I Normanni
a Racalmuto
Conquistata Agrigento nel 1087, i
lancieri di Ruggero d’Altavilla si impadroniscono di tutto il terrirorio
limitrofo sino ad Enna. Racalmuto viene dunque liberata - si suol dire - dalla
schiavitù islamica per divenire pia terra agli ordini dei vescovi di Agrigento.
Dopo l’obbrobrio dell’islamica sudditanza, durata quasi due secoli e mezzo, si ha la normanna
restituzione alla veridica religione del Cristo. I normanni giungono a
Racalmuto per un ritorno al cristanesimo.
Ma chi erano questi normanni?
Il giudizio storico moderno resta
ancora contraddittorio e, spesso, prevenuto. A seconda delle ascendenze
razziali e delle convinzioni religiose, questi uomini del Nord - provenienti
dalla Scandinavia e dalla Danimarca ed attestatisi per quasi un secolo nelle
terre di Normandia in Francia - vengono ora dileggiati per il loro essere degli
avventurieri e dei saccheggiatori, ora esaltati per il loro maschio
rinvigorimento delle popolazioni latine cadute in mani bizantine o peggio
saracene. Va da sé che i normanni avventuratisi in Sicilia per liberarla dal
giogo infedele hanno avuto il possente encomio della letteratura confessionale.
A dire il vero, in tempi molto postumi. In vita, il conte Ruggero ebbe con i
papi atteggiamenti di distacco con punte di indifferenza, patteggiando e
pretendendo benefici e concessioni come, ad esempio, i poteri di 'legato
apostolico'. Sorge la famosa "legazia" che qualche spregiudicato
religioso sembra, a dire il vero, avere inventato in tempi smaccatamente
postumi. In proposito Benedetto Croce non mancò di avere espressioni pungenti.
«La Legazia apostolica - scrisse - dava alla persona del re di Sicilia diritti
ecclesiastici paragonabili solo a quelli dello Czar in Russia sulla Chiesa
ortodossa.»
L'Amari, si è visto, parteggia per
gli arabi ed avversa i normanni, almeno quelli della prima ora. Poi, sarà per
la poderosa personalità di Ruggero II.
Il Pontieri, nella elegante premessa alla revisione del testo del
Malaterra di cui in precedenza, esprime giudizi equanimi. Denis Mack Smith
nella sua Storia della Sicilia Medievale
e Moderna non è molto tenero con i Normanni: li chiama «avventurieri
provenienti dalla Normandia francese che si guadagnavano da vivere con profitto
come soldati di mestiere nell'Italia del sud. Alcuni di questi erano semplici
mercenari; altri preferivano la vita di capo brigante e depredavano i mercanti,
rubavano il bestiame e infliggevano terribili devastazioni come combattenti
salariati, cambiando parte a volontà, o persino combattendo per entrambe le
parti contemporaneamente. Bisanzio ne assunse alcuni per la spedizione di
Maniace in Sicilia; talvolta, con l'incoraggiamento del papa, attaccavano i
cristiani greci dell'Italia meridionale;
e talvolta, trovavano più vantaggioso fare incursioni negli Stati Pontifici».
Di Ruggero, lo Smith dice cose elogiative ma con qualche tono di scherno
inglese. Geniale «sia nei combattimenti, sia nell'amministrazione», viene
giudicato il conte normanno. Ma la velenosa aggiunta tende a descrivercelo come
colui che «con spietati saccheggi [accumulò] quelle ricchezze su cui sarebbe stata
edificata una famosa dinastia».
*
* *
Che cosa ne è stato della Sicilia
musulmana? di Racalmuto saracena? Gli storici indulgono troppo sulla grandezza
della Sicilia normanna e non si curano abbastanza delle sofferenze e della
prostrazione dei popoli indigeni, dei nostri antenati in definitiva. La
tragedia di quella conquista normanna ai danni dei saraceni (quali erano gli
abitanti della Racalmuto di allora) non ha avuto rogatori e fonti storiche.
Supplisce il poeta. Ibn Hamdis ha pianto anche per noi racalmutesi, almeno
quelli che vantiamo sangue arabo nelle vene. Sciascia in testa. «Sciascia è un
cognome propriamente arabo .. Dunque il mio è un cognome diffusissimo nel mondo
arabo, in Sicilia e persino in Puglia dove Federico II deportò tanti arabo-siculi.»
*
* *
Dopo i primi cedimenti il Granconte Ruggero si avviò verso
un potere unitario ed una sovranità personale. La tendenza a dilatare il
demanio pubblico prevalse. Ma Racalmuto, come altre terre profondamente intrise
di islamismo, sembrò sottrarsi sia al fenomeno
normanno del feudalesimo sia a quello
accentratore e demaniale dell'Altavilla. Se feudo divenne, ciò maturò
qualche tempo dopo. Crediamo che nei primi decenni del XII secolo, ai tempi del
geografo arabo EDRISI, l’abitato di Racalmuto fosse ancora in mano degli
indigeni saraceni, addetti
all'agricoltura ed abili nelle
colture arboree e negli ortaggi. Per
quello che diremo dopo, il nostro paese è forse da collegare alla località
GARDUTAH di Edrisi che era appunto «un grosso casale e luogo popolato; con orti
e molti alberi e terreni da seminare ben coltivati.»
Gli storici stanno ritornando sul controverso tema dei
rapporti tra Ruggero e il papato. Il risultato è quello di rinverdire più che
dissolvere i dubbi sui tanti diplomi a vantaggio di chiese e conventi che
puzzano di falso e di manipolazione. Anche l'attribuzione della stessa LEGAZIA
APOSTOLICA desta nuove perplessità.
Del resto in Sicilia,
mancava da tempo ogni forma di organizzazione della Chiesa. Il suo quadro
religioso era diverso da quello in cui gli Altavilla erano abituati ad
operare. La religione cristiana di rito
latino era pressoché inesistente. A Racalmuto praticavano - solo o in
maggioranza, ci è ignoto - la religione islamica. Qualche residuo cristiano
poteva esserci ad Agrigento e comunque era di rito greco. Qualcosa vi era a
Palermo, la cui chiesa episcopale era relegata ad una stamberga.
Ruggero in un primo tempo si mise a favorire i monasteri
greci, talora rifondandoli, qualche volta dotandoli di beni. Si rese, però, subito conto che ciò non
bastava. Era di fronte ad una chiesa di frontiera, lui in fondo laico. Bisognava
avviare un «processo portatore di scelte di fondo capaci di dar vita, in
termini che superassero i limiti gravi e le insufficienze accumulati in secoli
di preminenza musulmana, a funzionali e organiche strutture ecclesiastiche. Le
sole in grado di coordinare le manifestazioni di pratiche religiose e
quindi di vita quotidiana della gente e
di riconfermare e rendere operativa l'alleanza
fra Chiesa e politica che affidava un ruolo di
protagonista agli Altavilla e
rappresentava un dato strutturale
della società normanna.»
Ruggero non ebbe certo tra le sue
preoccupazioni l'evangelizzazione del popolo conquistato. Subordinarlo a
vescovi di sua fiducia, fu idea politica e perspicace. Una religione di Stato,
cristiana ma non unica, serviva al suo progetto politico e forniva in definitiva
un apparente rispetto degli accordi di Melfi col papa latino. Le preoccupazioni
politiche erano ad ogni modo preminenti. Istituire diocesi ma mettervi a capo
uomini di fiducia, allogeni, chiamati dalla natia Normandia, fu -
ripetiamo - il taglio adottato da
Ruggero nella instaurazione della Chiesa
di Roma nelle terre
della Sicilia musulmana. Così il Normanno fondò i vescovati di Troina,
Agrigento, Catania, Mazara e di altre città isolane.
Un casale quale Racalmuto, periferico ed ancora tutto
saraceno, nulla ebbe ad avvertire della rivoluzione religiosa messa in atto da
Ruggero. Dubitiamo persino che ebbe
notizia di essere incluso nelle pertinenze della neo
diocesi di Agrigento, affidata al
vescovo francese Gerlando.
Nell'anno 1092, dopo cinque anni dalla
conquista del territorio di Racalmuto da parte normanna, giunge, dunque, ad
Agrigento il novello vescovo Gerlando. I
confini della diocesi sono stati definiti
da Ruggero in persona. Il documento, in latino, può così
tradursi:
«Io, Ruggiero, ho istituito nella conquistata Sicilia le
sedi vescovili, di cui una è quella di Agrigento al cui soglio episcopale viene
chiamato GERLANDO. Assegno alla sua
giurisdizione quanto rientra nei seguenti confini: da dove sorge il fiume di
Corleone fin su Pietra di Zineth [Pietralonga]; indi
sino ai confini di Iatina [Iato]
e Cefala [Cefaladiana] e quindi ai limiti di Vicari; indi fino al
fiume Salso, che costituisce il discrimine tra Palermo e Termine,
e dalla foce di questo fiume là dove cade in mare si estende questa
diocesi lungo il mare sino al fiume Torto; e da qui,
da dove sorge, si
estende verso Pira, sotto Petralia;
quindi sino al monte
alto [Pizzo di Corvo] che trovasi sopra Pira; poi verso il fiume Salso,
nel punto in cui si congiunge con il fiume di Petralia e da questo punto i confini della diocesi
seguono il corso del fiume Salso sino a Limpiade (Licata).
Questa località divide Agrigento da Butera.
Lungo la costa i confini della
diocesi corrono dal Licata sino al fiume Belice, che costituisce i
confini con Mazara, e da qui raggiungono
Corleone, da dove inizia la
delimitazione, che ad ogni modo esclude Vicari, Corleone e Termini.»
Se il lettore è stato
paziente nel seguire lo zig zag dei
confini avrà subito colto che Racalmuto, quale centro al di
qua del Salso, venne in quella bolla assegnato a GERLANDO,
un vescovo santo ma sempre un padrone, un feudatario.
Per esser, comunque, normanno, venne descritto dalla pur tardiva storiografia secondo
il consunto stereotipo di uomo
di nobile prosapia, bello, alto,
biondo e di gentile aspetto. Tale
versione risale al secentesco Pirro ed il Picone la riecheggia con questi tratti descrittivi:
«Gerlando, quel sant'uomo, nato in Besansone, città della Borgogna, di
copiosa dottrina fornito, eruditissimo nelle chiesastiche discipline ed eloquentissimo, trasse alla fede gran numero di Ebrei e di
Musulmani.[p. 454]»
I padri bollandisti
ci appaiono più circospetti. In base
alle loro attente letture dei vari 'privilegi' escludono che Gerlando fosse il gran cappellano
del conte Ruggero, carica che
fu di GEROLDO, e quanto al
resto si
rifanno alle postume storie del FAZELLO e del PIRRO.
I privilegi, che, in parte, abbiamo anche citato e che
riguardano il vescovo Gerlando, sono postumi e secondo
l'ultima critica paleografica del
COLLURA risalgono per lo meno alla seconda
metà del sec. XII. Quattro tra i
primi sei più antichi documenti della Cattedrale
di Agrigento accennano a tale vescovo di nome Gregorio e sulla sua esistenza storica non sembra
lecito nutrire dubbi.
Il personaggio
non è dunque inventato e questo è già
molto. E il vescovo ebbe subito fama di santità, come può arguirsi
dal Libellus custodito nello
stesso Archivio Capitolare ove si parla
dell'anima benedetta del beato Gerlando
che, discioltasi dalla umana carne, ebbe a riposarsi nel
Signore «beati Gerlandi anima, carne soluta, quievit in Domino».
Quello che, invece, lascia increduli noi laici è quella sua
facondia trascinatrice di Ebrei e Musulmani. Nell'agrigentino - ed a Racalmuto
per quel che ci riguarda - si parlava da
secoli arabo e solo arabo. Forse
residuava un uso del greco nei ceppi più tenaci. Questo vescovo borgognone che chissà quale
lingua parlava (pensiamo a quella natìa di Normandia e magari masticava
di latino) dovette disperarsi nel cercare di capire i suoi sudditi che, come
ancor oggi si dice, parlavan turco, di certo, per lui, incomprensibilmente. E le sue prediche
inventate dal Pirro, se davvero vi
furono, dovettero lasciare di stucco i 'fedeli' musulmani.
Eppure nella favola della facondia salvifica del vescovo
normanno in mezzo ai saraceni
dell'agrigentino un nucleo di
verità deve pur esservi: forse
GERLANDO ebbe qualche successo nello stabilire un certo
colloquio con i potentati locali di lingua araba.
In particolare fu forse capace di chiamare scribi e letterati poliglotti
che poterono stabilire alcuni contatti, specie di natura diplomatica e notarile. Di certo
Agrigento era divenuta cosmopolita. Il primo documento dell'Archivio Capitolare di Agrigento (1° settembre -
24 dicembre 1092) - una
falsificazione in forma originale, secondo il Collura -
accenna a nobilati francesi già presenti in Agrigento, a concanonici
che officiano in una chiesa
dedicata a S. Maria, a parenti francesi
da beneficiare con diciassette villani,
due paia di buoi ed un cavallo.
Su tutto vigila il vescovo Gerlando, mandato
da un ROGERIUS che ci
avrebbe redento da 'demonicis ... ritibus' da riti
demoniaci (che pure era la grande religione di Allah). Emerge il nome di un francese: Pietro de
Mortain (nell'originale, invero, Petrus
Maurituniacus). Vi è un teste: Pagano de
Giorgis ma scritto con una gamma greca
nel bel mezzo della grafia latina. Principalmente, a colpirci, è il richiamo allo strumento
giuridico del PRIVILEGIUM che viene firmato in presenza di testi e
davanti ad un vero e proprio notaio
'Rosperto notarius'. Al vescovo Gerlando viene riconosciuta 'probitas', probità,
ed il suo consiglio viene giudicato 'justus'.
Francesi, notai, prebende
ecclesiastiche, canonici, vescovi
probi ed assennati, ma anche interessati alle cose terrene, tutto il mondo
della burocrazia ecclesiastica romana vi
traspare, ed era passato appena un
quinquennio dalla conquista normanna sui saraceni, che ora sono, come si
è visto, villani, schiavi ed oggetto di
pii legati.
AL TEMPO DEI NORMANNI E DEGLI SVEVI
Ruggero il
Normanno tiene saldamente in mano l’intera diocesi di Agrigento sino alla sua
morte, avvenuta nel 1091. Racalmuto non esiste ancora: solo, nei pressi, due
centri appaiono di una qualche consistenza, Gardutah e Minsar. Ci pare di poter
sospettare che il primo si trovasse nel circondario di Naro; il secondo
andrebbe identificato in un feudo nel territorio di Bompensiere, a meno che non
si tratti di Gargilata come recentissimi ritrovamenti cominciano a far pensare.
Nelle precedenti pagine abbiamo illustrato quanto la coeva letteratura ci ha
tramandato: resta l’amaro in bocca di non potere fantasticare su un casale
corrispondente a Racalmuto, prospero o derelitto sotto i Normanni. Anche la
incrollabile tradizione di una chiesetta dedita a Santa Maria fatta costruire
da un locale barone, il Malconvenant, crolla al primo impatto con una critica
storica appena avvertita.
Quando le
campagne di scavi e le ricerche archeologiche nel nostro territorio metteranno
alla luce i resti di quegli insediamenti medievali, potranno aversi elementi
per una chiarificazione e per il dilaceramento del fitto buio che oggi ci
angustia.
Non
andiamo molto lontani dalla realtà se affermiamo che con la conquista normanna
s’inverte la sopraffazione dei locali “villani”: prima erano i berberi a
dominare i bizantini; ora sono i normanni a sfruttare gli arabi, che vengono
denominati saraceni. Esistesse o meno
una terra fortificata di nome Racel (ad utilizzare le cronache del Malaterra),
per Racalmuto fu il tempo del villanaggio saraceno che durò sino al greve
riordino sociale di Federico II. Che cosa è stato il “villanaggio”? Non è
questa la sede per spiegare l’istituzione contadina che vedeva il subalterno
colono come una “res” del “dominus”, quasi alla stregua di uno schiavo.
(Vedansi, da parte di chi ne voglia sapere di più, gli studi di I. Peri). Contadini islamici, miseri e schiavi da una
parte; padroni cristiani, lontani e socialmente insensibili, dall’altra.
L’istituzione di un beneficio a favore di canonici agrigentini, mai
racalmutesi, con le decime del feudo facente capo ad un falso diploma del 1108
(non foss’altro perché non si riferiva a Racalmuto), svela i misteri della
colonizzazione di nuove terre sotto i Normanni. Tanto avvenne per il beneficio
di Santa Margherita, che per l’avallo del Pirri, costituì poi la saga della
nostra chiesa di Santa Maria di Gesù.
I saraceni
si ribellarono in modo devastante negli anni venti del 1200. Federico II li
represse, deportandoli in Puglia. Racalmuto diventa deserta. Tocca a tal
Federico Musca farvi fiorire un nuovo casale. Nel 1271 le testimonianze sulla
vita e le vicende del risorto centro urbano cominciano ad avere dignità di
fonti documentali. Sotto il Vespro, la terra è Universitas così bene
organizzata che il nuovo padrone aragonese Pietro può esigere tasse ed
armamenti, demandando ai locali sindaci l’ingrato compito esattoriale, persino
con la vessatoria condizione di doverne rispondere con il proprio patrimonio in
caso di insolvenza. Una sorta di ‘solve et repete’ ante litteram.
La
cattolicissima Spagna esordiva con
spirito depredatorio nel regno che gli era stato regalato da taluni maggiorenti
siciliani. E così anche la ‘meschinella’ Racalmuto iniziava a pagarne lo
scotto. Roma, il papato, dissentiva. Sarà questa una scusa buona per esigere
dai fedeli di Racalmuto, che nel 1375 abitano in case coperte di paglia, una
tassa pesante onde liberarsi dell’antico interdetto, che secondo il nuovo
padrone feudale Manfredi Chiaramonte era la causa della ‘mala epitimia’
distruttrice di uomini e cose.
FEDERICO II CHIARAMONTE ALLA CONQUISTA DI RACALMUTO -
L’EREDITA’ DEI DEL CARRETTO
I
Chiaramonte si sono impossessati di Racalmuto all’inizio del secolo XIII.
Federico Chiaramonte - un cadetto della famiglia - aveva fatto costruire,
secondo il Fazello, nel primo decennio del Duecento, l’attuale fortezza, forse
una, forse tutte e due le torri oggi esistenti. Il territorio era divenuto
‘terra et castrum Racalmuti’. Vi giunsero preti e monaci forestieri. Nel 1308 e
nel 1310 costoro vennero tassati dal lontano papa: un piccolo prelievo - si
dirà - dalle pingue rendite che un prete ed un monaco riuscivano a cavare dai
poveri coloni infeudati dai Chiaramonte. Sono ad ogni modo pagine non gloriose
della storia ecclesiastica racalmutese.
Nel 1392
giunge in Sicilia il duca di Montblanc. E’ un cinico, infido, ma astuto e
determinato personaggio, protagonista in Sicilia ed in Spagna di grandi svolte
storiche. Martino, secondogenito di Pietro IV e duca di Montblanc, viene dagli
storici siciliani indicato come Martino il vecchio; ebbe la ventura non comune
- scrive Santi Corrente - di succedere al proprio figlio sul trono di Sicilia.
Resta l’artefice della sconcertante condanna a morte del vicario ribelle Andrea
Chiaramonte, e non cessò di combattere la nobiltà siciliana, salvo a
remunerarla oltremisura appena ciò gli fosse tornato utile.
Ne
approfitta Matteo del Carretto per farsi riconoscere il titolo di barone di
Racalmuto, naturalmente a pagamento. L’intrigo della genesi della baronia di
Racalmuto dei Del Carretto è tuttora scarsamente inverato dagli storici.
All’inizio
del secolo XIII un marchese di Finale e di Savona - a quanto pare titolare di
quel marchesato solo per un terzo - scende in Sicilia e sposa la figlia di
Federico Chiaramonte, Costanza. Ha appena il tempo di averne un figlio cui si
dà il suo stesso nome, Antonio, e muore. La vedeva convola, quindi, a nozze con
un altro ligure, il genovese Brancaleone Doria - un personaggio che Dante
colloca nell’Inferno - e ne ha diversi figli, tra cui Matteo Doria che morrà
senza prole: costui pare che abbia lasciato i suoi beni (in tutto o in parte,
non si sa) agli eredi del suo fratellastro Antonio del Carretto.
Antonio
frattanto si era trasferito a Genova. Aveva procreato vari figli, tra cui
Gerardo e Matteo. Matteo, in età alquanto matura, scende in Sicilia: rivendica
i beni dotali di Agrigento, Palermo, Siculiana e soprattutto Racalmuto.
Parteggia ora per i Chiaramonte ora per Martino, duca di Montblanc ed alla fine
gli torna comodo passare integralmente dalla parte dell’Aragonese. In cambio ne ottiene il riconoscimento della baronia.
Certo dovrà vedersela con le remore del diritto feudale. Inventa un negozio
giuridico transattivo con il fratello primogenito Gerardo, che se ne sta a
Genova, ove ha cointeressenze in compagnie di navigazione, e finge di
acquistare l’intera proprietà della “terra et castrum Racalmuti”.
Martino il
vecchio si rende subito conto del senso e della portata dell’istituto tutto
siculo della cosiddetta Legazia Apostolica. Deteneva il beneficio racalmutese
di Santa Margherita l’estraneo canonico “Tommaso
de Manglono, nostro ribelle al tempo della secessione contro le nostre
benignità” - come scrive Martino da Siracusa, l’anno del Signore VII^ Ind.
1398. Quel beneficio gli viene tolto per essere assegnato ad un altro estraneo “al reverendo padre Gerardo de Fino
arciprete della terra di Paternò, cappellano della nostra regia cappella,
predicatore e familiare nostro devoto”. Altra ignominia della storia
ecclesiastica racalmutese.
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