ALLEGATO N.° 1
Sciascia dubita del blasone dei Tulumello ancora nel
1982 quando si accinge a chiosare, da par suo, il fragile e giovanile lavoretto
storico di Nicolò Tinebra Martorana. Vale un trattato di araldica quell’inciso
“una sola famiglia aveva titolo nobiliare, quella dei baroni Tulumello che fu
rivale dei Matrona: incerta però resta la legittimità del titolo.”
Sorprende come lo scrittore - noto
onnivoro in materia di letture - non abbia mai dato uno sguardo (oppure ha
voluto pregiudizialmente prescinderne) ai ponderosi dieci volumi sulla nobiltà
siciliana dell’accreditato San Martino-De Spucches. Sui Tulumello avrebbe
trovato queste ricerche:
TOLUMELLO
O TULUMELLO
FEUDO GIBELLINI
[N.B.: Ma dopo l'Autore sembra
cambiare opinione. V. infatti Vol. IX
- quadro 1454 pag. 221 - onze 157.14.3.5 annuali di censi feudali - GIBELLINI -
Cedolario, vol. 2463, foglio 204.
Giulio
GIARDINA GRIMALDI, Principe di
Ficarazzi s'investì di due terzi del feudo di GIBELLINI a 3 dicembre 1787 come
figlio primogenito ed indubitato successore di Diego GIARDINA e MASSA
(Conservatoria, libro Investiture 1787-89, foglio 25).
1.
- Quindi vendette agli atti di Not. Salvatore SCIBONA di Palermo li 22 luglio
1796 a D. Giovanni SCIMONELLI, pro persona nominanda annue onze 157, tarì 14,
grana 3 e piccioli 5 di censi sopra salme 57, tumoli 11 e mondelli 2 di terre,
dovute sul feudo di Gibellini; e ciò per il prezzo in capitale di onze 3500
pari a lire 44.625. Il detto Scimoncelli dichiarò agli atti di Notar Giuseppe
ABBATE di Palermo che il vero compratore fu il Sac. D. Nicolò TOLUMELLO. Per speciale grazia accordata dal Re a 29
aprile 1809 fu confermato lo smembramento di dette onze 157 e rotte dal feudo
di GIBELLINI già effettuate senza permesso Reale (Conservatoria, libro Mercedes
1806-1808, n. 3 foglio 77).
2.
- D. Giuseppe Saverio TOLUMELLO
s'investì a 7 giugno 1809 per refuta e donazione a suo favore fatte dal Sac. D.
Nicolò sudetto agli atti di Notar
Gabriele Cavallaro di Ragalmuto li 22 aprile 1809 (Conservatoria, libro
Investiture 1809 in poi, foglio 40). Questo titolo non esce nell'«Elenco
ufficiale diffinitivo delle famiglie nobili e titolate di Sicilia» del 1902.
L'interessato non ha curato farsi iscrivere e riconoscere.
Là dove Sciascia potrebbe avere
ragione è negli oscuri passaggi della baronia dal Giuseppe Saverio Tulumello a
Luigi Tulumello, che contestato barone di Gibillini fu nella parte finale del
secolo. E.N. Messana fornisce aneddoti e sapide denigrazioni nel suo lavoro
(cfr. specialmente le pagg. 299-307, ma passim.)
Impensabile comunque che dopo Garibaldi vi potesse essere più spazio per inezie
come le investiture feudali. E Luigi Tulumello, “baruni ranni” lo diventa dopo la morte del padre don Giuseppe
Tulumello - sposato plebarmente Messana, anche se Eugenio Napoleone M. sembra
minimizzare la cosa nei suoi incessanti osanna alla propria famiglia -, morte
avvenuta nel 1869. A dire il vero non troviamo mai indicato Giuseppe Tulumello
con il titolo di barone. Forse il plebeo matrimonio con una Messana, nipote di
un semplice gabellotto e poco onorevole esattore dell’odiata tassa sul
macinato fu d’ostacolo all’assegnazione
del blasone nelle incandescenti concertazioni di famiglia. Barone invece viene
detto il padre di Giuseppe, don Luigi Tulumello. Nell’ultimo “rivelo” del 1822
che si conserva in Matrice ecco come viene, emblematicamente, registrato il
nucleo familiare del potente don Luigi Tulumello:
cognome nome par.la anni
titolo
TULUMELLO
|
LUIGI
|
|
|
BARONE DON
|
TULUMELLO
|
MARIA
|
MOGLIE
|
|
DONNA
|
TULUMELLO
|
VINCENZO
|
F.O
|
13
|
|
TULUMELLO
|
ROSA
|
F.A
|
11
|
|
TULUMELLO
|
CARMELA
|
F.A
|
9
|
|
TULUMELLO
|
GIUSEPPE
|
F.O
|
5
|
|
Ovvia la preminenza del vero barone:
TULUMELLO
B.NE
|
GIUSEPPE SAVERIO
|
|
|
BARONE DON
|
TULUMELLO
B.NE
|
GRAZIA
|
MOGLIE
|
|
DONNA
|
Gli altri ceppi della famiglia,
contraddistinti da deferenza con il rispettoso epiteto di “don” o “donna”,
sono, frammisti a tanti altri Tulumello, sprezzanemtente segnati come ignobili,
quasi che l’origine non fosse stata identica anche per i Tulumello del Ramo
Catallo (volgarizzazione del nome Cataldo di un loro antenato):
TULUMELLO
|
SUOR MARIA
TERESA
|
|
SUPERIORA
|
|
TULUMELLO
|
SR. MARIA
MADDALENA
|
|
|
|
TULUMELLO
|
D.A MARIA
CONCETTA
|
EDUCANDA
|
|
|
TULUMELLO
|
D.A CAROLINA
|
EDUCANDA
|
|
|
TULUMELLO
|
D.A NICOLETTA
|
EDUCANDA
|
|
|
TULUMELLO
|
ROSA
|
VEDOVA
|
|
DONNA
|
TULUMELLO
|
ROSALIA
|
VEDOVA
|
|
DONNA
|
TULUMELLO
|
GIOVANNI
|
|
|
DON
|
TULUMELLO
|
CARMINA
|
MOGLIE
|
|
DONNA
|
La genesi del titolo nobiliare -
anche se legittima - è alquanto singolare. Si è visto come sia stato il
sacerdote faccendiere don Nicolò Tulumello, quello osannato del Collegio di
Maria, ad acquistare l’ormai fatiscente blasone del baronato di Gibillini dalla
nobile ma sperperatrice famiglia
Giardina Grimaldi. Il sacerdote era nato a Racalmuto nel 1759 viene così lumeggiato in
un elenco di sacerdoti che si custodisce in Matrice.
«n.° 334. D. Nicolò Tulumello -
Colleg., Vicario Foraneo e Direttore del Collegio di Maria e Fondatore del
medesimo, pochi mesi prima di morire si ritirò nell’Oratorio dei Filippini in
Girgenti dove morì il 5 Marzo 1814, anni 65, e per ordine di Monsignor Granata
Vescovo di Girgenti si trasportò il cadavere di Lui nella chiesa di questo
Collegio di Maria.»
Pochissimi sono i preti ed i
religiosi di casa Tulumello: il primo in assoluto è D. Michelangelo Tulumello,
nato nel 1702 e morto il 13 gennaio 1768. La fortuna dei Tulumello, o meglio
del ceppo nobiliare, è coeva con il predetto sacerdote. Subentra don Nicolò
Tulumello che di fortuna ne fece anche troppa. E’ pressoche suo coetaneo don
Giuseppe Tulumello, nato nel 1765 e morto il 21 aprile del 1804. “Economo e
fidecommisso della chiesa del Monte”, ce lo indica il solito registro della
Matrice. Chiude la piccola schiera don Ignazio Tulumello, nato a Racalmuto nel
1826 e morto il 13 maggio 1897. “Don Ignazio Tulumello fu Luigi, collegiale del
collegio dei SS. Agostino e Tommaso, confessore ordinario di questo Collegio di
Maria, Arciprete di Castrofilippo”, sendo il noto registro della Matrice.
Don Nicolò Tulumello diventa facoltosissimo
- per quali vie non è dato sapere - e compra il titolo nobiliare di Gibillini.
Siamo nel 1796, il giorno 22 di luglio: i trambusti della rivoluzione francese,
le mattane antifeudale del vicerè Caracciolo (1781-1786), la prammatica
sanzione del 1788 dissolvitrice delle antiche leggi feudali del XIII secolo Volentes e Si aliquem, l’invasione del
regno di Napoli da parte delle truppe napoleoniche del 1798 e la fuga in
Sicilia di ferdinando di Borbone sulla nave ammiraglio di Nelson, dovevano mettere
sull’avviso chi avesse voglia ancora di feudi. Ma il prete Tulumello non se ne
preoccupò più di tanto. Con il suo fiuto eccezionale per gli affari, si
accaparrò quelle 57 salme con la’ggiunta di 11 tumoli e 2 mondelli di terre
nelle ubertose fiancate a sud del Castelluccio. Di più, non trascurò di
acquisire anche quel fardello blasonato e di censi impalpabili. Ma lo fa con
scaltrezza: egli è prete ed a termine di legge non può divenire feudatario.
Allora pensa a mettere in contratto la solita furba clausola “pro persona nominanda”. Come da copione,
scoppiano liti per diritti successori tra i nobili alienanti; di mezzo c’è
Diego Giardina naselli; alla fine a spuntarla è comunque l’astuto, piccolo
prete di Racalmuto. Ma ecco il colpo di scena: non è il prete a dichiararsi
padrone del feudo ma la “persona da nominare” è il piccolo Giuseppe Saverio
Tulumello, figlio di don Vincenzo e di donna Rosa Alfano. Portava quel nome
Saverio - estraneo alla platea onomastica dei Tulumello - sol perché il Vescovo
di Girgenti Saverio Granata - amico del prete don Nicolò - lo aveva voluto
battezzare di persona nella cappella che ancor oggi può ammirarsi nelle case di
Pietro Tulumello. Per piaggeria, il secondo nome è quello vescovo girgentano.
Perché don Nicolò, fra tanti nipoti,
fratelli e parenti, ebbe a scegliere proprio Giuseppe Saverio, non è dato
sapere. Ad essere malevoli, chissà cosa si potrebbe sospettare sino alle soglie
del dilemma incestuoso.
Quel che troviamo (la malizia agli
altri) tra i dati del rivelo del 1808 è tutto qui:
TULUMELLO
|
NICOLO'
|
anni 54
|
REV. DON
|
|
ROSA MARIA
|
anni 46
|
COGNATA
|
Il giovane Giuseppe Saverio non lo
troviamo censito a Racalmuto. Fuori per studio? Il padre Vincenzo appare già a
questa data defunto. Ma lasciamo
perdere: i nobili meritano ossequio e discrezione specie da parte di chi i
nobili lombi non può in alcun modo vantarli.
Giuseppe Saverio ebbe nozze sterili
e morì tutto sommato giovane: a soli 61 anni. Anche qui, fra tanti nipote la
meglio ce l’ha Luigi Tulumello figlio di Giuseppe e di Maria Angela Messana.
Nato il 25 luglio 1850, diverrà il sindaco di Racalmuto e resterà celebre anche
per un grave fatto di sangue in cui fu sospettato.
Ma andando a ritroso, si è già detto
che il capostite del ceppo Tulumello finito agli onori del blasone fu tal
Ignazio Tulumello sposato con una non meglio identificata Rosa nel primo
ventennio del ‘Settecento.
TULUMELLO
|
LUIGI
|
|
anni 27
|
DON
|
TULUMELLO
|
MARIA
|
M.
|
anni 22
|
DONNA
|
TULUMELLO
|
MARIA CONCETTA
|
F.
|
anni
9
|
|
TULUMELLO
|
VINCENZO
|
F.
|
|
DI MESI TRE
|
TULUMELLO
|
IGNAZIO
|
|
anni 41
|
DON
|
TULUMELLO
|
ROSALIA
|
M.
|
anni 24
|
DONNA
|
TULUMELLO
|
GIUSEPPE
|
F.
|
anni
5
|
|
TULUMELLO
|
ALOISIO
|
F.
|
anni
3
|
|
TULUMELLO
|
GIOVANNI
|
F.
|
|
MESI SETTE
|
La famiglia Tulumello ha antiche
origini racalmutesi, ma non nobili. Il primo ceppo si rintraccia nel censimento
del 1593. Ci riferiamo al registro:
DELLA NUMERATIONI ET DISCRITTIONI GENERALI FATTA DI SUO ORDINI SU
DETTA TERRA IN QUESTO ANNO VI^ IND. 1593
- PRESENTA BUSCELLUS - P/NT IN RACALMUTO
XI JULII VI IND. 1593. QUINTERNO DELL'ANIME DELLO QUARTERI DI SANTA
MARGARITELLA FACTO PER ORDINI DELLO ILL. NATALICIO BUXELLO DELEGATO DI SUA EX.a
Vi appare la vedova Paolina Tulumello con i
suoi due figli Fabrizio e Andrea.
60
|
1
|
60
|
TULUMELLO PAULINA
|
CAPO DI CASA DONNA VIDUA; FRABICIO SUO FIGLIO ANNI 24; ANDRIO
MIO FIGLIO ANNI 6
|
Anche nel Seicento i Tulumello sono
di casa a Racalmuto. Ci sovvengono le
“numerazioni di anime” custodite in Matrice. Nel 1664, i ceppi era i seguenti:
TULUMELLO
|
GIUSEPPE
|
|
C.
|
2
|
5
|
7
|
TULUMELLO
|
ANNA
|
M.
|
C.
|
|
|
|
TULUMELLO
|
MARIA
|
|
|
|
|
|
TULUMELLO
|
GERLANDA
|
|
|
|
|
|
TULUMELLO
|
NICOLAU
|
|
|
|
|
|
TULUMELLO
|
DOROTEA
|
|
|
|
|
|
TULUMELLO
|
URSULA
|
F.
|
|
|
|
|
TULUMELLO
|
PAOLO
|
|
C,
|
5
|
2
|
7
|
|
TULUMELLO
|
GIOVANNA
|
M.
|
C.
|
|
|
|
|
TULUMELLO
|
ANDRIA
|
|
C.
|
|
|
|
|
TULUMELLO
|
ANTONINO
|
|
C.
|
|
|
|
|
TULUMELLO
|
VINCENZO
|
|
|
|
|
|
|
TULUMELLO
|
GIUSEPPE
|
|
|
|
|
|
CLERICO
|
TULUMELLO
|
ANTONINO
|
|
|
|
|
|
|
Del chierico Giuseppe Tulumello del
1664 si perdono le tracce: nel registro degli ecclesiastici della Matrice non
v’è cenno alcuno.
Un altro nucleo risale alla
numerazione delle anime del 1660:
TULUMELLU
|
LEONARDU C.TO ELISABETTA M. C.TA GIOSEPPE VITA F.
|
Ma i nobili risalgono con certezza
ad un tale Ignazio Tulumello di cui si sa essersi sposato con una imprecisata
Rosa. Non è nobile Negli sponsali del 1738-1744 l’amanuense della Matrice osa
storpiare il riverito cognome in Trumello,
alla paesana (Trumeddu), quando deve registrare le pubblicazioni di
matrimonio del figlio Giuseppe con Paola Cuva di Canicatti, anche questa
segnata senza gli orpelli ed i segni di deferenza, consueti negli atti
parrocchiali dei nobili e signorotti locali.
Ma Giuseppe Tulumello fa presto ad
affermarsi in paese: nel 1785-86 egli figura tra i giurati dell’Università di
Racalmuto, insieme agli ottimati Lo Brutto, Scibetta, e Gambuto. Il sindaco è
Antonino Grillo. Il collettore risulta don Giuseppe Amella.
Ma è nel 1791-1792, forte anche
dell’ascesa del sacerdote don Nicolò Tulumello, che l’umile figlio dei
Tulumello fa il grande salto nella scala dei valori sociali del luogo: ora il
tesoriere comunale è lui. A lui la borsa. L’apice del Comune può restare agli
altisonanti “magnifico rationale Impellizzieri Santo”, al “magnifico Baldassare
Grillo”, al “magnifico Salvatore Lo Brutto”, a “Francesco Amella”, a “Paolo
Baeri e Belmonte” - che sono sindaco e giurati -, ma è lui che tiene i cordoni
della borsa e così, improssivamente, i fogli ufficiali della Curia panormitana
lo designano con il nobilitante appellativo di “don”. Finalmente! Ancora non
barone come il nipote Giuseppe Saverio, ma il primo tassello c’è tutto.
L’apice della gloria è rinviato a
dopo l’Unità, per merito dell’erudito - e collerico - barone Luigi Tulumello,
il figlio della plebea Maria Angela Messana, che non punto ritegno e si umilia
dinanzi agli arroganti Matrona, quando in gioco c’è un vago pericolo per lo
“sparlettiero” e scervellato figlio-barone.
Poi la miseranda fine, specie a
danno di Arcangelo Tulumello, per debiti, per sottrazioni indebite. Dice lo
Spucches che i Tulumello, al tempo della riforma sabauda dei titoli nobiliari,
fatta ai primi di questo secolo, non ebbero neppure le poche lire per
rivendicare il loro non vetusto - ma pur sempre legittimo - blasone. Oggi, gli
eredi sono dignitosissimi. Apprezzati. Stimati. Ma ciò ad onta della svanita
nobiltà dei loro avi. Tutto per merito loro. Del resto, tanti Tulumello sono
Matrona per parte materna: quella che nell’Ottocento sarebbe suonata eresia,
oggi è motivo di giustificatissimo vanto.
Il Falconcini, dopo, in piena irritazione per l’umiliante
defenestramento, sui misfatti di Racalmuto torna ed ora con accenti più
caustici e più offensivi. Scrive (cfr. il capitolo di pag. 55 intitolato: “Vandalici fatti consumati in Racalmuto”):
«Da Canicattì si appiccò l’incendio as
un tempo a sette paesi della provincia; nei quali sotto colore di provare scontento contro il
governo vincitore ad Aspromonte, si dette sfogo a quelle covate ire di famiglie
alle quali sogliono le passioni politiche servire di comodo manto in Sicilia: a
Racalmuto fu il disordine molto più grabe che altrove. Due casate da lungo
tempo in Racalmuto rivaleggiavano per il dominio nella propria terra e per il
possesso delle cariche municipali, le quali in provincia, eccettuato le
primarie città, si ritengono mirabile mezzo per quello a proprio piacere
esercitare nel comune. I Matrona ed i Farrauto rinnovellando in fondo alla
Sicilia le lotte cittadine che nel medio evo mandarono fino a noi la memoria
dei Donati e dei Bondelmonti, fanno odiernamente rivivere nello sventurato loro
paesela inciviltà dei secoli di mezzo, senza trarne neppure il vanto di storica
celebrità. Le campagne di quel comune erano piene di renitenti alla leva,
frutto questi della retrograda amministrazione tenuta dagli adepti dei
Farrauto: la quale gestione delle cose municipali non era valso a togliere ad essi
lo scioglimento del consiglio comunale, di recente avvenuto per decreto del re
a savia proposta del mio predecessore; l’autorità municipale essendosi
ricostituita quale si trovava prima di essere stata disfatta da quel regio
decreto, perché il fatto stava nella [pag. 57] formazione delle liste
elettorali e queste non possono per legge da un regio commissario venire
rivedute. Già da qualche giorno si mormorava che il partito dei Farrauto, il
qual sembra che vesta in calzon corto ed in coda per differire da quel dei
Matrona che ama indossare la camicia rossa, pensasse a profittare
dell’abbattimento che dal fatto d’Aspromonte veniva alla parte sua rivale, per
correre alle case dei Matrona ed appiccare con questi una volta di più accanita
zuffa, e si diceva che a tal rei fine tenesse quel partito continui e segreti
accordi con la banda dei renitenti: si mandavano consigli e minacce dalla
prefettura per ritardare, se possibile, tali avvenimenti tanto che la truppa
giungesse da Palermo; non avendo senza questa modo di far altra cosa, fuor di
consigliare e minacciare. Ma vedendosi a Racalmuto che il disordine di
Canicattì non si puniva e deducendosene, secondo la logica dei Siciliani, che
il governo non avesse forza per punire, si ridussero ad atto i meditati piani e
il di 6 settembre 1862 si facevano entrare in paese i renitenti, si bruciavano
gli archivi comunali, mandamentali, [pag. 58]
e si saccheggiava la caserma dei carabinieri, si devastava il casino di
conversazione, si svaligiava il corriere e si ardevano le corrispondenze, si
poneva l’assedio alle case dei Matrona che validamente si difendevano. Le
notizie di queste vandaliche azioni giungevano a me da più parti ...la mattina
del 7 settembre fra le undici e le dodici. [...]
«[pag. 60] Mezz’ora dopo mezzogiorno del di 7 settembre
l’ordine era dato da me alla poca truppa di marciare tutta con veloce passo
verso Racalmuto ... [pag. 64] La truppa partì all’imbrunire, e sul fare del
giorno era a Racalmuto. [ ...] Quasi insieme alla truppa partirono per Racalmuto
il procuratore del re ed il giudice istruttore, ed io affidai pienamente ad
essi l’investigazione dei fatti avvenuti e le misure da prendersi [...],
limitandomi a sospendere la guardia nazionale racalmutese che evidentemente
aveva mancato al proprio mandato. Ma avendo poi saputo per un espresso,
speditomi dall’autorità locale, che per ordine del comandante la colonna
militare, i Matrona erano stati posti in carcere, e parendomi che non potessero
essere rei poiché erano stati assaliti fino nelle loro case dai ricoltosi,
spedii un delegato di Sicurezza da Girgenti ad informarsi della verità di quel
rapporto ed a sollecitare in mio nome presso il giudice istruttore l’esame dei
Matrona: io non poteva né doveva far di più, e questo bastò allo scopo; perché
esaminati subito [pag. 65] i Matrona, furono dal giudice stimati degni di
libertà e scarcerati. Essi, infatti, a mia insaputa, lealmente dichiararono
tutto questo in un giornale, quando altri fogli si dilettavano di svisare ciò
che io disposi in questa circostanza; ma così non fu impedito ad altri onesti
diarii ed all’onestissimo Diritto di
asserire, quando piacque al partito al quale tali periodici appartengono da
Falaride, che io avevo lasciato premeditatamente avvenire i disordini vandalici
di Racalmuto, per dare a me stesso il sollazzo d’esercitare severità contro i
liberali, precisamente ordinando l’arresto inopportuno dei Matrona.
«[...] [pag. 64] L’ordine fu immediatamente ristabilito a
Racalmuto, in grazia della presenza della truppa, la quale arrivata in quei
giorni andò a ripristinarlo ovunque era stato manomess; gli arresti fatti nel
primo momento dai comandi militari e dai delegati locali furono corretti
dall’autorità giudiciaria, e regolare processo fu iniziato onde scoprire e
punire i rei di tali odiosi misfatti.»
Il Falconcini aveva premesso tutto un racconto sui prodromi
degli eventi racalmutesi. La scintilla scoccò a Canicattì: grande fu lo
sgomento per i fatti d’Aspromonte e nel vicino centro canicattinese il “ceto
civile il 30 agosto si vestì pubblicamente a lutto con l’animo di fare una
dimostrazione puramente garibaldina.” Il
sindaco di Canicattì Giuseppe Caramazza, si premurava di telegrafare al
prefetto queste note datate primo settembre 1862: «ieri sera una dimostrazione
pacifica popolo tutto, alle grida via Garibaldi, viva Vittorio Emanuele,
abbasso Rattazzi, abbasso il ministero. Appresso fornirò dettagli.»
Ma gli eventi presero subito una brutta piega: “un atroce ferimento di carabinieri fu
avvenuto ad una delle barriere della città”; “in conseguenza di un rapporto del
regio procuratore - annota nel suo libro, a pag. 54, il Falconcini - io
riattivai la guardia nazionale e lasciai riaprire il casino”: il prefetto aveva
fatto chiudere il casino di società di Canicattì perché lì si era organizzata la rivolta; ne scrisse la
Gazzetta di Torino del 28 ottobre 1862.
Da Canicattì l’insurrezione si propagò subito a Racalmuto, a
quel tempo già ben collegato dalla strada statale che poi raggiungeva Grotte e
quindi Aragona; dal bivio di Aragona si poteva andare comodamente ad Agrigento
oppure - dall’altro versante - a Comitini, Casteltermini, S. Giovanni,
Castronovo fino a Palermo. La tesi del Ganci a dir poco non si attaglia a
Racalmuto: secondo questo storico
“per le cattive di viabilità e la mancanza di strade, scarsi
erano i rapporti culturali e commerciali tra i vari comuni.” Ma allo studioso
bisogna credere quando analizza la crisi del ’62: «una crisi anche morale -
chiosa a pag. 120 - determinata da diffidenza reciproca, dei “continentali” verso la Sicilia e della popolazione
siciliana verso la politica fino allora seguita dal governo luogotenenziale,
emanazione di quello di Torino, non senza uno strascico di recriminazioni che
non potevano non acuire maggiormente il contrasto tra il Nord e il Sud. Questo
provano anche le misure di sicurezza adottate (nomina di un commissario
straordinario con poteri civili e militari, stato d’assedio, disarmo generale,
fucilazioni eseguite ad Alcamo, a Racalmuto, a Siculiana, a Grotte, a
Casteltermini, a Bagheria ...) misure
che non mirarono soltanto a colpire i “ribelli” che si ostinavano a non volere
deporre le armi, ma anche e soprattutto ad arrestare, come si era fatto dopo il
plebiscito, il movimento rivoluzionario popolare, che per la presenza di Garibaldi,
s’era s’era rinnovato con lo stesso ardore che nel ’60. “In presenza di
Garibaldi - scriveva a L’Indipendente
di Napoli il corrispondente di Sicilia subito dopo i fatti di Aspromonte - egli
è che i malumori che covavano da tempo si sono scatenati alla prima occasione;
ma lo stendardo di tutti è uno, la guerra civile, la guerra del povero contro
il ricco”. Ciò non sfuggiva ai moderati e a tutta la classe dell’alta borghesia
terriera, la quale si schierò ancora una volta, come nel ’60, da parte del governo
di Torino e tollerò anche di buon grado, pur di vedere rimesso in “ordine” il
paese, lo stato eccezionale in cui venne posta la Sicilia, essendole stato
applicato anche il blocco di cui fu data comunicazione a tutti i governi delle
Potenze estere. Allorché anzi si cominciò a parlare di togliere lo stato
d’assedio, da parte dei benestanti si levarono reclami perché fosse ancora
conservato, come rimedio fondamentale per “purgare” l’isola di tutti i “tristi”
che la infestavano.»
A noi quelle fucilazioni di racalmutesi danno raccapriccio;
ed è fuor di dubbio che ci fosse lo zampino di Falconcini. Non riusciamo quindi
a capacitarci come Sciascia, preso dalla “amara esperienza” di quel prefetto,
lo accrediti di una patita “ingiustizia”. Il prefetto fu, come si disse, un
continentale, un burocrate come tanti altri funzionari mandati in Sicilia ad
occuparvi gli uffici di maggiore responsabilità; uno come gli altri: «duri e
pieni di boria - secondo il profilo tracciato dal Ganci, op. cit. pag. 118 -
coscienti di rappresentare una civiltà più progredita», burocrati che
«arrivando in Sicilia non sapevano neppure rinunziare a tutte quelle formalità
e cerimonie che si solevano praticare, specie dall’alta burocrazia piemontese,
nei riguardi di un’alta autorità, nel momento di entrare in carica.» Per noi,
vada un’infamia perenne a siffatto Falconcini. Evviva S. Spaventa che l’11
gennaio 1863 gli inviava una lettera che
gli giunse la sera del 16 gennaio ove a “nome del ministro dell’interno gli
annunziava avere il re fino dal dì 11 dello stesso mese firmato il decreto che
lo dispensava dall’ufficio di prefetto di Girgenti”.
L’argomento Falconcini tenne banco nelle dispute serotine
del circolo di compagnia. Ma bisognava stare attenti: non si potevano urtare le
suscettibilità delle due contrapposte fazioni, quella dei Matrona e quella dei
Farrauto, entrambe massicciamente presente tra le file dei soci. In un punto si
era unanimemente concordi: gratitudine al polso di ferro del prefetto, capace
di sgominare con arresti e qualche scarica di fucili la masnada sanculotta che
aveva osato profanare il rispettabilissimo circolo dei galantuomini
racalmutesi.
Il Falconcini è proprio un fanatico del Nord, venuto a
Racalmuto ‘a miracol mostrare’ della prepotenza piemontese: attorno all’autunno
del 1862 sua altezza prefettizia non può
tollerare che nel piccolo paese dell’Est agrigentino due famiglie continuino a
fare sceneggiate da Capuleti e Montecchi. Contatta il sindaco di Agrigento,
Giuseppe Mirabile; lo sa amico dei Matrona e dei Farrauto; gli fa sapere che se
costoro non mettono la testa a posto, lui all’isola li manda; ne i poteri; ne
ha la voglia - forse più verso i Farrauto che verso gli ora prediletti Matrona.
Il Nostro grafomane lo dovette essere: prende carta e penna e così indirizza
una missiva al disorientato sinfaco
agrigentino: « Al signor avvocato Mirabile sindaco della città di Girgenti ...
Il paese di Racalmuto ... è diviso in
due partiti ... l’uno capitanato dai signori Matrona, ed assume l’apparenza di
liberali; l’altro è qui dato [da chi? Dall’avv. Picone?, n.d.r] dai signori Ferrauto e Mantione e fa sembianza di
rimpiangere il dominio dei borbonici. [...] Io son risoluto far cessare il più
presto e per sempre le gare delle famiglie Matrona e Ferrauto. [...] Ella signor
sindaco tiene rapporti di amicizia con i membri delle due famiglie Matrona e
Ferrauto. [Dato che è bene] non mantengano esagerate passioni politiche, [è
bene si sappia che] potranno facilmente essere forzati a vivere lontani dal
paese.
«In pari tempo provo il bisogno di notiziare V.S. Ill.ma che
l’arresto avvenuto del sacerdote Mantione, e ciò che ad esso terrà dietro, fu
cagionato solo da speciali motivi d’ordine pubblico e di superiore gravità, e
non derivò per nulla dalla sua inimicizia personale coi Matrona [...] Girgenti
3 ottobre 1862. Il prefetto Falconcini.»
La nota ci svela il connubio tra i Farrauto ed i Mantione: i
Mantione erano pur sempre gli eredi di quel bizzarro - ed impropriamente
osannato - canonico Mantione. Ancora nell’Ottocento erano potenti e (se
crediamo al Falconcini) prepotenti. Certo non era cosa da poco carcerare un
sacerdote solo per la prevenzione di un prefetto nordista, all’improvviso
convertitosi alla causa dei Matrona. Excusatio
non petita, ci pare quella giustificazione della carcerazione del sac.
Mantione solo “per speciali motivi d’ordine pubblico e di superiore gravità”;
noi siamo certi che alla base c’era solo la vendetta dei Matrona, il loro odio
verso chi ritenevano reo di insolente “inimicizia personale”. Alla faccia del perseguitato Falconcini, qui fanatico
estimatore dei Matrona così come il suo postumo - oltre un secolo dopo -
Sciascia.
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