Ma davvero il Comune non potrebbe manco pubblicare questa mia breve sinossi archeologica e della più antica storia del paese, magari corredata da belle pertinenti foto per farsi pubblicità turistica?
BREVE SINOSSI ARCHIVISTICA ARCHEOLOGICA E BIBLIOGRAFICA
Il nostro interesse per la storia di Racalmuto ebbe inizio allo spirare degli anni ’Settanta ed esordimmo con alcune ricerche presso l’Archivio Segreto Vaticano. Consultando le “relationes ad Limina” dei vescovi agrigentini, c’imbattemmo immediatamente nella questione della tassazione ecclesiastica di Racalmuto. Ne trattava il vescovo spagnolo Orozco Covarruvias nell’agosto del 1598: in una tabella figurava l’arcipretato racalmutese con proventi di ben 250 once annue ([19]). Le ricerche d’archivio vennero, quindi, allargate ai libri e rolli della Matrice e da qui ai fondi degli archivi di Stato di Palermo, Roma ed Agrigento, nonché a quelli della Curia Vescovile di Agrigento. Il materiale acquisito ci ha portato ad abbozzare una prima ricostruzione storica della natia Racalmuto, che col passare degli anni si è via via modificata, aggiustata, integrata, corretta, riformulata. Una fatica di Sisifo! Nello scrivere queste note iniziamo con una versione che ci accingiamo a sunteggiare. Alla fine dello scritto, la nostra narrazione apparirà invero già modificata. Non ce ne voglia l’eventuale lettore.
La primordiale presenza umana potrebbe venire attestata dalla grotta di Fra Diego che ci riporta sino ai tempi dell’uomo di Cro-Magnon (30 mila anni fa) ([20]). Ma sono i Sicani quelli che per primi consolidarono il loro insediamento nelle plaghe del nostro altipiano: le tombe a forno che suggestivamente fanno da corona alla grotta di Fra Diego sono la palpabile testimonianza di quella civiltà preistorica risalente a quattro mila anni fa.
Nel 1880, nel corso dei lavori per la costruzione della ferrovia Licata-Porto Empedocle, si rinvenivano nel territorio di Racalmuto, a 10 km. da Canicattì, altre tombe a forno con corredi di ceramica del secondo millennio a. C., sufficientemente investigati dagli archeologi dell’Ottocento. Purtroppo, successive indolenze impediscono tuttora la seria conoscenza della ricca e peculiare archeologia racalmutese.
Casuali rinvenimenti di monete greche (con il granchio agrigentino o col cavallo alato siracusano) comprovano presenze siciliote nella zona di Casalvecchio-Grotticelle.
L’iscrizione latina in una “diota” della Roma repubblicana rievoca un intenso commercio vinario di quel tempo ad opera di un mercante della “Famiglia” dei “Fuscus”.
Fa spicco una serie di “tegulae sulphuris” (gàvite) rinvenute in varie località di Racalmuto, una delle quali documenta l’esistenza di miniere di zolfo nei pressi di Santa Maria durante l’impero di Comodo (180-190 d.C.), come si avventò a dire il Salinas.
Per Biagio Pace, le Grotticelle sarebbero un ipogeo cristiano e l’importante ritrovamento di un tesoretto di monete bizantine del VI-VII secolo d. C. nella contrada della Montagna contrassegna un’operosa presenza cristiana sin dagli albori della diffusione del verbo di Cristo in Sicilia.
Ultimamente sono affiorate “strutture murarie abitative” molto latamente riferite ad “epoca ellenistica-romano-imperiale” nella zona di Grotticelle il cui studio è rinviato al tempo in cui i “programmi dei BB.CC. di Agrigento” potranno snodarsi “con maggiore continuità”.
La pagina più buia della storia di Racalmuto è quella del dominio arabo. Può dirsi una storia quasi trisecolare completamente oscurata.
Di certo sappiamo che, caduta Agrigento attorno all’ 829 in mano dei Musulmani, quella che dovette essere la popolazione bizantina sparsa per il territorio racalmutese finì sotto il dominio arabo. Di sicuro, verso l’840 i nuovi e più stabili padroni furono i Berberi, gente della famiglia camitica della stessa schiatta dei moderni marocchini. Distrussero costoro religione, usi, costumi, tradizioni, cultura, superstizioni dei nostri progenitori racalmutesi di lingua greca? Noi pensiamo di no.
Pochi, di religione non missionaria, necessitanti di imposte a carico dei ‘rum’ (romani o cristiani che dir si voglia), alieni da commistioni ed in un certo senso razzisti, non avevano alcun interesse a consumare genocidi nella nostra landa o a imporre il loro modo di essere maomettani a quelli cui quella ‘grazia’ non era stata concessa, perché militarmente sconfitti. Allah non poteva essere anche il Dio dei vinti. Ed i vinti servivano - come in ogni tempo - per lo sfruttamento, per il discrimine sociale, per il supporto schiavistico su cui, in modo mascherato e variegato, si radicano le leggi della economia.
Così poté esservi convivenza tra le due religioni e i due popoli, anche se mancano testimonianze per comprovarlo. Ma non ve ne sono neppure di segno contrario. Propendiamo a credere che gli indigeni bizantini di Racalmuto rimasero sul luogo al tempo della conquista saracena; essi continuarono a coltivare grano e vite nelle zone alte del territorio. I vincitori, intere famiglie di coloni, si assestarono nelle valli, vicino alle fonti d'acqua della Fontana, del Raffo ed anche di Garamoli e della Menta, in zone appunto propizie alle loro colture d'ortaggi, in cui erano maestri e che i rum (i cristiani) ignoravano. Dai rum, l'emiro di Girgenti esigeva la tassa capitaria della Gezia, il soldo per mantenere il culto dei Padri e la fedeltà alla propria religione.
Forse semplici congetture, ma ci appaiono fondate: i Berberi, insediatisi da noi, introdussero sistemi di coltivazione degli ortaggi alla stregua di quanto avviene ancor oggi. Certi autori riportati dall'Amari descrivono la coltura delle cipolle con porche e zanelle come tuttora si usa negli orti sotto l'attuale Fontana. ([21]). I secoli dal Nono all'Undicesimo sono sicuramente secoli di dominazione araba sull’intero altipiano di Racalmuto.
Un documento greco del 1178, che purtroppo non può riferirsi al nostro paese, diversamente da quello che sostiene l’autorevole Garufi, riporta un toponimo che richiama l’etimologia araba di Racalmuto: Rachal Chammoùt. Nulla però può ricavarsi che possa tornare utile alla storia (quella veridica) del paese agrigentino.
Per quanto buia sia la pagina araba racalmutese, arabo è indubitatamente il toponimo. Già nel XVI secolo il colto Fazello attestava l’origine saracena di Racalmuto. «Castello saraceno - lo definiva - dove è una Rocca edificata da Federico Chiaramonte». Più in là non andava. Tra il 1757 e il 1760, il monaco benedettino Vito Maria Amico, nel suo “Lexicon topographicum siculum” rivestiva purtroppo di patina scientifica la funerea etimologia di paese “diruto, morto” e simili. L’avv. Giuseppe Picone accenna ad una derivazione da due termini arabi: Rahal (‘villaggio’ e sin qui correttamente) e Maut (‘della morte’ e qua invece arbitrariamente). Il nostro Tinebra Martorana, con fervore giovanile, vi correva dietro. Leonardo Sciascia, ovviamente poco incline alle pignolerie etimologiche, vi dava plurimo ed autorevolissimo avallo.
Diviene difficile per chicchessia procedere ora alle debite rettifiche. Vi tentò, ma flebilmente, il compaesano gesuita padre Antonio Parisi: «... emerge la probabilità, se non la certezza - scrive il dotto gesuita - che fosse stato un Hamud [...] a dare il nome all’abitato. Rahal, pronunziato Rakal [ ...]; Hamud, pronunziato Kamud o Kamut [...] dava Rakal-kamut; ed a togliere la cacofonia si soppresse il secondo “ka” e rimase “Rakal-mut” = Ralmanuto!».
Con la sua indiscussa autorità, il Garufi debella la fantasiosa etimologia di Racalmuto quale lugubre “Paese dei Morti”, come si è potuto vedere in precedenza. Va detto che la lezione del Garufi, purtroppo, non è stata recepita dai moderni storici alla Henri Bresc. Un grandissimo arabista contemporaneo si è data la briga di riesaminare il toponimo. Non accetta la versione tradizionale. E ci dà una nuovissima lettura: Racalmuto quale ‘paese del moggio’. ([22]) Per il grande arabista, infatti, il paese: «deriva dall'arabo Rahl al Mudd = uguale Casalis Modi (Cusa 24, 25 e 221) 'sosta, casale’ del Mudd <latino modium 'Moggio’». "Paisi di lu Munnieddu", dunque, alla siciliana. Ma di modii e mondelli Racalmuto non ha la configurazione. L'immagine potrebbe valere per il vicino monte “Formaggio” di Sutera. Del resto, può escludersi qualsiasi vecchio fonema che suoni simile a Racalmuddo o Racalmullo ed analoghi. Comunque sia, almeno niente più accenni mortuari che ci tornano infausti. E’, dunque, un passo avanti.
Dipanata in qualche modo la questione del significato, nasce quella del periodo in cui si ebbe ad affermare quel nome arabo. Fu durante il periodo della dominazione berbera, come propende il p. Antonio Parisi? O va spostato nei tempi immediatamente successivi alla caduta dell’Emiro di Girgenti, Hamùd (25 luglio del 1087), oppure si collega alla signoria di uno degli emiri di Naro, come noi siamo inclini a credere? Mancano dati ed elementi per aggrapparsi ad una di queste ipotesi.
La conquista da parte di Ruggero il Normanno del territorio agrigentino, nella primavera del 1087, non pare abbia trovato un Racalmuto popoloso e prospero.
Un piccolo barlume potremmo forse trovarlo nelle cronache del Malaterra. Facendo anche noi ricorso alle congetture, una volta propendevamo ad identificare Racalmuto in un toponimo, evidentemente corrotto nelle tante trascrizioni del testo malaterrano, che si rifà ad un impreciso “Racel....”. Goffredo Malaterra fu un cronista normanno dell’XI secolo. Il manoscritto malaterrano che fu trafugato dall'Italia dallo spagnolo Zurrita, fu pubblicato a Saragozza nel 1578. Del manoscritto originale si sono perse le tracce. Michele Amari ovviamente se ne serve e riduce in Rahl il Racel che si trova nel punto in cui si parla della conquista dell’agrigentino e che potrebbe riguardare proprio il nostro paese: Racalmuto.
In effetti il Malaterra parla di undici castelli nei dintorni di Agrigento conquistati dal conte Ruggero «.. Platonum, Missar, Guastaliella, Sutera, Racel .., Bifar, Muclofe, Naru, Calatenixet, [che nella nostra lingua significa “Villaggio delle donne”], Licata, Remunisce». Tra Sutera. Bifara, Milocca, Naro e Caltanissetta, quell’incompleto “Racel....” potrebbe essere proprio Racalmuto. Ma il limite di mera congettura, resta.
Incrostano le origini di Racalmuto due falsi storici, peraltro in contrasto fra loro. Da un lato, si indica Racalmuto insediato a Casalvecchio con questo improbabile nome in lingua volgare sin dai tempi post-arabi; dall’altro, si vuole il centro sito nei pressi di Santa Maria per volontà di Roberto Malconvenant, sin dal 1108.
L’Assessorato Turismo Comunicazioni e Trasporti della Regione Sicilia nel n.° 39 del 22 dicembre 1991 de “L’Amico del Popolo” si reputa in grado di affermare: «Distrutto Casalvecchio, come riferisce Michele Amari, il nuovo centro abitato venne spostato di alcuni chilometri e dagli Arabi venne denominato Rahal Maut...». Il passo dell’Amari non è citato ed è quindi impossibile accertarne la correttezza del richiamo letterario. Noi crediamo che ci si riferisca alla Storia dei Musulmani, vol. II, pag. 64. Là si parla, invero, di Castel Vecchio ma è località a quattro miglia da Agrigento, in arabo chiamata Raqqâdah (Sonnolenta). Comunque la si giri, non mi sembra proprio che Racalmuto c’entri proprio. Ritrovamenti archeologici provano magari insediamenti greci e romani in quelle parti. Nulla di arabo finora è emerso. Men che meno reperti attestanti presenze abitative collocabili nel Basso Medio-Evo. L’arcidiacono Bertrando Du Mazel, che ebbe a fare censimenti nel 1375 (29 marzo) proprio a Racalmuto, nella documentazione rimessa ad Avignone, attesta l’esistenza di un centro abitato (appena 136 “fuochi” in case per la gran parte coperte di paglia) che appaiono sparse nei dintorni della fortezza, denominata “lu Cannuni”.
L’altro falso è l’erezione di una chiesa nel 1108 là dove oggi stanno i ruderi di Santa Maria di Gesù, su cui già abbiamo fornito accenni.
Del tutto singolare è l’assoluta assenza di una qualsiasi località chiamata Racalmuto nelle più antiche carte capitolari del vescovado di Agrigento per il periodo che va dal 1092 al 1282. Si suol dire che il silenzio nella storia equivale al nulla. In questo caso, però, si deve ammettere che per un paio di secoli Racalmuto non fu tributario in modo esplicito della potente curia agrigentina, né ebbe a pagare censi, canoni e livelli agli ingordi canonici del capitolo della cattedrale di San Gerlando. Basta scorrerle, quelle carte, per rendersi conto di quanto fiscali fossero il prelato e la sua corte agrigentina sin dal tempo in cui Ruggero il Normanno istituì - o si pensò che avesse istituito - quella diocesi affidandola al santo, o santificato, consanguineo di Bretagna: Gregorio, uomo di bell’aspetto e di copiosa dottrina, secondo quel che vogliono le cronache. Se nessuna terra delle pertinenze agrigentine, che si richiami ad un toponimo che magari vagamente rassomigli a Racalmuto, figura trubutaria in quel periodo, ciò lascia intendere che non esisteva, almeno come centro organizzato suscettibile di imposizione.
Entriamo, ora, nella storia documentata di Racalmuto.
Nei primi decenni del XIII secolo, riusciva ad impossessarsi di Racalmuto tal Federico Musca. Questi tradisce al tempo di Carlo d’Angiò e costui lo priva del dominio di Racalmuto nel 1271 per conferirlo a Pietro Nigrello di Bellomonte (vedi quanto segnalato prima.)
La signoria di tal uomo della corte napoletana durò però poco e, nel corso del Vespro, Racalmuto appare un comune autonomo, retto da sindaci e chiamato ad un contributo di uomini in armi.
I primi cenni sulla comunità religiosa di Racalmuto risalgono alle decime avignonesi del 1308 e 1310. Nell'abitato vi erano almeno due chiese: quella parrocchiale retta dal p. Angelo di Montecaveoso, e quella forse conventuale dedicata alla Vergine Maria, i cui carichi tributari ricadevano su un tal Martuzio Sifolone (divenuto poi il moderno Scicolone?).
Altra pagina storica insieme civile e religiosa è quella rinvenibile negli archivi avignonesi dell'Archivio Segreto Vaticano sulla presenza a Racalmuto dell'arcidiacono Bertrando du Mazel per numerare i fuochi, stabilirne la capacità contributiva e raccoglierne l'imposta per togliere l'interdetto che si originava dalla rivolta del Vespro. Era l'anno 1375.
Allora Racalmuto doveva essere un piccolo centro agricolo con non più di 800 abitanti. Nell'archivio vaticano è reperibile il resoconto delle collette redatto dall'arcidiacono du Mazel. Trattavasi di un sussidio che andava ripartito in ciascun abitato per case, in rapporto alle condizioni economiche: 1 tarì per le famiglie più povere, 2 per le 'mediocri', 3 per le agiate e cioè 'qualsiasi fuoco di ricchi abbondanti in facoltà' ([23]). Il 29 marzo del 1375, il pio collettore (o suoi emissari) giungeva a Racalmuto e trovatovi 136 fuochi raccoglieva il 'sussidio' e scioglieva l'interdetto ([24]). Dato che per ogni fuoco è calcolabile un nucleo familiare medio di 4-5 persone, ne deriva una popolazione di circa 610 abitanti, aumentabile sino a 7-800 se pensiamo ad evasori o a soggetti resisi irreperibili. In un secolo e tre quarti - dal 1375 al 1548, la popolazione di Racalmuto - se le nostre congetture e i dati del Tinebra Martorana vengono accettati - si sarebbe accresciuta di quasi tre volte e mezzo. Nel successivo eguale lasso di tempo, la crescita si è invece limitata solo al 48,32%, che in ogni caso è tasso di sviluppo normale.
Che cosa sia avvenuto tra il 1375, quando Racalmuto era una modesta terra del potente Manfredi Chiaramonte, e la metà del XVI secolo non è chiaro. Il salto nell'intensità abitativa testimonia comunque un massiccio afflusso di forestieri.
Abbiamo motivo di ritenere che tanti sono giunti dalle terre marine vicine, fuggiti per la paura dei pirati. L'improvviso sviluppo della coltura granaria ha esaltato il fenomeno della immigrazione intensiva. I tanti La Licata sembrano convalidare la prima ipotesi. I molti cognomi di paesi e terre del circondario scandiscono la provenienza di numerosi agricoltori accorsi nei feudi racalmutesi.
Tanti immigrati nel campo dei mestieri, ma ancor più in quello delle mansioni pubbliche, acquisiscono come cognome di famiglia la peculiare attività o funzione svolta. I non pochi Xortino denunciano l'antica carica di maestri di xurta. I maestri xurteri erano al tempo di Carlo d'Angiò i sopraintendenti alla sicurezza notturna. Se ne riscontra traccia in documenti del 1270 e se ne ha conferma nel 1282-1283 sotto Pietro d'Aragona.
Non è racalmutese il 'segreto' addetto alle gabelle, il magnifico Jacomo Piamontisi: il cognome - e l'incarico - lo denunciano straniero. Il 'segreto' era l'esattore dei dazi e delle gabelle ed era denominazione che risaliva al 1296.
Per avere un nome saraceno, Racalmuto dichiara nel XVI secolo pochi abitanti con nome di derivazione araba. Se ci limitiamo ai Macaluso, Taibi, Alaimo e simili, possiamo calcolare in meno di 150 gli abitanti di origine forse musulmana (su 2215 desunti dai registri della seconda metà del XVI secolo, circa il 6,68%). Forse tanti saraceni, convertitisi per convinzione o per convenienza, si sono mimetizzati assumendo cognomi oltremodo latineggianti. Lo stesso dovette verificarsi per gli ebrei. Costoro, dopo la cacciata da parte della regina Isabella nel 1492 ([25]) o sparirono del tutto a Racalmuto o seppero bene occultarsi: nei nostri dati di archivio, a partire da 50 anni dopo, troviamo un solo nominativo sospetto (Salamuni, cfr. atto di matrimonio dell'8 gennaio 1584 con Contissa vedova Magaluso) che per giunta proviene da Grotte.
Tra la borghesia cinquecentesca non vi è neppur traccia di quelle grandi famiglie che hanno dominato nell'ottocento. Né baroni come i Tulumello, né gentiluomini come i Messana, i Matrona, i Farrauto, i Picataggi, etc. I maggiorenti di allora quali i D'Amella, i La Lomia, gli Ugo, i Piamontisi ed altri si sono dopo volatizzati: alcuni loro eredi prosperano oggi, ad esempio, a Canicattì.
Verso la fine del 500, giungono a Racalmuto 'mastri' che vi attecchiranno ed oggi i loro discendenti costituiscono nuclei cittadini onorati e di larga diffusione. Savatteri, Buscemi, Schillaci, Rizzo, Bongiorno, Chiazza, sono fra questi, per fare solo alcuni esempi.
Il quattordicesimo secolo vede i Carretto impossessarsi, prima, e padroneggiare, dopo, la Terra di Racalmuto. Come questa famiglia genovese (o di Finale Ligure) si sia impadronita di tale casale con castello, facendone un personale feudo con mero e misto impero, è mistero ancor oggi non dipanato. Vi fu al tempo del figlio di Matteo del Carretto - all'inizio del secolo XV - una necessità difensiva di fronte alle inchieste di Martino e, in parte fondatamente, in parte capziosamente, si fecero risalire al matrimonio di una Costanza Chiaramonte con Antonio del Carretto le origini della baronia di Racalmuto in capo a quella famiglia proveniente da Genova. In un atto - mezzo falso e mezzo vero del 13 aprile 1400 - abbiamo le ascendenze ed i titoli per la legittimazione baronale. Lasciamo qui agli araldici ed agli storici il compito di far luce sulla questione, che inquinata com'è nelle sue più antiche fonti, difficilmente potrà essere ora del tutto chiarita.
Quel che ci preme è sottolineare come proprio sotto Matteo del Carretto fu scritta e tramandata un'importante pagina di storia sacra locale. Al barone di Racalmuto si rivolgeva Re Martino per la traslazione del beneficio canonicale di S. Margaritella da un canonico fellone ad altro di Paternò, fedele alla causa degli aragonesi. Si era conclusa la triste vicenda della ribellione dei Chiaramonte - che pur dovevano essere legati da vincoli di sangue ai del Carretto - ed era stata domata la resistenza palermitana di Enrico Chiaramonte. Il re aragonese, tra l'altro, cominciò a metter mano alla riforma ecclesiastica. In un certo senso ne aveva diritto per quello strano istituto tutto siciliano e peculiare che fu la Legazia Apostolica. Per la liberazione dai saraceni da parte dei Normanni, il Papa aveva accordato ai regnanti di Sicilia una inconsueta rappresentanza religiosa in forza della quale il delegato del Pontefice anche in materia religiosa in Sicilia era proprio il re. E Martino ne approfittò per togliere e donare canonicati, prebende e riconoscimenti onorifici di natura ecclesiastica.
Anche Racalmuto, con il suo vetusto beneficio di S. Margaritella, entrò in questo aberrante gioco politico-religioso. Chiarisce bene la vicenda il documento che qui riportiamo in una nostra traduzione dal latino: «Martino etc. Al reverendo padre Gerardo de Fino arciprete della terra di Paternò, cappellano della nostra regia cappella, predicatore e familiare nostro devoto, grazia etc..
I lodevoli meriti delle vostre virtù ci inducono ad elevare la vostra persona agli onori ed ai grati riconoscimenti. ... e pertanto per l'autorità apostolica in ciò a noi sufficientemente accordata, [vi conferiamo] il canonicato di Santa Margherita di Racalmuto della diocesi di Agrigento con prebenda, redditi e i suoi debiti e consueti proventi - canonicato che si è reso vacante in atto per il nefando tradimento del prete Tommaso de Manglono, nostro ribelle al tempo della secessione contro le nostre benignità [ ... ]
Noi, infine, ci rivolgiamo e diamo mandato al nobile Matteo del Carretto barone di Racalmuto, nostro consigliere ed ai restanti ufficiali nonché alle altre persone del nostro regno che ci sono fedeli tanto presenti quanto future acciocché a voi ed ai vostri procuratori facciano rendere integralmente e pienamente la prebenda, i redditi con i consueti e dovuti proventi di pertinenza dello stesso canonicato, se desiderano e vogliono mantenere la nostra benevolenza.
Dato in Siracusa, l'anno del Signore, VII^ Ind. 1398..... Re Martino - »
Tanti collegano - come già detto - quella chiesa ad un diploma del 1108, ma ciò origina da una interessata tesi della curia agrigentina. Il beneficio può benissimo essere sorto a metà del XV secolo per accordo tra la curia vescovile ed i Chiaramonte, più verosimilmente Manfredi Chiaramonte, oppure per benevola concessione di quest'ultimo a peste cessata ed a suggello del concordato col Papa.
La presenza di ebrei a Racalmuto e la loro convivenza con la locale cristianità sono dati certi, ma non tanto per la contrada del Giudeo (Judì) o per il singolare nome di una lumaca (lu judiscu), quanto per quello che ci dicono i due fratelli Lagumina (di cui uno, Bartolomeo, è stato vescovo di Agrigento), nella loro monumentale opera sugli ebrei di Sicilia, prima della cacciata da parte di Isabella nel 1492.
Raccapricciante lo squarcio di cronaca nera che gli archivi palermitani ci hanno tramandato. Insieme, viene fornito uno spaccato degli usi e costumi racalmutesi in quel periodo. Era l'anno 1474 ed a Racalmuto veniva commesso un efferato crimine contro un ricco ebreo, dedito certamente all'usura.
«Il Vicere' Lop Ximen Durrea dà commissione ad Oliverio Raffa di recarsi a Racalmuto per punire coloro che uccisero il giudeo Sadia di Palermo, e di pubblicare un bando a Girgenti per la protezione di quei giudei.»
Quanto alla questione ebraica, va annotato che a Racalmuto non vi erano assetti significativamente organizzativi. Dobbiamo escludere che ci fossero sinagoghe o scuole. Gli ebrei locali potevano far capo alle comunità ben strutturate e legalmente riconosciute esistenti nella non lontana Agrigento. E tanto, poi, si dimostrò provvidenziale. Quando nel 1492, gli ebrei furono cacciati da Agrigento, a Racalmuto - secondo noi - essi, ignoti ufficialmente, poterono mimetizzarsi e sfuggire al tragico esodo. Certo, dovettero convertirsi e rinnegare la loro fede. E questo lo fecero senza grossi tentennamenti. Non abbiamo casi di marrani racalmutesi, finiti sotto l'Inquisizione. Quel non glorioso tribunale ebbe interesse soltanto per due racalmutesi, ma molto di là nel tempo: alla fine del Cinquecento coinvolgerà un Jacopo Damiano - di un notaio di tal nome abbiamo atti custoditi in Matrice - e a metà del Seicento si abbatterà sul povero fra Diego La Matina per ragioni non ben chiare e comunque non collimanti con quelle della blasfema canonizzazione celebrata da Leonardo Sciascia.
La tradizione colloca nell'anno 1503 la venuta a Racalmuto della Madonna del Monte. La pia leggenda è talmente scolpita nei cuori dei racalmutesi da impedire ogni ricerca storica che suonerebbe falsa ed irriguardosa. Noi quindi ce ne asteniamo. Facciamo nostra la seconda lezione dell'Officio sulla nostra miracolosa Madonna: «a Racalmuto, in Sicilia, - vi si recita in latino - da tempo immemorabile, un prodigioso simulacro troneggia nel magnifico tempio dedicato alla Madonna del Monte, Madre di Dio. Secondo una costante tradizione, la statua in nessun modo poté venire rimossa dal Monte, ove era giunta per una sosta su un carro rustico tirato da buoi, proveniente dal litorale agrigentino per essere condotta nella antica città di Castronuovo. E questo fu un mero portento.»
Francesco Vinci, in un una memoria del 1760, Don Nicolò Salvo, il padre Bonaventura Caroselli, Nicolò Tinebra Martorana, un anonimo nel 1913, Eugenio Napoleone Messana nel 1968, Leonardo Sciascia in una chiosa del 1982, ed altri che ci sfuggono hanno scritto sull'evento, quasi sempre con filiale devozione e con trepido attaccamento alla nativa terra di Racalmuto. Una mia personale ricerca tra vecchie carte che si custodivano in una stanza della casa che fu del canonico Mantione mi ha fatto imbattere in una pubblicazione del ‘700 cui assegnare la palma della più antica narrazione in versi della Vinuta di la Bedda Matri di lu Munti.
Nella visita pastorale del 1540 - la prima di cui si abbia notizia documentata - la gloriosa statua viene repertoriata con stile invero molto burocratico. Nell'Archivio vescovile di Agrigento si rinviene la relazione sulla visita fatta nel 1540 dai legati vescovili alla chiesa del Monte. Essa è chiesa non mediocre, con un corredo notevole. Non vi si scorge però nulla che possa richiamare alla mente un santuario prestigioso. In seconda battuta, come se si trattasse di cosa di scarsa importanza, l'irriguardoso ecclesiastico si limita ad inventariare il venerabile simulacro come «una figura di nostra donna di marmaro». Non ci si può però meravigliare: il culto della Madonna del Monte esplode solo a partire dai primi decenni del '700, dopo l'opera del p. Signorino.
Poco più che trisecolare risulta la vera signoria feudale che i Del Carretto ebbero a dispiegare su Racalmuto: dalla prima investitura baronale di Matteo del Carretto da parte di Martino d’Aragona, il giovane - che il Villabianca colloca nel 1392, il giorno 4 di giugno - sino alla malinconica scomparsa della grande famiglia dei conti di Racalmuto, databile 10 Luglio 1716, corrono infatti 324 anni.
Bisogna, invero, aggiungere un preludio quasi secolare di presenza dei Del Carretto (dal 1307, data del matrimonio tra Costanza Chiaramonte ed il marchese di Savona e Finale, Antonio del Carretto, sino all’investitura baronale di Matteo del Carretto), ma trattasi di ambigua signoria, malcerta e di sicuro intermittente, emergendo una egemonia sovraordinata della potente famiglia agrigentina dei Chiaramonte.
Il primo e vero storico della famiglia dei Del Carretto, baroni prima e conti dopo di Racalmuto, riteniamo essere l’arcigno Marchese di Villabianca con la sua diligente opera del 1759: prima di lui il Fazello, il Pirri, l’Inveges, il Mugnos, il Di Giovanni, il c.d. Muscia, il Barberi, il Ciacconio, il Crescenzi, il Barone, il Savasta ed il Sansovini, tutti costoro avevano mostrato interesse alle vicende dei Del Carretto, ma erano stati accenni qualche volta infelici, non sempre attendibili, in ogni caso incompleti. Quel signore settecentesco, reazionario e fieramente aristocratico e feudale, ci fornisce un quadro lucido, documentato ed appassionante - anche se lo stile è ovviamente arcaico - di quella che è stata la vicenda feudale della baronia e contea del nostro paese. Dopo il Villabianca, tanti si sono cimentati nella ricostruzione storica della pagina araldica dei Del Carretto, ma ci appaiono tutti tributari del nostro marchese e, sostanzialmente nulla aggiungono a quanto saputo, ove si eccettui una qualche nota critica. Così è sicuramente per la ponderosa opera del San Martino-Spucches.
Ebbe di certo tra le mani l’opera del Villabianca il racalmutese Tinebra-Martorana e vi razziò ingordamente: era, però, appena ventenne e non aveva né voglia né tendenza ad analisi critiche: qualche documento locale, come quello del sarcofago di Girolamo del Carretto o come quelli fornitigli maliziosamente dai Tulumello sul terraggio e terraggiolo da corrispondere a quei conti di Racalmuto, gli fu sufficiente per imbastire una storia non sempre precisa sulla signoria dei Del Carretto, la quale storia ebbe, a distanza di quasi un secolo, il non corrodibile avallo del grande Leonardo Sciascia.
Chi, da ultimo, si è industriato per recuperare alla memoria eventi certi del casato dei Del Carretto è stato il prof. Giuseppe Nalbone. Dall’8 aprile 1993 egli ha scandagliato gli archivi di stato di Palermo e la sua fatica è stata premiata con il rinvenimento di molteplici diplomi, privilegi e documenti che irradiano una vivida luce sulla storia dei Del Carretto e finalmente ce la restituiscono nel suo intenso ed obiettivo defluire. Poco o punto è il risultato rettificativo dell’opera del marchese di Villabianca, ma tanta è la portata esplicativa di istituti, interventi, ruoli, imposizioni, condizionamenti ed altro di una vicenda feudale trisecolare che investe l’essere ed il forgiarsi della vita civile e sociale dei nostri antenati racalmutesi. Riaffiorano nomi e cognomi di segreti, castellani, giurati, maestri notari, fiscali, capitani etc. Tanti di loro non hanno più eredi a Racalmuto, ma taluni sono invece ricollegabili a figure tipiche del grande teatro che tuttora persiste tra la gente del nostro altipiano.
Il diciottesimo secolo vede Racalmuto alla prese con gli eredi dei Del Carretto. Si ebbero varie controversie. Quella più celebre fu mossa prima dal Sac. Nicolò Figliola (luglio 1787) e successivamente dall’arciprete d. Stefano Campanella contro il “terraggio” ed il “terraggiolo”. La vertenza si chiuse il 28 settembre 1787 con sentenza liberatoria per i racalmutesi. Cadeva al contempo il “diritto del mero e misto impero” che l’erede dei del Carretto, il Requisenz, pretendeva ancora a danno degli abitanti della decaduta contea di Racalmuto.
Nell’Ottocento, ebbe l’abbrivo lo sfruttamento delle miniere di zolfo e del salgemma ed esplose un risvolto borghese che ancor oggi suscita consensi entusiastici o stroncature impietose.
Il Novecento - prima giolittiano, poi fascista e quindi, nel dopoguerra, contraddistinto dal vorticoso gioco delle alternanze democratiche - contrassegna eventi troppo prossimi per trattarli con il dovuto distacco storico.
GLI EVENTI RACALMUTESI PRIMA DEL 1271
Miocene [26]
(c.a. 25 milioni di anni fa)
Una sconfinata invasione di un particolare vibrione (il desulfovibrio desulsuricans) si spande sull’intero altipiano di Racalmuto; per un singolare processo chimico (nutrendosi il vibrione di petrolio grezzo e rubando ossigeno al solfato di calcio dà luogo ad idrogeno solforato ed attraverso una normale ossidazione si trasforma in zolfo) si hanno le sedimentazioni solfifere racalmutesi.
Pliocene[27]
(c.a. 7 milioni di anno fa)
Si concludono le regressioni di acqua marina e si definisce l’attuale facies del territorio di Racalmuto.
XXX millenio a. C.
Se qualche homo sapiens sapiens (del tipo di Cro-Magnon) ebbe a stanziarsi a Racalmuto, non poté trovare migliore dimora della grotta di Fra Diego.
II millenio a. C.
I sicani si stabiliscono e prosperano in varie plaghe dell’Altipiano. come attestano le tombe a forno attorno alla cennata grotta o quelle disseminate dal Castelluccio sin ad Est, nei pressi della Stazione ferroviaria di Castrofilippo.
XIII a. C.
Decade la civiltà sicana nelle nostre terre, mentre prospera quella d’influsso miceneo di Milena e S. Angelo Muxaro e zone limitrofe.
581 a. C.
I Geloi vanno a fondare Agrigento, ma percorrendo un itinerario del lungo costa con centro Licata ed evitando le impervie zone dell’interno. L’Altipiano racalmutese, desertico ed impraticabile, non viene per vario tempo acquisito alla colonizzazione ellena.
Secc. V, IV e III a. C.
La presenza greca è variamente avvertita, ma non è tale da far pensare a qualche rilevante centro. Abbiamo solo sporadiche testimonianze numismatiche.
210 a.c.
Sotto il console Levino, Agrigento cade definitivamente sotto il dominio di Roma: Racalmuto ne segue le sorti.
70 a.c.
Cicerone fa un viaggio in Sicilia per preparare la sua celeberrima accusa contro Verre: il territorio di Racalmuto non figura visitato. Qui, però, è da tempo che vengono riscosse le decime sul grano, sul vino e su quant’altro. Una diota , rinvenuta nel XVIII secolo, dimostra come un tal Fusco praticasse l’incetta del vino destinato a Roma.
180 d.C.
Un contadino rinviene a S. Maria una “gavita” che secondo il Salinas si riferisce al 180 d.C., al tempo di Commodo: è un’importante testimonianza dello sfruttamento delle miniere solfifere di Racalmuto da parte di Roma imperiale.
Sino al IV sec. d.C
Ferve un’operosa presenza di officinae, conductores e, quindi, di mancipes in quel di Racalmuto, con centro abitato gravitante più verso l’area del Castello che verso Casalvecchio.
Dopo il IV sec. d.C.
Uno spostamento del centro abitativo in contrada Grotticelli, è per tanti versi attestato. La fine dell’industria estrattiva e la desolazione che ebbe a determinare il terremoto che devastò l’Isola nel 365 d. C. spinsero, probabilmente, a questo cambiamento abitativo.
V e VI sec. d. C.
Scarse sono le conoscenze che si hanno per questo periodo in tema della più generale storia della Sicilia. Se l’Isola fu occupata dai Vandali, a Racalmuto un qualche sentore ebbe ad aversi. Di certo, quando Genserico fu sconfitto ad Agrigento da Ricimero, conseguenze di quella guerra ebbero a ricadere sull’economia agricola di Racalmuto. I Vandali dopo il 463 riescono, in qualche modo, a prendere possesso della Sicilia e la soggiogano sino all’anno in cui, caduto l’impero romano d’Occidente (476), Genserico la restituisce ad Odoacre: vicende queste riflessesi sulla plaga racalmutese con incidenze e modalità sinora del tutto ignote.
La Sicilia passa quindi, nel 491, ai Goti. Si è certi di un buon governo da parte di Teodorico. Per i coloni di Racalmuto che cosa potesse significare tutto ciò va affidato a congetture più o meno fantasiose, in mancanza di fonti, non solo documentali, ma neppure archeologiche.
Il rivolto storico dei Goti a Racalmuto persiste sino al 535, allorché Belisario riesce a congiungere l’isola all’Impero d’Oriente: inizia la civiltà bizantina racalmutese che ebbe incidenze ben più rilevanti di quelle arabe, non foss’altro perché durò di più (quasi tre secoli contro i due e mezzo dell’insediamento berbero).
Fine del VI sec.
A Racalmuto si ebbe un discreto diffondersi della civiltà bizantina: ne è probante testimonianza il tesoretto di monete studiato dal Guillou.
829
Caduta Agrigento sotto gli Arabi (829), il più o meno fiorente villaggio bizantino di Casalvecchio viene inglobato nell’oscuro dominio berbero. Di congetture se ne possono formulare tante, di verità storiche solo deludenti barlumi.
1087
Chamuth fu l'ultimo emiro della dominazione araba del territorio tra Agrigento ed Enna. Egli venne vinto, ma non umiliato, dal conte Ruggero il normanno nel 1087. Si può anche ipotizzare che a Racalmuto vi fosse una fortezza, se non due, vuoi al Castelluccio, vuoi 'a lu Cannuni'. E 'Rahal' vuol anche dire in arabo fortezza, castello, stazione. Quella fortezza - se esistette - era sotto il dominio di Chamuth.
Secolo XI
Conquistata Agrigento nel 1087, i lancieri di Ruggero d’Altavilla si impadroniscono di tutto il terrirorio limitrofo sino ad Enna. Racalmuto viene dunque liberata - si suol dire - dalla schiavitù islamica per divenire pia terra agli ordini dei vescovi di Agrigento. Dopo l’obbrobrio dell’islamica sudditanza, durata quasi due secoli e mezzo, si ha la normanna restituzione alla veridica religione del Cristo. I normanni giungono a Racalmuto per un ritorno al cristanesimo.
Sino al 1271
I saraceni si ribellarono in modo devastante negli anni venti del 1200. Federico II li represse, deportandoli in Puglia. Racalmuto diventa deserta. Tocca a Federico Musca farvi fiorire un nuovo casale. Nel 1271 le testimonianze sulla vita e le vicende del risorto centro urbano cominciano ad avere dignità di fonti documentali. Sotto i Vespri, la terra è Universitas così bene organizzata che il nuovo padrone aragonese Pietro può esigere tasse ed armamenti, demandando ai locali sindaci l’ingrato compito esattoriale, persino con la vessatoria condizione di doverne rispondere con il proprio patrimonio in caso di insolvenza. Una sorta di ‘solve et repete’ ante litteram. La cattolicissima Spagna esordiva con spirito predatorio nel regno che gli era stato regalato da taluni maggiorenti siciliani. E così anche la ‘meschinella’ Racalmuto iniziava a pagarne lo scotto. Roma, il papato, dissentiva. Sarà questa una scusa buona per esigere dai fedeli di Racalmuto, che nel 1375 abitano in case coperte di paglia, una tassa pesante onde liberarsi dell’antico interdetto, che secondo il nuovo padrone feudale Manfredi Chiaramonte era la causa della ‘mala epitimia’ distruttrice di uomini e cose.
CENNI GEOLOGICI
Nel succedersi degli sconvolgimenti geologici, il territorio di Racalmuto raggiunge l’attuale sua conformazione nelle fasi finali dell’era terziaria, cioè in epoca piuttosto recente. Concetto in ogni caso relativo, visto che bisogna andare a ritroso nel tempo per almeno sette milioni di anni. Del resto, ciò riflette la ricorrente teoria scientifica secondo la quale l’intera Sicilia sarebbe terra “geologicamente recente”([28]). Ed anche qui trattasi di risalire, nella notte dei tempi, per un centinaio di milioni di anni prima di datare la fase iniziale del complesso fenomeno formativo dell’isola. In un primo momento, “formazioni calcaree mesozoiche, e cioè dell’èra dalle forme intermedie di vita, o èra secondaria” ebbero ad abbozzare un cosiddetto “scheletro” tra Trapani, Palermo e Messina con un isolato nucleo avente l’epicentro a Ragusa. In una seconda fase, si formò una sorta di tessuto connettivo per il progressivo emergere di terre durante la regressione pliocenica. Infine, in epoca quaternaria, affiorarono le terre marine.
Secondo una cartina della distribuzione dei terreni pliocenici e quaternari in Sicilia dovuta al Trevisan ([29]) Racalmuto si modella con le forme che oggi ci sono familiari sul finire del periodo intermedio e cioè durante la transizione dal terziario al quaternario, in pieno Pliocene.
Studi sulla geologia di Racalmuto sono stati fatti da A. Diana (1968). Geologi locali (vedasi fra gli altri Luigi Romano) hanno di recente dato i loro apporti. Nella sua tesi laurea il Romano, avvalendosi dei dati sperimentali desunti dalla trivellazione di una quarantina di pozzi, distingue quattro strati nel sottosuolo racalmutese. «Cronologicamente - ci ragguaglia l’A.([30]) - i terreni che compaiono nella zona studiata, vengono raggruppati come segue:
1) complesso argilloso caotico di base, di età pre-tortoniana;
2) formazione Terravecchia del Tortoniano, costituita da sabbie, conglomerati e argille;
3) serie Gessoso-Solfifera, complesso rigido costituito da vari elementi del Saheliano e Messinese.
4) una formazione di copertura di età Pliocenica inferiore, costituita da marne e calcari marnosi (Trubi).
Completano la geologia della zona una copertura detritica alluvionale.»
Ma abbandoniamo subito le questioni geologiche per le quali non abbiamo alcuna competenza e soffermiamoci un istante sui tradizionali minerali racalmutesi. Sale, zolfo e gesso Racalmuto li avrebbe ereditati dagli sconvolgimenti del Miocene, quando alle «grandi lacune terziarie progressivamente evaporate [sarebbe seguito] un processo di sedimentazione che avrebbe avuto per protagonisti non solo i principi della fisica e della chimica, ma addirittura uno straordinario microscopico batterio, il desulfovibrio desulsuricans capace di nutrirsi di petrolio greggio e di rubare ossigeno al solfato di calcio dando luogo ad idrogeno solforato che, attraverso una normale ossidazione, avrebbe partorito lo zolfo nativo» ([31]). Secondo tale affascinante teoria, le ricchezze della rampante borghesia ottocentesca di Racalmuto si devono, dunque, a quel geologico vibrione; il che per qualche verso sa di malefica premonizione.
LA PREISTORIA
Ma a che epoca risale il primo insediamento umano nel territorio di Racalmuto? Fu esso teatro di qualche fase evolutiva della specie umana? Come vissero i primi nuclei umani? Ove abitarono e con quali riti e culture?
Sono tutte domande senza risposta, alla luce delle attuali conoscenze scientifiche. Solo si può ipotizzare una qualche presenza umana nella grotta di Fra Diego, che per ubicazione ed ampiezza sembra proprio idonea ad ospitare il primitivo homo sapiens sapiens dei dintorni racalmutesi.
Dobbiamo saltare al secondo millennio a.C. per essere certi di consistenti nuclei abitativi che sogliono chiamarsi, sulla scia di una pagina di Tucidide, sicani. Due testimonianze ce l’attestano in modo indubbio: le tombe a forno scavate nella parete della medesima grotta di Fra Diego e presenti anche lungo il crinale che da lì arriva, passando per il Castelluccio, sino alle porte del paese; ed un ritrovamento casuale a dieci chilometri da Canicattì, lungo la strada ferrata.
Azzardiamo una nostra ipotesi: trattasi di due flussi migratori diversi: uno a sfondo agricolo che da Licata tocca le falde del versante sud del Serrone e l'altro, in cerca del sale, contiguo agli insediamenti che da S. Angelo Muxaro - la terra di Cocalo? - si espande verso Milena, Montedoro, Bompensiere.
Il primo insediamento è quello che persino nelle cartoline illustrate locali viene definito 'sicano'. In mancanza di campagne di scavi ufficiali dobbiamo accontentarci delle intuizioni dilettantesche e delle tante segnalazioni che dal '700 in poi si rincorrono. Il cospicuo numero di tombe a forno dimostra l'esistenza di gruppi estesi, dediti ai culti mortuari dell'inumazione in forma fetale, con i cadaveri forse spolpati a bagnomaria e forse legati per la paura di una vendicatrice resurrezione che pare angosciasse i nostri antenati. ([32])
Quei cosiddetti antichi Sicani, installandosi attorno alla grotta di Fra Diego, avranno trovato il salgemma delle vicinanze e fors'anche lo zolfo, all'epoca probabilmente reperibile anche in superficie. Risale alla tarda età romana lo strambo passo di Solino che secondo il Tinebra Martorana - a nostro avviso fondatamente - è da riferire al territorio di Racalmuto. Solino scrive che il sale agrigentino, se lo metti sul fuoco, si dissolve bruciando; con esso si effigiano uomini e dei ([33]). Ancora nel '700 il viaggiatore inglese Brydone andava alla ricerca di quei fenomeni. Sommessamente pensiamo che v'è solo confusione tra sale e zolfo, entrambi già conosciuti dai nostri preistorici antenati. Con lo zolfo si foggiavano statuette del tipo dei 'pupi', dei 'cani', delle 'sarde' di 'surfaro' che ai tempi della mia infanzia circolavano ancora.
Il secondo insediamento viene fatto risalire al XVIII secolo a.C. Le pertinenti solite tombe a forno vennero scoperte durante i lavori della ferrovia nel 1879. ([34]) I reperti fittili salvati dall’ing. Luigi Mauceri finirono dispersi nei sotterranei di un qualche museo siciliano. Le tombe a forno, che si trovavano nei pressi della stazione ferroviaria di Castrofilippo, si sono te del tutto disperse per lo sfruttamento delle cave di pietra.
Sulla primissima presenza umana nei dintorni di Racalmuto, non sappiamo null’altro se non quanto, con qualche ingenuità ed approssimazione da dilettante, ebbe a riferire, in una sua corrispondenza a W. Helbig, quel solerte ingegnere delle ferrovie ([35]). Apprendiamo, così, che «le scoperte di tombe antichissime hanno un importantissimo riscontro nell’altipiano di Pietralonga tra Canicattì e Racalmuto, ove ebbi la fortuna di esaminare le tracce di un gruppo di tombe scoperte casualmente. La strada ferrata in costruzione, che va da Canicattì a Caldare, ... a circa dieci chilometri dalla prima città passa in una terrazza che si protende a sud-ovest di un altipiano tortuoso, costituito da un gran banco di roccia calcare non ancora denudato. In questa altura e su vari speroni rocciosi che in vari sensi si diramano, nella scorsa estate [1879] furono aperte parecchie cave di pietra per le costruzioni ferroviarie. Quivi i cavatori avanzando le loro cave in vari punti, ... incontrarono molte tombe che hanno una perfetta somiglianza con le altre precedentemente descritte.» ([36]) Si ha, quindi, la descrizione delle tombe, oggi non più rinvenibili. Esse «erano scavate - aggiunge il Mauceri - quasi tutte nei versanti di levante e mezzogiorno dell’altipiano e dei contrafforti. La loro forma è assai varia; abbonda per lo più il tipo della tomba a pozzo, come quella di Passarello; ma sembra che talvolta le celle invece di due siano state tre e anche quattro. In un punto pare fosse stata aperta una specie di trincea, su cui poi furono scavate parecchie celle a pozzo, ma irregolari. [...] La chiusura della bocca dei pozzi o dell’ingresso delle celle è sempre fatta con grossi massi irregolari, e in cui non scorgesi traccia di alcuna particolare lavoratura. Tutte le tombe, oltre a contenere più d’uno scheletro e parecchi vasi, contenevano anche molti ossami di animali, e terra grassa mista a cenere e carbonigia. Nessun utensile, né di pietra né di metallo.» ([37]) Segue la descrizione di n.° 11 reperti fittili, di cui viene fatta anche una riproduzione grafica. Trattasi di vasetti di terracotta, di frammenti di una “coppa di un vaso grande”, di “una specie di olla”, della “coppa di un calice”, di un “vaso di bucchero”, nonché di un “utensile di terracotta a forma di un corno”. Non è questa le sede per riportare diffusamente la descrizione che fornisce il Mauceri: per gli appassionati, si fa rinvio alla pubblicazione ed alle tavole ivi allegate. La conclusione di quella corrispondenza contiene affermazioni che l’ulteriore sviluppo dell’archeologia ha solo in minima parte confermato. «Gli altopiani rocciosi e naturalmente muniti di Passarello, Pietrarossa, Fundarò e Pietralonga, ([38]) - conclude l’A. - nei cui contorni sonosi scoverte le tombe da me descritte, mi sembrano indicare il sito di altrettante dimore stabili dei Sicani, tanto più che ho osservato alle falde di ciascuno abbondanti sorgenti d’acqua. In ispecie a Pietralonga, chiunque esamini la contrada, troverà indicatissimo il sito di una città; ond’io ritengo che di queste notizie potrà in qualche guisa avvantaggiarsene la topografia antica di Sicilia, potendosi ivi collocare qualcuna delle città sicane (Ippona, Macella, Jeti, ecc.) di cui è tuttora incerta la giacitura.»
Dopo la descrizione di quel rinvenimento casuale, nessuna campagna di scavi è stata sinora portata avanti nel territorio racalmutese. Quell’antichissima - ma certa - presenza umana resta dunque per ogni altro verso oggi del tutto oscura. Si trattò di un popolo sicano, ma come quel popolo visse, con quale evoluzione, con quali strutture socio-economiche, si ignora del tutto. Possono solo avanzarsi congetture: ma esse risultano alla fine inappaganti.
Quel che le affioranti testimonianze archeologiche dimostrano con certezza è un policentrico insediamento sicano che può farsi risalire all’Età del Bronzo (1800-1400 a.C.) Oltre alla necropoli lungo la strada ferrata, nei pressi di Castrofilippo, di cui è cenno presso il Mauceri, il maggior nucleo è quello sulla fiancata della grotta di Fra Diego. Tombe rade, ma pur presenti, emergono vicino al Castelluccio, su un avvallamento del Serrone ed in altre contrade racalmutesi. Molto manomesse, ma non irriconoscibili, sono le tumulazioni sicane scavate in costoni calcarei sovrastanti la contrada di Casalvecchio o al confine tra il Saraceno e Sant’Anna.
Si sa che nel XIII-XII secolo a.C. si sviluppa nella media Valle del Platani un’articolata iconografia tombale micenea. E’ questo il tempo dei primi contatti con il mondo miceneo. Nella confinante Milena si rinvengono tombe a tholos e materiali del Mic. III B-C. Secondo il De Miro è da pensare «ad una miceneizzazione di questa parte dell’Isola tra il Salso ed il Platani, risalente a veri e propri stanziamenti di nuclei transmarini avvenuti nel XIII-XII secolo a.C., forse alla ricerca della via del salgemma.» ([39]) Il Monte Campanella di Milena, ove sono state rinvenute tombe a tholos con frammenti di vasi micenei e corredo di spade e pugnali di bronzo e un bacile cipriota del XIII secolo a.C., non è poi tanto lontano dalla necropoli di Fra Diego; eppure a Racalmuto nulla si è trovato, a memoria d’uomo, che comprovi un analogo influsso miceneo. Né vi è notizia di tombe a tholos in qualche punto dell’intero territorio di Racalmuto. Forse è da pensare che la civiltà sicana sia sparita a Racalmuto sin dal XIII secolo a.C.? Lo stato delle conoscenze archeologiche porta a tale conclusione. Spariscono, dunque, i Sicani o sopravvivono senza contaminazione? Ed in tal caso per quanti secoli ancora? Possiamo solo affermare con qualche fondamento che al tempo della colonizzazione interna dell’Agrigento greca, Racalmuto dovette essere pressoché disabitato, come l’assenza di ogni testimonianza archeologica pare dimostrare.
VERSO L’AVVENTO DEI GRECI.
Cediamo alla forte tentazione di formulare nostre personali congetture sull’evoluzione sociale ed abitativa dei primordi racalmutesi. Se qualche abitante vi fu a Racalmuto durante il Paleolitico Superiore, fu la grotta di Fra Diego ad ospitarlo: quell'antro per esposizione, per capienza e per vicinanza a luoghi fertili ed a valli boschive adatte alla cacciagione, si attaglia all'ospitalità troglodita. Le testimonianze archeologiche più antiche sono però di gran lunga posteriori e ci portano in piena cultura della 'Conca d'Oro' con le caratteristiche «tombe del tipo a forno » ([40]).
Da quell'era i nostri progenitori - siano sicani o altro - riuscirono a sormontare gli sconvolgimenti epocali dell'Età del Bronzo in condizioni di relativo benessere, piuttosto pacifici ed alquanto prolifici, come il diffondersi delle tombe per tutto il crinale collinare sta a testimoniare. Caccia e risorse minerarie, ma soprattutto cerealicoltura e pastorizia consentirono sopravvivenza ed anche sviluppo. A quanto pare, l’ingresso nell’Età del Ferro fu loro fatale.
A questo punto si ebbe una crisi per ragioni che ci sfuggono: forse per le razzie dei Siculi, forse per difendersi dalle incursioni di popoli stranieri giunti dal mare, i Sicani di Racalmuto preferirono ritirarsi entro le più sicure zone montagnose di Milena.
Successivamente, quando, per l'aridità della loro terra, i greci sciamarono per il Mediterraneo e le genti di Rodi e di Creta, via Gela, si insediarono nella valle agrigentina, per i radi indigeni di Racalmuto fu il momento del loro melanconico dissolversi.
I moderni storici si accapigliano per stabilire tempi, modalità e drammi di quell'esodo geco cui non si attaglierebbe neppure il termine di colonizzazione, trattandosi di un'espulsione senza ritorno. Sono però propensi a ritenere che quei greci subirono la violenza della scacciata dalle loro famiglie contadine e, mancando di mogli, la scaricarono sulle donne indigene di Sicilia, violandole con nozze coatte.
Un doppio dramma - si dice - che, ci pare, Racalmuto non subì né nella prima ondata di immigrazione greca, né in quella della seconda generazione. La zona era lungi dal mare e lungi dalle rive sabbiose, preferite dai greci per trarre in secco le loro imbarcazioni, magari come semplice auspicio per un (improbabile) ritorno in patria. I rodiesi ed i cretesi di Gela fondarono, accrebbero e consolidarono la città akragantina. Allora il nostro Altipiano cessò di essere libero territorio anellenico: erano giunti i tempi della famigerata tirannide di Falaride. Nel sesto secolo a.C., per le locali popolazioni iniziò una devastante denominazione greca. I cadetti greci di Agrigento, privi di terra e di beni per il costume del maggiorascato del loro popolo, cercarono, forse, fortuna e dominio nei dintorni e così anche Racalmuto cadde nelle loro mani. Si attestarono certo nelle feraci contrade tra Grotticelle e Casalvecchio. I radi reperti numismatici con la riconoscibile effigie del granchio akragantino non attestano solo l'inclusione di quel territorio nella circolazione monetaria delle varie tirannidi dell'antica Agrigento, ma soprattutto l'insediamento dei nuovi padroni. Da quell'epoca la civiltà sicana indigena non è più testimoniata in alcun modo. I nuovi padroni venuti da Agrigento presero certo la più gagliarda gioventù per trasferirla, schiava, nella titanica costruzione dei templi. La gran parte, se non resa schiava, fu senz'altro assoggettata ad una sorta di servitù della gleba. Taluni, scacciati o fuggitivi, si ritirano con i loro sparuti armenti negli inospitali valloni siti a tramontana. E divennero pastori randagi e rudi, feroci ma liberi, anarchici e misantropi, irriducibili ed incoercibili, simili a quei pastori che ancor oggi sembrano mantenere le prische connotazioni di uomini fieri e ribelli. In tutto ciò sono da rinvenire le radici della storia sociale racalmutese. La classe agro-pastorale nasce e si evolve lungo millenni con sufficiente continuità e peculiarmente autoctona. Sono i vertici ed i dominatori che vengono da fuori, arroganti ed estranei. Si pensi che un ricambio in senso classista Racalmuto l'ha potuto registrare solo ai nostri giorni. Soltanto gli anni ottanta del XX secolo sono propizi ad un rivoluzionario avvento di amministratori con genuine ascendenze locali e d'autentica estrazione popolare.
IL PERIODO GRECO
Tra il 570 ed il 555 a. C. Racalmuto non poté che essere pertinenza rurale della polis di Akragas, sotto la tirannide di Falaride: costui assurge al potere cavalcando la tigre dei ribellismi sociali e plebei dell'Agrigento di allora. Fu questo fenomeno tipico dei silicioti greci di quel periodo.
Racalmuto vi fu travolto di riflesso, per via dei greci nobili che poterono appropriarsi delle terre del nostro altopiano. Frattanto nelle nostre plaghe ebbero a moltiplicarsi i kyllyrioi, i semi schiavi di cui parla Erodoto: gente che doveva lavorare per la vicina polis di Akragas, senza libertà di movimento, senza diritti civili se non quelli di non potere essere venduti o allontanati dalla terra che lavoravano, potendo conservare la propria famiglia e la propria vita comunitaria. I reperti numismatici che talora si sono rinvenuti nel nostro territorio sono i soli indici della loro presenza.
E' certo che sino a quando non si faranno scavi come quelli che gli Adamesteanu e gli Orlandin ebbero a condurre nel circondario di Gela attorno agli anni cinquanta, o come quelli degli anni Ottanta guidati dal De Rosa a noi non resta che avventurarci in malcerte congetture.
Nella campagna di scavi del 1960, furono fatte importanti scoperte presso Vassallaggi, in S. Cataldo, e si attribuì a quella località la nota cittadina di Motyon della Biblioteca di Diodoro Siculo (Kokalos, VIII 1962 ). Tramontava definitivamente il sogno accarezzato da Serafino Messana nel secolo diciannovesimo di assegnare quel nome greco al nostro paese. La sua teoria della 'metatesi' di Motyon che diventa «Casalmotyo e perciò Casalvecchio» - e dire che Serafino Messana ignorava le teorie linguistiche del Ciaceri che vuole Mothion una grecizzazione del preesistente 'Mutuum' - svanisce inequivocabilmente. Tinebra Martorana già rifiutava quella teoria con l'elegante 'non liquet' (non risulta) di Filippo Cluverio. Oggi, liquet (risulta) l'inattribuibilità di Motyon a Racalmuto e dintorni: la località è dagli studiosi concordemente ubicata attorno a S. Cataldo.
Quando vi fu dunque l'attacco di Ducezio all'avamposto di Akragas, Motyon, nel 451 o nel 450 a.C., l'onta dell'invasione non riguardò queste nostre contrade: per quei tempi, S. Cataldo era a distanza considerevole: quei nostri antenati dovettero però fornire grano e vettovaglie e vite umane in quella guerra tra Akragas, sostenuta dai siracusani, e l'esercito di Ducezio, il siculo-ellenizzato di Mineo. Per Racalmuto passavano di sicuro gli opliti agrigentini. La rete viaria di allora non doveva essere granché diversa da quella della fine del secolo XX.
Frattanto Racalmuto, territorio rurale di Akragas, perdeva usi e costumi sicani, dimenticava la madre lingua per storpiare un’aliena lingua dorica, e si dedicava alla coltivazione dell'ulivo, alle vigne, alla vinificazione per i padroni di Agrigento. Insieme naturalmente al grano, merce di scambio per i traffici agrigentini con la madre patria greca o con i vicini cartaginesi. La continuità degli autoctoni - pastori e contadini - persisteva certo, ma in via sotterranea e ovviamente subalterna, priva di ogni esteriorità e senza lasciare alcuna testimonianza per i posteri.
Racalmuto continua a riflettere sbiaditamente la vicenda storica di Agrigento. Resta pertinenza rurale, piuttosto disabitata, senza monumenti ragguardevoli, con una popolazione sfruttata e vessata. Periferia agricola della Polis, dunque, al tempo degli splendori di Terone, il tiranno agrigentino legato anche con vincoli di parentela con quello di Siracusa Gelone. Pindaro esaltava, a pagamento, Agrigento come la più bella città dei mortali. Racalmuto doveva fornire grano e tributi per consentire ai tiranni agrigentini di equipaggiare le costosissime corse dei carri a quattro cavalli nei giochi olimpici della lontana Grecia. Dopo, chi vinceva commissionava le famose odi a Pindaro, statue a scultori greci e profondeva doni ai santuari di Olimpia.
A Racalmuto, sulla cui economia agricola quegli eventi ebbero a pesare, giunse, sì e no, una flebile eco, se qualche signorotto di Agrigento ebbe a recarsi nelle proprie terre per refrigerarsi in qualche sua villa sulle pendici del Serrone durante la canicola estiva. Alcuni versi delle Olimpiche di Pindaro su quella vittoria col carro di Terone nel 476 a. C. ebbero ad incantare qualche nostro antenato, incolto ma sensibile all'alta poesia.: «certo per i mortali non sta/ fissa una soglia di morte,/ né quando un giorno figlio del sole/ s'acquieterà alla fine in pura felicità:/ flutti diversi, momenti alterni/ di gioia e d'affanno vengono agli uomini» erano poi versi da avvincere anche l'animo del contadino greco, intento a riverire il suo padrone, specie se questi li recita mirando le stelle cadenti del cielo senza fine dell'estate racalmutese. Ed in quel territorio circolavano anche le monete col granchio agrigentino, testimonianza di commerci, esportazioni di grano e presenze greche.
Sfiora la locale società contadina la nebulosa vicenda di Trasideo, figlio di Terone, «violento ed assassino», per Diodoro Siculo. La sua cacciata da Akragas, per il passaggio ad un regime democratico, fu forse neppure avvertita. Non sapremo però mai se Racalmuto fu coinvolto nella successiva confusione che venne a determinarsi per lo sconvolgimento nella distribuzione su nuove basi delle terre.
Dopo il 427 a. C., Akragas si acquieta, entra nella riservatezza. Se Siracusa coinvolge Imera, Gela e forse Selinunte nella sua guerra contro Lentini, a sua volta sostenuta da Camerina, Catania e la piccola Nasso, Akragas si mantiene neutrale e fa affari con tutti vendendo il suo grano ad entrambe le parti contendenti e lucrandovi sopra per un benessere economico, di cui ebbe a goderne anche Racalmuto, sia pure in minima parte. Sono queste, certo, ipotesi, ma attendibili.
Atene - con Alcibiade che credeva di potere fagocitare la Sicilia in un guerra lampo ritenendola una terra di imbelli popolazioni bastarde - si avventura, nel 415 a. C., nella guerra contro Siracusa. Subisce, l'esercito ateniese, una disastrosa sconfitta. Atene, con 40.000 uomini agli ordini del suo più esperto generale, Demostene, ritenta l'impresa. Siracusa trova alleati a Sparta, a Gela, Camerina, Selinunte Imera e persino tra i siculi di Kale Akte. Quelle tragiche vicende che portano alla tremenda disfatta degli ateniesi trovano risalto nelle memorabili pagine di Tucidide. Akragas, come al solito, sta a guardare; ancora una volta è neutrale, alla stregua di Cartagine e del settore fenicio della Sicilia. In quel trambusto, Akragas ha modo di prosperare con i profitti di guerra. Racalmuto, come sempre propaggine rurale di quella polis, ne segue sicuramente le sorti, intensificando l'agricoltura e la pastorizia. Ma, attorno al 406 a. C., con l'ascesa di Dionisio I alla tirannide di Siracusa, per Akragas fu l'inizio del declino. Per converso, Racalmuto poteva affrancarsi dal giogo della vicina polis akragantina.
Nel 406 a.C., fallito il tentativo di Ermocrate di impossessarsi di Siracusa, Akragas iniziò il suo ciclo storico di colonia punica. Un esercito africano numeroso e potente - anche se ben lontano dall'astronomica cifra di 120.000 uomini, come vorrebbe Diodoro - ebbe come primo bersaglio l'opulenta Agrigento. Gli aspri combattimenti tra siracusani e cartaginesi durarono sette mesi, nell'imbelle indifferenza dei greci agrigentini. Nel dicembre del 406, per Akragas fu, però, la fine: fuggirono i cittadini a Leontini e la città fu abbandonata. I cartaginesi si diedero ai saccheggi ed alla spoliazione delle tante opere d'arte, ivi compreso - pare - il toro di bronzo di Falaride. Racalmuto fu per quei tempi terra lontana: niente saccheggi dunque, anzi un afflusso di cittadini agrigentini dovette verificarsi. Le disgrazie agrigentine finirono col dare enfasi ad un risveglio demografico nel vecchio centro sicano sito nel nostro fertile altipiano. Quegli agrigentini che vi avevano fattorie e ville, ebbero di certo a preferire le note località racalmutesi all'angustia dell'esilio in quel di Lentini.
Dionisio il giovane, un ventiquattrenne rampante, si impossessava frattanto di Siracusa. Trattava con i cartaginesi ed Akragas cadeva nella mediocrità dell'epikrateia africana. La popolazione poteva ritornare a casa, ma per una umiliante sudditanza punica. Dal 405 al 264 a.C. la storia di Agrigento emerge solo per qualche barlume che le vicende siracusane vi riflettono. E' comunque un ruolo subalterno alla politica ed alle fortune di Cartagine: da una parte, commercio, relativo benessere, vivacità economica; dall’altra, sudditanza politica e remissività verso la civiltà africana d'oltremare. Una tassazione gravava sulla popolazione cittadina - ora blanda, ora esosa, a seconda delle esigenze cartaginesi.
Crediamo che in tale contesto Racalmuto ebbe tempi non duri: i nuovi dominatori africani erano gente di mare per penetrare nelle impervie e infide vallate racalmutesi. Per altri versi, si apriva qui un mercato proficuo per quei tempi ed i suoi prodotti agricoli potevano trasformarsi in moneta contante, idonea ad un'economia vivace, se non addirittura prospera. Il male di Akragas si ribaltava in buoni affari per Racalmuto.
L'archeologia e la numismatica attestano qualcosa di più delle fonti letterarie: sappiamo che artigiani greci e non greci furono chiamati a coniare le cosiddette monete siculo-puniche. Tinebra Martorana scrive di monete con effigie di improbabili scheletri e potrebbe trattarsi degli oboli di Motya o delle monete con la spiga. Per noi, quei reperti numismatici attestano proprio la presenza dello scambio cartaginese nelle terre racalmutesi di quei secoli, divenute epikrateia (provincia) cartaginese.
Sempre il Tinebra Martorana ci testimonia del rinvenimento di monete «di argento [aventi] da una parte un cavallo alato ed al rovescio il capo armato di un guerriero». Trattasi senza dubbio di pegasi siracusani che ci richiamano le dittature siracusane di Dione o di Timoleonte (357-317 a.C.). In quel periodo, il territorio racalmutese non fu durevolmente assoggettato a Siracusa. I segni monetari palesano dunque un libero scambio: grano, orzo, ma anche vino, olio e prodotti caseari del paese prendevano la via dell'oriente siciliano oltre a quella del mare africano. Ne derivò un tenore di vita evoluto da consentire tumulazioni di lusso ed alla greca. Non possiamo non credere al Tinebra Martorana quando scrive: «In contrada Cometi, .... si rinvennero sepolcreti d'argilla rossa, resti di ossa, lumiere antiche, cocci di vasi» e le monete di cui abbiamo detto sopra.
LA PARENTESI CARTAGINESE
Attorno al 282 a.C. si affaccia sul proscenio della storia un tiranno agrigentino di un qualche rilievo: Finzia. Fu lui a radere al suolo Gela e a trasportarne la popolazione nell'attuale Licata: in questa località il tiranno costruì una città in puro stile greco, cinta di mura e dotata di agorà e di templi. Racalmuto dovette essere terra subalterna a Finzia e dovette contribuire quindi al sostegno finanziario delle mire egemoniche del despota agrigentino. Fu però vicenda storica di breve respiro. Sparisce ben presto Finzia e Akragas, ritornata debole e faccendiera, non sa ostacolare l'egemonia di Siracusa.
Nel 280 a. C. Siracusa sconfigge Akragas. Cartagine, vigile ed interessata, arma un imponente corpo di spedizione che presto raggiunge le porte di Siracusa. Akragas ed il suo territorio - ivi compreso Racalmuto - si estraniano, come sempre, dalla lotta armata ed assistono piuttosto indifferenti all'intrusione di Pirro, quel re dei Molossi, passato alla storia per le sue risibili vittorie.
Akragas e Racalmuto, quale sua pertinenza, rientrano nella zona di influenza di Cartagine e vi restano per quasi un ventennio fino a quando la Sicilia fenicia incappa nelle mire espansionistiche della repubblica romana.
Nel 264 a.C. scoppia la prima guerra punica e la vicenda siciliana si avvia melanconicamente a divenire un'oscura appendice della lontana e suprema Roma. La Sicilia assurge all’inglorioso ruolo di provincia che secondo Cicerone: «prima docuit maiores nostros quam praeclarum esset exteris gentibus imperare». Già, la Sicilia fa gustare per prima ai Romani quanto fosse bello soggiogare popoli stranieri. E, ancora - dopo un secolo e mezzo - Sicilia, Akragas (e ancor più Racalmuto) saranno per i romani nient'altro che «extera gens» [gentucola straniera] da dominare e da proteggere solo perché «ornamentum imperi».
Roma conquistò Akragas nel 261: dopo un assedio di sei mesi, le scomposte furie dei romani si sfogarono ignominiosamente sui poveri cittadini agrigentini. Né beni, né donne e neppure gli stessi uomini furono risparmiati: 25.000 dei suoi abitanti furono venduti come schiavi.
Sette anni dopo, sono i cartaginesi a rimpadronirsi della città, dopo avere distrutto la flotta romana che ritornava dall'Africa. A farne le spese è ancora una volta la città di Akragas: i cartaginesi bruciano ogni cosa, abitazioni e mura.
Riteniamo che la terra di Racalmuto dovette risultare alquanto decentrata per subire direttamente le atrocità di quella guerra punica. Ma i riflessi dovettero esserci, dolorosi e devastanti. Lutti per i parenti che si erano stanziati nella vicina polis; distruzione di beni; spoliazioni, rapine, banditismo, vandalismi ed altro.
Le antiche fonti nulla ci dicono sui successivi due decenni: verso lo spirare del secolo, Akragas e la vicina Eraclea Minoa appaiono saldamente in mano dei cartaginesi. Tra il 214 e il 211 a.C. un massiccio movimento di uomini armati - si parla di 40.000 militari tra i quali 6.000 cavalieri - su 200 navi parte da Cartagine per raggiungere la Sicilia. Punto di approdo è Akragas: sulle colture raculmutesi si abbatte il gravame di apporti alimentari a quegli eserciti tutto sommato stranieri. Nel 212 a. C. tocca a Siracusa cadere nelle mani dei romani ed il grande Archimede finisce ucciso per mano militare: alla fine fu vacuo il suo genio inventivo; lo specchio incendiario fu di ardita e micidiale fattura; invento speculo, naves romanas incendit; eppure i romani finirono per avere la meglio. Per i cartaginesi, nel grande scontro con i romani, le sorti belliche volgono al peggio: i fenici ripiegano su Agrigento, ultimo baluardo delle loro difese. Mercenari numidi consumano l'ennesimo tradimento. Akragas cade ancora una volta in mano dei romani; ancora una volta popolazione e beni diventano bottino di guerra per una vendita sui mercati del mondo. Levino a Roma fa il suo trionfale ritorno. Per Racalmuto inizia l'epoca di agro ferace per le distribuzioni di grano nella lontanissima Roma.
IL PERIODO ROMANO
Finite le guerre puniche, il console Levino avvia la Sicilia al suo secolare sfruttamento agricolo da parte di Roma. Dall'originaria Siracusa i gravami fiscali della legge Ieronica si estendono all'intera Isola, a tutto vantaggio delle plebi dell'Urbe: quella estensione avviene con la lex Rupilia del 132. E così sotto il cielo di Roma una società di pubblicani appaltava la riscossione delle tasse sul pascolo (scriptura) e sui trasporti marittimi (portorium). Ma erano il grano, l'orzo, il vino, l'olio e i legumi di Sicilia che, assoggettati a decima, prendevano la via del mare per la città ora già caput mundi.
Ma per uno dei soliti paradossi della storia, Racalmuto in quel regime coloniale romano ebbe occasione e modo di sviluppo economico e demografico: il suo suolo ferace ed anche la sua vocazione alla viticoltura furono di sprone all'insediamento contadino. Niente grandi opere e neppure edifici; non si ebbe manco un toponimo che resistesse all'oblio dei tempi. Eppure, i segni di quel consorzio umano e sociale nel territorio di Racalmuto sono giunti sino a noi: resti fittili, anfore, monete romane ed altre testimonianze archeologiche.
Nella contrada di S. Anna agli inizi del secolo scorso furono rinvenute anfore in gran numero - forse proprio quelle che servivano agli esattori romani per trasportare il grano o l'orzo a Roma - e mi si dice che i proprietari dei poderi dell'epoca si affrettarono a farle sparire nelle voragini degli zubbi sotto il monte Castelluccio per il timore di espropri o molestie da parte delle Autorità.
E' tuttavia noto un reperto di grande interesse che fu trovato da tal Gaspare Vaccaro nel 1782: esso ci attesta della organizzazione esattoriale delle decime agrarie a Racalmuto da parte di Roma. Trattasi di una iscrizione latina pubblicata nel 1784 da Gabriele Lancellotto Castello, principe di Torremuzza, nel suo "Siciliae et adiacentium insularum veterum inscriptionum - nova collectio..". A pag. 237 il principe archeologo c'informa che l'anfora fittile rinvenuta a Racalmuto era una "diota" (anfora per vino) nel cui manico [«in manubrio diotae fictilis erutae»] poteva leggersi la seguente epigrafe:
C* PP. ILI* F* FUSCI
RMUS. FEC.
Il Mommsen diede credito al Torremuzza e pubblicò tale e quale quella epigrafe nei suoi ponderosi volumi (C.I.L. X, 8051, 40, pag. 870) ma amputandola del riferimento alla diota ed eludendo ogni commento prosopografico.
Chiaro appare, comunque, il richiamo ad un personaggio di nome FUSCO, del tutto ignoto alla storia di Sicilia ma ben presente nella prosopografia romana. Marziale augura al potente Fusco che «le smisurate sue cantine diano ottimi mosti» (VII, 28); Giovenale ironizza sui ricchi Fusco della Roma del suo tempo; un Fusco fu console romano con Domizio Destro ed abbiamo anche un Cn. Pedanius Fuscus Salinator e via di seguito. Ma una famiglia Fusco siciliana non sembra plausibile.
Quello del vaso fittile di Racalmuto era dunque un romano o in ogni caso un cittadino di Roma: un probabile esattore dunque e forse un esattore delle decime sul vino di Racalmuto se ci fidiamo del Torremuzza quando accenna a diote fittili e cioè ad anfore per il trasporto a Roma del vino, prelevato in natura dal fisco romano sino a tarda età, come si evince dalle Verrine di Cicerone.
Per quasi quattro secoli la vita agricola e contadina nei dintorni di Racalmuto, sotto il dominio romano, trascorre senza lasciare traccia alcuna. Gli studiosi ci avvertono che tutto il sottosuolo siciliano divenne proprietà privata di Augusto, ma di miniere racalmutesi non si ha notizia per quel periodo. Solo, sul finire del secondo secolo d.C., pare sotto Comodo, si registra una svolta economica di grande risalto in Racalmuto: le miniere di zolfo, impiantate come alcuni vecchi ancor oggi ricordano, vi presero piede.
Per oltre un millennio non se ne seppe nulla, finché nell'Ottocento si rinvennero i cocci di talune forme romane, simili alle 'gàvite', recanti sul fondo i caratteri a risalto, e con scrittura alla rovescia, indicativi dello stabilimento minerario.
Il primo ad averne contezza è stato l’avv. Giuseppe Picone, figlio di racalmutesi trasferitisi ad Agrigento. All’Archivio di Stato di Roma si conserva una preziosa corrispondenza tra il Picone, all’epoca ispettore degli scavi e dei Monumenti di Girgenti ed il Ministero, che risale al 3 novembre del 1877. Si ha per oggetto: Mattoni antichi con bolli relativi alle miniere sulfuree. Un alto dirigente, il dott. Donati, interpella il Picone in termini imprecisi quanto misconoscenti:
Il dr. Mommsen reduce dal suo viaggio in Sicilia mi parla della scoperta importante da lui fatta di bolli fittili con ricordi di prepositi alle miniere sulfuree nei primi secoli dell'e.c. - Sarò grato alla S.V. se si compiaccia dare su tale oggetto i maggiori ragguagli.
L’avvocato agrigentino risponde in data 28 dicembre 1877 (Repertorio al protocollo 1878 n.° 16) e fornisce informazioni di grosso risalto per la storia delle miniere di zolfo racalmutesi al tempo dei Romani:
« Furono or sono pochi anni scoverti nel bacino di Racalmuto, e a considerevole profondità taluni mattoni antichi, con bolli, che io raccolsi, e formano parte di questo museo comunale. In essi si vedono delle iscrizioni latine, che, per difetto d'arte, venivano rilevate al rovescio di che siano leggibili da sopra a sinistra, come le scritture orientali.
In uno di essi mutilato si legge (totalmente a rovescio, n.d.r.) :
MANCIPYM/
SULFORIS
SICIL
Messa questa in rapporto alle altre iscrizioni pare che vi manchi nella prima linea
EX. OF. (ex officina)
come si rileva in talune, ove si legge Ex officina Gellii ec. ec.
Dallo stile uniforme e dalla paleografia risulta sippure, che l'epoca sia quella di Antonino Domiziano e di altri, come dai frammenti di altri bolli, ove si legge il nome di quegli imperatori, sì che possa concludersi, senza tema di errare, che in quella stagione, la industria zolfifera era fiorentissima nella provincia Girgentina.
L'esimio Dr Mommsen, che onorò di sua presenza questo Museo, potrebbe dare alla E.V. maggiori schiarimenti e più dotte illustrazioni che io non saprei. ([41])»
Il Mommsen fu poco corretto con il Picone: pubblica - unitamente al Desseau - i dati epigrafici nei volumi del C.I.L. ([42]) ma si guarda bene dal ricompensare, neppure con un semplice menzione, il nostro avv. Picone. Sulle ‘gavite’ romane è ormai consistente la pubblicistica, ma in essa non si riviene il minimo accenno a chi per primo ebbe consapevolezza dell’importanza dei reperti solfiferi di epoca romana, rinvenuti a Racalmuto. Successivamente vi è un’eco nel nostro Tinebra Martorana che racconta di reperti della specie regalati dalla famiglia La Mantia all'Avv. Giuseppe Picone di Agrigento e finiti, quindi, al Museo Archeologico di Agrigento.
All'inizio del XX secolo, il SALINAS aveva modo di venire in possesso proprio a Racalmuto di alcuni reperti di quelle che Mommsen impropriamente, ma con fortuna, ebbe a chiamare «tegulae sulfuris». Al Salinas, invero, furono vendute per il Museo di Palermo quattro lastre con iscrizioni da un contadino nostro compaesano che le aveva rinvenute nella costruzione di un sepolcro, presumibilmente nei dintorni di Santa Maria.
Quell'insigne archeologo procedeva ad un'analisi storica molto erudita, ma deviante, che pubblicava sul bollettino dell'Accademia dei Lincei ([43]) Altre «tegulae» sono state trovate nel 1947 in località Bonomorone di Agrigento. Ma qui non attestavano la presenza di miniere di zolfo perché, come ebbe a scrivere il Prof. Pietro Griffo ([44]), si trattava di un deposito di cocci di una figlina (officina di vasaio): dunque il commercio avveniva ad Agrigento, ma la produzione era altrove ed in particolare, per quel che ci riguarda, a Racalmuto.
Biagio Pace, con taglio più letterario che scientifico, così sintetizza quell'attività mineraria dei tempi romani: «Si tratta di tegole quadrate di terracotta, di circa 40 cm. di lato, che recano in rilievo, rovesciate, delle epigrafi... Tegole evidentemente poste, come illustrò il Salinas, nei cassoni destinati a contenere lo zolfo liquido e che dobbiamo immaginare del tutto identici a quelli che si adoperano tuttavia sotto il nome di gàvite, nel fondo dei quali sono parimenti incise le lettere della miniera, che in tal modo vengono riprodotte in quelle caratteristiche forme falcate di zolfo, le balate, che ognuno che abbia transitato per le stazioni zolfifere di Sicilia ha notato.» ([45]).
Pare, comunque, che l'attività mineraria solfifera a Racalmuto si sia presto estinta nell'antichità. Dopo quelle testimonianze (che pare riguardino un’attività che partendo dall'anno 180 d.C. si protrae sino al IV secolo d.C.) si fa un salto di oltre quindici secoli per avere notizie certe su una presenza mineraria racalmutese: risale all'inizio del Settecento una nota negli archivi parrocchiali della Matrice che ha attinenza con le miniere. Sotto la data del 22 ottobre 1706 il cappellano dell'epoca registra un infortunio sul lavoro: Giacomo Giangreco Cifirri, di 34 anni, sposato con la sig.a Nicola, periva sotto una valanga di salgemma, mentre scavava dentro una miniera di sale. Il giovane minatore veniva sepolto nella Matrice. «In fovea salinae, ob ruinam salis repentinam, defunctus est», è la malinconica annotazione in latino. Il Giangreco Cifirri perdeva, dunque, la vita nella caverna di una salina, per il repentino crollo di massi di sale.
I TEMPI DELLA DECADENZA DELL’IMPERO ROMANO (Secc. II-IV d.c.)
Se la tegula rinvenuta e studiata dal Salinas si colloca nel II secolo d.C., quella di cui riferisce il Picone sembra doversi datare nel IV secolo d.C. ([46]). In epoca di totale declino dell’impero romano, andrebbe pure collocato il noto sarcofago del Ratto di Proserpina ([47]). Rispetto a quanto si è detto e scritto su tale testimonianza, per noi resta ancor valido l’appunto della Guida del T.C.I. del 1968: «Il Castello, - è detto relativamente a Racalmuto ([48]) - fondato tra il ‘200 e il ‘300 da Federico Chiaramonte, nell’interno conserva un sarcofago romano del sec. IV, con la raffigurazione del Ratto di Proserpina.» La concidenza tra la data del sarcofago e quella della tegula studiata dal Picone consente suggestive ipotesi storiche. Le miniere di zolfo erano dunque attive dal II al IV secolo d.C. in Racalmuto e l‘insediamento umano è molto probabile che gravitasse attorno alla zona in cui ora sorge il Castello. Noi abbiamo potuto appurare che sotto la costruzione vi è materiale di risulta (a dire il vero, però, trattasi di materiale ceramico databile ad epoca proto-normanna). In ogni caso, nei secoli del tardo Impero, ferveva l’attività mineraria là dove nell’Ottocento greve è stato lo sfruttamento delo zolfo. Si attaglia molto bene anche a Racalmuto ciò che il De Miro annota nella citata relazione in Kokalos. Scrive l’insigne archeologo: «Accanto a famiglie di personaggi politici di rango, la prosperità e l’ambizione di classi medie possono essere state legate alla produzione e al commercio di zolfo per cui, proprio dopo la metà del II secolo d.C., si rilevano segni di una attività proficua sulla base delle non poche tegulae sulfuris. Questo periodo di ricchezza continua anche nel III sec. d. C. con i sarcofagi marmorei[...] La produzione era ancora attiva nei primi decenni del IV secolo d. C.; [quindi, subentra] il silenzio dei documenti». ([49]) Sempre secondo il De Miro, la tegula rinvenuta dal Salinas attesta la proprietà imperiale della miniera di zolfo, data la formula Ex praedis M. AURELI ([50]).
I dati archeologici consentono di abbozzare alcune linee evolutive dell’economia estrattiva racalmutese di quel periodo. Nei primi decenni del secondo secolo d. C., il territorio a nord di Racalmuto si presta ad uno sfruttamento solfifero. «Per quanto riguarda la produzione - annota il De Miro ([51]) - pur essendo nulla rimasto delle antiche miniere, evidentemente obliterate da quelle di età moderna, il processo di estrazione e di preparazione dei pani di zolfo da commerciare già Biagio Pace aveva indicato come non dovesse differenziarsi dai sistemi in uso ad Agrigento nel XIX secolo.»
Pare che in un primo momento ci fosse una organizzazione specialistica che, «distinguendo tra proprietà del fundus e attività mineraria, affida la gestione della miniera e la produzione a “officine”.. Questa tendenza nel III sec. d.C. e oltre porta al monopolio imperiale delle miniere di zolfo in Sicilia, con una organizzazione razionalizzata e articolata in cui, unitamente alla proprietà imperiale figura, in posizione evidenziata, la figura del concessionario titolare dell’officina, dell’attività industriale, e in posizione subordinata [..], quella del conductor della miniera.» Successivamente appare «una nuova figura, il manceps, figura che assume sempre maggior rilievo, sicché in età costantiniana, sparita l’indicazione dell’officina e del conductor, essa è la sola registrata dopo l’indicazione dell’imperatore. [..] Il manceps tende ad assumere per appalto l’intera amministrazione delle miniere di zolfo imperiali, con un significato molto vicino a quello che, nello stesso periodo, indicava coloro che attendevano all’amministrazione del cursus publicus e delle stationes. [...] Quale sia stato l’evolversi ulteriore della organizzazione industriale delle miniere di zolfo in Sicilia non è dato sapere. Certo è che dopo il IV sec. d.C. l’attività si affievolì e si spense. E ciò può essere avvenuto contemporaneamente al passaggio della proprietà terriera assenteista imperiale e più tardi ecclesiastica in gestione privata, nel quadro di un’economia che ormai ignora lo sfruttamento delle miniere. La destinazione della produzione dovette superare l’ambito isolano, e in particolare dall’Emporium di Agrigento doveva partire il commercio diretto con l’Africa. [..] Si ha quindi l’impressione che, caduta in disuso l’industria dello zolfo, gli interessi economici e gli investimenti si concentrino esclusivamente sulla campagna [..] Nel IV sec. il tessuto sociale agrigentino si attiva, nell’ambito religioso, dell’apporto del Cristianesimo, conservando il suo baricentro verso l’Africa: ceramica sigillata tarda africana e lucerne sono comune corredo delle sepolture ipogeiche.» ([52])
In tale contesto, pensiamo ad un’operosa presenza di officinae, conductores e, quindi, di mancipes in quel di Racalmuto, con centro abitato gravitante più verso l’area del Castello che verso Casalvecchio. Ove ora si ergono le torri potrebbe esservi stata una necropoli, se il noto sarcofago fosse stato utilizzato fin dal IV sec. d. C. là dove, poi, per secoli è rimasto. I resti di tegulae, rinvenuti presso S. Maria, rafforzano ipotesi della specie.
Dopo il IV secolo, uno spostamento del centro abitativo in contrada Grotticelli, è per tanti versi attestato. La fine dell’industria estrattiva e la desolazione che ebbe a determinare il terremoto che devastò l’Isola nel 365 d. C. spinsero, probabilmente, a questo cambiamento abitativo.
I TEMPI DELL’OCCUPAZIONE BARARICA
Tinebra Martorana fa un fugace accenno a Genserico ed ai suoi Vandali ed a Totila re dei Goti solo per un richiamo storico dei più generali eventi siciliani dell’epoca, non sapendo che altro dire per quel che ha più stretta attinenza alle vicende locali. Come abbiamo visto, una qualche eco di quelle dominazioni dovette esservi per i coloni abbarbicatisi ai fascinosi costoni snodantisi tra il Caliato, Anime Sante, Grotticelle, Giudeo e Casalvecchio. Ma di questo sinora non abbiamo alcuna testimonianza né scritta né archeologica. Il tempo a venire non sarà avaro di reperti esplicativi, specie quando ci si deciderà a porre in atto scientifiche campagne di scavi nella zona, invece di ricoprire frettolosamente quello che affiora per caso.
Nei pressi di Racalmuto sorgono le rovine di Vito Soldano: ne hanno scritto M.R. La Lomia (1961) ed E. De Miro (1966 e 1972-73) ([53]), ma non può dirsi che per il momento disponiamo di notizie appena sufficienti, specie sotto il profilo storico. Tombe riccamente corredate sono state rinvenute in contrada Cometi: non è da escludere che lì vi fosse una qualche necropoli riguardante il finitimo centro di Vito Soldano. Purtroppo l’avida ingordigia dei tombaroli ha sinora impedito seri e chiarificatori studi. Per tutto il periodo romano, e per quello successivo delle scorrerie barbariche, sino all’avvento dei Bizantini, i vari coloni sparsi nel territorio di Racalmuto poterono far capo all’importante insediamento di Vito Soldano, di cui si ignora il nome antico e per il quale le varie ipotesi degli archeologi non reggono al vaglio critico.
Traslando alle vicende del rado colonato racalmutese del V e VI secolo d.C. le scarse conoscenze che si hanno per quel periodo in tema della più generale storia della Sicilia, emergono scarsissimi lumi, qualche indizio e indicazioni di troppo generica portata.
Se nel 439 la Sicilia fu occupata dai Vandali, a Racalmuto un qualche sentore ebbe ad aversi. Non certo in fatto di religione, giacché l’ostilità di Genserico verso il cattolicesimo e la sua propensione alle conversioni di massa all’arianesimo difficilmente poteva colpire la nostra plaga, per nulla organizzata sotto il profilo civile e, per quello che mostra l’archeologia, men che meno sotto il profilo religioso. Ma se il vescovo cattolico agrigentino - se vi fosse, chi questi fosse e che rilievo avesse, non si sa - ebbe a subirne una qualche conseguenza, un qualche riverbero dovette esservi sull’eventuale comunità cristiana racalmutese. Di certo, quando Genserico fu sconfitto ad Agrigento da Ricimero, conseguenze di quella guerra ebbero a ricadere sull’economia agricola di Racalmuto. Se crediamo a Sidonio Apollinare [54], Ricimero con quella vittoria poté ripristinare la coltivazione dei campi, e qui, a Racalmuto, a parte il lontano sbandamento che le scorrerie di Genserico e dei suoi Vandali ciclicamente determinavano, dovettero esservi condizioni per regolari raccolti granari e normali vendemmie, atti a consentire alla rada popolazione un apprezzabile benessere.
I Vandali dopo il 463 riescono, in qualche modo, a prendere possesso della Sicilia e la soggiogano sino all’anno in cui, caduto l’impero romano d’Occidente (476), Genserico la restituisce ad Odoacre: vicende queste riflessesi sulla plaga racalmutese con incidenze e modalità sinora del tutto ignote.
La Sicilia passa quindi, nel 491, ai Goti. Si è certi di un buon governo da parte di Teodorico. Vi sono, però, persecuzioni ariane contro i cattolici. Per i coloni di Racalmuto che cosa potesse significare tutto ciò va affidato a congetture più o meno fantasiose, in mancanza di fonti, non solo documentali, ma neppure archeologiche.
Il rivolto storico dei Goti a Racalmuto persiste sino al 535, allorché Belisario riesce a congiungere l’isola all’Impero d’Oriente: inizia la civiltà bizantina racalmutese che ebbe incidenze ben più rilevanti di quelle arabe, non foss’altro perché durò di più (quasi tre secoli contro i due e mezzo dell’insediamento berbero).
IL TEMPO DEI BIZANTINI
Attorno al VI secolo d.C. a Racalmuto si ebbe un discreto diffondersi della civiltà bizantina: ne è probante testimonianza il tesoretto di monete studiato dal Guillou. Aspetto singolare è il luogo del ritrovamento delle monete, dietro la Stazione Ferroviaria, in contrada Montagna. Si dà infatti il caso che, al di là dei divieti codificati dalle Autorità a difesa di una asserita rilevanza archeologia, in tale contrada nessun altro reperto antico è sinora affiorato. E dire che le ricerche dei privati proprietari sono state frenetiche. Ciò fa pensare che il tesoretto fu nell’antichità nascosto in zona disabitata per comprensibile cautela. Il centro abitativo era discosto, ad un paio di chilometri circa, attorno alle Grotticelle.
Per Biagio Pace le Grotticelle erano - come si è detto - un ipogeo cristiano. I Bizantini racalmutesi, ormai decisamente convertiti al cristianesimo e sicuramente grecofoni (il fondo di lucerne del tempo colà rinvenute portano marchi in greco), curavano la loro cristiana sepoltura ed è un peccato che vandali locali abbiano frugato all’interno di quelle tombe, distruggendo e trafugando - a beneficio pare di un giudice che intendevano ingraziarsi - un patrimonio archeologico d’incommensurabile portata storica. Ma la zona resta pur sempre archeologicamente ricca e saranno gli scavi futuri a fornire materiale esplicativo di quel periodo di storia racalmutese, oggi affidato solo alle fantasie degli eruditi locali. (Invero neppure il Guillou è esaustivo ed il competente Griffo ([55]) retrocede la datazione dellle monete al V secolo: cosa inverosimile se le effigie degli imperatori bizantini sono di Tiberio II ed Eracleone, di oltre un secolo posteriori)
A seguito della scoperta archeologica del 1990 in contrada Grotticelli le pubbliche autorità si sono per il momento limitate ad imporre un vincolo sul territorio interessato. Nel decreto della Regione Siciliana del 10 luglio 1991 viene sottolineata «la notevole importanza archeologica della zona denominata Grotticelle nel territorio di Racalmuto interessata da stanziamenti umani di epoca ellenistica-romano-imperiale, costituita da ingrottamenti artificiali ad arcosolio e da strutture murarie abitative affioranti». Non viene precisato altro. Tanto comunque è sufficiente a comprovare un più o meno vasto insediamento abitativo in quella zona a partire da un’epoca che per quello che abbiamo detto prima può farsi risalire ai tempi della caduta dell’impero romano.
Biagio Pace, invero, accenna ad un ipogeo cristiano in «quell'abitato prearabo che fa postulare il nome di Racalmuto» ([56]) Nostre personali ricerche ci portano a ritenere che l’importante notizia poggia su questo passo del Tinebra Martorana: «..alla contrada Grutticeddi esiste un poggetto di masso scavato in una grotta; da molti mi fu assicurato che in quella grotta furono rinvenuti dei sepolcri scavati nel masso con resti di ossa». Da qui - per esser franchi - all'ipogeo cristiano ce ne corre. Una ipotesi dunque, ma tutt'altro che inattendibile come i recenti ritrovamenti archeologici nei dintorni sembrano comprovare. Di certo sappiamo che le Grotticelle erano una plaga abitata anche al tempo dei bizantini. Grotticelle e dintorni poterono dunque essere fattorie o pertinenze di 'massae' soggette al papa Gregorio nel VI secolo o alla chiesa di Ravenna oppure costituire beni propri della corte di Bisanzio. Sulla scia di autorevoli storici ([57]) è pur congetturabile una sorta di continuità tra l'assetto agrario dell'epoca bizantina e quella della Sicilia post-araba. La frattura saracena a Racalmuto, come altrove, fu profonda ma non invalicabile.
Ma l'ultimo reperto relativo a Racalmuto pre-arabo resta per il momento il cennato ripostiglio di aurei imperiali (oltre duecento) rinvenuto casualmente in contrada Montagna. Sul ritrovamento delle monete a Racalmuto, ho sentito varie versioni pittoresche sin dalla prima infanzia: lavori di scasso per l'impianto di una vigna; scoperta del tesoro da parte di operai, tra i quali un contadino di non eccelse capacità intellettuali; rapacità del padrone del fondo; imprevista denuncia del minorato; intervento dei carabinieri e sequestro delle monete finite al Museo di Agrigento. A quel ripostiglio si riferisce André Guillou ([58]), secondo il quale è da collocare nei secoli VII-VIII il «numero notevole di tesori di monete ... dispersi nell'isola», tra i quali le monete di Racalmuto costituite da «205 pezzi, riferentisi a Tiberio II - Héracleonas».. ([59]) Quelle monete sono oggi custodite in una sala sempre chiusa del Museo Agrigento, quasi a simbolo del pubblico oscuramento della nostra antica storia locale. Se non fosse stato per il francese Guillou, le ultime vicende bizantine di Racalmuto sarebbero finite nell'oblio o inficiate da errori di datazione ([60]).
RACALMUTO, VILLAGGIO ARABO
Caduta Agrigento sotto gli Arabi (829), il più o meno fiorente villaggio bizantino di Casalvecchio viene inglobato nell’oscuro dominio berbero. Di congetture se ne possono formulare tante, di verità storiche solo deludenti barlumi.
Che cosa ne fu di quelle abitazioni? Le attuali conoscenze archeologiche sono insufficienti per teorizzare alcunché. Sembra però probabile che i coloni un tempo colà dimoranti abbiano finito con l’abbandonare le loro case e spostarsi altrove. Nessuna reperto attesta il sopravvivere in questa zona della comunità bizantina, dopo il consolidarsi del dominio arabo. E se diamo credito alla toponomastica, una località chiamata Saracino è segnata nelle mappe catastali al n.° 21, mentre quella di Casalvecchio - ospitante l’antico villaggio greco - vi è indicata coi nn. 47-48, a testimonianza della non stretta contiguità dei due luoghi d’insediamento.
E che può dirsi della religione? E’ opinione diffusa che gli Arabi fossero tolleranti, ma noi non sappiamo né di moschee né di chiese cristiane aperte al culto in quel tempo nella zona dell’intero altipiano. Ed in mancanza di documentazione siamo lasciati liberi di credere a quel che vogliamo e propendere verso tesi di eclissi della religione cattolica o di una sua sopravvivenza, come di un fiorire del culto islamico tra l’Est del Castelluccio ed i luoghi del tramonto sul crinale della Montagna. Siamo troppo affascinati dai versi di Ibn HAMDIS ([61]) per non propendere per questa seconda tesi. Pianse costui con accenti che trafiggono ancora il cuore dei racalmutesi di sangue arabo:
«Ho riacquietato il mio animo quando ho visto la mia patria assuefarsi alla malattia mortale, fastidiosa.
«Che? Non l'hanno macchiata d'ignominia? Non hanno, mani cristiane, mutate le sue moschee in chiese,
«dove i frati picchiano a loro voglia, e fanno chiacchierare le campane mattina e sera?
«O Sicilia, o nobili città, vi ha tradite la sorte, voi che foste propugnacolo contro popoli possenti.»
«Quanti occhi tra voi vegliano paventando, i quali un dì, sicuri dai Cristiani, traevano dolci sonni?
«Vedo la mia patria vilipesa dai Rùm [cristiani]; essa che in mano dei miei fu sì gloriosa e fiera.
«Aprirono con le loro spade i serrami di quel paese: splendeva esso di luce, e vi lasciarono le tenebre.
«Passeggiano nei paesi i cui cittadini giacciono sotterra: oh no, non hanno più paura di incontrarvi quei pugnaci leoni.»
Consolidatasi la conquista araba, a Racalmuto si stabiliscono i berberi, che per la maggior parte erano contadini venuti in cerca di terra, mentre gli invasori arabi erano soprattutto soldati che preferivano lasciar lavorare i cristiani per loro. Si era, dunque, superato il periodo eroico del gihàd ed il rappresentante dell’emiro in Sicilia assunse anche le funzioni amministrative. La sua autorità si estese su tutti gli abitanti dell’isola e cioè su un vero e proprio mosaico di razze e di religioni. Anche i musulmani erano di origine etnica la più disparata: arabi, berberi, spagnoli, locali convertiti. La restante popolazione era costituita da dhimmi, ossia locali non convertitisi all’Islam i quali, in cambio del pagamento di un tributo annuo fisso, avevano salva la vita e le proprietà, conservando libertà di religione e di culto.
Quanti erano i berberi e quanti i dhimmi a Racalmuto? E quesito per lo stato delle conoscenze senza risposta. Gli infedeli (i dhimmi) che per avventura avessero deciso di restarsene nei territori conquistati dovevano corrispondere la gizya ed il kharàj - imposta personale (o di capitazione) questa, fondiaria quella - inizialmente non distinte; ne erano esclusi gli indigenti, gli schiavi, le donne, i vecchi ed i bambini.
Dopo neppure un quarantennio dalla conquista, scoppiò una contestazione che sicuramente coinvolse l’altipiano di Racalmuto. Lasciamo la parola ad un arabista del calibro di Rizzitano ([62]) per tratteggiare questa congiuntura storica di grande risalto anche per le vicende arabe locali.
«In entrambe .. le classi sociali - in cui era divisa orizzontalmente la comunità dei sudditi dell’emiro - erano ben presto insorti malcontenti, rivalità e ribellioni anche violente. Le forti personalità e le doti eccezionali di Ibrahìm ibn Allàh e di Al-Abbàs ibn al-Fadl - ma soprattutto i ricchi bottini che questi due energici condottieri erano riusciti a conquistare - avevano temporaneamente appagato e tenute quiete le truppe. Tuttavia, non si era ancora concluso il quarto decennio della conquista, consolidatasi soprattutto nel settore centro-orientale, che già i musulmani davano qualche segno di cedimento e mostravano di sentirsi meno impegnati nell’ulteriore rafforzamento delle posizioni conquistate e nella partecipazione all’opera di sistemazione amministrativa del paese, più sensibili alle sollevazioni e ai disordini che elementi sobillatori cercavano di fomentare soprattutto nell’agrigentino. Qui prevaleva l’elemento berbero; ed è da ritenere che esso agisse in collusione con i bizantini ai danni degli arabi, per cui si riproponeva anche in Sicilia, e forse si esasperava quella incompatibilità fra le due razze diverse che, in Ifìqiya, aveva già provocato - e continuava a provocare - non pochi e cruenti scontri. A tale proposito è da osservare che - fra i diversi gruppi etnici venuti in Sicilia con l’esercito di occupazione - i due gruppi più consistenti erano proprio quello arabo e quello berbero. Accomunati dalla fede, ma solo apparentemente fruenti di uguali condizioni sociali, gli arabi si erano sempre sentiti, in ogni circostanza, i padroni dei berberi, e sempre cedettero all’orgoglio di averli dominati fin dall’ormai remoto secolo vii, quando l’Islàm iniziò la conquista del Maghrib. Al tempo stesso i berberi, genti di antichissime tradizioni e ben noti per la loro fierezza, non tolleravano condizioni di subordinazione agli arabi, a cui fra l’altro si sentivano superiori per numero, industriosità e capacità soprattutto nel settore agricolo.
«Per quanto concerneva invece i dhimmi, questi erano soprattutto notabili locali, funzionari, proprietari terrieri, contadini commercianti. Anche fra loro il malcontento era assai vivo. Il carico fiscale che dovevano sostenere in cambio del loro statuto era sempre più pesante; oggetto di continue discriminazioni e vessazioni da parte dei musulmani, essi erano esposti più che mai agli umori del momento, all’opportunismo del principe, alle rappresaglie - spesso sanguinarie - da parte degli elementi musulmani più violenti e turbolenti - venuti in Sicilia immaginando di conquistarvi facili ricchezze. Ora che le campagne militari - rivelatesi più dure di quanto forse inizialmente supposto - fruttavano bottini minori, è chiaro che erano i dhimmi a dovere «pagare» l’irrequietezza di questi elementi musulmani. Tale era il contesto sociale siciliano alla morte di a-Abbàs.
«Pertanto a nuovo governatore - Khafagia ibn Sufyàn (862-869) - che era stato preceduto da altri due reggenti, rimasti in carica complessivamente un anno, s’impose il compito di eliminare, per quanto possibile, ogni motivo di dissidio, onde evitare che si trovasse pregiudicata la ripresa delle operazioni militari, avviate presumibilmente ad un anno di distanza dall’arrivo a Palermo di quel nuovo rappresentante dell’autorità aghlabita d’Ifrìqiya ([63])»
Non è questa la sede per dilungarsi sulle imprese militari a Siracusa, Ragusa, Noto e Scicli di Khafagia: ci interessa invece l’episodio narrato dall’Amari che per tanti versi investe la storia locale racalmutese. Siamo nell’anno 867 e «par che seguendo la costiera di mezzogiono - scrive l’Amari nella sua SMS - giugnessero i Musulmani presso Girgenti, avendo costretto a calarsi agli accordi il popolo di Ghirân, che io credo la terra di Grotte: e moltissime altre castella occuparono; finché il capitano infermo di malattia sì grave, che fu mestieri portarlo a Palermo in lettiga. Ma non andò guari che il rividero i Cristiani nel duegento cinquantatrè (10 gennaio a 30 dicembre 867) cavalcare i contadi di Siracusa e di Catania, distruggere le méssi, guastar le ville; mentre le gualdane ch’ei spiccava dal grosso dell’esercito depredevano ogni parte dell’isola. »
Elementi arabi, con intenti vessatori, si spandono nell’867 nelle campagne attorno a Grotte (investendo, quindi, anche il villaggio del nostro Casalvecchio) distruggendo, depredando, violentando. Avranno lasciato dietro di loro morte e desolazione. Se una qualche attendibilità - e noi la neghiamo del tutto - ha l’antica tradizione che vuole attribuire a Racalmuto il significato di «Paese morto», questa andrebbe collegata alla vicenda dell’867 che abbiamo richiamata. Solo se così inquadrata, può avere una qualche validità storica la dissertazione del Tinebra Martorana (v. pag. 33) sul villaggio chiamato dai «Saraceni .... Rahal-Maut, villaggio morto, distrutto [...] a memoria perenne.»
Amari ritiene che Grotte corrisponda alla fortezza di Ghîran sol perché Ghîran in arabo significa grotta o caverna. Ed allora perché non congetturare che si riferisca alla contrada di Racalmuto chiamata ancor oggi Grotticelle attorno a cui si spandeva un’apprezzabile villaggio arabo-bizantino? o alle tante grotte che erano abitate sotto il Carmelo, nell’antico quartiere denominato in epoca post-sveva S. Margaritella? Ma tanto solo per rendere avvertiti della non perspicuità dell’argomento toponomastico dell’Amari.
Girgenti - dominio dei turbolenti berberi - si sollevò, ancora una volta, nel 937 contro il delegato distaccato da Sàlim in quel territorio accusato di soprusi. La comunità racalmutese dovette essere coinvolta in quei torbidi. I ribelli marciarono su Palermo ma furono sconfitti. Comunque i palermitani preferirono adire le vie diplomatiche e fecero ricorso al califfo fatimita perché destituisse il governatore. Il nuovo governatore nel marzo del 938 riprese, però, le ostilità e mosse contro i ribelli girgentani, ma venne sconfitto. La rivolta finì con il propagarsi in tutto il Val di Mazara. Khalìl ibn Ishàq (937-941) - che era il nuovo reggente - reagì nella primavera del 939 e nel novembre del 940 riconquistò Girgenti, focolaio della sommossa, facendola capitolare per fame. Coinvolgimenti della comunità musulmana di Racalmuto vi furono senza dubbio, ma anche qui la nostra ignoranza dei fatti è totale.
Nell’estate del 948 viene a Palermo l’emiro al-Hasan ibn Ali (948-953), dell’antica dinastia dej Kalbiti. Con lui ebbe inizio in Sicilia un emirato ereditario - salve sempre le forme dell’investitura califfale - protrattosi per circa un secolo (dal 948 sino al 1053) che sembra contraddistinto da un più elevato livello di vita. Possiamo sospettare che anche l’insediamento musulmano racalmutese abbia beneficiato di tale favorevole congiuntura.
Ma attorno al 1065 si determina un momento di debolezza per gli arabi di Sicilia: sono diverse le famiglie che cercano di stabilire emirati indipendenti a Mazara, Girgenti e Siracusa. Finì che Ibn at-Tumnah ed altri musulmani di Siracusa e Catania s’indussero ad appoggiare i contrattacchi cristiani nel 1060-61. Per accordo col Guiscardo, la conquista della Sicilia toccò soprattutto a Ruggero d’Altavilla.
Chamuth fu l'ultimo emiro della dominazione araba del territorio tra Agrigento ed Enna. Egli venne vinto, ma non umiliato, dal conte Ruggero il normanno nel 1087. Si può anche ipotizzare che a Racalmuto vi fosse una fortezza, se non due, vuoi al Castelluccio, vuoi 'a lu Cannuni'. E 'Rahal' vuol anche dire in arabo fortezza, castello, stazione. Quella fortezza - se esistette - era sotto il dominio di Chamuth.
Conosciamo le gesta di Chamuth perché un benedettino normanno, che fu al seguito del conterraneo Ruggero ce ne ha tramandato la memoria. Trattasi della cronaca del secolo XI del monaco Gaufredo Malaterra. Michele Amari non lo ebbe in grande stima, ma nel raccontare quegli eventi nella sua Storia dei Musulmani di Sicilia non fa altro che fargli eco. A nostra volta, trascriviamo quel passo di sapido stile ottocentesco. E' una pagina di storia che, in ogni caso, investe Racalmuto nel frangente della sconfitta araba ad opera dei predoni normanni.
«Il cauto normanno [il conte Ruggero] avea occupata Girgenti, - narra appunto Michele Amari - mentre i marinai italiani si apparecchiavano tuttavolta all'impresa di al-Mahdûyah. Sbrigatosi di Benavert nel 1086, radunava a dí primo aprile del 1087 le milizie feudali, volenterose e liete per la speranza di acquisto; e sí conduceale all'assedio di Girgenti. Ubbidiva allora Girgenti con Castrogiovanni e con tutto il paese di mezzo, a un rampollo della sacra schiatta di Alì, del ramo degli Idrisiti che avevano regnato un tempo nell'Affrica occidentale, e della casa de' Bamì Hammud, la quale tenne per poco il califato di Cordova (1015- 1027) indi i principati di Malaga e di Algeziras (1035-1057), ma cacciata dalla Spagna, andò cercando fortuna qua e là. Par che un uomo di codesta famiglia, passato in Sicilia, non sappiamo appunto in qual anno, abbia preso lo stato in quelle province, tra le guerre civili che si travagliarono coi figli di Tamîm; portato in alto non da propria virtú, ma dal nome illustre e dalle pazze vicende dell'anarchia. Chamut il suo nome, qual si legge nel Malaterra e ben risponde alla voce che a nostro modo si trascrive Hammûd.
«Il quale si rannicchiò tra sue rupi inaccesse di Castrogiovanni, mentre la moglie e i figlioli soggiornavano in Girgenti, e i Normanni circondavano la città, batteano le mura con lor macchine; tanto che occuparonla a dì venticinque luglio del medesimo anno. Ruggiero v'acconció fortissimo un castello, munito di torri, bastioni e fosso; lasciovvi buon presidio, e battendo la provincia, in breve ne ridusse undici castella: Platani, Muxaro, Guastarella, Sutera, Rahl, ([64]) Bifara, Micolufa, Naro, Caltanissetta, Licata, Ravenusa; ([65]) di talché occupava tutto il paese dalla foce del fiume Platani a quella del Salso ed a Caltanissetta, di che ei compose non guari dopo, con qualche aggiunta la Diocesi di Girgenti, ed or vi risponde tutt'intera la provincia di questo nome e parte della finitima di Caltanissetta. La moglie e i figlioli dell'Hammûdita caduti in suo potere, tenne Ruggiero in sicura e onorata custodia: pensando, così nota il Malaterra, che più agevolmente avrebbe tirato quel principe agli accordi, con servare la sua famiglia illesa da tutt'oltraggio.» ([66])
E’agevole intravedere nel racconto dell’Amari la fonte malaterrana. Spesso la pagina del grande storico è al riguardo una mera traduzione dal latino ([67]). Credo che Chamuth abbia avuto un qualche peso nelle vicende di Racalmuto ed è quindi non dispersivo soffermarsi su questo personaggio. Costui, caduto in un tranello dell'astuto Ruggero, per salvare moglie e figli, si arrende e si fa cristiano. «Chamut - precisa Malaterra - enim cum uxore et liberis christianus efficitur, hoc solo conventioni interposito, quod uxor sua, quae sibi quadam consanguinitatis linea conjungebatur, in posterum sibi non interdicetur». In altri termini, egli si fa cristiano con moglie e figli alla sola condizione che non gli fosse tolta la moglie, alla quale peraltro era legato da vincoli di parentela. Poi non gli resta che far fagotto per Mileto in Calabria. Un indice di come quei rudi normanni, guerrieri e bigotti, imponessero già la conversione agli arabi vinti. E qui siano in presenza di quelli nobili. Quelli ignobili e contadini - come dovettero essere i paesani dei castelli agrigentini conquistati - poterono forse risparmiarsi l'onta di una abiura religiosa. Ma restando musulmani furono ridotti ad una sorta di schiavitù, tartassata ed angariata. E tale sorte piansero per secoli gli antenati nostri di Racalmuto. «dimma, gesia [o gizia], agostale, aliama, algozirio, jocularia, angaria, cabella, secreto, bajulo, catapano, censo, terraggio, terraggiolo etc.», sono termini che sanno di tasse, soprusi, discriminazioni, angherie, iattanze, arroganza del potere. Sono la lingua degli uomini del potere che parlano forestiero ma si servono di disponibili figuri locali, ammessi alla loro congrega. E vicendevolmente si fanno da padrini nei battesimi, da compari nei matrimoni, amichevolmente ed in termini di accondiscendente familiarità, ma a danno e scorno degli altri, degli esclusi, del popolino basso e villano. Sono i nomi dell'impotenza, della rabbia e dello sfruttamento perduranti sino ai giorni nostri. E l'impareggiabile Sciascia ne coglie gli umori e i malumori quali si aggrumavano al Circolo della Concordia [rectius, Unione] negli anni cinquanta. Sono, infatti, godibili talune magistrali pagine di 'Le Parrocchie di Regalpetra' (v. p. 60 e 61 e per quel che riguarda l'argomento, la pag. 17).
Il tremendo passaggio dalla libertà araba allo stato servile alle dipendenze di vescovi esattori, santi per i fatti loro eppure vessatori per il bene delle varie 'mense' della chiesa e del canonicato agrigentino, lo si intuisce, lo si può ricostruire ma non è documentabile se non con le poche righe del Malaterra.
A corto di notizie, Tinebra-Martorana ricorre alle imposture dell'Abate Vella - e Sciascia vi indulge con un benevolo sorriso - e alle invenzioni fantastiche di un ‘galantomo’ della fine del secolo scorso, Serafino Messana. Abbiamo accennato alla poca verosimiglianza delle notizie di un governatore di Rahal-Almut a nome Aabd-Aluhar, servo dell'emiro Elihir, diligente nel censimento del nostro fantomatico Racalmuto nell'anno 998; di una popolazione di 2095 anime [si pensi che nella seconda metà del XIV il solerte arcidiacono Du Mazel contava per la curia papale di Avignone non più di seicento anime nel nostro paese, abitanti in gran parte in case di paglia 'palearum']; e di tutte quelle altre patetiche elucubrazioni storiche del giovane aspirante medico Tinebra. Non sapremo mai dove don Serafino Messana abbia tratto gli spunti per il suo racconto fantasioso sui due giovani saraceni messisi a strenua difesa di Racalmuto nell'aggressione del gran conte Ruggero. Nulla di storico, dunque, in quelle pagine del Tinebra-Martorana, salvo le spigolature sulle tasse e sui 'dsimmi, mutuate acriticamente dal libro dell'avvocato agrigentino Picone.
I gravami, le violenze, le soggezioni, la morte, il pianto, la paura, l'ignominia dell'invasione di Racalmuto nell'XI secolo vi furono, ma solo l'immaginazione può ricostruire quelle scene di panico e distruzione. I cronisti del tempo o ebbero il compito di osannare il potente, come il Malaterra nei riguardi di Ruggero il Normanno, o erano poeti arabi di altri luoghi che non ebbero occasione di tramandare echi, rimpianti o cenni sulla devastata Racalmuto. Non abbiamo neppure il ricordo di quel nome antico. Solo il Racel del Malaterra, incerto e controverso.
Eppure, furono giorni funesti: i normanni - cavalieri nordici, possenti e biondi - erano famelici di vergini e di prede. La Racalmuto contadina poco bottino poté farsi levare; ma le vergini o le giovani mogli furono di certo ghermite da quei predatori dagli occhi cerulei e dai capelli chiari. Ed il misto di razze, di figli nerissimi e saraceni e di figli longilinei e di vezzoso colore, ebbe da allora inizio per durare fino ai nostri giorni, ineludibilmente.
Michele Amari non ebbe in simpatia l’emiro Chamuth - quello a cui il padre gesuita Parisi collega il toponimo di Racalmuto - e lo descrive come fellone, vile e rinnegato. Prende spunto dal Malaterra, ma ne stravolge senso e giudizi:
«E veramente - scrive l'A. a pag. 178 della sua Storia dei Mussulmani - Ibn Hammud si vedea chiuso d'ogni banda in Castrogiovanni; occupata da' Cristiani tutta l'Isola, fuorché Noto e Butera; potersi differire, non evitar la caduta; né egli ambiva il martirio, né i pericoli della guerra, né pure i disagi della gloriosa povertà. Ruggiero fattosi un giorno con cento lance presso la rôcca, lo invitava ad abboccamento; egli scendea volentieri ed ascoltava senza raccapriccio i giri di parole che conducevano a due proposte: rendere Castrogiovanni e farsi cristiano. Dubbiò solo intorno il modo di compiere il tradimento e l'apostasia, senza rischio di lasciarci la pelle: alfine, trovato rimedio a questo, accomiatossi dal Conte, il quale se ne tornava tutto lieto a Girgenti. Né andò guari che il Normanno con fortissimo stuolo chetamente si avviava alla volta di Castrogiovanni; nascondeasi in luogo appostato già col musulmano; e questi fatti montar in sella i suoi cavalieri, traendosi dietro su per i muli quanta altra gente poté, quasi a tentar impresa di gran momento, uscì di Castrogiovanni, li menò diritto all'agguato. E que' fur tutti presi; egli accolto a braccia aperte. Allor muovono i Cristiani alla volta della città; la quale priva dei difensori più forti, si arrende a parte, e Ruggiero vi pone a suo modo castello e presidio. Ibn HAMMUD poi si battezzò, impetrato da' teologi del Conte di ritenere la moglie ch'era sua parente, né gradi permessi dal Corano, vietati dalla disciplina cattolica. Ma non tenendosi sicuro de' Mussulmani in Sicilia, né volendo che Ruggiero pur sospettasse di lui in caso di cospirazioni e tumulti, il cauto e vile 'Alida chiese di soggiornare in terra ferma; ebbe da Ruggiero certi poderi presso Mileto e quivi lungamente visse vita irreprensibile, dice lo storiografo normanno.»
Di quei cento lancieri al seguito di Ruggiero per la consunzione di una resa proditoria e vile, quanti erano stati prima a Racalmuto (la Racel del Malaterra) a seminare terrore, violenza e morte? A Racel vi era forse un castello (o due: il Castelluccio e quello di piazza Castello); vi era, probabilmente, una guarnigione di berberi sognatori e disattenti; non erano eroici guerrieri e comunque erano pochi. Piombarono i cento lancieri di Ruggiero da Girgenti, li soppressero e si sparsero per il casale e per le campagne a razziare e violentare. I lancieri erano soprattutto predoni.
L'Amari è aspro nei giudizi contro il capo degli arabi, CHAMUTH. Ma costui aveva già moglie e figli in mano dei Cristiani a Girgenti. Il Malaterra, monaco benedettino, intorbidisce ancor più la sua non chiara prosa per mettere un velo pudico alle insane voglie dei predatori suoi compaesani. Costa fatica al Conte Ruggero non far violare la sua eccellente prigioniera. E noi qualche dubbio l'abbiamo sull'effettivo successo dell'iniziativa del Normanno. I suoi sudditi erano irrefrenabili. Anche lui del resto si era già macchiato di molte ignominie, specie in giuventù. Il suo biografo ufficiale che pure è chiamato all'osanna del suo committente, ne sente tante a corte da inorridire, fors'anche per la sua mentalità claustrale. Ed allora la sua settaria cronaca si lascia andare a pesanti giudizi morali contro i suoi.
Quando, però, si tratta di cose militari, il candido monaco crede alle esagerazioni dei vecchi soldati del Conte. Le forze del nemico - naturalmente sconfitte - si accrescono a dismisura; quelle amiche e vittoriose si assottigliano contro ogni logica ed attendibilità. L'Amari, tutto preso dalla simpatia per i musulmani, sbotta e sentenzia che nelle cronache del monaco Malaterra, le cifre sulle forze musulmane vanno divise per otto ed, invece, vanno moltiplicate per otto le cifre che riguardano le forze normanne, quando vincono.
Eppure il Malaterra resta sempre cronista piuttosto attendibile, come dimostra il Pontieri nell'opera citata. I tanti episodi cruciali della conquista della Sicilia da parte delle orde normanne, tra i quali quelli relativi all'assalto della fortezza di Racalmuto (o Racel), hanno una sola fonte storica che è la cronaca del Malaterra. Questo monaco non sempre è stato testimone oculare. Ormai avanti negli anni, è onorato ospite della corte di Ruggero il quale ormai si ammanta dei fregi regali, anche se non dismette il suo nomadismo ereditato dagli avi vichinghi. Ascolta le fanfaronate dei decrepiti veterani del Conte. Vantano ora i galloni di generali, si fanno chiamare baroni, si sono arricchiti, hanno possedimenti in Sicilia, ma restano i rudi vandali, incolti ed immorali della loro avventuriera giovinezza.
Il Malaterra ode nefandezze che gli ispirano disagio morale. E' fervente cristiano, di buona cultura ecclesiastica. Scrive, esalta il Conte; indulge, però, al suo moralismo ed ama moraleggiare chiosando gli eventi con citazioni bibliche e religiose.
Abbiamo visto l'Amari irridere a Chamuth. Lo ha fatto alla luce degli incisi moraleggianti del Malaterra. Il giudizio va, però, corretto con una lettura più spassionata della cronaca del benedettino. Questi dice che il Conte Ruggiero aveva già debellato tutti i potenti di Sicilia, eccetto Chamuto. La voglia di annientarlo era tanta ma l'impresa non era agevole e ciò costituiva un cruccio per il Normanno. Ruggero non intende demordere; sa però che non è sul campo che può avere ragione del musulmano. Pensa, quindi, a batterlo con l'astuzia e l'inganno. L'ablativo assoluto adoperato dal Malaterra è efficace: «ipso circumveniendo debellato». Lo si può debellare solo circuendolo. Chamuth allora non è l'imbelle che ama descrivere M. Amari. Per vincere il Musulmano, il conte Ruggero assalta l'impreparata Girgenti ove sa che dimorano la moglie ed i figli di costui. Prende la città, la fortifica. Principalmente si preoccupa della sorte della moglie di Chamuth. Questa viene sottratta da ogni «dehonestatione» e viene messa sotto diretta tutela del conte normanno, il quale è consapevole che in tal modo il Saraceno può venire ricattato ed essere facile preda del nemico. Il conte Ruggiero è proprio «sciens Chamutum sibi facilius reconciliari», afferma il Malaterra; ciò equivale a dire che così sarebbe stato più facilmente soggiogabile.
Per fare terra bruciata attorno al nostro Chamuto, tocca ad 11 castelli l'ignominia delle scorribande dei lancieri di Ruggiro. Alla nostra Racalmuto è dato assaggiare le moleste attenzioni dei normanni, come ai citati e sicuri Platani, Naro, Guastanella, Sutera, Bifara, Caltanissetta e Licata o agli incerti Missar, Muclofe e Remise.
Se poi il Chamuto si arrese, non ci sembra proprio che tutto sia da imputare al suo essere un flaccido uomo d'armi. E se anche fosse stato, questo non ci pare un grande demerito.
Per gli storici arabi, le città di Chamuth sono costrette ad arrendersi per fame. E l'accenno arabo al crollo di Girgenti e Castrogiovanni ci convince molto di più delle ingenuità narrative del Malaterra o delle note prevenute dell'Amari. Del resto, se i cristiani avevano prima portato desolazioni nelle terre, tra cui Racalmuto, intercorrenti tra Agrigento ed Enna, avevano tagliato i viveri a Chamuth e la sua resa fu inevitabile.
Il Chamuth venne in seguito rammentato con qualche tono di esaltazione. A Sciacca per secoli si pensò di possedere il fonte battesimale in cui era battezzato l'ultimo potente arabo di Girgenti, e si era fieri di ciò. Un certo Vincenzo VENUTI aveva scritto una memoria in tal senso. A stroncar tutto è il solito Michele Amari che la reputa una mera credenza volta ad onorare un immeritevole CHAMUTH , dal canto suo, «degenere nipote di 'Ali». Per il resto, il libro del Venuti sarebbe stato corredato da «diplomi che puzzano di falso, negli opuscoli di autori Siciliani [V. Venuti, t. VII, p. 16 - Palermo, 1762]».
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