITTINI se ne investì a 26. Agosto 1739.
Questi vive attuale P. Ventimiglia, P. Lanza, B. dello Stato di Calamigna,
etc.»
Don
Giuseppe del Carretto riceve l’investitura di Racalmuto il 21 marzo del 1687 « ob donationem inrevocabiliter inter vivos
sibi factam per illustrem d. Hieronymum del Carretto eius patrem vigore
donationis per acta notarii predicti de Cafora et Tagliaferro die 17 maij X
ind. 1687 sicuti depositione dicti ill.is d. Hieronymi constat per investituram
per eum captam olim die 16 septembris V ind. 1666.»
E’
costretto a ripetere il rito per la morte di Carlo II il 20 gennaio 1702. Altre
spese. Altri dissi con il padre che risulta ancora vivo. Nella documentazione
palermitana abbiamo:
«Si può
passare l'investitura per la presente possessione tantum ob mortem Caroli
Secundi regis Domini nostri in Palermo a 20 gennaro 1702 - Don Giuseppe
Bruno.»
Giuseppe
del Carretto nel 1702 è plurititolato;
questa la
sfilza dei suoi feudi e titoli:
Die decimo nono Januarii X ind. 1702
illustris d. Joseph del Carretto possessor ac dominus
comitatus Racalmuti ducatus Bideni Marchionatus Sanctae Eliae et baroniae
terrae Ferulae.
Il padre
don Girolamo III risulta ancora vivo a quella data del gennaio 1702. Se è vero
che il figlio gli premorì, tale morte avvenne tra questa data e qualche tempo
prima del 1711, quando ad avviso del Villabianca fu pronunciata la sentenza di
assegnazione della contea di Racalmuto alla vedova di Giuseppe I del Carretto,
BRIGIDA SCHITTINI e GALLETTI figlia di Gio: Battista primo M. di S. ELIA.
Girolamo
III del Carretto cessava di vivere il 9 marzo 1710. In un documento del fondo
Palagonia riguardante don Luigi Gaetano si parla infatti «de morte sequuta dicti ill.s D. Hieronymi per fidem mortis Parochialis
Ecclesiae Sancti Nicolaj de Calsa h. u. sub die nono martij 1710 sicuti de
possessione dicti quondam ill.s d. Hieronymi constat per investituram per eum
captam olim die 16 septembris 5 ind. 1666.»
I nobili
del Carretto cessano quindi di essere i feudatari di Racalmuto il 9 marzo del
1710. Con tale data si chiude anche la nostra ricostruzione della vicenda
feudale carrettesca in quel di Racalmuto. Quel che avviene dopo - e dura un
secolo - è storia del baronaggio locale con gli Schettini, i Gaetano (la
parentesi Macaluso non rileva) ed i Requisenz protagonisti. I nobili del
Carretto racalmutesi - quanto al ramo
maschile - si sono piuttosto malinconicamente estinti, prima dei grandi
sconvolgimenti storici del 1713 allorché vi fu il breve avvento in Sicilia dei
Sabaudi.
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