GIOVANNI IV DEL CARRETTO
Giovanni
IV del Carretto fu un torbido personaggio di cui ebbero ad occuparsi le
cronache nere del tempo, anche dopo la sua morte. Ma fu un personaggio che
visse, operò, uccise e fu ucciso in quel di Palermo. Crediamo che a Racalmuto
non abbia mai messo piede. Fece amministrare i suoi beni racalmutesi da un
genero (Russo) che dovette essere parente della prima moglie e che fu sposo
della figlia illegittima Elisabetta, alla quale però il conte teneva tanto da
legittimarla.
Tinebra
Martorana ed Eugenio Messana spendono varie pagine ad illustrare la figura di
questo Giovanni del Carretto: i fatti di sangue che lo riguardano destano
curiosità ed interesse cronachistico, anche a distanza di secoli. Non sono però
molto attendibili questi nostri due storici locali. Sciascia, sul nostro conte
Giovanni IV del Carretto, ragguaglia sapientemente nella sua ricostruzione delle vicende di fra Diego La Matina (vedasi
la pag. 185 della Morte dell’Inquisitore, ed. 1982 cit.)
Ad onta
del fatto che il conte se ne stava a Palermo, o forse appunto per questo,
Racalmuto prospera dopo la terribile peste del 1576. Divenuto contea, sistemata
in qualche modo la faccenda del terraggio e del terraggiolo sotto Girolamo I,
questo nostro centro attira contadini, mastri, piccoli imprenditori, anche
usurai specie da Mussomeli, e diviene un paesone enorme per quei tempi: il
rivelo del 1593 annovera circa quattromila e cinquecento abitanti, e molti di
loro hanno patrimoni apprezzabili.
In un
siffatto contesto demografico, il ‘rivelo’ del 1593 si colloca come il primo
censimento che si ispira ad un certo rigore statistico. Si può pensare che ciò
si deve alla lontananza del conte Giovanni del Carretto. In questi anni,
infatti, Giovanni del Carretto è nel bel mezzo della sua bufera giudiziaria. Vi
era incappato per una vicenda avvenuta attorno al 1590.
Ecco come
ce la racconta un suo parente Vincenzo di Giovanni «In
questi tempi [tra il 1589 ed il 15 maggio 1591] successe che essendo riportato
a D. Giovanni Carretto, conte di Racalmuto, che Gasparo la Cannita gli faceva
mal’opera riportando alcune sue opere, ed avendo colui lasciatosi trasportar
dalla colera, dicendo contro quello parole ingiuriose, il detto della Cannita
ebbe ardire di mandargli un disfido per una lettera, dicendogli che aspettava
la risposta in Napoli.
Gli mandò dietro il
conte per farlo castigare della presunzione; ma fro i messi ingannati ivi da
quei, che gli avevano promesso far l’effetto: il che sentì gravemente il conte,
ed attese a procurar meglio ricapito.
In questo, sentendo il conte di Albadalista, viceré in
questo regno, tal negozio, fé venire il Cannita su la sua parola per farlo
accordare col conte; ed assicuratosi di questo, si conferì a Palermo, non
uscendo per la città, per dubbio, che aveva, se non quando andasse in palagio a
trattare col viceré.
Tra tanto il conte di Racalmuto, sentita la venuta del
Cannita, andava per le spie osservandogli i passi, perché aveva concertato
genti per tal effetto.
Lo ingannro due finalmente, che, offerendosi al Cannita di
accompagnarlo a palagio, lo diedero in mano de’ nemici.
Aveva il conte concertato due con due pistole, e quattro per
far salvar quelli dopo fatto il caso. Venendo a passare il pover’uomo, gli
scaricarono coloro le pistole e l’uccisero; e quelli, che erano per salvarli,
sbigottiti fuggirono.
Fuggì uno schiavo del conte: ma l’altro, essendo in fuggire,
fu sopraggiunto dal marchese della Favara, e seguitandolo, fu preso e menato al
viceré, dicendogli l’eccesso che fatto avea. Se corse [s’indispettì] assai
quello, lo fé tormentare, e chiamato il conte, fé cercarlo con grande
diligenza. Egli, vestito da monaco, fu uscito in cocchio da D. Francesco
Moncata, principe di Paternò, e si salvò in modo, che per molti mesi non se ne
seppe nova.
Salvatore lo Infossato, che era stato preso per l’omicidio,
fu afforcato; e procedendosi in bando contro il conte, si fé dopo prendere in
Messina da gente dell’Inquisizione, e pretese il foro.
Ma vennero lettere di Sua Maestà che fusse dato al viceré,
perché era venuto ordine, che i signori non potessero essere del sant’Officio;
ed in questo modo il viceré ebbe in potere il conte.
Pensò dargli il tormento della corda, con la clausola ‘citra
paejudicium probatorium’, e gli aveva fatto provista, che non si eseguì per
venire il giorno di festa con un altro seguente.
Si aspettava il dì di lavoro per eseguirsi la provista ,
quando la sera precedente venne un estraordinario con lettere, che aveva
ottenuto D. Aleramo Carretto, suo fratello, che era alla corte, che
soprasedesse il conte viceré sino ad altro ordine. Tra tanto era tenuto il
conte di Racalmuto con dodici guardie.
Si adoperò in questo l’imperatore, che con i Carretti si trattava
da parente; alle cui intercessioni vennero lettere di Sua Maestà, che il conte
per qualche rispetto fusse rimesso al foro: il che sentì molto il conte d’Alba.
Fu rimesso; e fatte le sue defensioni in sant’Officio, dopo
dieci anni di travagli e gravissime spese fu liberato, condennandolo solo ad
onze mille, da pagarsi alla moglie del defunto, ed onze duecento al fisco. In
questo modo ottenne il conte la sua liberazione.»
Il Tinebra
Martorana ne fa una fantasiosa ricostruzione a pag. 120-123, apparendo
partigiano dei del Carretto e contro il povero La Cannita quando ricama sul
testo - invero arduo - del Di Giovanni
(che pure cita come fonte). Eugenio Napoleone Messana ricalca la narrazione,
sia pure con qualche personale svolazzo e con qualche arbitraria annotazione
(v. pag. 105-107).
L’intrico
(veritiero) del conte Giovanni del Carretto.
Il Sant’Offizio.
Ma
dobbiamo al Garufi queste esplicative note.
«S’aspettava
ancora il giudizio della corte di Madrid su questa vertenza [quella relativa al caso Ferrante] - scrive l’illustre storico - e chi sa per
quanto tempo se il Conte d’Albadalista insieme al reclamo non avesse forse
fatto pervenire al re le sue dimissioni per mezzo del D.r Morasquino, quando il
19 dicembre ‘89 i due Inquisitori, don Lope Varona e don Ludovico Paramo,
spedirono al G. Inquisitore di Spagna, col Cardinale don Gaspare de Quiroga, un
altro rapporto con le copie d’un nuovo processo contro Don Vincenzo
Ventimiglia, e le informazioni su due nuovi fattacci occorsi al fratello del
conte di Racalmuto ed ai fratelli La Valle. [...]
[E sono
fatti diversi dalle] due sole notizie tramandateci dai contemporanei: l’una
riguardante il fatto di “Giovanni del Carretto conte di Racalmuto, rimesso al
foro del S. Officio per essere giudicato d’assassinio, fatto commettere
appositamente e liberatosi mediante la multa di once mille”, e l’altra
riferentesi al caso gravissimo del conte di Mussomeli, che turbò la
cittadinanza palermitana e diede origine all’interdizione del regno, volendo
l’Inquisitore “sostenere la giurisdizione del S. Tribunale esposta, come dice
il Franchina, ad esser gravemente vilipesa”.
[...]».
Ed il Garufi così illustra il caso che avrebbe
coinvolto un fratello di Giovanni del Carretto, Giuseppe del Carretto: « [Dopo
avere affrontato la vicenda del Ventimiglia] il rapporto passa a parlare del fratello del conte di
Racalmuto.
«Premetto
che non è affatto a dubitare che il sistema di rappresaglia e soprattutto gli
interessi materiali abbiano mosso gli Inquisitori a salvare don Giuseppe del
Carretto, tramutato per l’occasione in
un misero commensale del fratello conte di Racalmuto “teniente de oficial” del
S. Officio.
«Arrestato
costui per una serie di gravi ed atroci delitti, a servirci dei termini usati
dalla G. Corte, nel luogo della sua dimora, Messina, da cui foro giudiziario
per le consuetudini della città non poteva esser distratto, gl’Inquisitori, a
favorire il conte di Racalmuto che ne faceva una questione di decoro di
famiglia o meglio di salvezza per il fratello, imbastirono le prove necessarie
a dimostrare ch’egli era commensale di lui dimorante in Palermo, avendolo
alimentato e mantenuto anche a sue spese a Messina: sotto lo specioso pretesto
che il diritto di commensalità non si perde finché non sia intervenuta una
regolare sentenza di magistrato.
«E giacché
la G. Corte suggeriva di definire tale questione per via di consulta, secondo
il Concordato dell’80, gli Inquisitori si rifiutarono dicendo: che “di pieno diritto spettasse loro di
giudicare se il del Carretto fosse o pur no commensale del fratello”.
«Affermato
codesto principio con la sicumera di un diritto indiscusso, procedettero alle
inibitorie ed alle scomuniche, e quindi fu necessario che la G. Corte
sospendesse il processo, e il Viceré indirizzasse nuove proteste e nuovi
reclami a Filippo II
«La
moralità di tutta questa vertenza fu l’assoluzione di del Carretto con un mezzo
molto simile a quello già fatto per il fratello di lui, conte di Racalmuto,
condannato per assassinio ad una multa di mille fiorini.»
Confessiamo
che le vicende ci appaiono piuttosto confuse. Propendiamo, comunque, per
l’ipotesi che i due fatti siano interconnessi. Che per primo si ebbe a
verificare l’incidente di Giuseppe del Carretto (sicuramente databile prima del
19 dicembre del 1589). La «mal’opera» che
Gasparo la Cannita - un
personaggio importante se sta tanto a cuore al viceré Albadalista - faceva al conte Giovanni del Carretto riportando alcune sue opere, fu forse
una pubblica accusa sul comportamento dell’arrogante
conte di Racalmuto in occasione dell’intrigo giurisdizionale del S. Officio contro la G. Corte per salvare
l’omicida Giuseppe del Carretto. Altro che “gravi danni” inferti ai domini del
Conte, come vorrebbero Tinebra Martorana ed Eugenio Messana. Dopo, si consuma
l’orrida esecuzione del La Cannita, mandante Giovanni del Carretto. Quindi la
reiterazione del gioco della competenza del foro per una sentenza di comodo.
Al conte
Giovanni del Carretto - si sa - il crimine portò iella: il 5 maggio del 1608
cade a sua volta , folgorato con due schioppettate in pieno petto, in via
Maqueda a Palermo.
Il figlio
Girolamo del Carretto, se crediamo alle carte del sarcofago del Carmine, venne
fatto fuori da un servo.
Morì il 1°
( e non il 6 maggio) del 1622 all’età di appena 24 anni, 7 mesi e 3 giorni.
Il nipote
Giovanni del Carretto finisce giustiziato nel regio Castello di Palermo il 26
febbraio 1650 (AURIA, Diario Palermitano),
colpevole più di avventatezza e boria che di alto tradimento verso Filippo IV,
re di Spagna.
Ma
qual era la situazione di Giovanni del Carretto nel 1593, all’epoca del ‘Rivelo’?
A
noi sembra, decisamente compromessa.
Un
sintomo si coglie in un lavoro dell’epoca di un funzionario napoletano che, parlando della nobiltà di Palermo e di
Messina, ignora del tutto la famiglia del Carretto.
I
documenti lo vorrebbero in carcere per tutto il decennio della fine del secolo
XVI. Questo sembrerebbe di capire dalla sibillina frase del Di Giovanni:« e fatte le sue defensioni in sant’Officio,
dopo dieci anni di travagli e gravissime spese fu liberato..». Ma forse
ebbe solo il fastidio di un processo decennale. Libero, però; limitato tutt’al
più nei suoi movimenti e costretto a dimorare in Palermo.
Nel
processo n. 3542 del 1600 , appare che
Giovanni del Carretto, nel 1594, aveva potuto compiere tutte le procedure per
assicurarsi l’investitura della terra di Cerami.
Avrebbe dovuto essere trattenuto in carcere, ma, sia pure
tramite procuratori, riesce ad acquisire il titolo di barone di Cerami.
La presa
del possesso di Racalmuto.
Veniamo
innanzitutto a sapere che il primo don Girolamo del Carretto - quello che era
riuscito a farsi rilasciare la patente di conte da Filippo II, facendogli
magari credere che erano parenti alla lontana, per via delle pretesi origini
sassoni dei del Carretto della originaria Liguria - aveva abbandonato il
castello di Racalmuto, che pure aveva abbellito, e si era trasferito a Palermo.
Sappiamo
che Girolamo, padre di Giovanni del Carretto, fu sepolto il 9 agosto XI
indizione del 1583 nella chiesa di Santa Maria di Gesù fuori le mura di
Palermo.
Defunto
l’ex pretore di Palermo, il figlio Giovanni non ha il tempo - o la voglia - di
recarsi a Racalmuto per prendere possesso della contea. Ne dà delega al parente
agrigentino don Cesare del Carretto.
Eccone, in
traduzione, l’atto di possesso:
«Atto di
possesso - 8 agosto, XI^ indizione, 1583 -
«Si
premette che il condam d. Girolamo del Carretto, conte della terra di
Racalmuto, morì - come piacque a Dio - nella felice città di Palermo ed a lui
successe - così come dovette e deve - nella contea predetta, per patto e
provvidenza del principe, l’ill.mo don Giovanni del Carretto, in quanto figlio
primogenito, legittimo e naturale, e successore in virtù dei suoi privilegi e
degli altri atti e scritture.
«In
relazione a ciò, nel predetto giorno, lo
spettabile don Cesare del Carretto della città di Agrigento - noto a me notaio,
presente, innanzi a noi - come procuratore del prefato ill.mo signor don
Giovanni, in forza della procura celebrata agli atti miei il giorno sette del
presente mese, in virtù dei detti suoi privilegi ed anche dei relativi diritti,
contratti e scritture, con ogni miglior
modo e forma, con i quali meglio e più utilmente poté essere detto, fatto e
pensato, in favore e per l’utilità dello stesso illustrissimo signor don
Giovanni come figlio primogenito ed indubitato successore per morte del prefato
ill.mo signor don Girolamo del Carretto, suo padre, per patto e provvidenza del
principe ed in forza dei suoi dei suoi privilegi ed in ogni miglior modo e nome
e continuando nel possesso in cui fu ed è e per quanto occorra, il predetto
procuratore prese e acquisì il reale, attuale, naturale, materiale, vacuo,
libero e corrente possesso della detta terra di Racalmuto, della contea e dello
stato della giurisdizione civile e criminale, nonché del mero e misto imperio e
degli altri diritti ed universe pertinenze sue.
«E per me
infrascritto notaio, ad istanza e richiesta dello spettabile procuratore
predetto, fatte seriamente, lo stesso procuratore, per suo tramite ma in nome
del delegante, è stato introdotto, posto ed immesso nello stesso possesso della
predetta terra, contea e stato con tutti i singoli suoi diritti e le pertinenze
universe, nonché nell’integrità dello stato, della giurisdizione civile e criminale e nel mero e misto
imperio, il tutto spettante alla detta contea in forza dei detti suoi privilegi
ed altre scritture.
«E ciò per
acquisizione delle chiavi del castello, con apertura e chiusura delle sue
porte, entrando, uscendo e deambulando in esso castello e nelle sue stanze.
«Così come
si è proceduto alla rimozione, destituzione e revoca dell’ufficio di
castellanìa nella persona del magnifico Giovanni Bartolo Ciccarano, e
dell’ufficio di secrezìa nella persona del magnifico Giovanni Antonio
Piamontesi, dell’ufficio di capitano, giudice e maestro notaio nelle persone di
magnifici Artale Tudisco, Nicolò di Monteleone e Rainero Fanara.
«E tanto
si è fatto anche per i loro sostituti negli uffici della giurazìa nelle persone
di mastro Martino Rizzo, Antonucio Morreali, Filippo Vaccari e Nicolò
Capoblanco; e negli uffici di mastro notaro e dell’erario fiscale nelle persone
di mastro Giacomo Puma e mastro Paolo Cacciaturi.
«Per nuova
elezione e creazione negli uffici predetti, sono stati rinominati gli stessi
ufficiali e gli stessi loro sostituti per beneplacito e sino ad altra nomina
degli ufficiali in altra occasione o circostanza.
«Per la
solenne celebrazione di un tale possesso ed a testimonianza di tale vero,
reale, attuale, naturale e materiale possesso, ed a cautela del predetto ill.mo
signor don Giovanni, viene redatto il presente strumento, corredato del timbro
di avvaloramento, da me notaio Antonino de Gagliano, regio pubblico notaio di
Cerami di questo Regno. L’atto viene rogato, in presenza di testimoni, e quindi
registrato a suo tempo e luogo.
«Testi
presenti: chierico Francesco Nicastro; m.° Pietro Romano; m.° Marino de Mulé e
m.° Pietro Cacciatore.
«Nello
stesso giorno, ai fini dell’estensione del possesso predetto, fu fatto accesso
per me predetto infrascritto notaro e per il detto spettabile don Cesare del
Carretto procuratore, con i testi infrascritti, fuori di Racalmuto presso il
feudo detto di Racalmuto, e presso i feudi di Donnacale (Donnafala?), Garamoli
e Culmitella, nonché presso i giardini, le sorgenti d’acqua, i vigneti della
detta contea. Ne è stato preso possesso a nome del detto ill.mo don Giovanni,
facendo l’entrata e l’uscita, visionando la concessione degli erbaggi,
toccandone gli alberi, facendo il lancio di pietra, ispezionando il defluvio
delle acque e compiendo gli altri riti atti a dimostrare la solenne presa di
possesso.
«Testi:
Nicolò di Mastrosimone, m.° Pietro de Pomis e m.° Pietro Buscemi.
Dagli atti miei notaio Antonino de Gagliano, di Cerami, regio pubblico notaio del Regno.»
Il truce
personaggio che fu don Giovanni del Carretto (il quarto della sua famiglia), se
ebbe fretta a prendere possesso dell’eredità, appare poi in difficoltà quando
deve prenderne l’investitura (con gli aggravi fiscali che comportava).
Ottiene
due dilazioni e, finalmente, riesce a chiuderla questa fase dell’investitura,
come da questa nota del citato processo:
«Messane die VI^ mensis Settembris XIII^ Ind. 1584 - prestitit juramentum [..]»
Giovanni
del Carretto ereditò una caterva di beni, ma anche un’asfissiante massa di
oneri, pesi e debiti.
Il “paragio”.
Tra tutti
primeggiavano gli obblighi di “paragio”.
Il
“paragio” fu un pernicioso istituto feudale siciliano in base al quale il
feudatario era obbligato a dotare figlie, sorelle, zie, e nipoti femmine (ma
per queste ultime solo nel caso che il genitore non vi potesse provvedere per
indisponibilità economica) in misura adeguata al loro rango.
Simpatico
o meno che sia il sanguigno Giovanni del Carretto di fine ’500, è certo che sul
poveraccio cadde addosso una caterva di sorelle fameliche di ‘paragio’, due
fratelli che non scherzavano in fatto di pretese economiche, una figlia
‘spuria’ da dotare bene per farla sposare dal nobile Russo - forse un parente
della prima moglie -, un figlio infelice avuto tardivamente da una discendente
della arrogante e burbanzosa famiglia Tagliavia-Aragona della vicina Favara.
E per di
più le disgrazie giudiziarie: soldi per i crimini del fratello Giuseppe (‘multa
di mille fiorini’) e per quelli suoi
propri (condanna ad onze mille, da
pagarsi alla moglie del defunto, ed onze duecento al fisco).
Sbuca poi
un Vincenzo del Carretto che le carte della curia agrigentina danno come
arciprete di Racalmuto al tempo di Girolamo del Carretto nel primo trentennio
del ‘600.
Risulta da
vari documenti un fratello dell’infelice conte di Racalmuto,
quello ‘ucciso dal servo’ nel 1622.
Se è così,
fu un altro figlio di Giovanni del Carretto (e nel caso un figlio illegittimo)
da dotare se non altro per costituire il debito ‘patrimonio’ voluto dal
Concilio di Trento per gli ecclesiastici.
I ‘paragi’
delle sorelle e dei fratelli buttano il germe di un tracollo finanziario dei
del Carretto che avrà il suo patetico epilogo nel ‘700 (assisteremo persino ad
acrimonie giudiziarie tra padre e figlio e cioè tra l’ultimo Girolamo del
Carretto e suo figlio Giuseppe - chiamato così anche se il nonno si chiamava
Giovanni, e forse per la perdurante vergogna della esecuzione di quel Carretto
per alto tradimento nel 1650).
Racalmuto
- questo feudo dei del Carretto - ne subì i danni? Tutto lo fa pensare.
Donna
Aldonza del Carretto
Un saggio
della pretenziosità delle sorelle di Giovanni del Carretto ce lo fornisce la
terribile virago Donna Aldonza del Carretto - sì, proprio quella che dota il
convento di S. Chiara a Racalmuto - la quale pure sul letto di morte non
resiste nel suo testamento dal dare sfogo al suo astio verso il fratello
primogenito.
Lo
esclude, innanzi tutto, dal nutrito numero dei suoi eredi universali, che invece limita alle sorelle donna Diana,
donna Ippolita, donna Giovanna, donna Eumilia e donna Margherita del Carretto
«...eius sorores pro equali portione, salvis tamen legatis, fidei commissis,
dispositionibus praedictis et
infrascriptis».
Dopo aver
fatto alcuni lasciti per la sua anima ed aver
dato le disposizioni per l’erezione del convento di Santa Chiara, si
ricorda del non amato fratello maggiore Giovanni in questi termini:
«..et
perché a detta D. Aldonza ci competiscono li doti di paraggio sopra lo stato di
Racalmuto et beni di detto quondam suo Padre una con li frutti di essi doti,
pertanto essa D. Aldonza testatrici declara volere detti doti di paraggio una
con li detti frutti di essi et volersi letari di quelli, in virtù di tutti e
qualsivoglia leggi et altri ragioni in
suo favore dittarsi et disponersi, non obstante si potesse pretendere in
contrario, in virtù di qualsivoglia testamento et dispositione, delle quali leggi
in suo favore disponenti, essa voli et intendi servirsi et usari in juditiarij
et extra, sempre in suo favore, conforme alle leggi et ragione di essa
testatrice tiene, le quali doti di paraggio, una con li frutti di quelle, siano et s’intendano instituti heredi universali
per equale porzione atteso che di li frutti detti doti ni lassao et lassa à D.
Gio: lo Carretto conte di Racalmuto suo frate onze duecento una volta tantum
pro bono amore et pro omni et quocumque jure eidem Don Joanni quemlibet competenti
et competituro et non aliter.
«Item
dicta testatrice vole et comanda che della liti la quale have fatto di
conseguitare la sua legittima che non ni possa consequire più di onze 600,
oltra di quelli li quali essa D. Aldonza testatrici si ritrova havere havuto;
li quali onze 600 essa testatrice lassao et lassa à d. Gio: Battista et D.
Eumilia del Carretto soi soro oltre della loro portione [parte corrosa, n.d.r.] [di cui alla] presente heredità modo quo supra fatta et hoc pro
bono amore et non aliter..»
Ma non
tutte le sorelle erano eguali per la terribile donna Aldonza.
E solo
dopo un paio di nipoti che si ricorda di avere un’altra sorella. A questa solo
un legato di 200 once così condizionato:
«Item ipsa
tetatrix legavit et legat D. Mariae Valguarnera comitissae Asari, eius sorori,
uncias ducentas in pecunia semel tantum solvendas per supradictos heredes
universales infra terminum annorum quatuor numerandorum a die mensis [mortis]
ipsius testatricis et hoc pro bono amore».
Uguale
trattamento per il fratello Aleramo:
«Item essa
testatrice lassao e lassa à D. Aleramo del Carretto suo fratello, conte di
Gagliano, onzi ducento della somma di quelle denari che essa testatrici pagao à
Giuseppe Platamone per esso D. Aleramo delli quali detto D. Aleramo è debitori
di essa testatrici et hoc pro bono amore et pro omni et quocumque jure eiusdem
D. Aleramo competenti et competituro.
«Item essa
testatrice declarao et declara che della legittima quale detto Don Aleramo divi
pagando onsi secento tutto lo resto di detta legittima essa testatrice la
lassao e lassa a detto D. Aleramo pro bono amore».
Nel
testamento non troviamo alcunché che ricordi anche il fratello Giuseppe. Forse
perché già morto?
Ma non
basta. Se ci si addentra nei processi per investitura dei del Carretto, sbuca
fuori un’altra sorella: Beatrice del Carretto,
morta nel settembre del 1592.
I del
Carretto a fine secolo XVI.
Tirando le
somme, su Giovanni del Carretto il buon genitore Girolamo scaricava le doti di
‘paragio’ di otto sorelle e due fratelli.
Poi, si aggiungeranno i carichi di un paio di
figli ‘illegittimi’ e, naturalmente, l’eredità ab intestato per l’unico figlio legale, il conte di Racalmuto per
antonomasia, Girolamo del Carretto.
Su
quest’ultimo si abbatteranno i fendenti di una tale complessa situazione
patrimoniale, carica di soggiogazioni anche per le tanti doti di ‘paragio’.
Sarà stato per questo, ma si dà il caso che il giovane conte del Carretto,
all’età di ventitré anni si spoglia di tutto, facendone donazione ai due figli
Giovanni e Dorotea e nominando governatrice la moglie Beatrice e tutore il
fratello (o fratellastro) don Vincenzo del Carretto, arciprete di Racalmuto.
Un anno
dopo, il primo maggio 1622, Girolamo del Carretto dava l’anima a Dio.
Ma torniamo
al 1593, l’anno del censimento. Il conte Giovanni del Carretto, non era di
sicuro nel suo castello racalmutese.
Una nota
di cronaca lo accosta alla morte del celebre poeta Antonio Veneziano, nel crollo delle carceri
del Santo Offizio.
«In questo stesso anno [1593] - precisa un diarista - dì 19 di agosto. Fu posto fuoco alla monizione
della polvere che era in Castell’a mare di Palermo: perilché quasi tutto il
castello brugiò, e morirono più di 200 persone, la maggior parte carcerati;
fra’ quali morì Antonio Veneziano poeta, Argistro Gioffredo, il baron di
Sinagra, due maestri di sant’Agostino che andorno a mangiare con l’inquisitori,
et altri cavalieri e plebei.
«Scamporno l’inquisitori, il conte di Racalmuto, il barone
di Siculiana, il castellano ed altri. Ivi fu roina grande delle case del
castello et delli palazzi d’inquisitori; et allora, uscendosi d’ivi, andorno a
stare alla casa di Monetta.»
Che cosa
vi stesse a fare Giovanni del Carretto, non è chiaro. Certo egli era «teniente
de oficial» del Santo Ufficio, ma il presidente della Gran Corte Giovan
Francesco Rao ed il viceré Albadalista erano riusciti ad ottenere da Filippo II
che i nobili non potessero far parte dell’Inquisizione.
Non era
quindi per ragioni di ufficio del suo ruolo nel tribunale inquisitoriale che
potesse stare in quelle carceri. La vicenda che abbiamo prima sunteggiato può
dunque spiegare il perché. Vi stava forse in quanto ‘carcerato’ seppure di
riguardo . Se è così, non poteva influire sull’andamento del rivelo di Racalmuto.
Che i guai
di Giovanni del Carretto, per quell’efferata esecuzione di La Cannita, siano
stati seri si desume dal fatto che dovette cedere il passo al fratello
rampante, Aleramo del Carretto, nella carica di Pretore di Palermo.
I Diari parlano
del «pretore l’ill.mo sig. D. Aleramo del Carretto conte di Gagliano» sotto la
data del 26 ottobre 1595, e narrano che l’11 aprile del 1596 costui, come
pretore, ebbe a carcerare «tutti li mastri di piazza». Gli ascrivono poi a
merito che in quel tempo «fece fare la scala nova della Corte del pretore e
l’arcivo del capitano».
Giovanni
del Carretto dovrà aspettare per tornare nel pubblico agone. Negli stessi Diari (pag. 142) lo incontriamo il 16
dicembre 1601, quando morì il Maqueda. Il feretro «andò alla chiesa maggiore
sopra la lettiga. E lo portarono in spalla quattro titolati, che furono D.
Francesco del Bosco duca di Misilmeri, D. Vincenzo di Bologna marchese di
Marineo, il conte di Cammarata e quello di Racalmuto ..». Ultimo dei quattro, è
vero, ma ci sta.
Giovanni
del Carretto resta vedovo piuttosto presto di Beatrice Russo e Camulo di
Cerami. Ha una relazione non ufficiale da cui - stando solo a ciò che è
documentato - ha una figlia di nome Elisabetta.
Nella
seconda metà dell’ultimo decennio del ‘500 la fa sposare con il nobile Girolamo
Russo. A sua volta, il conte si risposa, piuttosto tardi, con Margherita
Tagliavia di Favara, una potente famiglia che ci tiene a premettere al proprio
cognome quello ancor più prestigioso di Aragona. Tutto fa pensare che il matrimonio
sia stato celebrato nel 1596.
Il
primogenito Girolamo del Carretto viene battezzato a Palermo il 28 ottobre
1597.
Dopo tante
traversie giudiziarie e finanziarie, il conte è chiamato a reiterare
l’investitura per la morte di Filippo II di Spagna (+ il
13/9/1598) Adempie il costoso rinnovo piuttosto tardi (difettava di
liquidità?) e presta giuramento il 18
settembre 1600.
I del
Carretto, dopo il trasferimento a Palermo, non amavano frequentare Racalmuto,
almeno sino all’infelice Girolamo del Carretto, che, dopo l’uccisione del
padre, nel 1606, venne ricondotto,
insieme alla sorella, dalla madre nell’avito castello (e secondo le carte del
Carmelo vi trovò anche la morte nel 1622).
Il figlio,
Giovanni, si ritrasferisce a Palermo per farvisi giustiziare - come detto - nel
1650. Dopo di che, la famiglia del Carretto prende stabile dimora nel nostro
paese, praticamente sino alla sua estinzione (1710).
Finché i
del Carretto si accontentarono del titolo di barone di Racalmuto, vi stettero
proficuamente abbarbicati. L’ultimo barone, Giovanni, muore nel 1560 nel
“castro” racalmutese e viene seppellito a S. Francesco.
Ecco la
testimonianza resa da un maggiorente locale:
«Nob. Innocentius de Puma de terra Racalmuti,
repertus hic presens testes, juratus et
interrogatus supra capitulo probatorio dicti memorialis, dixit tamen scire
qualiter:
«in lo misi di gennaro prossimo passato in la
ditta terra di Racalmuto vitti moriri a lo speciale don Jo: de Carretto, olim
baruni di ditta terra, lo quali si andao et seppellio in la ecclesia di Santo
Francisco di ista terra, a lo quali successi et restao in ditta baronia ipso
spett. don Hieronimo ... come suo figlio primogenito legitimo et naturali, et accussì tempore eius vitae lo vidio
teneri, trattari et reputari per patri et figlio, et cussì da tutti quelli ca lu havino
canuxuto et canuxino ... quia
instituit vidit et audivit ut supra de loco et tempore ut supra».
Dal 1564
comincia la documentazione della Matrice di Racalmuto: battesimi e qualche atto
di matrimonio. Piuttosto rada
all’inizio, verso la fine del secolo s’infittisce. Le presenze importanti in
paese, o per un battesimo o per far da teste o da padrino o madrina, possono
dirsi tutte documentate.
Quanto ai
del Carretto, un Baldassare viene a Racalmuto, con la moglie, per fare da
compare e comare al figlio di un grosso personaggio: i Vuo. La solennità
dell’evento viene così segnata:
«Adi 9 marzo VIe Indiz. 1593 - Diego figlio del s.or Gioseppi e Caterina
di VUO fu batt.o per me don Michele Romano archipr.te - il Compare fu
l'Ill'S.or Don Baldassaro del CARRETTO - la Commare l'Ill. S.ora Donna Maria
del Carretto.»
Quattordici
anni prima, il 4 novembre 1579 si era fatto vivo per un’analoga circostanza don
Giuseppe del Carretto: la cerimonia riguarda il battesimo della figlia Porzia
del magnifico “Arthali magn. Thodisco”. Infatti, il documento recita: “I
padrini: ill.mo don Joseppi de lo Carretto et donna Anna de Carretto”.
Troppo
poco, come si vede.
Ebbe
ad attestarsi a Racalmuto, invece, il genero del conte Giovanni, il marito
della figlia illegittima Elisabetta.
Recenti
ricerche d’archivio in Vaticano ci hanno permesso di appurare il ruolo di
questo personaggio.
I del
Carretto ed il vorace vescovo spagnolo di Agrigento Giovanni Horozco
Covarruvias y Leyva.
Nel 1599
il vescovo spagnolo di Agrigento Giovanni Horozco Covarruvias y Leyva si vedeva
costretto a difendersi presso la Sacra Congregazione dei Vescovi e
Regolari, avendo avuto sentore di un
libello accusatorio contro di lui che non si è lungi dal vero ritenerlo
ispirato, se non addirittura scritto, dalla potente famiglia locale dei
Montaperto.
Il Presule
agrigentino passa al contrattacco e descrive con toni acri le sopraffazioni
dell’intera nobiltà dell’agrigentino, i del Carretto compresi.
La fosca storia del chierico Vella
Sulle
vicende del chierico Vella fornisce notizie Mons. De Gregorio:
«Le
controversie poi per la giurisdizione o esenzione ecclesiastica non erano
infrequenti.
«A
Racalmuto il chierico in minoribus
Jacopu Vella fu “infamato” della morte di un vassallo del Conte il quale lo
fece arrestare e volle procedere contro di lui, nonostante monitori e censure,
e per sottrarlo al vescovo lo fece prima portare nelle carceri di Palermo e poi
in quelle di Agrigento.
«“In
detta terra li preti e clerici non godono franchezza nixuna et per ordine del
conte non si da la franchezza della gabella et mali imposti et comprano come li
seculari denegandoli la franchezza.
«”In
detta terra, essendo mandati Vincenzo Carusio, sollicitaturi fiscali, e
Giuseppi Gatta commissario per prendere a notaro Oruntio Gualtieri, foro
detenuti dalli uffiziali temporali, carzerati per molti giorni tenendoli a lassari exequiri l’ordini contra detto prosecuto”.
«Nella
stessa terra lungamente il conte contrastò con il vescovo e il capitolo per il
diritto di spoglio alla morte dell’arciprete Michele Romano.»
* * *
Nei
registri della Matrice si hanno, tra l’altro, notizie sulla morte del detto
arciprete. Nel libro dei matrimoni del tempo si annota, ad esempio: «die 28
Julii X Ind. 1597. Incomensa lo conto delli inguaggiati dopo la morte del
arciprete don Michele Romano.»
Il benefizio di Sant’Agata
Al
Vescovo di Agrigento facevano dunque gola i beni dell’arciprete racalmutese.
Rimane
ancora l’eco di un suo maneggio sui beni di S. Agata.
Non
si sa se nel 1596 sorgesse nel Beneficio
di S. Agata una qualche omonima chiesa.
In uno studio del 1908 , F. M. Mirabella illustrava la figura di
«Sebastiano Bagolino, Poeta latino ed erudito del Sec. XVI». Vi si parla anche
dei difficili rapporti del poeta ed il vescovo di Agrigento Giovanni Horozco
Covarrusias e Leyva di Toledo.
«Certo è
che - si legge a pag. 188 - della sua traduzione [fatta dallo spagnolo in latino
di alcune opere del vescovo] il Bagolino non si tenne adeguatamente compensato.
Aveagli il vescovo fatto l'onore di ammetterlo alla sua mensa; aveva anche
conferito a don Pietro Bagolino, fratello di lui, prima i beneficj di Santa
Lucia e di S. Margherita in Castronovo, di
S. Agata in Racalmuto, di S. Maria Maddalena in Naro, di S. Leonardo fuori
le mura di Girgenti, e poi quello di S. Pietro nella stessa Girgenti col
reddito annuo di 250 ducati. Ma questo al poeta non pareva un guiderdone
condegno.»
IL MERO E MISTO IMPERIO
Nel 1582,
nel testamento di don Girolamo del Carretto primo conte di Racalmuto, il
lascito a Don Giovanni quarto comprende, senza ombra di equivoco, la contea di
Racalmuto con il «..mero et misto imperio
dicti comitatus ac titulo dicti comitatus aquisito per dictum dom. testatorem ...».
Ma viste
le successive contese, giocò forse il fatto che nel più importante privilegio
di casa del Carretto - quello della sua erezione a contea con firma autografa
di Filippo II di Spagna - latita un esplicito richiamo al mero e misto imperio,
anche se non mancano le locuzioni equipollenti.
Tra le
varie clausole scegliamo questa (che traduciamo dal latino):
«Concesse e concede a Don Giovanni del
Carretto, suo figlio primogenito, successore indubitato in detto stato, terra,
titolo, feudi .. con le modalità specificate .. il predetto stato e contea di
Racalmuto .. con tutti i suoi singoli feudi, gabelle, mercati, terre, terraggi, terraggioli, censi,
servitù, giurisdizioni civile e
criminale, mero e misto imperio, con il
titolo e la dignità di conte.»
Concetto
che ritorna subito dopo: « Del pari,
doniamo tutti ed integralmente i beni stabili e mobili, allodiali e
burgensatici, redditi, diritti, censi e tutti gli altri diritti, .. nonché il
detto stato di Racalmuto con tutti i singoli relativi feudi, gabelle, mercati,
terre, terraggi feudali, giurisdizioni civile e criminale, nonché il “mero e
misto imperio” con la dignità ed il titolo di conte...».
Nel Privilegium concessionis Comitatus Racalmuti
in personam Don Hieronimi de Carretto,
dopo la buriana dell’esecuzione per alto tradimento dell’ultimo Giovanni del
Carretto, il “mero e misto imperio” non si dubita neppure essere prerogativa
della Contea di Racalmuto.
Il diploma
regio è chiaro: «...il feudo, lo stato ed
il titolo confiscati, doniamo, rimettiamo, con la nostra indulgenza, ed a te
don Girolamo del Carretto e Branciforti doniamo di nuovo e concediamo,
investendotene, il feudo e la contea di Racalmuto, con la sua terra, i suoi
dominî, il vassallaggio e con tutti i suoi singoli feudi e territori, nonché la
baronia come si dice di Gibillini e Fico, entro i loro confini, con le case, i
mulini, i corsi d’acqua, i boschi, e con
tutte le altre singole cose della detta Contea e Baronia e relative pertinenze,
comunque e dovunque inerenti, unitamente all’integrità dello stato con ogni sua
causa e modo, nonché alla giurisdizione, il mero e misto imperio, la ’baglîa’, le gabelle, i censi e tutti gli
universi singoli diritti a detta Contea e Baronia spettanti, con tutte le
prerogative, dignità, preminenze e clausole come tuo padre e tuo nonno ed i
tuoi antecessori legittimamente avevano avuto, tenuto e posseduto ... »
Resta
ancora poco chiaro come venissero corrisposti i pesi feudali ai del Carretto,
se in natura (come i termini “terraggio” e “terraggiolo” fanno pensare) o in
contanti (come tanti atti dell’epoca lasciano intendere) o in forma mista.
Non vi
erano solo i diritti feudali veri e propri, ma anche i beni allodiali della
famiglia del Carretto, per la gran parte in mano ai rami cadetti (che erano
soliti dimorare ad Agrigento) a motivo forse del dispersivo gioco del
‘paraggio’.
GIOVANNI IV DEL CARRETTO
Giovanni
IV del Carretto fu un torbido personaggio di cui ebbero ad occuparsi le
cronache nere del tempo, anche dopo la sua morte. Ma fu un personaggio che
visse, operò, uccise e fu ucciso in quel di Palermo. Crediamo che a Racalmuto
non abbia mai messo piede. Fece amministrare i suoi beni racalmutesi da un
genero (Russo) che dovette essere parente della prima moglie e che fu sposo
della figlia illegittima Elisabetta, alla quale però il conte teneva tanto da
legittimarla.
Tinebra
Martorana ed Eugenio Messana spendono varie pagine ad illustrare la figura di
questo Giovanni del Carretto: i fatti di sangue che lo riguardano destano
curiosità ed interesse cronachistico, anche a distanza di secoli. Non sono però
molto attendibili questi nostri due storici locali. Sciascia, sul nostro conte
Giovanni IV del Carretto, ragguaglia sapientemente nella sua ricostruzione delle vicende di fra Diego La Matina (vedasi
la pag. 185 della Morte dell’Inquisitore, ed. 1982 cit.)
Ad onta
del fatto che il conte se ne stava a Palermo, o forse appunto per questo,
Racalmuto prospera dopo la terribile peste del 1576. Divenuto contea, sistemata
in qualche modo la faccenda del terraggio e del terraggiolo sotto Girolamo I,
questo nostro centro attira contadini, mastri, piccoli imprenditori, anche
usurai specie da Mussomeli, e diviene un paesone enorme per quei tempi: il
rivelo del 1593 annovera circa quattromila e cinquecento abitanti, e molti di
loro hanno patrimoni apprezzabili.
In un
siffatto contesto demografico, il ‘rivelo’ del 1593 si colloca come il primo
censimento che si ispira ad un certo rigore statistico. Si può pensare che ciò
si deve alla lontananza del conte Giovanni del Carretto. In questi anni,
infatti, Giovanni del Carretto è nel bel mezzo della sua bufera giudiziaria. Vi
era incappato per una vicenda avvenuta attorno al 1590.
Ecco come
ce la racconta un suo parente Vincenzo di Giovanni «In
questi tempi [tra il 1589 ed il 15 maggio 1591] successe che essendo riportato
a D. Giovanni Carretto, conte di Racalmuto, che Gasparo la Cannita gli faceva
mal’opera riportando alcune sue opere, ed avendo colui lasciatosi trasportar
dalla colera, dicendo contro quello parole ingiuriose, il detto della Cannita
ebbe ardire di mandargli un disfido per una lettera, dicendogli che aspettava
la risposta in Napoli.
Gli mandò dietro il
conte per farlo castigare della presunzione; ma fro i messi ingannati ivi da
quei, che gli avevano promesso far l’effetto: il che sentì gravemente il conte,
ed attese a procurar meglio ricapito.
In questo, sentendo il conte di Albadalista, viceré in
questo regno, tal negozio, fé venire il Cannita su la sua parola per farlo
accordare col conte; ed assicuratosi di questo, si conferì a Palermo, non
uscendo per la città, per dubbio, che aveva, se non quando andasse in palagio a
trattare col viceré.
Tra tanto il conte di Racalmuto, sentita la venuta del
Cannita, andava per le spie osservandogli i passi, perché aveva concertato
genti per tal effetto.
Lo ingannro due finalmente, che, offerendosi al Cannita di
accompagnarlo a palagio, lo diedero in mano de’ nemici.
Aveva il conte concertato due con due pistole, e quattro per
far salvar quelli dopo fatto il caso. Venendo a passare il pover’uomo, gli
scaricarono coloro le pistole e l’uccisero; e quelli, che erano per salvarli,
sbigottiti fuggirono.
Fuggì uno schiavo del conte: ma l’altro, essendo in fuggire,
fu sopraggiunto dal marchese della Favara, e seguitandolo, fu preso e menato al
viceré, dicendogli l’eccesso che fatto avea. Se corse [s’indispettì] assai
quello, lo fé tormentare, e chiamato il conte, fé cercarlo con grande
diligenza. Egli, vestito da monaco, fu uscito in cocchio da D. Francesco
Moncata, principe di Paternò, e si salvò in modo, che per molti mesi non se ne
seppe nova.
Salvatore lo Infossato, che era stato preso per l’omicidio,
fu afforcato; e procedendosi in bando contro il conte, si fé dopo prendere in
Messina da gente dell’Inquisizione, e pretese il foro.
Ma vennero lettere di Sua Maestà che fusse dato al viceré,
perché era venuto ordine, che i signori non potessero essere del sant’Officio;
ed in questo modo il viceré ebbe in potere il conte.
Pensò dargli il tormento della corda, con la clausola ‘citra
paejudicium probatorium’, e gli aveva fatto provista, che non si eseguì per
venire il giorno di festa con un altro seguente.
Si aspettava il dì di lavoro per eseguirsi la provista ,
quando la sera precedente venne un estraordinario con lettere, che aveva
ottenuto D. Aleramo Carretto, suo fratello, che era alla corte, che
soprasedesse il conte viceré sino ad altro ordine. Tra tanto era tenuto il
conte di Racalmuto con dodici guardie.
Si adoperò in questo l’imperatore, che con i Carretti si trattava
da parente; alle cui intercessioni vennero lettere di Sua Maestà, che il conte
per qualche rispetto fusse rimesso al foro: il che sentì molto il conte d’Alba.
Fu rimesso; e fatte le sue defensioni in sant’Officio, dopo
dieci anni di travagli e gravissime spese fu liberato, condennandolo solo ad
onze mille, da pagarsi alla moglie del defunto, ed onze duecento al fisco. In
questo modo ottenne il conte la sua liberazione.»
Il Tinebra
Martorana ne fa una fantasiosa ricostruzione a pag. 120-123, apparendo
partigiano dei del Carretto e contro il povero La Cannita quando ricama sul
testo - invero arduo - del Di Giovanni
(che pure cita come fonte). Eugenio Napoleone Messana ricalca la narrazione,
sia pure con qualche personale svolazzo e con qualche arbitraria annotazione
(v. pag. 105-107).
L’intrico
(veritiero) del conte Giovanni del Carretto.
Il Sant’Offizio.
Ma
dobbiamo al Garufi queste esplicative note.
«S’aspettava
ancora il giudizio della corte di Madrid su questa vertenza [quella relativa al caso Ferrante] - scrive l’illustre storico - e chi sa per
quanto tempo se il Conte d’Albadalista insieme al reclamo non avesse forse
fatto pervenire al re le sue dimissioni per mezzo del D.r Morasquino, quando il
19 dicembre ‘89 i due Inquisitori, don Lope Varona e don Ludovico Paramo,
spedirono al G. Inquisitore di Spagna, col Cardinale don Gaspare de Quiroga, un
altro rapporto con le copie d’un nuovo processo contro Don Vincenzo
Ventimiglia, e le informazioni su due nuovi fattacci occorsi al fratello del
conte di Racalmuto ed ai fratelli La Valle. [...]
[E sono
fatti diversi dalle] due sole notizie tramandateci dai contemporanei: l’una
riguardante il fatto di “Giovanni del Carretto conte di Racalmuto, rimesso al
foro del S. Officio per essere giudicato d’assassinio, fatto commettere
appositamente e liberatosi mediante la multa di once mille”, e l’altra
riferentesi al caso gravissimo del conte di Mussomeli, che turbò la
cittadinanza palermitana e diede origine all’interdizione del regno, volendo
l’Inquisitore “sostenere la giurisdizione del S. Tribunale esposta, come dice
il Franchina, ad esser gravemente vilipesa”.
[...]».
Ed il Garufi così illustra il caso che avrebbe
coinvolto un fratello di Giovanni del Carretto, Giuseppe del Carretto: « [Dopo
avere affrontato la vicenda del Ventimiglia] il rapporto passa a parlare del fratello del conte di
Racalmuto.
«Premetto
che non è affatto a dubitare che il sistema di rappresaglia e soprattutto gli
interessi materiali abbiano mosso gli Inquisitori a salvare don Giuseppe del
Carretto, tramutato per l’occasione in
un misero commensale del fratello conte di Racalmuto “teniente de oficial” del
S. Officio.
«Arrestato
costui per una serie di gravi ed atroci delitti, a servirci dei termini usati
dalla G. Corte, nel luogo della sua dimora, Messina, da cui foro giudiziario
per le consuetudini della città non poteva esser distratto, gl’Inquisitori, a
favorire il conte di Racalmuto che ne faceva una questione di decoro di
famiglia o meglio di salvezza per il fratello, imbastirono le prove necessarie
a dimostrare ch’egli era commensale di lui dimorante in Palermo, avendolo
alimentato e mantenuto anche a sue spese a Messina: sotto lo specioso pretesto
che il diritto di commensalità non si perde finché non sia intervenuta una
regolare sentenza di magistrato.
«E giacché
la G. Corte suggeriva di definire tale questione per via di consulta, secondo
il Concordato dell’80, gli Inquisitori si rifiutarono dicendo: che “di pieno diritto spettasse loro di
giudicare se il del Carretto fosse o pur no commensale del fratello”.
«Affermato
codesto principio con la sicumera di un diritto indiscusso, procedettero alle
inibitorie ed alle scomuniche, e quindi fu necessario che la G. Corte
sospendesse il processo, e il Viceré indirizzasse nuove proteste e nuovi
reclami a Filippo II
«La
moralità di tutta questa vertenza fu l’assoluzione di del Carretto con un mezzo
molto simile a quello già fatto per il fratello di lui, conte di Racalmuto,
condannato per assassinio ad una multa di mille fiorini.»
Confessiamo
che le vicende ci appaiono piuttosto confuse. Propendiamo, comunque, per
l’ipotesi che i due fatti siano interconnessi. Che per primo si ebbe a
verificare l’incidente di Giuseppe del Carretto (sicuramente databile prima del
19 dicembre del 1589). La «mal’opera» che
Gasparo la Cannita - un
personaggio importante se sta tanto a cuore al viceré Albadalista - faceva al conte Giovanni del Carretto riportando alcune sue opere, fu forse
una pubblica accusa sul comportamento dell’arrogante
conte di Racalmuto in occasione dell’intrigo giurisdizionale del S. Officio contro la G. Corte per salvare
l’omicida Giuseppe del Carretto. Altro che “gravi danni” inferti ai domini del
Conte, come vorrebbero Tinebra Martorana ed Eugenio Messana. Dopo, si consuma
l’orrida esecuzione del La Cannita, mandante Giovanni del Carretto. Quindi la
reiterazione del gioco della competenza del foro per una sentenza di comodo.
Al conte
Giovanni del Carretto - si sa - il crimine portò iella: il 5 maggio del 1608
cade a sua volta , folgorato con due schioppettate in pieno petto, in via
Maqueda a Palermo.
Il figlio
Girolamo del Carretto, se crediamo alle carte del sarcofago del Carmine, venne
fatto fuori da un servo.
Morì il 1°
( e non il 6 maggio) del 1622 all’età di appena 24 anni, 7 mesi e 3 giorni.
Il nipote
Giovanni del Carretto finisce giustiziato nel regio Castello di Palermo il 26
febbraio 1650 (AURIA, Diario Palermitano),
colpevole più di avventatezza e boria che di alto tradimento verso Filippo IV,
re di Spagna.
Ma
qual era la situazione di Giovanni del Carretto nel 1593, all’epoca del ‘Rivelo’?
A
noi sembra, decisamente compromessa.
Un
sintomo si coglie in un lavoro dell’epoca di un funzionario napoletano che, parlando della nobiltà di Palermo e di
Messina, ignora del tutto la famiglia del Carretto.
I
documenti lo vorrebbero in carcere per tutto il decennio della fine del secolo
XVI. Questo sembrerebbe di capire dalla sibillina frase del Di Giovanni:« e fatte le sue defensioni in sant’Officio,
dopo dieci anni di travagli e gravissime spese fu liberato..». Ma forse
ebbe solo il fastidio di un processo decennale. Libero, però; limitato tutt’al
più nei suoi movimenti e costretto a dimorare in Palermo.
Nel
processo n. 3542 del 1600 , appare che
Giovanni del Carretto, nel 1594, aveva potuto compiere tutte le procedure per
assicurarsi l’investitura della terra di Cerami.
Avrebbe dovuto essere trattenuto in carcere, ma, sia pure
tramite procuratori, riesce ad acquisire il titolo di barone di Cerami.
La presa
del possesso di Racalmuto.
Veniamo
innanzitutto a sapere che il primo don Girolamo del Carretto - quello che era
riuscito a farsi rilasciare la patente di conte da Filippo II, facendogli
magari credere che erano parenti alla lontana, per via delle pretesi origini
sassoni dei del Carretto della originaria Liguria - aveva abbandonato il
castello di Racalmuto, che pure aveva abbellito, e si era trasferito a Palermo.
Sappiamo
che Girolamo, padre di Giovanni del Carretto, fu sepolto il 9 agosto XI
indizione del 1583 nella chiesa di Santa Maria di Gesù fuori le mura di
Palermo.
Defunto
l’ex pretore di Palermo, il figlio Giovanni non ha il tempo - o la voglia - di
recarsi a Racalmuto per prendere possesso della contea. Ne dà delega al parente
agrigentino don Cesare del Carretto.
Eccone, in
traduzione, l’atto di possesso:
«Atto di
possesso - 8 agosto, XI^ indizione, 1583 -
«Si
premette che il condam d. Girolamo del Carretto, conte della terra di
Racalmuto, morì - come piacque a Dio - nella felice città di Palermo ed a lui
successe - così come dovette e deve - nella contea predetta, per patto e
provvidenza del principe, l’ill.mo don Giovanni del Carretto, in quanto figlio
primogenito, legittimo e naturale, e successore in virtù dei suoi privilegi e
degli altri atti e scritture.
«In
relazione a ciò, nel predetto giorno, lo
spettabile don Cesare del Carretto della città di Agrigento - noto a me notaio,
presente, innanzi a noi - come procuratore del prefato ill.mo signor don
Giovanni, in forza della procura celebrata agli atti miei il giorno sette del
presente mese, in virtù dei detti suoi privilegi ed anche dei relativi diritti,
contratti e scritture, con ogni miglior
modo e forma, con i quali meglio e più utilmente poté essere detto, fatto e
pensato, in favore e per l’utilità dello stesso illustrissimo signor don
Giovanni come figlio primogenito ed indubitato successore per morte del prefato
ill.mo signor don Girolamo del Carretto, suo padre, per patto e provvidenza del
principe ed in forza dei suoi dei suoi privilegi ed in ogni miglior modo e nome
e continuando nel possesso in cui fu ed è e per quanto occorra, il predetto
procuratore prese e acquisì il reale, attuale, naturale, materiale, vacuo,
libero e corrente possesso della detta terra di Racalmuto, della contea e dello
stato della giurisdizione civile e criminale, nonché del mero e misto imperio e
degli altri diritti ed universe pertinenze sue.
«E per me
infrascritto notaio, ad istanza e richiesta dello spettabile procuratore
predetto, fatte seriamente, lo stesso procuratore, per suo tramite ma in nome
del delegante, è stato introdotto, posto ed immesso nello stesso possesso della
predetta terra, contea e stato con tutti i singoli suoi diritti e le pertinenze
universe, nonché nell’integrità dello stato, della giurisdizione civile e criminale e nel mero e misto
imperio, il tutto spettante alla detta contea in forza dei detti suoi privilegi
ed altre scritture.
«E ciò per
acquisizione delle chiavi del castello, con apertura e chiusura delle sue
porte, entrando, uscendo e deambulando in esso castello e nelle sue stanze.
«Così come
si è proceduto alla rimozione, destituzione e revoca dell’ufficio di
castellanìa nella persona del magnifico Giovanni Bartolo Ciccarano, e
dell’ufficio di secrezìa nella persona del magnifico Giovanni Antonio
Piamontesi, dell’ufficio di capitano, giudice e maestro notaio nelle persone di
magnifici Artale Tudisco, Nicolò di Monteleone e Rainero Fanara.
«E tanto
si è fatto anche per i loro sostituti negli uffici della giurazìa nelle persone
di mastro Martino Rizzo, Antonucio Morreali, Filippo Vaccari e Nicolò
Capoblanco; e negli uffici di mastro notaro e dell’erario fiscale nelle persone
di mastro Giacomo Puma e mastro Paolo Cacciaturi.
«Per nuova
elezione e creazione negli uffici predetti, sono stati rinominati gli stessi
ufficiali e gli stessi loro sostituti per beneplacito e sino ad altra nomina
degli ufficiali in altra occasione o circostanza.
«Per la
solenne celebrazione di un tale possesso ed a testimonianza di tale vero,
reale, attuale, naturale e materiale possesso, ed a cautela del predetto ill.mo
signor don Giovanni, viene redatto il presente strumento, corredato del timbro
di avvaloramento, da me notaio Antonino de Gagliano, regio pubblico notaio di
Cerami di questo Regno. L’atto viene rogato, in presenza di testimoni, e quindi
registrato a suo tempo e luogo.
«Testi
presenti: chierico Francesco Nicastro; m.° Pietro Romano; m.° Marino de Mulé e
m.° Pietro Cacciatore.
«Nello
stesso giorno, ai fini dell’estensione del possesso predetto, fu fatto accesso
per me predetto infrascritto notaro e per il detto spettabile don Cesare del
Carretto procuratore, con i testi infrascritti, fuori di Racalmuto presso il
feudo detto di Racalmuto, e presso i feudi di Donnacale (Donnafala?), Garamoli
e Culmitella, nonché presso i giardini, le sorgenti d’acqua, i vigneti della
detta contea. Ne è stato preso possesso a nome del detto ill.mo don Giovanni,
facendo l’entrata e l’uscita, visionando la concessione degli erbaggi,
toccandone gli alberi, facendo il lancio di pietra, ispezionando il defluvio
delle acque e compiendo gli altri riti atti a dimostrare la solenne presa di
possesso.
«Testi:
Nicolò di Mastrosimone, m.° Pietro de Pomis e m.° Pietro Buscemi.
Dagli atti miei notaio Antonino de Gagliano, di Cerami, regio pubblico notaio del Regno.»
Il truce
personaggio che fu don Giovanni del Carretto (il quarto della sua famiglia), se
ebbe fretta a prendere possesso dell’eredità, appare poi in difficoltà quando
deve prenderne l’investitura (con gli aggravi fiscali che comportava).
Ottiene
due dilazioni e, finalmente, riesce a chiuderla questa fase dell’investitura,
come da questa nota del citato processo:
«Messane die VI^ mensis Settembris XIII^ Ind. 1584 - prestitit juramentum [..]»
Giovanni
del Carretto ereditò una caterva di beni, ma anche un’asfissiante massa di
oneri, pesi e debiti.
Il “paragio”.
Tra tutti
primeggiavano gli obblighi di “paragio”.
Il
“paragio” fu un pernicioso istituto feudale siciliano in base al quale il
feudatario era obbligato a dotare figlie, sorelle, zie, e nipoti femmine (ma
per queste ultime solo nel caso che il genitore non vi potesse provvedere per
indisponibilità economica) in misura adeguata al loro rango.
Simpatico
o meno che sia il sanguigno Giovanni del Carretto di fine ’500, è certo che sul
poveraccio cadde addosso una caterva di sorelle fameliche di ‘paragio’, due
fratelli che non scherzavano in fatto di pretese economiche, una figlia
‘spuria’ da dotare bene per farla sposare dal nobile Russo - forse un parente
della prima moglie -, un figlio infelice avuto tardivamente da una discendente
della arrogante e burbanzosa famiglia Tagliavia-Aragona della vicina Favara.
E per di
più le disgrazie giudiziarie: soldi per i crimini del fratello Giuseppe (‘multa
di mille fiorini’) e per quelli suoi
propri (condanna ad onze mille, da
pagarsi alla moglie del defunto, ed onze duecento al fisco).
Sbuca poi
un Vincenzo del Carretto che le carte della curia agrigentina danno come
arciprete di Racalmuto al tempo di Girolamo del Carretto nel primo trentennio
del ‘600.
Risulta da
vari documenti un fratello dell’infelice conte di Racalmuto,
quello ‘ucciso dal servo’ nel 1622.
Se è così,
fu un altro figlio di Giovanni del Carretto (e nel caso un figlio illegittimo)
da dotare se non altro per costituire il debito ‘patrimonio’ voluto dal
Concilio di Trento per gli ecclesiastici.
I ‘paragi’
delle sorelle e dei fratelli buttano il germe di un tracollo finanziario dei
del Carretto che avrà il suo patetico epilogo nel ‘700 (assisteremo persino ad
acrimonie giudiziarie tra padre e figlio e cioè tra l’ultimo Girolamo del
Carretto e suo figlio Giuseppe - chiamato così anche se il nonno si chiamava
Giovanni, e forse per la perdurante vergogna della esecuzione di quel Carretto
per alto tradimento nel 1650).
Racalmuto
- questo feudo dei del Carretto - ne subì i danni? Tutto lo fa pensare.
Donna
Aldonza del Carretto
Un saggio
della pretenziosità delle sorelle di Giovanni del Carretto ce lo fornisce la
terribile virago Donna Aldonza del Carretto - sì, proprio quella che dota il
convento di S. Chiara a Racalmuto - la quale pure sul letto di morte non
resiste nel suo testamento dal dare sfogo al suo astio verso il fratello
primogenito.
Lo
esclude, innanzi tutto, dal nutrito numero dei suoi eredi universali, che invece limita alle sorelle donna Diana,
donna Ippolita, donna Giovanna, donna Eumilia e donna Margherita del Carretto
«...eius sorores pro equali portione, salvis tamen legatis, fidei commissis,
dispositionibus praedictis et
infrascriptis».
Dopo aver
fatto alcuni lasciti per la sua anima ed aver
dato le disposizioni per l’erezione del convento di Santa Chiara, si
ricorda del non amato fratello maggiore Giovanni in questi termini:
«..et
perché a detta D. Aldonza ci competiscono li doti di paraggio sopra lo stato di
Racalmuto et beni di detto quondam suo Padre una con li frutti di essi doti,
pertanto essa D. Aldonza testatrici declara volere detti doti di paraggio una
con li detti frutti di essi et volersi letari di quelli, in virtù di tutti e
qualsivoglia leggi et altri ragioni in
suo favore dittarsi et disponersi, non obstante si potesse pretendere in
contrario, in virtù di qualsivoglia testamento et dispositione, delle quali leggi
in suo favore disponenti, essa voli et intendi servirsi et usari in juditiarij
et extra, sempre in suo favore, conforme alle leggi et ragione di essa
testatrice tiene, le quali doti di paraggio, una con li frutti di quelle, siano et s’intendano instituti heredi universali
per equale porzione atteso che di li frutti detti doti ni lassao et lassa à D.
Gio: lo Carretto conte di Racalmuto suo frate onze duecento una volta tantum
pro bono amore et pro omni et quocumque jure eidem Don Joanni quemlibet competenti
et competituro et non aliter.
«Item
dicta testatrice vole et comanda che della liti la quale have fatto di
conseguitare la sua legittima che non ni possa consequire più di onze 600,
oltra di quelli li quali essa D. Aldonza testatrici si ritrova havere havuto;
li quali onze 600 essa testatrice lassao et lassa à d. Gio: Battista et D.
Eumilia del Carretto soi soro oltre della loro portione [parte corrosa, n.d.r.] [di cui alla] presente heredità modo quo supra fatta et hoc pro
bono amore et non aliter..»
Ma non
tutte le sorelle erano eguali per la terribile donna Aldonza.
E solo
dopo un paio di nipoti che si ricorda di avere un’altra sorella. A questa solo
un legato di 200 once così condizionato:
«Item ipsa
tetatrix legavit et legat D. Mariae Valguarnera comitissae Asari, eius sorori,
uncias ducentas in pecunia semel tantum solvendas per supradictos heredes
universales infra terminum annorum quatuor numerandorum a die mensis [mortis]
ipsius testatricis et hoc pro bono amore».
Uguale
trattamento per il fratello Aleramo:
«Item essa
testatrice lassao e lassa à D. Aleramo del Carretto suo fratello, conte di
Gagliano, onzi ducento della somma di quelle denari che essa testatrici pagao à
Giuseppe Platamone per esso D. Aleramo delli quali detto D. Aleramo è debitori
di essa testatrici et hoc pro bono amore et pro omni et quocumque jure eiusdem
D. Aleramo competenti et competituro.
«Item essa
testatrice declarao et declara che della legittima quale detto Don Aleramo divi
pagando onsi secento tutto lo resto di detta legittima essa testatrice la
lassao e lassa a detto D. Aleramo pro bono amore».
Nel
testamento non troviamo alcunché che ricordi anche il fratello Giuseppe. Forse
perché già morto?
Ma non
basta. Se ci si addentra nei processi per investitura dei del Carretto, sbuca
fuori un’altra sorella: Beatrice del Carretto,
morta nel settembre del 1592.
I del
Carretto a fine secolo XVI.
Tirando le
somme, su Giovanni del Carretto il buon genitore Girolamo scaricava le doti di
‘paragio’ di otto sorelle e due fratelli.
Poi, si aggiungeranno i carichi di un paio di
figli ‘illegittimi’ e, naturalmente, l’eredità ab intestato per l’unico figlio legale, il conte di Racalmuto per
antonomasia, Girolamo del Carretto.
Su
quest’ultimo si abbatteranno i fendenti di una tale complessa situazione
patrimoniale, carica di soggiogazioni anche per le tanti doti di ‘paragio’.
Sarà stato per questo, ma si dà il caso che il giovane conte del Carretto,
all’età di ventitré anni si spoglia di tutto, facendone donazione ai due figli
Giovanni e Dorotea e nominando governatrice la moglie Beatrice e tutore il
fratello (o fratellastro) don Vincenzo del Carretto, arciprete di Racalmuto.
Un anno
dopo, il primo maggio 1622, Girolamo del Carretto dava l’anima a Dio.
Ma torniamo
al 1593, l’anno del censimento. Il conte Giovanni del Carretto, non era di
sicuro nel suo castello racalmutese.
Una nota
di cronaca lo accosta alla morte del celebre poeta Antonio Veneziano, nel crollo delle carceri
del Santo Offizio.
«In questo stesso anno [1593] - precisa un diarista - dì 19 di agosto. Fu posto fuoco alla monizione
della polvere che era in Castell’a mare di Palermo: perilché quasi tutto il
castello brugiò, e morirono più di 200 persone, la maggior parte carcerati;
fra’ quali morì Antonio Veneziano poeta, Argistro Gioffredo, il baron di
Sinagra, due maestri di sant’Agostino che andorno a mangiare con l’inquisitori,
et altri cavalieri e plebei.
«Scamporno l’inquisitori, il conte di Racalmuto, il barone
di Siculiana, il castellano ed altri. Ivi fu roina grande delle case del
castello et delli palazzi d’inquisitori; et allora, uscendosi d’ivi, andorno a
stare alla casa di Monetta.»
Che cosa
vi stesse a fare Giovanni del Carretto, non è chiaro. Certo egli era «teniente
de oficial» del Santo Ufficio, ma il presidente della Gran Corte Giovan
Francesco Rao ed il viceré Albadalista erano riusciti ad ottenere da Filippo II
che i nobili non potessero far parte dell’Inquisizione.
Non era
quindi per ragioni di ufficio del suo ruolo nel tribunale inquisitoriale che
potesse stare in quelle carceri. La vicenda che abbiamo prima sunteggiato può
dunque spiegare il perché. Vi stava forse in quanto ‘carcerato’ seppure di
riguardo . Se è così, non poteva influire sull’andamento del rivelo di Racalmuto.
Che i guai
di Giovanni del Carretto, per quell’efferata esecuzione di La Cannita, siano
stati seri si desume dal fatto che dovette cedere il passo al fratello
rampante, Aleramo del Carretto, nella carica di Pretore di Palermo.
I Diari parlano
del «pretore l’ill.mo sig. D. Aleramo del Carretto conte di Gagliano» sotto la
data del 26 ottobre 1595, e narrano che l’11 aprile del 1596 costui, come
pretore, ebbe a carcerare «tutti li mastri di piazza». Gli ascrivono poi a
merito che in quel tempo «fece fare la scala nova della Corte del pretore e
l’arcivo del capitano».
Giovanni
del Carretto dovrà aspettare per tornare nel pubblico agone. Negli stessi Diari (pag. 142) lo incontriamo il 16
dicembre 1601, quando morì il Maqueda. Il feretro «andò alla chiesa maggiore
sopra la lettiga. E lo portarono in spalla quattro titolati, che furono D.
Francesco del Bosco duca di Misilmeri, D. Vincenzo di Bologna marchese di
Marineo, il conte di Cammarata e quello di Racalmuto ..». Ultimo dei quattro, è
vero, ma ci sta.
Giovanni
del Carretto resta vedovo piuttosto presto di Beatrice Russo e Camulo di
Cerami. Ha una relazione non ufficiale da cui - stando solo a ciò che è
documentato - ha una figlia di nome Elisabetta.
Nella
seconda metà dell’ultimo decennio del ‘500 la fa sposare con il nobile Girolamo
Russo. A sua volta, il conte si risposa, piuttosto tardi, con Margherita
Tagliavia di Favara, una potente famiglia che ci tiene a premettere al proprio
cognome quello ancor più prestigioso di Aragona. Tutto fa pensare che il matrimonio
sia stato celebrato nel 1596.
Il
primogenito Girolamo del Carretto viene battezzato a Palermo il 28 ottobre
1597.
Dopo tante
traversie giudiziarie e finanziarie, il conte è chiamato a reiterare
l’investitura per la morte di Filippo II di Spagna (+ il
13/9/1598) Adempie il costoso rinnovo piuttosto tardi (difettava di
liquidità?) e presta giuramento il 18
settembre 1600.
I del
Carretto, dopo il trasferimento a Palermo, non amavano frequentare Racalmuto,
almeno sino all’infelice Girolamo del Carretto, che, dopo l’uccisione del
padre, nel 1606, venne ricondotto,
insieme alla sorella, dalla madre nell’avito castello (e secondo le carte del
Carmelo vi trovò anche la morte nel 1622).
Il figlio,
Giovanni, si ritrasferisce a Palermo per farvisi giustiziare - come detto - nel
1650. Dopo di che, la famiglia del Carretto prende stabile dimora nel nostro
paese, praticamente sino alla sua estinzione (1710).
Finché i
del Carretto si accontentarono del titolo di barone di Racalmuto, vi stettero
proficuamente abbarbicati. L’ultimo barone, Giovanni, muore nel 1560 nel
“castro” racalmutese e viene seppellito a S. Francesco.
Ecco la
testimonianza resa da un maggiorente locale:
«Nob. Innocentius de Puma de terra Racalmuti,
repertus hic presens testes, juratus et
interrogatus supra capitulo probatorio dicti memorialis, dixit tamen scire
qualiter:
«in lo misi di gennaro prossimo passato in la
ditta terra di Racalmuto vitti moriri a lo speciale don Jo: de Carretto, olim
baruni di ditta terra, lo quali si andao et seppellio in la ecclesia di Santo
Francisco di ista terra, a lo quali successi et restao in ditta baronia ipso
spett. don Hieronimo ... come suo figlio primogenito legitimo et naturali, et accussì tempore eius vitae lo vidio
teneri, trattari et reputari per patri et figlio, et cussì da tutti quelli ca lu havino
canuxuto et canuxino ... quia
instituit vidit et audivit ut supra de loco et tempore ut supra».
Dal 1564
comincia la documentazione della Matrice di Racalmuto: battesimi e qualche atto
di matrimonio. Piuttosto rada
all’inizio, verso la fine del secolo s’infittisce. Le presenze importanti in
paese, o per un battesimo o per far da teste o da padrino o madrina, possono
dirsi tutte documentate.
Quanto ai
del Carretto, un Baldassare viene a Racalmuto, con la moglie, per fare da
compare e comare al figlio di un grosso personaggio: i Vuo. La solennità
dell’evento viene così segnata:
«Adi 9 marzo VIe Indiz. 1593 - Diego figlio del s.or Gioseppi e Caterina
di VUO fu batt.o per me don Michele Romano archipr.te - il Compare fu
l'Ill'S.or Don Baldassaro del CARRETTO - la Commare l'Ill. S.ora Donna Maria
del Carretto.»
Quattordici
anni prima, il 4 novembre 1579 si era fatto vivo per un’analoga circostanza don
Giuseppe del Carretto: la cerimonia riguarda il battesimo della figlia Porzia
del magnifico “Arthali magn. Thodisco”. Infatti, il documento recita: “I
padrini: ill.mo don Joseppi de lo Carretto et donna Anna de Carretto”.
Troppo
poco, come si vede.
Ebbe
ad attestarsi a Racalmuto, invece, il genero del conte Giovanni, il marito
della figlia illegittima Elisabetta.
Recenti
ricerche d’archivio in Vaticano ci hanno permesso di appurare il ruolo di
questo personaggio.
I del
Carretto ed il vorace vescovo spagnolo di Agrigento Giovanni Horozco
Covarruvias y Leyva.
Nel 1599
il vescovo spagnolo di Agrigento Giovanni Horozco Covarruvias y Leyva si vedeva
costretto a difendersi presso la Sacra Congregazione dei Vescovi e
Regolari, avendo avuto sentore di un
libello accusatorio contro di lui che non si è lungi dal vero ritenerlo
ispirato, se non addirittura scritto, dalla potente famiglia locale dei
Montaperto.
Il Presule
agrigentino passa al contrattacco e descrive con toni acri le sopraffazioni
dell’intera nobiltà dell’agrigentino, i del Carretto compresi.
La fosca storia del chierico Vella
Sulle
vicende del chierico Vella fornisce notizie Mons. De Gregorio:
«Le
controversie poi per la giurisdizione o esenzione ecclesiastica non erano
infrequenti.
«A
Racalmuto il chierico in minoribus
Jacopu Vella fu “infamato” della morte di un vassallo del Conte il quale lo
fece arrestare e volle procedere contro di lui, nonostante monitori e censure,
e per sottrarlo al vescovo lo fece prima portare nelle carceri di Palermo e poi
in quelle di Agrigento.
«“In
detta terra li preti e clerici non godono franchezza nixuna et per ordine del
conte non si da la franchezza della gabella et mali imposti et comprano come li
seculari denegandoli la franchezza.
«”In
detta terra, essendo mandati Vincenzo Carusio, sollicitaturi fiscali, e
Giuseppi Gatta commissario per prendere a notaro Oruntio Gualtieri, foro
detenuti dalli uffiziali temporali, carzerati per molti giorni tenendoli a lassari exequiri l’ordini contra detto prosecuto”.
«Nella
stessa terra lungamente il conte contrastò con il vescovo e il capitolo per il
diritto di spoglio alla morte dell’arciprete Michele Romano.»
* * *
Nei
registri della Matrice si hanno, tra l’altro, notizie sulla morte del detto
arciprete. Nel libro dei matrimoni del tempo si annota, ad esempio: «die 28
Julii X Ind. 1597. Incomensa lo conto delli inguaggiati dopo la morte del
arciprete don Michele Romano.»
Il benefizio di Sant’Agata
Al
Vescovo di Agrigento facevano dunque gola i beni dell’arciprete racalmutese.
Rimane
ancora l’eco di un suo maneggio sui beni di S. Agata.
Non
si sa se nel 1596 sorgesse nel Beneficio
di S. Agata una qualche omonima chiesa.
In uno studio del 1908 , F. M. Mirabella illustrava la figura di
«Sebastiano Bagolino, Poeta latino ed erudito del Sec. XVI». Vi si parla anche
dei difficili rapporti del poeta ed il vescovo di Agrigento Giovanni Horozco
Covarrusias e Leyva di Toledo.
«Certo è
che - si legge a pag. 188 - della sua traduzione [fatta dallo spagnolo in latino
di alcune opere del vescovo] il Bagolino non si tenne adeguatamente compensato.
Aveagli il vescovo fatto l'onore di ammetterlo alla sua mensa; aveva anche
conferito a don Pietro Bagolino, fratello di lui, prima i beneficj di Santa
Lucia e di S. Margherita in Castronovo, di
S. Agata in Racalmuto, di S. Maria Maddalena in Naro, di S. Leonardo fuori
le mura di Girgenti, e poi quello di S. Pietro nella stessa Girgenti col
reddito annuo di 250 ducati. Ma questo al poeta non pareva un guiderdone
condegno.»
IL MERO E MISTO IMPERIO
Nel 1582,
nel testamento di don Girolamo del Carretto primo conte di Racalmuto, il
lascito a Don Giovanni quarto comprende, senza ombra di equivoco, la contea di
Racalmuto con il «..mero et misto imperio
dicti comitatus ac titulo dicti comitatus aquisito per dictum dom. testatorem ...».
Ma viste
le successive contese, giocò forse il fatto che nel più importante privilegio
di casa del Carretto - quello della sua erezione a contea con firma autografa
di Filippo II di Spagna - latita un esplicito richiamo al mero e misto imperio,
anche se non mancano le locuzioni equipollenti.
Tra le
varie clausole scegliamo questa (che traduciamo dal latino):
«Concesse e concede a Don Giovanni del
Carretto, suo figlio primogenito, successore indubitato in detto stato, terra,
titolo, feudi .. con le modalità specificate .. il predetto stato e contea di
Racalmuto .. con tutti i suoi singoli feudi, gabelle, mercati, terre, terraggi, terraggioli, censi,
servitù, giurisdizioni civile e
criminale, mero e misto imperio, con il
titolo e la dignità di conte.»
Concetto
che ritorna subito dopo: « Del pari,
doniamo tutti ed integralmente i beni stabili e mobili, allodiali e
burgensatici, redditi, diritti, censi e tutti gli altri diritti, .. nonché il
detto stato di Racalmuto con tutti i singoli relativi feudi, gabelle, mercati,
terre, terraggi feudali, giurisdizioni civile e criminale, nonché il “mero e
misto imperio” con la dignità ed il titolo di conte...».
Nel Privilegium concessionis Comitatus Racalmuti
in personam Don Hieronimi de Carretto,
dopo la buriana dell’esecuzione per alto tradimento dell’ultimo Giovanni del
Carretto, il “mero e misto imperio” non si dubita neppure essere prerogativa
della Contea di Racalmuto.
Il diploma
regio è chiaro: «...il feudo, lo stato ed
il titolo confiscati, doniamo, rimettiamo, con la nostra indulgenza, ed a te
don Girolamo del Carretto e Branciforti doniamo di nuovo e concediamo,
investendotene, il feudo e la contea di Racalmuto, con la sua terra, i suoi
dominî, il vassallaggio e con tutti i suoi singoli feudi e territori, nonché la
baronia come si dice di Gibillini e Fico, entro i loro confini, con le case, i
mulini, i corsi d’acqua, i boschi, e con
tutte le altre singole cose della detta Contea e Baronia e relative pertinenze,
comunque e dovunque inerenti, unitamente all’integrità dello stato con ogni sua
causa e modo, nonché alla giurisdizione, il mero e misto imperio, la ’baglîa’, le gabelle, i censi e tutti gli
universi singoli diritti a detta Contea e Baronia spettanti, con tutte le
prerogative, dignità, preminenze e clausole come tuo padre e tuo nonno ed i
tuoi antecessori legittimamente avevano avuto, tenuto e posseduto ... »
Resta
ancora poco chiaro come venissero corrisposti i pesi feudali ai del Carretto,
se in natura (come i termini “terraggio” e “terraggiolo” fanno pensare) o in
contanti (come tanti atti dell’epoca lasciano intendere) o in forma mista.
Non vi
erano solo i diritti feudali veri e propri, ma anche i beni allodiali della
famiglia del Carretto, per la gran parte in mano ai rami cadetti (che erano
soliti dimorare ad Agrigento) a motivo forse del dispersivo gioco del
‘paraggio’.
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