La genesi
del feudo di Racalmuto
Ripuliti
gli esordi feudali dai vari Malconvenant, Abrignano, Barresi e Brancaleone
Doria, resta la vicenda di quel Federico Musca che risulta primo proprietario
del casale di Racalmuto attorno al 1250. Era costui un immigrato che per
abilità propria o per successione poteva disporre di tre centri
nell’Agrigentino: Rachalgididi, Rachalchamut e Sabuchetti. Ci riferiamo
all’indiscutibile diploma che custodivasi negli archivi angioini di Napoli e precisamte a quello che reca il n.° 209 il
cui sunto recita in latino:
Executoria
concessionis facte Petro Nigrello de BELLOMONTE mil., quorundam casalium in
pertinentiis Agrigenti, vid.
Rachalgididi, RACHALCHAMUT et Sabuchetti, que casalia olim fuerunt Frederici
MUSCA proditoris, et casalis Brissane, R. Curie dovoluti per obitum sine
liberis qd. Iordani de Cava, nec non domus ubi dictus Fridericus incolebat.
Era dunque
un’esecutoria della concessione che veniva fatta da Carlo d’Angiò a Pietro
Negrello di Belmonte, milite, di tre casali siti nelle pertinenze di Agrigento,
e cioè Rachalgididi, Sabuchetti ed il nostro Racalmuto, chiamato - non si sa
per errore di trascrizione o per più precisa denominazione - RACHALCHAMUT. Quei
tre casali erano appartenuti (olim) a Federico Musca che Carlo d’Angiò
considera un traditore. Quanto al passo successivo che investe la storia di
Brissana, a noi qui nulla importa.
Federico Musca
viene privato del feudo nel 1271: ribadiamo, è questa la data di nascita della
storia racalmutese, almeno fino a quando non si trovano altre fonti scritte o
archeologiche. Per quel che abbiamo detto prima, gli esordi racalmutesi
medievali possono retrocedersi di una ventina d’anni, ma non di più.
Un
Federico Mosca, conte di Modica, è noto: a lui accenna Saba Malaspina colui che
l’Amari considera “diligentissimo cronista”
per non parlare del Montaner, del D’Esclot, di Nicola Speciale, di
Bartolomeo di Neocastro, del Sanudo.
La vicenda
viene dal Peri così sintetizzata ed
interpretata:
«Federico Mosca conte
di Modica acquistava benemerenze in guerra. Nel novembre del 1282 passò in
Calabria e conseguì buoni successi con una comitiva di 500 almogaveri (le
truppe a piedi che nel corso della guerra del Vespro prospettarono la validità
dei reimpiego della fanteria, che sarebbe salita a clamore europeo a non lunga
distanza di tempo sui fronti di Fiandra).»
E
successivamente (pag. 46):
«Se la reazione
immediata di Carlo d’Angiò fu più minacciosa che vigorosa, se la cavalcata di
re Pietro, nel settembre del 1282, da Trapani a Palermo, a Messina, a Catania,
fu più prudente che difficile, il conflitto poi si spostò prontamente fuori
Sicilia. Nel novembre, il conte di Modica Federico Mosca portava la guerra in
Calabria.»
Annota,
peraltro, l’Amari: «Il Neocastro, cap. 56, accenna anch’egli ad una fazione
degli almugaveri, diversa da quella di Catona. Dice mandatine 500 presso Reggio
e 5.000 alla Catona. Aggiunge poi che Pietro il dì 11 novembre mandò il conte
Federigo Mosca a regger la terra di Scalea, che si era data a lui. ...»
Se
Federico Mosca, conte di Modica, è, dunque, lo stesso di quello del diploma
angioino riguardante Racalmuto, sappiamo ora che costui dopo l’esonero del 1271
non tornò più in questo casale. Anche per Illuminato Peri, neppure tornò -
almeno stabilmente - a reggere la contea di Modica che (pag. 31). A lui «sembra
essere succeduto nel titolo di conte di Modica il genero Manfredi Chiaromonte
marito della figlia Isabella», quello che avrebbe edificato il nostro
Castelluccio.
Ma a quale
ribellione di Federico Mosca si riferisce il citato diploma angioino? Non
abbiamo notizie aliunde. Dobbiamo
quindi supporre che trattasi degli eventi del 1269. Li abbozziamo qui sulla
falsariga del racconto dell’Amari. Le truppe angioine riconquistano il castello
di Licata, che era stato assediato dai Ghibellini, nel dicembre del 1268. Nel
1269 si sparse la falsa notizia che il re di Tunisi stesse per sbarcare. Frattanto
Fulcone di Puy-Richard, sconfitto a Sciacca nei primi del 1267, comandava a
poche città che gli prestavano volontaria ubbidienza. Un frate, Filippo D’Egly
dell’ordine degli Spedalieri, venuto in Sicilia da tempo a cambattere per Carlo
con la scusa che stessero per sbarcare i Saraceni d’Africa, agiva da capitano
di ventura e crudelmente (vedasi Bartolomeo de Neocastro, cap. VIII). Ma ai
primi d’aprile del sessantanove re Carlo, ormai sicuro in Continente ove gli
mancava solo di conquistare Lucera per fame, combattè di persona i Saraceni e
si accinse a riportare all’ubbidienza la Sicilia. Nel volgere di pochi mesi
cambiò due volte il vicario dell’isola: prima sostituì Puy-Richard con
Guglielmo de Beaumont, poi costui con Guglielmo d’Estendart. Un grosso esercito
agli ordini del solo D’Egly, in un primo momento, e poi di questi affiancato
dal Estendart, ed indi di quest’ultimo soltanto, fu mandato per sterminare le forze di Corrado
Capece. L’Estendart risultò un feroce capitano che comunque riscuoteva la fiducia
del re, che non mancava di colmarlo di ricchezze e di onori. Saba Malaspina lo
chiama uomo più crudele della stessa crudeltà, assetato di sangue e giammai
sazio (Lib. IV, cap. XVIII).
L’Estendart
condusse nell’isola millesettecento cavalieri con grande numero di arcieri e vi
furono associati oltre 800 cavalieri che stanziavano nell’isola, tra siciliani
e stranieri. Ricominciò davvero la guerra.
Quel
condottiero andò da Messina per Catania all’assedio di Sciacca, ma qui gli
piombarono addosso oltre 3000 cavalieri provenienti da Lentini; sopraggiunse
Don Federico con cinquecento soldati scelti spagnoli, chiamati Cavalieri della
Morte, e gli angioini furono tricidati. L’Estendart e Giovanni de Beaumont, con
altri baroni, vi trovarono la morte. Ne seguì un tal terrore che Palermo e
Messina trattarono la resa, ma la trattativa non andò in porto. Il racconto -
desunto dagli Annali ghibellini di Piacenza - non convince del tutto l’Amari
che puntualizza: «Manca la data di questa battaglia; falsa la morte dell’Estendart
e fors’anche quella del Beaumont; Sciacca fu assediata di certo dagli Angioini
sotto il comando dell’ammiraglio Guglielmo, non Giovanni, de Beaumont, poiché
ricaviamo che gli riscosse le taglie pagate da vari comuni invece di mandare
uomini a quell’impresa.» Sappiamo altresì dagli annali genovesi che Sciacca fu
conquistata dagli Angioini.
Anche
Agrigento fu assediata dai francesi, dopo la conquista di Sciacca, che vi
avrebbero però subito una sconfitta. I Ghibellini, astretti da varie parti,
riuscivano ancora a mantenere il controllo di Agrigento, Lentini, Centorbi,
Agusta, Caltanissetta.
Gli eventi
evolvono con l’assedio di Agusta. Carlo d’Angiò ordina all’Estendart di
portarsi a ridosso della città siciliana per il colpo di grazia. Vi si erano insediati
1000 armati e 200 cavalieri toscani che la difendevano valorosamente. Il re
fece costruire apposite galee per quell’impresa e le affidò all’Estendart il 29
settembre 1269. L’ordine era di passare a fil di ferro quanti si trovassero
nella città. Essa fu presa per il tradimento di sei prezzolati che di notte
aprirono una porta. Guglielmo d’Estendart fu feroce: non rispettò «né valore,
né innocenza, né ragione d’uomini alcuna.»
Cessata la
guerra di Sicilia, Carlo d’Angiò rimise nell’ufficio di Vicario, il 18 agosto
1270, Fulcone di Puy-Richard «con carico di perseguitare i traditori e
confiscare loro i beni», annota l’Amari.
In tale
frangente, ebbe dunque a verificarsi lo spossessamento del feudo di Racalmuto
che dal “traditore” Federico Musca passò
al fedele - estraneo e francese - Pietro Negrello de Beaumont, chissà se
parente dei tanti Beaumont che abbiamo avuto modo di citare.
Sempre
l’Amari ci fa sapere che in quel tempo «agli altri fragelli s’aggiunse la fame.
In alcuni luoghi di Sicilia il prezzo del grano salì a cento tarì d’oro la
salma e anche oltre; nei più fortunati arrivò a quaranta tarì, che vuol dire
nei primi almeno al quintuplo, ne’ secondi al doppio o al triplo del valore
ordinario.» Non pensiamo che Racalmuto sia stato coinvolto in quella sciagura:
le sue ubertose terre avranno fornito pane sufficiente. Ma il nuovo signore de
Beaumont avrà potuto razziare a man bassa per le solite speculazioni granarie.
Si pensi che anche la vicina Milena - all’epoca chiamata Milocca - finisce in
mani di un omonimo: quel Guglielmo di Bellomonte di cui abbiamo parlato sopra.
Sfogliando
i registri angioini, apprendiamo che il padrone di Racalmuto dal 1271 al 1282,
Pietro Negrello di Belmonte, era il conte di Montescaglioso e il Camerario del
Regno del 1271. Non pensiamo che il
conte di Montescaglioso sia mai venuto a visitare queste sue lontane terre,
site in una terra dal nome strano, Racalmuto. Avrà mandato qualche suo amministratore.
Solerte, comunque, nello sfruttare quei contadini di origine araba, usciti da
non molto tempo dalla condizione di “villani”, una sorta di schiavitù a mezzo
tra la servitù della gleba e la remissiva subordinazione della fede cattolica,
vigile nell’inculcare il sacro rispetto del padrone per il noto aforisma “omnis
auctoritas a Deo”. Ogni autorità vien da Dio. Ed il lontano Negrello era pur
sempre un padrone caro al Signore Iddio. Bisognava ubbidirgli e basta, come al
ribelle conte di Modica.
Racalmuto
durante i Vespri Siciliani
Dalle
brume delle vaghe testimonianze scritte affiora solo qualche brandello delle
locali vicende in quel gran trambusto che furono i Vespri Siciliani. Se non
bastasse, vi pensò Michele Amari, tutto preso dalle sue passioni irredentiste,
a fare del “ribellamento” del 1282, una fantasmagorica epopea della stirpe
sicula eroicamente in armi contro ogni dominazione straniera. Niente di più
falso: i siciliani (ed ancor più i racalmutesi) sono per loro natura remissivi,
acquiescenti, indolenti, propensi a sopportare ogni autorità, la quale -
straniera, o indigena, o paesana che sia - sempre sopraffattrice sarà; e va
solo subita con il minore aggravio possibile, con il solo, incoercibile,
diritto al mugugno (al circolo, o in chiesa, o presso il farmacista o nel greve
chiuso della bettola).
Ancor oggi
non si ha voglia di dar peso alle acute notazioni del francese Léon Cadier
sull’amministrazione della Sicilia angioina.
Il Cadier prende le distanze dall’Amari e secondo Francesco Giunta esagera,
specie là dove rintuzza quelli che considera attacchi e calunnie del grande
storico siciliano dell’Ottocento: «la ragione di questi attacchi - scrive
infatti il francese - e di queste calunnie è facile da capire. Il più bel fatto
d’arme della storia di Sicilia è un orribile massacro; per farlo accettare dai
posteri, per potere celebrare ancora il ‘Vespro Siciliano’ come un avvenimento
glorioso dagli annali siciliani, si è fatto ricadere tutto ciò che questo atto
aveva di orribile su coloro che ne erano stati le vittime. Per scusare i
carnefici, i Francesi sono stati accusati di ogni sorta di crimini;
l’amministrazione francese in Sicilia è stata descritta con le tinte più
fosche; Carlo d’Angiò è diventato il più abominevole dei tiranni.»
Ed a noi
Racalmutesi del Novecento, il culto dei Vespri ci è stato inculcato sin da
bambini, specie con quel reliquario che è il brutto quadro raffigurato nel
sipario del teatro comunale. Leonardo
Sciascia - che grande storico non lo fu mai - si produsse nel 1973 in una sua
cerebrale superfetazione sul mito del Vespro.
Di rilievo l’inciso: «questo mito [quello del Vespro], che per lui non
era un mito ma la storia stessa nella sua specifica oggettività, Amari difese
sempre: ma certo rendendosi conto che più si confaceva al carattere della
riscossa nazionale che si andava preparando ed al sentimento e al gusto del
tempo, quell’altro della congiura dei pochi che accende il furore di molti.» Da
parte sua, per Sciascia, era ovvio: «i miti della storia servono più della storia
stessa - ammesso possa darsi una storia pura, oggettiva, scientifica.» Ad ogni
buon conto, «dirò - è sempre Sciascia che parla
- che tra tutte le ragioni che adduce [l’Amari] per negare la congiura -
di documenti, di circostanze concordanti e discordanti - la più persuasiva
resta per me quella che dà come siciliano che conosce i siciliani: e cioè che
nessuna cosa che è preparata, può avere successo in Sicilia. In quanto non
preparato, ma improvviso e rapido e violento come una fiammata, il Vespro è riuscito.»
Se il
Vespro fu quella “vampa” sciasciana, a Racalmuto non si avvertirono neppure le
più lontane scintille. Non c’era motivo alcuno di ribellarsi. Al padrone
Federico Mosca - siciliano, incombente, collerico, predatore - era subentrato
Pietro Negrello di Belmonte - colto, lontano, fiducioso nei suoi messi
partenopei. C’era da guadagnare, e di certo lucro vi fu: in termini di libertà,
di astuzie, di evasione e di elusione. Scoppiato, dopo il Vespro, il grande
disordine della generale ribellione, ai racalmutesi tornarono comodi il caos
amministrativo e la rapida fuga dei loro
sovrastanti: dal marzo al 10 settembre del 1282, poterono lavorare i campi
seminati, mietere, ‘pisari’, non spartire alcunché con il padrone,
immagazzinare, alienare, incassare e per intero. Il 10 settembre 1282, arriva
da Palermo una missiva indirizzata
“Universitati Racalbuti” [alias Racalmuti] ed è un perentorio ordine
dell’aragonese re Pietro a svenarsi in tasse per armare e mandare 15 arcieri:
una richiesta da sbalordire, visto che i locali non avranno capito neppure che
cosa s’intendesse con quel termine latino di “archeorum”. Ma era una richiesta
che un senso esplicito ce l’aveva: l’orgia della libertà era finita; i padroni
ritornavano in sella; per i contadini di Racalmuto, gravami, imposte, angarie e
sudditanze, non solo come prima, ma più di prima.
Racalmuto
- si ripete - sorge dopo l’epurazione saracena di Federico II di Svevia.
Federico Musca, o un suo antenato, importa nel nostro Altipiano un certo numero
di famiglie, non si sa da dove; con tutta probabilità trattasi di marrani
sfuggiti, con repentine conversioni, alle rappreseglie della persecuzione
religiosa fridericiana. Sono famiglie di coloni, o divenuti tali per necessità
mimetiche. Il Musca non ne dispone come “villani”, visto che quella specie di
schiavitù è tramontanta, ma la loro condizione sociale ed economica è molto
simile. Hanno giacigli poveri in casupole che spesso coincidono con la
disponibilità offerta dagli ampi antri reperibili nel territorio a strapiombo
sotto il vecchio Calvario. Ne vien fuori una suggestiva fisionomia di abitato
trogloditico, per dirla alla Peri. Ma spesso era il pagliaio a sopperire alle
necessità abitative; sorsero le case “copertae
palearum” che qualche decina di anni dopo impressionarono l’arcidiacono du
Mazel, mandato da Avignone a rastrellare tasse aggiuntive per assolvere da un
incolpevole interdetto, comminato per le estranee vicende del Vespro. «Il pagliao - scrive il Peri non ad hoc ma
pertinentemente - non richiedeva scavo
in profondità per le fondamenta; e quando erano in pietra le basi erano in
grossi pezzi sovrapposti “a secco”, senza ricorso a materiale coesivo. La
costruzione si alzava, quindi, con paglia e fogliame impastato con fanghiglia.
Costituito abitualmente da un vano non ampio, che accoglieva la famiglia e le
bestie collaboratrici e compagne, il pagliaio bastava a offrire riparo dalle
intemperie e dava una pur limitata protezione dal freddo e dai raggi del sole.
Gli hospitia magna e le mansiones fabbricate “a pietre e calce” (ad
lapides et calces), anche nelle città
erano e sarebbero rimasti per tempo oggetto di ammirazione nella loro rarità.
Non si pretendeva dalle abitazioni
durata secolare. E, del corso del tempo e dei tempi dell’esistenza, avevano
nozione diversa dalla nostra quegli uomini che l’esposizione ai rigori, la
fatica prolungata e l’assoluta mancanza di prevenzioni e di rimedi alle
malattie, più precocemente offriva alla falce inclemente della morte. Corpi che
la povertà escludeva anche dal rito pietoso della conservazione nella tomba
insieme a qualcosa di caro e al viatico verso l’esistenza che non dovrebbe
avere fine. Ritornavano, con rapidità, in polvere la debole carne e le fragili
abitazioni di quelle generazioni.»
Il prisco
insediamento - se ben comprendiamo i suggerimenti che i successivi riveli
sembrano fornirci - avvenne in quella contrada che dopo ebbe a chiamarsi di
Santa Margheritella, da sotto il Carmine all’antro di Pannella incluso, dalla
Madonna della Rocca sino alle Bottighelle dell’attuale corso Garibaldi, tra S. Pasquale
e la Piazzetta. Poi, le abitazioni si estesero negli altri tre quartieri: San
Giuliano, Fontana e Monte.
I racalmutesi tengono molto alla tradizione che vuole la
chiesa di Santa Maria come la più antica, risalente addirittura al 1108: una
chiesa - si dice - voluta dai Malconvenant, che si indicano come i primi baroni
del casale. Non è facile farli ricredere. La ‘notizia’ ha per di più una fonte
scritta: quella dell’abate Pirri. Gli storici locali la danno per certa, ed
anche i restauratori della chiesa, negli anni ottanta di questo secolo, parlano
di facciata “normanna”.
Il Pirri, palesemente, collega la notizia ad un paio di
diplomi che si custodiscono tuttora negli archivi capitolari della Cattedrale
di Agrigento. L’archivio fu oggetto di studio a cavallo tra il secolo scorso e
quello corrente per la nota questione delle decime della mensa vesvovile
agrigentina. Fu un feroce alterco fra giuristi incaricati di difendere le
ragioni dei grossi agrari della provincia, riluttanti a riconoscere le antiche
tassazioni ecclesiastiche, e giuristi, canonici e storici di parte cattolica,
tutti alle prese con la dimostrazione che trattavasi di tasse dominicali e
quindi di gravami ancora validi.
Nel 1960,
il vescovo Peruzzo - ormai, nella quiete voluta dal concordato del 1929 e nella
sudditanza alle autorità ecclesiastiche propinata dal consolidato regime
democristiano - incaricava il grande paleologo Mons. Paolo Collura di uno
studio obiettivo e serio dei tanti vecchi diplomi. La pubblicazione che ne è
seguita è pietra miliare per ricerche del genere. Noi siamo andati a cercare
quelli che riguarderebbero la chiesa di Santa Maria di Racalmuto ed abbiamo
scoperto che non possono attribuirsi al nostro paese. Vi sono, sì, due diplomi
del 1108 e vi si parla dei Malconvenant e della fondazione di una chiesa
dedicata a S. Margherita, ma è evidente che la località nulla ha a che fare con
la nostra Racalmuto .
Si
riferisce evidentemente ad alcuni ben specifici di codesti diplomi, il Pirri
per fornire notizie su Santa Margherita di Racalmuto, come d'altronde nota lo
stesso Collura (). Ma come si può ben vedere, sia per le precisazioni del
Collura sia per l'ubicazione dei fondi sia per i toponimi, qui ci troviamo a
Santa Margherita Belice (o presso i suoi dintorni) e Racalmuto va senz'altro
escluso. () E’, poi, certo che Racalmuto
non appare mai in modo incontrovertibile nel carte capitolari di Agrigento che
vanno dalla conquista normanna al 1282. Non è chiaro se ciò sia dovuto ad un
tardo affermarsi del toponimo arabo del nostro paese o ad una sua indipendenza
fiscale nei confronti della curia agrigentina. Noi, come detto dianzi,
propendiamo per la tesi della tarda fondazione del paese di Racalmuto, qualche
decennio prima del diploma del 1271 su cui ci siamo soffermati sopra.
Caducata
l'attendibilità della fonte documentale del Pirri, si sbriciola la narrazione
del nostro Tinebra-Martorana sull'argomento. Il Capitolo II ed il III che contengono notizie sulla "signoria
dei Malconvenant" e su "Santa Margherita Vergine" che
corrisponderebbe "alla nostra Santa
Maria di Gesù" sono destituiti di fondamento storico. Il
Tinebra-Martorana mostra solo un'indiretta conoscenza dell'abate netino. Egli
si avvale dell'opera di «Padre Bonaventura Caruselli da Lucca, La Vergine del Monte a Racalmuto» e del
«Lessico Topografico siculo di Amico - Tomo 2°, pag.393-4». L'Amico è esplicito
nel dichiarare la fonte delle sue notizie sui Malconvenant e su Santa
Margherita Vergine: è il Pirri della Not.
Agrig. Il Pirri fu sicuramente
indotto in errore dai suoi corrispondenti del Capitolo agrigentino e nasce così
la favola di Santa Maria chiesa del XII secolo.
L'avallo
di Leonardo Sciascia al lavoro del Tinebra Martorana ha ormai canonizzato tutte quelle 'pretese' notizie
della storia di Racalmuto e non sarà facile a chicchessia rettificarle o
raddrizzarle. Malconvenant e chiesetta vetusta di Santa Margherita-Santa Maria
saranno usurpazioni storiche cui i racalmutesi non vorrano rinunciare, tant’è
che, ancora nel 1986, il padre gesuita Girolamo M. Morreale ribadiva quel falso
scrivendo che, indubitabilmente, «frutto della rinascita normanna fu per
Racalmuto il riordinamento del culto. Il conte Ruggero conferì l'investitura di
signore delle terre di Racalmuto a Roberto Malcovenant che dopo venti anni
dalla liberazione vi fece sorgere la prima chiesa sotto il titolo di S.
Margherita vergine e martire, vicino l'attuale cimitero, dotandola di fondi
agricoli che convertì in prebenda canonicale. Rocco Pirro colloca l'erezione
della chiesa nell'anno 1108 e precisa che avvenne con licenza del Vescovo di Agrigento,
Guarino (+1108)» () Il mendacio storico è proprio duro a morire, se anche
un colto ed avveduto gesuita vi incappa or non sono più di dieci anni fa.
Quanto a falsità storiche, ancor più salienti sono quelle
che confezionate dal Tinebra Martorana, furono ribollite da Eugenio Napoleone
Messana: sono le incredibili avventure della Racalmuto nel crogiuolo della
rivolta del Vespro. Vuole il Tinebra Martorana
che nella lotta tra Manfredi di Svevia e Carlo d’Angiò si accodò ai
baroni filofrancesi «Giovanni Barresi,
signore di Racalmuto. Il quale raccolta quanta gente potè dai suoi vasti
vassallaggi di Racalmuto, Petraperzia, Naso, Capo d’Orlando e Montemauro, volse
le armi contro il seno della sua stessa patria.» Scoppiata la rivolta del
1282, «Giovanni Barresi, che palesemente
aveva seguito la fortuna dei francesi, e durante il loro dominio era stato in
auge, ebbe la peggio allorché vennero fra noi gli Aragonesi. Premio meritato,
fu spogliato dei suoi domini, che passarono al reale patrimonio. Così la
baronia di Racalmuto appartenne per qualche tempo al regio Fisco e poi fu
concessa alla famiglia Chiaramonte.»
* * *
Il Fazello
non mostra interesse alcuno verso quelli che dovettero apparirgli incolti e
violenti nobilotti di campagna: i Del Carretto, appunto. Il colto storico è
basilare nella storia di Racalmuto per avere ispirato due tradizioni che
reggono imperterrite tuttora: la prima accredita Federico II Chiaramonte (+
1313) padrone e barone del feudo, ove avrebbe fatto costruire l'attuale
castello ("Lu Cannuni"), e ciò è congettura forse accettabile; la
seconda tradizione è quella della signoria dei Barresi. Qui il Fazello è del
tutto incolpevole. Si pensi che l'intera faccenda poggia - responsabili Vito
Amico ed il Villabianca, quello della
Sicilia Nobile - su un'evidente distorsione di un passo dell'opera
storica del Fazello. Questi, parlando
dei Barresi, aveva scritto : Matteo
Barresi succede ad Abbo, che aveva ricevuto da Re Ruggero l'investitura di
Pietraperzia, Naso, Capo d'Orlando, Castania e molti altri "oppidula"
(piccoli centri). Chissà perché tra quegli oppidula
doveva includersi proprio Racalmuto. Così congetturarono i cennati eruditi del
Settecento, non sappiamo su che basi, e così si racconta tuttora dagli storici
locali che hanno in tal modo il destro per appioppare a Racalmuto le vicende
avventurose di quella famiglia.
Non è
questa la sede per digressioni erudite: tuttavia ci pare di avere fornito
elementi sufficienti per comprovare la validità dei nostri convincimenti in
ordine alla nessuna attinenza dei domini feudali dei Malconvenant e dei Barresi
con Racalmuto, a ridosso del Vespro. Resta da vedere se possa parlarsi della
signoria degli Abrignano.
Il solito
Tinebra Martorana (pag. 56 op. cit.) ci propina questa successione:
«Alla morte del conte Ruggiero Normanno, sia
perché questa famiglia [cioè i Malconvenant] si fosse estinta, sia perché fosse
caduta la fortuna dei Malconvenant, noi vediamo essi perdere domini ed uffici.
Ciò che è indubitato è che il figlio del conte conquistatore, il gran re
Ruggiero, concesse la baronia di Racalmuto alla nobilissima famiglia degli
Abrignano[Minutolo: Cronaca dei Re]. E da questa passò ai Barresi. Degli Abrignano
però non è sicura notizia e di certo, se essi governarono Racalmuto, fu per
breve tempo, perché molti cronisti non ne fanno alcun cenno.» E tanto è
davvero un modo curioso di far storia: ciò che viene asserito come
“indubitato”, diviene subitaneamente - con contraddizione che non dovrebbe
essere consentita - “non sicura notizia”. E dire che Sciascia continuò a
definire quella del Martorana “una buona storia del paese”. Eugenio Napoleone Messana (op. cit. p. 49) non
ha dubbi che «nella cronaca dei re di Minutolo leggiamo che il re Ruggero II
concesse la baronia di Racalmuto ai nobili Albrignano o Alvignano prima e ad
Abbo Barresi dopo. Della concessione agli Abrignano ne fa menzione solo il
Minutolo, altri la omettono e riportano solo la concessione ad Abbo Barresi.»
Evidentemente, né Tinebra Martorana, né Eugenio Napoleone Messana avevano letto
il Minutolo, diversamente non sarebbero caduti nell’abbaglio. Forse avevano
letto soltanto Vito Amico che nella versione del Di Marzo specifica: «Minutolo
Memor. Prior. Messan. Lib. 8 attesta essersi [Racalmuto] appartenuto alla
famiglia di Abrignano, dato poscia a’ Barresi.» Una certa eco vi è anche nel
Villabianca: « e la tenne [Racalmuto] pur anche la Famiglia ABGRIGNANO, se diam
fede a MINUTOLO - Mem. Prior. lib. 8, f. 273.» Francamente ci dispiace che
nell’equivoco cadde anche il compianto padre Salvo - nostro stimato amico. Egli sintetizza: «La famiglia Albrignano -
Decaduta la famiglia Malconvenant, Ruggero II concesse la Baronia di Racalmuto
agli Albrignano o Alvignano nel 1130. Tale concessione è un po’ dubbia nelle
storia o, se vi fu, ebbe a durare pochissimo. Certo è che nel 1134 la Baronia
di Racalmuto era già nelle mani dei Barresi.» Un’evidente sunto, con quella
aggiunta della data che vorrebbe essere una precisazione e diviene invece una
colpevole topica.
Il
Minutolo fu un frate gerosolimitano di Messina
che nel 1699 scrisse le memoria del suo “gran priorato” : raccolse le dichiarazioni dei vari suoi
confratelli sulle loro ascendenze nobili. Essere nobili era indispensabile se
si voleva essere ammessi fra quei frati cavalieri. Fra D. Alberto Fardella di
Trapani nell’anno 1633 asserisce - in buona fede o fraudolentemente, non
sappiamo - che un suo antenato era: «Hernrico Abrignano dei Signori di Recalmuto,
nobile di Trapani, e Regio Giustiziero, e Capitano» nell’anno 1395. La falsità
era talmente evidente da non doversi dare alcun credito al mendace frate, ma il
Minutolo non se ne accorgeed incappa in una smentita a se stesso, quando
trascrive l’albero genealogico dell’altro confrate, il nobile “Fra D. Alfonzo
del Carretto, di Giorgenti, 1617”, il quale, in coincidenza della pretesa
signoria di Racalmuto da parte di Enrico Abrignano nell’anno 1395, colloca ,
correttamente, al posto dell’Abrignano, il proprio antenato, il celebre barone
Matteo del Carretto. Ma già un altro due monaci della famiglia Fardella (fra D.
Martino Fardella di Trapani 1629) si era limitato a dichiarare quell’identico
antenato come semplice nobile di Trapani
(«Enrico Abrignano Nobile di
Trapani»). In Appendice sub 3) forniamo la trascizione di quegli intriganti
alberi genealogici, per i curiosi o per i diffidenti. Gli Abrignano con
Racalmuto, dunque, non c’entrano affatto: forse una qualche parente di Matteo
Del Carretto andò sposa al “mercante” Enrico Abrignano, attorno al 1391.
Quanto ai
Barresi, è arduo ritenere che costoro davvero abbiano avuto il dominio di
Racalmuto, in tempi antecedenti al Vespro, anche se il padre Aprile, scrivendo
in epoca moderna, era propenso alla tesi affermativa. Si disse che Abbo Barresi
I o Senior ebbe concesse dopo il 1130 dal re Ruggero il Normanno vari feudi,
Naso, Ucria ed altri Castelli. Da Abbo a Matteo; da Matteo a Giovanni, la
successione in quei domini feudali. Il San Martino Spucches resta sconcertato
dalla contraddittorietà delle notizie fornite dal Villabianca. Si limita allora
a questa secca elencazione: «Il
Villabianca, nella Sic. Nobile, dice che Ruggero re concesse Racalmuto ad Abbo
Barresi (Sic. Nob., vol. 4°, f. 200).
Lo stesso autore dice altrove che l’Imperatore Federico II concesse, dopo il
1222, Racalmuto ad Abbo Barresi che sarebbe stato figlio di Giovanni (di Matteo
di Abbo seniore). A quest’ultimo successe il figlio Matteo: al quale successe
Abbo ed a quest’ultimo il figlio Giovanni. Questi visse sotto Re Giacomo di
Aragona e seguì il suo partito. Re Federico, fratello di Giacomo divenuto Re di
Sicilia, dichiarò esso Giovanni fellone e gli confiscò i beni. Da questo
momento comincia una storia certa e noi cominciamo da questo momento ad
elencare i Baroni di Racalmuto con numero progessivo.» Ma, così facendo, l’esimio araldista, allunga
la teoria delle successioni, ricominciando il ciclo, per cui da Giovanni si
passerebbe ad Abbo II iunior che
avrebbe avuto dall’imperatore Federico II Racalmuto nel 1222 (per noi, a
quell’epoca, ancora da fondare); da Abbo II a Matteo II e da questi ad Abbo
III, cui sarebbe subentrato Giovanni Barresi che è personaggio storico
distintosi nelle vicende del 1299, di sicuro signore di Pietraperzia, Naso e
Capo d’Orlando.
Scettici sulle signorie pre-Vespro dei Barresi, non possiamo
escludere che, con la restaurazione feudale di re Pietro, Giovanni Barresi
possa essersi impossessato di Racalmuto, stante la latitanza di Federico Musca,
cui invero sarebbe spettata la titolarità della baronia racalmutese. Con il
passaggio tra le fila di re Giacomo d’Aragona - quando questi dichiarò guerra
al proprio fratello, Federico III, che era stato proclamato re di Sicilia nella
ben nota crisi di fine secolo XIII - potè essersi pur verificata la perdita da
parte di Giovanni Barresi del recente feudo di Racalmuto alla stregua di quegli
altri suoi possedimenti siciliani, finiti sotto confisca.
L’Amari,
nella sua guerra del Vespro siciliano, accenna ad un diploma del 28 dicembre
1300 (1299) tredicesima indizione, anno 15° di Carlo II d’Angiò, ove Racalmuto
e Caccamo vengono concessi a Pietro di Monte Aguto. Ovviamente si trattò di promesse
dell’angioino che non ebbero seguito alcuno. Ma quella promessa sa di sonora
smentita della tesi che vorrebbe feudatario di Racalmuto Giovanni Barresi:
questi, ora, milita accanto all’angioino, sia pure sotto la bandiera di Giacomo
d’Aragona; non è credibile che Carlo II d’Angiò arrivasse al punto di
confiscare a sua volta il feudo già confiscato dal nemico Federico III.
Credibile, invece, che nella cancelleria di Napoli figurasse ancora la
concessione a Pietro Negrello di Belmonte
e che si pensasse di girare ora il feudo al milite alleato Pietro di
Monte Aguto.
* * *
Nell’Agosto del 1282 Pietro d’Aragona sbarca in Sicilia con
quel misto di albagia spagnola e di «avara povertà di Catalogna»: a Racalmuto -
come detto - giunge la prima martellatta fiscale datata “Palermo 10 settembre”;
il nuovo re esige subito che si paghi per l’armamento di 15 arcieri.
Sotto la
stessa data, codesto re Pietro crede di addolcire la pillola inviando al nostro
periferico casele un resoconto delle sue recenti imprese. Siamo sicuri che ai
racalmutesi di allora (come d’oggi) non gliene importava nulla di sapere:
«Doc. X -
Palermo 10 Settembre 1282 - Ind. XI. Re
Pietro dopo aver eenumerate al Baiulo, ai Giudici ed agli uoimini tutti di
Adrano le ragioni, per le quali ha creduto intraprendere la spedizione di
Sicilia; e raccontato del suo sbarco a Trapani, nonché del suo arrivo, per
terra in Palermo, il venerdì 4 Settembre; ordina che, adunati in assemblea,
eleggano due fra i più cospicui della loro terra; i quali, come loro sindaci,
vengano a prestargli il debito giuramento di omaggio e fedeltà; più, che tutti
i cavalieri, pedoni, balestrieri, arcieri, lanceri, scudati si rechino, con armi e cavalli, in Randazzo, pel 22
Settembre al più tardi.
«Simili
lettere a tutti gli uomini di tutte le terre al di là del fiume Salso.»
«[......] Item et infra fuit scriptum eodem modo
videlicet.
«
[...] Burgio, Sacca, Calatabellota,
Agrigento, Licata, Naro, Delia, Darfudo, Calatanixerio, Rahalmut [corsivo ns.], Mulotea, Sutera, Camerata, Castronuovo,
Sancto stephano, Bibona, Sancto Angilo, Raya, Busaxemo [Buscemi], Curiolono,
Juliana, [...]»
Nel
successivo mese di gennaio del 1283, Racalmuto viene chiamato - unitamente ad
altri centri - ad una sorta di tassazione aggiuntiva: dovrebbe approntare altri
quattro arcieri oppure dei fanti armati. La missiva parte da Messina il giorno
26 gennaio 1283, XI indizione. Ed è diretta al baiulo, ai giudici ed a tutti
gli uomini Rakalmuti. Perché mai
questa resipiscenza? Evidentemente, la base impobibile che era stata calcolata
a caldo, il 10 settembre 1282, si appalesava errata per difetto: i racalmutesi
tassabili erano di gran lunga più numerosi; se prima si era pensata ad una
tassazione di 75 fuochi o famiglie abbienti, ora si sapeva che almeno altri 20
fuochi erano in condizioni economiche da fornire mezzi aggiuntive alla guerra
che Pietro d’Aragona andava conducendo - più o meno indolentemente - contro
l’Angioino. Se questa nostra tesi è accettabile, l’area degli abitanti
racalmutesi riconducibile alla platea dei contribuenti saliva da 300 a 380
(calcolando, come si è soliti, il numero dei fuochi per la probabile
consistenza media del nucleo familiare, pari al coefficiente 4). Ma non basta,
bisogna aggiungere quelli che riuscivano a sfuggire a quel censimento fiscale e
quelli che di solito erano esentati come preti, non abbienti, ebrei ed altri:
una rettifica, dunque, che non si è lontani dal vero assumendo una
maggiorazione dell’ordine del 20%; di talché perveniamo ad una popolazione
stimata di circa 456. (Nell’allegato n.°
5, forniamo ampi ragguagli su tali nostre ipotesi d’indole statistica.)
Re Pietro
aveva voglia di scherzare quando il 10 settembre 1282 si rivolge ai racalmutesi
- ed in latino - per dir loro che finalmente il tanto aspettatato suo arrivo si
era verificato; che il suo aiuto era già in corso; che quindi potevano e
dovevano abbandonarsi ad una “tripudiosa giocondità”. Fidelitati vestre feliciter nunciamus. «Felicemente l’annunciamo
alla vostra fedeltà». Ma occorrono gli adempimenti burocratici, i formalismi.
Pertanto, come è di diritto, l’ Universitas
è chiamata a prestare fisici giuramenti “corporalia
iuramenta” della debita fedeltà e
dell’omaggio al re. Nomini i suoi “sindici” si inviino davanti al cospetto
della “celsitudine” regale. Il re vuole fermamente che il nemico lasci il paese
pressoché annichilito e sterminato. Quindi si mandino cavalieri,
balestrieri, arcieri, uomini armati di
tutto punto, di scudi o di altri tipi d’armatura e s vengano presso di noi Re
Pietro in quel di Randazzo o là dove stabiliremo. E tutti dovranno avviarsi
entro il 22 di questo mese di settembre proprio a Randazzo. Se qualcuno
disobbidisce, incapperà nella nostra reale indignazione.
Non v’è
storico che descriva quale stato d’animo abbia accorato quei siciliani del 1282
dinnanzi a quelle pretese del nuovo padrone. Neppure i letterati, ci risulta,
hanno saputo evocare quelle angosce e quello sgomento. Neppure Tommasi di
Lampedusa, neppure Leonardo Sciascia, neppure quando sembra farne accenno
sminuendo ogni cosa con l’approssimativa chiosa sulla locale storia, appena
“descrivibile”, «dell’avvicendarsi dei feudatari che, come in ogni altra parte
della Sicilia, venivano dal nord predace o dalla non meno predace “avara
povertà di catalogna”; col carico delle speranze deluse e delle rinnovate e a
volte accresciute angherie che ogni nuova signoria apportava.» E questo sarà un bel dire, ma di scarso senso
per quello che davvero avvenne, per quella vita racalmutese che è più che “descrivibile”,
che ci pare tanto “narrabile”, tanto angosciante, tanto rimarchevole “storia”.
Chi spiegò
quel “latinorum” ai racalmutesi? Dove? Come? Quali decisioni furono prese? chi
fu eletto per ‘sindico’ - che onore non era ma perico per la vita e per i beni
dovendosi recare tanto lontano in tempi calamitosi e per strade impervie e
cosparse di agguati da parte di ladri e “prosecuti”?
C’è da
pensare che già sin d’allora, i notabili furono adunati in chiesa al suo della
campana, come sarà costume alla fine del ‘500. Un prete avrà tradotto la missiva.
A dirigere i lavori assembleari colui che si era autoproclamato Baiulo e quei
due o tre maggiorenti - il notaio, il farmacista-medico - che lo affiancavano.
Un paio di “burgisi” - che disponevano di giumente - avranno dovuto accettare
l’incarico di recarsi dal re nella lontano Randazzo. Con la ritualità che
riscontreremo nell’adunata popolare del 7 agosto del 1577.
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