Luigi Pirandello ne I vecchi e i
giovani ([1] accenna alle condizioni -
avvilentissime - dei ceti infimi racalmutesi. Vi include ovviamente gli
zolfatai. Triste la sorte dei ‘mafiosi’ incastrati dalla giustizia: miseranda
la vita delle loro donne.
«..s’affollavano storditi i paesani zotici di
Grotte o di Favara, di Racalmuto o di Raffadali
o di Montaperto, solfaraj e contadini, la maggior parte, dalle facce
terrigne e arsicce, dagli occhi lupigni, vestiti dei grevi abiti di festa di
panno turchino con berrette di strana foggia: a cono, di velluto; a calza, di
cotone; o padavovane; con cerchietti o cateneccetti d’oro agli orecchi; venuti
per testimoniare o per assistere i parenti carcerati. Parlavano tutti con cupi
suoni gutturali o con aperte pretratte interjezioni. Il lastricato della strada
schizzava faville al cupo fracasso dei loro scarponi imbullettati, di cuojo
grezzo, erti, massicci e scivolosi. E avevan seco le loro donne, madri e mogli
e figlie e sorelle, dagli occhi spauriti o lampeggianti d’un’ansietà torbida e
schiva, vestite di baracane, avvolte nelle brevi mantelline di panno, bianche o
nere, col fazzoletto dai vivaci colori in capo, annodato sotto il mento, alcune
coi lobi degli orecchi strappati dal peso degli orecchini a cerchio, a
pendagli, a lagrimoni; altre vestite di nero e con gli occhi e le guance
bruciati dal pianto, parenti di qualche assassinato. Fra queste, quand’eran
sole, s’aggirava occhiuta e obliqua qualche vecchia mezzana a tentar le più
giovani e appariscenti che avvampavano per l’onta e che pur non di meno tavolta
cedevano ed eran condotte, oppresse di angoscia e tremanti, a fare abbandono
del proprio corpo, senz’alcun loro piacere, per non ritornare al paese a mani
vuote, per comperare ai figlioli lontani, orfani, un pajo di scarpette, una
vesticciuola.»
Forse un tantinello oleografica, ma pur sempre molto pertinente, la
raffigarazione che Nino Savarese ([2]) fa
delle zolfare e dei zolfatai che ben si attaglia alla Racalmuto dell’avvento
fascista. «I fazzoletti di seta
sgargiantissimi, i pantaloni a campana, gli scarpini di pelle lucida con
lo scricchiolìo, il berretto sulle
ventitre e il grumoletto giallo dei semprevivi all’occhiello, sono distintivi
della classe zolfilfera, non solo ignorati, ma ironizzati, dalla gente di
campagna. Dopo di essere stati mezzo nudi come selvaggi, grondanti sudore anche
di pieno inverno, nelle gallerie e nei pozzi afosi o sotto il peso delle corbe
nei trasporti, per i quali spesso non esistono mezzi animali o meccanici,
quelle vistose gale sono come una rivincita, una specie di commemorazione
domenicale, di fatto, non tanto naturale e prevedibile, di essere ancora in
vita e con le tasche piene di danaro ben
guadagnato. E fra i proprietari e dirigenti di zolfare e proprietari di terre,
c’è ancora, una netta distinzione di modi, di vita, di gusti e persino una
certa differenza nel linguaggio: gli uni sempre intenti a tentare nuove
avventure di pozzi e di gallerie, con l’animo sospeso sulle incognite degli
abissi e degli improvvisi disastri dei crolli e del grisù, gli altri con gli
occhi pacificamente rivolti al cielo a scrutare i cambiamenti del tempo. [...]
L’isola è ancora ricchissima di zolfo. Specie nella parte centrale, le miniere,
in certe contrade, si seguono a brevissima distanza.
«Dalla profondità delle loro
viscere esse hanno mandato ricchezze enormi: intere generazioni di padroni vi
si sono arricchite; intere generazioni di operai vi hanno logorato la loro
esistenza, ed eccole che fumano ancora, che è il loro modo di dire che
esistono, che producono ancora e vogliono nuove braccia e nuovi sacrifici, in
cambio di nuove promesse di ricchezza e di felicità! La fumata di una miniera
altera le linee del paesaggio di una contrada, come per l’avvertimento che, in
quel punto, la terra si sta consumando in una dissoluzione e in uno
struggimento innaturali: c’è qualcosa che richiama la vampata di un incendio o
di un disastro irreparabile. Non vedi le poche colonnine di fumo delle
ciminiere di una fabbrica, le quali hanno sempre qualche cosa di simmetrico e
di preordinato, ma centinaia di colonne di fumo che salgono, ora altissime, ora
basse, ora a larghe volute come veli di nebbia densa e giallastra. [...]
«I molli pascoli, gli orti grassi,
le vigne sembrano girare al largo da questi luoghidove la terra si è resa
maledettamente infeconda. [...]
«Qua e là, tra le distese grige del
tufo e i mucchi rossastri dei detriti della fusione, sbocciano improvvisamente
come grandi fiori gialli, i mucchi dello zolfo già fuso ed accatastato, pronto
per essere spedito. Queste cataste vengono fatte in prossimità dei forni e dei
calcheroni, che sono i luoghi della fusione; a sistema moderno, i primi, a modo
antico, i secondi. I calcheroni, mucchi di minerale più minuto, a cono,
sembrano piccolissimi vulcani a catena; i forni, piatte costruzioni in muratura
hanno nell’interno la forma di botti da vino, col mezzule e la spina e l’ampio
cocchiume aperto, dal quale, per certi soppalchi praticabili, viene versato il
mineralegrezzo. Lo zolfo, acceso all’interno, filtra attraverso i residui che
non fondono, e viene fuori dalla spina, in un liquido scuro, ancora denso,
sfrigolante di fiammelle azzurrognole, tra vapori acri ed irrespirabili. Le
operazioni che si vedono in una miniera sembrano allora quelle di una vendemmia
diabolica condotta nel centro della terra, e questo il vino di Mefistofele!
«Di notte la miniera è appena
segnata da grappoli di lampadine. Ma nel suo grembo infuocato il lavoro non si
arresta nemmeno durante la notte. Squadre di minatori non lasciano il piccone.
Si suda ancora e si impreca mentre nelle campagne intorno, i lumi delle casette
campestri si spensero assai per tempo, e i contadini aspettano il nuovo soleper
riprendere la loro fatica. E i campanacci dei bovi e delle pecore levano sui
campi silenziosi il loro suono di pace e di tranquillità.»
Quanto al contrasto contadini-zolfatai che affiora dalla pagina di
Savarese, per Racalmuto dovremmo fare un qualche distinguo se già nel lontano
1885 il pretore locale così riferiva alla Giunta
per l’Inchiesta Agraria sulle condizioni della classe agricola ([3]): «Il contadino di questi luoghi non è un servo
della gleba, non è scarsamente pagato come in altri luoghi: se non gli è ben
pagato il suo lavorosui campi, trova sicuro lavoro e ben retribuito
nelle miniere e perciò non è misero, ha di che vivere e può mantenere la sua
famiglia [...], veri contadini, individui che attendono esclusivamente alla
cultura dei campi, non ve ne sono: lavorano alternativamente, ora in miniera di
zolfo, ora nei campi.»
L. Hamilton Caico, l’irrequita moglie di uno dei membri dell’importante
famiglia Caico di Montedoro (paese finitimo con Racalmuto), commentando vicende
e costumi di un paese agricolo-minerario attorno al primo decennio del secolo,
in pieno riferimento, quindi, al centro che qui interessa, scriveva: «Il lavoro al quale il piconiere è sottoposto corrode e disgrega la sua
personalità, fino alla perdita totale di ogni senso morale. Imbroglia e deruba
il pur severo sorvegliante, durante il lavoro della miniera; e quando rientra
in paese, non fa altro che bere e gioca d’azzardo, sperperando così tutto quello
che ha guadagnato durante la settimana [...]. E’ rispettoso e sottomesso ai
superiori durante le ore di lavoro, ma appena ritorna in paese diventa
prepotente e litigioso, con un atteggiamento sprezzantee provocatorio [...]. E
i carusi? Le infelici creature
vengono ingaggiate per lavorare all’aperto non appena compiono dieci anni e,
quando hanno compiuto i quattordici anni, per lavorare dentro la miniera [...]
questo genere di vita li predispone al rachitismo e alla deformità e,
moralmente, sopprime in essi ogni istinto di umana bontà, poiché crescono
avendo a loro modello i piconieri,
anzi con un più completo e generale disfacimento della dignità umana [...],
mentre nell’animo nascono e crescono istinti violenti di ribellione e di
malvagità, i sensi di un odio inconscio, le tendenze più perverse.» ([4])
Gli zolfatai di Racalmuto furono politicamente e sindacalmente vivaci.
Abbiamo visto come subito passarono al fascismo, ma con un ribellismo sindacale
che fu domato molto tardi dallo stesso fascismo. Ancora, nel 1931, osavano
scioperare per contestare la riduzione della paga unilaterlmente decisa dagli
esercenti. ([5]) Prima di tale - sospetta -
conversione al fascismo, erano stati socialisti sotto l’egida di una strana
figura d’avvocato locale, Vincenzo Vella, figura che illustreremo dopo. Non
crediamo proprio che avessero gradito lo sproloquio moralistico che ebbe a
propinargli un noto socialista dell’epoca, il geom. Domenico Saieva. Costui,
organizzatore di minatori a Favara fra fine secolo ed i primi del ‘900, in un
comizio agli zolfatai di Racalmuto del 12 marzo 1905 redarguiva i locali
zolfatai in questi termini: «Io ho
sentito il dovere di dirvi ... che se volete andare avanti occorre educarvi,
abbandonare il vizio, le bettole e dare una contingente inferiore alla
criminalità [...] le statistiche criminali parlano chiaro e fanno spavento
[..]. Ignoranti, viziosi e disorganizzati come siete oggi, vivrete sempre nella
più orribile abiezione morale ed economica [..].» ([6])
Quanto alla vexata quaestio dei
carusi, il moralismo era antico, ma
in fondo cinico. Richeggiano le scriteriate parole che un sindaco di Racalmuto,
Gaspare Matrona, tanto conclamato da Leonardo Sciascia, ebbe a pronunciare nel
1875 davanti alla Giunta per l’Inchiesa sulla Sicilia: «A domanda: E l’affare fanciulli nelle zofare? Risponde: E’ questione grave, ci è l’umanità da una parte e
l’interesse economico dall’altra. A domanda: Produce danni fisici e morali:
Risponde Non quanto si crede. Per le zolfare credo che ci vorrebbe una specie
di consorzio. Qui la proprietà è divisa. Tutti siamo nella commodità generale.
Per togliere l’acqua occorrerebbe potersi avvalere per costruzione di
acquedotto dei terreni sottostanti; una specie di servitù di acquedotto o
meglio consorzio.» ([7])
Racalmuto si consegnava al fascismo dopo una freneteca corsa allo zolfo.
Un indice è quello demografico che è bene qui segnare:
Abitanti di Racalmuto
Anno
|
N.ro abit.
|
Indici 1825 =100
|
1825
|
7.170
|
100
|
1831
|
7.806
|
108,87
|
1852
|
9.030
|
125,94
|
1869
|
12.252
|
170,88
|
1894
|
13.384
|
186,67
|
1901
|
16.029
|
223,56
|
1911
|
14.398
|
200,81
|
1921
|
13.045
|
181,94
|
1931
|
14.044
|
195,87
|
1936
|
13.061
|
182,16
|
1951
|
12.623
|
176,05
|
1961
|
11.293
|
157,50
|
1980
|
10.000
|
139,47
|
In quasi un secolo, dal 1861 al
1951, i quozienti medi annui dell’incremento totale, di quello naturale ed il
saldo emigratorio sono stati:
Comune di Racalmuto
|
|
|
|
|
|
|
|
Periodi
|
Incremento totale
|
incremento naturale
|
saldo migratorio
|
1861 -1 871
|
3,6
|
8,86
|
-5,26
|
1871 - 1881
|
20
|
18,43
|
1,55
|
1881 - 1901
|
09,65
|
13,26
|
-4,64
|
1901 - 1911
|
-10,8
|
11,32
|
-22,12
|
1911 - 1921
|
-14,6
|
4,19
|
-18,79
|
1921 - 1931
|
11,4
|
9,93
|
1,47
|
1931 - 1951
|
-06,72
|
9,97
|
-16,69
|
Nel periodo 1861-1871 l’incremento totale della popolazione è inferiore a
quello naturale, il che comporta una emigrazione netta del 5,26 per mille; in
quello successivo tra il 1871 ed il 1881 il saldo migratorio s’inverte ed
abbiamo una immigrazione netta dell’1,55 per mille; dopo l’emigrazione prende
il sopravvento e nel periodo 1881-1901 è del 4,64 per mille, nel decennio
successivo di ben il 22,12 per mille e tra il 1911 ed il 1921 è ancora del
18,79 per mille; dopo - nel primo decennio fascista - abbiamo un’inversione di
tendenza: il flusso diviene immigratorio per l’1,47 per mille; quindi il flusso
emigratorio riprende il sopravvento ( 16,69 per mille nel ventennio 1931-1951).
([8])
Rispetto alla provincia di Agrigento, lo sviluppo demografico di
Racalmuto ha avuto il seguente andamento:
Anno
|
abit. Racalmuto (A)
|
N.ro ind.
(B).
|
abitanti prov. Ag. (C)
|
N.ro ind.
(D)
|
Rapporto %
A/C
|
Rapporto % B/D
|
1901
|
16.029
|
100
|
371.638
|
100
|
4,313
|
100
|
1911
|
14.398
|
89,825
|
393.804
|
105,96
|
3,656
|
84,77
|
1921
|
13.045
|
90,603
|
369.856
|
93,92
|
3,527
|
96,47
|
1931
|
14.044
|
107,658
|
398.886
|
107,85
|
3,521
|
99,82
|
1936
|
13.061
|
93,001
|
407.759
|
102,22
|
3,203
|
90,98
|
1951
|
12.623
|
96,647
|
461.660
|
113,22
|
2,734
|
85,36
|
1961
|
11.293
|
89,464
|
447.458
|
96,92
|
2,524
|
92,30
|
1980
|
10.000
|
88,550
|
449.699
|
100,50
|
2,224
|
88,11
|
Rispetto al territorio del’intera provincia di Agrigento, la popolazione
di Racalmuto scema sempre più d’importanza passando dal 4,313% del 1901 al
2,224% dei tempi d’oggi: un vero dimezzamento d’importanza. Eugenio Napoleone Messana ([9], uno
storico locale degli anni sessanta, da prendersi molto con le pinze, è alquanto
malizioso quando scrive: «Osservando i dati dell’Istituto Centrale di
statistica [...] balza evidente una crescente flessione demografica dal 1936 al
1961». Quasi si trattasse di un fenomeno inziato in pieno fascismo. Era invece,
come abbiamo visto, un deflusso che affondava le radici alla fine
dell’Ottocento.
La lezione di Leonardo Sciascia e la storia del fascismo racalmutese.
Scrive in Occhio di Capra, Leonardo Sciascia, il grande scrittore che a
Racalmuto è nato: «Isola nell’isola,
...la mia terra, la mia Sicilia, è Racalmuto.. E si può fare un lungo discorso
su questa specie di sistema di isole nell’isola: l’isola-vallo .. dentro l’isola Sicilia, l’isola-provincia
dentro l’isola-vallo, l’isola paese, dentro l’isola-provincia, l’isola-famiglia
dentro l’isola-paese, l’isola-individuo dentro l’isola-famiglia ...». I
ricercatori di storia locale non si mostrano però tutti d’accordo. Annota, ad
esempio, uno di loro: «Se il passo ha un
valore metafisico, filosofico, di incomunicabilità esistenzialistica, non oso
addentrarmici, ma se vuol essere nota storica su Racalmuto, ebbene mi pare
proprio inattendibile. Racalmuto è solo
uno scisto della storia ma questa tutta quanta vi si riverbera.» ([10]) Quanto
a storia fascista, ci pare che bisogna dar prorio ragione più ai locali
ricercatori che a Sciascia.
Leonardo Sciascia, nato nel 1921, qualche
sapida nota sul fascismo racalmutese, qua e là, ce la fornisce. Affermatosi
come scrittore alla fine degli anni cinquanta, si professa antifascista ed il
suo rievocare non è quindi contrassegnato da obiettività. Bisogna depurare, ma
alla fine un nucleo di verità emerge.
Qualche volta accenna al consenso delle masse al fascismo e può cogliersi
un riferimento a Racalmuto, ove trascorse infanzia e giovinezza ed ebbe a
frequentare con devozione quasi filiale
la famiglia di una sua zia materna, famiglia di spicco nel fascismo locale.
Si riferisce a Brancati ventenne, ma in sostanza od anche a se stesso e
quindi a Racalmuto, in questo passo molto efficace ([11]): «Nato nel 1907 ... aveva dodici anni al momento
in cui Mussolini fondava i fasci (di combattimento: parola che è mancata, negli
anni nostri, alla pur possibile resurrezione del fascismo, d in fascismo) e
quindici quando i fasci marciavano su Roma; tra adolescenza e giovinezza visse,
come noi tra infanzia e adolescenza, quello che lo storico chiama “gli anni del
consenso”: un consenso che, pieno e fervido nella classe borghese (e
specialmente nella piccola ed infima, poiché mai lo stipendio del travet, del
questurino, del maestro di scuola, è stato come allora sufficiente in rapporto
al bisogno e a quel tanto di superfluo - pochissimo - cui si poteva
limitatamente accedere), arrivava alla classe operaia , cui la “carta del
lavoro” aveva dato, un po' in concreto un po’ d’illusione, quel che decenni di
lotte sindacali e socialiste non avevano ottenuto. E c’erano le parole, che dal
Poeta erano passate al regime: eroiche, solenni, vibranti. E l’adunarsi,
l’aggregarsi: insopprimibile istanza giovanile oggi d’altro squallore. E i
riti. Tutto era allora fascismo, insomma, intorno ad un uomo di vent’anni. E
perché un uomo di vent’anni cominciasse a non sentirsi fascista, a detestare
quelle parole, quei riti, quella violenza, quella unanimità, occorreva
insorgesse “una strana quanto
benefica mancanza di rispetto”: verso i padri, le madri, i parenti tutti,
le autorità tutte, la scuola, il Poeta, la Chiesa. Sicché, paradossalmente, il
guadagnare buona salute d’intelligenza, di giudizio, finiva col riscuotere una
condizione di malattia: l’isolamento (alla mercé dei delatori, anche fisico),
la solitudine, l’esilio»
Sui rapporti tra fascismo e mafia, pubblicava, in quei tempi, un articolo
sul Corriere della Sera, destinato a suscitare un vespaio polemico, ancora oggi
non sopito. Vi riecheggiano i precedenti moralismi a sfondo storico.
Commentando un lavoro di Christopher
Duggan ([12]) «L’idea, - scrive Sciascia - e il
conseguente comportamento, che il primo fascismo ebbe nei riguardi della mafia,
si può riassumere in una specie di sillogismo: il fascismo stenta a sorgerelà
dove il socialismo è debole; in Sicilia la mafia ha impedito che il socialismo
prendesse forza: la mafia è già fascismo. Idea non infondata, evidentemente:
solo che occorreva incorporare la mafia nel fascismo vero e proprio. Ma la
mafia era anche, come il fascismo, altre cose. E tra le altre cose che il
fascismo era, un corso di un certo vigore aveva l’istanza rivoluzionaria degli ex combattenti , dei
giovani che dal partito nazionalista di federzoni per osmosi quasi naturale
passavano al fascismo o al fascismo
trasmigravano non dismettendo del tutto vagheggiamenti socialisti ed
anarchici: sparute minoranze, in Sicilia; ma che, prima facilmente conculcate,
nell’invigorirsi del fascismo nelle regioni settentrionali e nella permissività e protezione di cui
godeva da parte dei prefetti, dei questori, dei commissari di polizia e di
quasi tutte le autorità dello stato; nella paura che incuteva ai vecchi
rappresentanti dell’ordine (a quel punto disordine) democratico, avevano
assunto un ruolo del tutto sproporzionato al loro numero , un ruolo invadente e
temibile. Temibile anche dal fascismo stesso che - nato nel Nord in rispondenza
agli interessi degli agrari, industriali e imprenditori di quelle regioni e,
almeno in questo, ponendosi in precisa continuità agli interessi
“risorgimentali” - volentieri avrebbe fatto a meno di loro per più agevolmente
patteggiare con gli agrari siciliani, e quindi con la mafia. E se ne liberò,
infatti, appena dopo il delitto Matteotti, consolidatosi nel potere: e ne fu
segno definitivo l’arresto di Alfredo Cucco [arresto mai avvenuto, n.d.r.] (figura del fascismo isolano, di linea radical-borghese e
progressista, per come Duggan e Mack Smith lo definiscono, che da questo libro
ottiene, credo giustamente, quella rivalutazione che vanamente sperò di
ottenere dal fascismo, che soltanto durante la repubblica di Salò lo riprese [invero
Cucco fu riabilitato nel 1939 divenendo vicesegretario del PNF, subito dopo la
caduta in disgrazia di Starace, n.d.r.] e promosse nei suoi ranghi. Nel fascismo
arrivato al potere, ormai sicuro e spavaldo, non è che quella specie di
sillogismo svanisse del tutto: ma come il fascismo doveva, in Sicilia,
liberarsi delle frange “rivoluzionarie” per patteggiare con gli agrari e gli
esercenti delle zolfare, costoro dovevano - a garantire al fascismo almeno
l’immagine di restauratore dell’ordine pubblico - liberarsi delle frange
criminali più inquiete e appariscenti. E non è senza significato che nella
lotta condotta da Mori, contro la mafia assumessero ruolo determinante i
campieri [...]: che erano, i campieri, le guardie del feudo, prima
insostituibili mediatori tra la proprietà fondiaria e la mafia e, al momento
della repressione Mori, insostituibile elemento a consentire l’efficienza e
l’efficacia del patto. [...] Rimasto inalterato il suo [di Mori] senso del
dovere nei riguardi dello stato, che era ormai lo stato fascista, e alimentato
questo suo senso del dovere da una simpatia che un conservatore non liberale
non poteva non sentire per il conservatorismo, in cui il fascismo andava
configurandosi, l’innegabile successo delle sue operazioni repressive (non c’è,
nei miei ricordi, un solo arresto effettuato dalle squadre di Mori in provincia
di Agrigento che riscuotesse dubbio o disapprovazione nell’opinione pubblica)
nascondeva anche il gioco di una fazione fascista conservatrice e di vasto
richiamo contro altra che approssimativamente si può dire progressista, e più
debole. Sicché se ne può concludere che l’antimafia è stata allora strumento di
una fazione, internamente al fascismo, per il raggiungimento di un potere
incontrastato e incontrastabile E incontrastabile non perché assiomaticamente
incontrastabile era il regime - o non solo: ma perché innegabile appariva la
restituzione all’ordine pubblico che il dissenso, per qualsiasi ragione e sotto
qualsiasi forma, poteva essere facilmente etichettato come “mafioso”. Morale
che possiamo estrarrre, per così dire, dalla favola (documentatissima) che
Duggan ci racconta. E da tener presente: l’antimafia come strumento di potere.
Che può benissimo accadere anche in un sistema democratico, retorica aiutando e
spirito critico mancando.)» ( [13])
Qualche giorno dopo (il 26 gennaio 1987, sempre sul Corriese della Sera),
sull’onda della polemica con Scalfari e Pansa, Sciascia ha modo di aggiungere:
«Respingere quello che con disprezzo
viene chiamato “garantismo” - e che è poi un richiamo alle regole, al diritto,
alla Costituzione - come elemento debilitante nella lotta alla mafia, è un
errore di incalcolate conseguenze. Non c’è dubbio che il fascismo poteva nell’immediato
(e si può anche riconoscere che c’è
riuscito) condurre una lotta alla mafia molto più efficace di quella che può
condurre la democrazia: ma era appunto il fascismo, al cui potere - se messi
alla stretta - alcuni italiani avrebbero preferito che la mafia continuasse a
vivere. Dico alcuni: poiché non soltanto per aver letto De Felice so del
consenso dei più, ma per preciso e indelebile ricordo. Da ciò è venuta, in
certe pagine di Brancati ([14]) la rappresentazione del mafioso buono, del
mafioso di ragione - e cioè del mafioso antifascista.» ([15])
In altri tempi e con più serenità, con una sintassi meno labirintica -
che stranamente emerge nei passi citati, segno forse del tormentato delinerasi
del pensiero - Sciascia ragguagliava sull’epilogo del fascismo, scrivendo: «”avanti che cambia bandierà”! Questo era lo
stato d’animo dei siciliani: l’attesa che “cambiasse bandiera”, nel senso di un
rovesciamento della situazione interna. Tale rovesciamento era impensabile non
avvenisse per il non delinearsi o per il realizzarsi di una vittoria
anglo-americana. Cos’ americani ed inglesi erano attesi; magari vagamenti, che
pur nutrendo la più grande fiducia per il colonnello Stevans, la voce di
Palazzo Venezia manteneva una sua tenue ragnatela d’incanto. [ ... ] Quando
[...] sirene e campane a martello annunciarono l’emergenza, la cosa apparve
diversa. Dalla proclamazione dello stato di emergenza ha inizio quella che
senza ironia e senza risentimento, ha tutti i caratteri di una kermesse.
S’intende che cadenze tragiche non mancarono; che città e paesi interi
assunsero un pietoso volto di morte sotto la violenza, spesso inutile e
sciocca, dell’invasore . Ma un’aria di festa popolare accompagnò da Gela a
Messina il cammino delle armate anglo-americane. Ci auguravamo allora fosse la
Kermesse della libertà. Forse lo era. Ma quel che dopo è accaduto, fino ad
oggi, ci fa diversamente credere. Era la kermesse dei servi che finalmente si
liberano da un padrone ed un altro ne attendono che sperano più largo, più
generoso, più stupido. Era la festa che degnamente terminava un ventenniodi
diseducazione, di adorazione alla forza, di culto al proprio stomaco. Era
giusto che la più balorda e cieca primogenitura che un capo abbia mai offerta
ad un popolo, venisse dal popolo cambiata per una scatola di ‘ragione K’ dell’esercito nemico. [...] Eravamo al 14
luglio. Nel pomeriggio si diffuse la notizia che gli americavano arrivavano. Il
podestà, l’arciprete e un interprete si avviarono ad incontrarli. La
popolazione, in attesa, si preoccupò di bruciare, ciascuno nella propria casa,
tessere, ritratti di Mussolini, opuscoli di propaganda. Dagli occhielli i
distintivi scivolarono nelle fogne. [....] cinque soldati col lungo fucile
abbassato sbucarono improvvisamente nella piazza, indecisi. Videro, davanti una
porta semiaperta, qualche uomo in divisa; e si mossero sicuri. I carabinieri si
trovarono puntati addosso i fucili senza ancora capire che gli americani erano
finalmente arrivati. Le loro pistole penzolavano nelle mani di uno della
pattuglia. Un applauso scoppiò. Una voce chiese sigarette; e il caporale
americano tastò le tasche del brigadiere dei carabinieri, ne tirò un pacchetto
di Africa e lo lanciò agli spettatori. Come in un salotto quando fiorisce una
battuta di spirito, un senso di amenità si diffuse al gesto del caporale. La
festa era cominciata. Da tutte le strade la popolazione affluiva. Non si sa
come, ‘cannate’ di vino passate di mano in mano sorvolarono la folla, bicchieri
si arrubinarono, pieni e grondanti venivano offerti con dolce violenza alla
pattuglia che li rifiutava. L’inglese degli emigranti sciamava goffo e servile
intorno a quei cinque uoministupefatti: tutti coloro che in America avevano
guadagnato quel po’ di denaro che in patria era divenuto casa e podere, erano
corsi come ad un appuntamento felice. Una enorme bandiera di seta lacera, la
bandiera degli Stati Uniti, fu totla di mano a quel prover’uomo che l’aveva
tirata fuori: passò saldamente nelle mani di un altro che per caso, proprio in
quei giorni, aveva lasciato le carceri regie. Fu allora il momento di pensare
alle insegne della casa del fascio.
Tirate giù, furono accompagnate a calci per tutte le strade: e l’indomani si
trovarono galleggianti dentro un abbeveratoio. Sembravano di bronzo, ma in
realtà erano di latta. [...] Il segretario politico, il podestà, il maresciallo
dei carabinieri furono l’indomani prelevati: e loro notizie giunsero alle
famiglie, qualche mese dopo da Orano. In fondo nemmeno il segretario politico
era quel che agli americani fu riferito su tutti e tre. Si può dire anzi che
aveva una qualità che, in un gerarca, potrà sembrar strana al lettore: non era
ladro. Ma qualcuno bisognava proprio mandarlo in galera, almeno per dare un
segno dei tempi nuovi. Il fascismo lasciava una pingue eredità di spie di ladri
di odio di diffidenza. Chi qualche giorno dopo si trovò a calcolarne un
inventario, dovette proprio cominciarlo col cittadino che gli americani subito
predilessero.» ([16])
A voler adattare la lezione sciasciana del fascimo alla storia locale di
Racalmuto, potremmo rimarcare i seguenti aforismi e la relativa
periodizzazione:
1°) l’inconsistente forza del socialismo racalmutese aveva svilito ogni
forma di fascismo nel paese per quella “specie di sillogismo” mutuabile dalla
“favola (documentatissima)” del giovane studioso di Oxford, Duggan;
2°) in loco l’antidoto al
socialismo era costituito dalla mafia legata agli agrari del luogo, mafia che
pertanto “è già fascismo”;
3°) ma il fascismo, come la mafia, “era .. anche altre cose”;
4)° “era l’istanza rivoluzionaria degli ex combattenti”... che
trasmigrano al fascismo “non dismettendo del tutto vagheggiamenti socialisti ed
anarchici”. (Si dà il caso che uno dei fondatori del fascismo racalmutese,
l’avv. Salvatore Burruano, fosse un ex ardito e che l’altro fondatore, l’avv.
Agostino Puma, s’interessasse alla lega zolfatai d’ispirazione socialista,
convertendola, come si è visto, al fascismo):
5°) ma il fascismo “volentieri avrebbe fatto a meno di loro (gli ex
nazionalisti) per più agevolmente
patteggiare con gli agrari siciliani, e quindi con la mafia”. Qui invero la
costruzione sciasciana stride con l’evolversi degli eventi locali. Calogero
Vizzini, che se ne stava a Racalmuto per essere gabellotto dell’importante miniera
di Gibillini, figura in consorteria, piuttosto ambigua, con i pretesi puri del
fascismo degli ex-nazionalisti;
6°) degli ex-nazionalisti il fascismo “se ne liberò .. dopo il delitto
Matteotti”; “ne fu segno definitivo l’arresto di Alfredo Cucco”. Questa però
appare lettura affrettata (e poco documentata). Ad Agrigento (e provincia) è il
segretario della federazione fascista Galatioto (e con lui Puma, Burruano
e Calogero Vizzini) che ha la peggio.
Risulta vittorioso l’on. Abisso che ebbe trasformista lo era stato da tempo e
che a seconda dei casi può considerarsi legato alla mafia o appartenente agli
ex-combattenti;
7°) giunto il fascismo al potere, “ormai sicuro e spavaldo”, nel
liberarsi delle sue frange “rivoluzionarie” chiede in contropartita agli agrari
ed agli esercenti le zolfare di “liberarsi delle frange criminali più inquiete
ed appariscenti”. Questa fase, invero, risulta così nebulosa per Racalmuto da
considerala inesistente;
8°) inizia la repressione Mori contro la mafia che incotra il favore
delle masse nell’agrigentino (“non c’è, nei miei ricordi, - scrive Sciascia -
un solo arresto effettuato dalle squadre di Mori in provincia di Agrigento che
riscuotesse dubbio o disapprovazione”). A noi risulta qualche elemento di
stridore. Si racconta ancor oggi che se i militi di Mori incontravano qualche
quieto racalmutese, che in piazza osasse andare
“cu lu tascu tuortu” (berretto storto), procedevano a raddrizzarglielo
con sputi di scherno. Sciascia limita la lotta alla mafia alla sola azione di
Mori - piuttosto inconsistente in provincia di Agrigento - ed alla sua
folkloristica politica dei campieri (che a Racalmuto potevano ridursi ad una
sola unità e riguardante il feudo di Villanova degli “ex-clericali” Nalbone);
9°) l’azione di Mori sarebbe equivalsa alla moderna antimafia; siffatta
antimafia sarebbe stata “strumento di una fazione all’interno del fascismo, per
il raggiungimento di un potere incontrastato ed incontrastabile”. Tesi invero
letterariamente suasiva; storicamente dubbia;
10°) vengono quindi “gli anni del consenso dei più”: Sciascia ne è
convinto sia perchè l’afferma “lo storico” sia perché lo sa “non soltanto per
aver letto De Felice [....], ma per preciso e indelebile ricordo”;
11°) è un consenso che ben si attaglia a Racalmuto: esso è «pieno e
fervido nella classe borghese ... [e arriva] alla classe operaia , cui la
“carta del lavoro” aveva dato, un po' in concreto un po’ d’illusione, quel che
decenni di lotte sindacali e socialiste non avevano ottenuto»; e qui non si può
non essere d’accordo con lo scrittore racalmutese;
12) è un consenso che a Racalmuto si protrae sino al 1943, in definitiva
sino al luglio di quell’anno, come la splendida pagina di Kermesse illustra e
spiega.
La storia nazionale del fascismo e suoi (flebili) echi sulla vicenda
locale prima del 1925.
Quando il 18 ottobre 1914 Benito Mussolini pubblicò sull’ «Avanti!» lo storico articolo
«Dalla neutralità assoluta alla neutralità attiva ed operante», è molto dubbio
che qualcuno a Racalmuto ebbe a leggerlo. Poteva, eventualmente, averne presa
visione l’unico socialista di cultura di Racalmuto: l’avv. Vincenzo Vella. Il
suo fascicolo che la P.S. da tempo approntava ce lo mostra assiduo lettore di «La Lotta di classe», «La Giustizia sociale», di «Riscossa» e di certi «opuscoli editi dal Comitato Regionale della
Federazione socialista Ligure» .([17]) Per il
questore di Girgenti, il Vella - così annota il 20 ottobre 1913 - «è laureato
in legge, ma la sua cultura non va oltre gli studi fatti e le molte
pubblicazioni socialiste lette e ben poco ben assimilate». Fose fra quelle
letture c’era l’ «Avanti!», ma possiamo essere certi - a prescindere dalle
malevoli note del questiore ‘girgentano’ - che non afferrò di certo che la
storia d’Italia prendeva in quell’ottobre 1914 una radicale svolta nella storia
dei partiti politici d’Italia. La successiva velenosa polemica tra il partito
socialista e Benito Mussolini, il Vella, però, sicuramente la dovette seguire
in quel di Racalmuto. E quando - dopo il delitto Matteotti - finì sul serio
negli schedari politici del fascismo e ne fu perseguitato ancor più
pressantemente di quanto non lo fosse stato prima dalle questure antisocialiste
dei governi liberali.
A noi pare che la lezione di Ernst Nolte ([18]) abbia
maggiore vigore di quanto leggesi tra i detrattori ([19]) del
fascismo e i suoi coevi esaltatori([20]): non
sembri quindi ozioso se ci permettiamo di riportare il seguente stralcio
dell’opera dello studioso tedesco. «L’articolo
fu in effetti l’ultimo scritto da Mussolini in veste di direttore dell’
«Avanti!». Il giorno dopo, il direttorio del partito si riuniva a Bologna, e
qui la posizione di Mussolini non trovava neppure un difensore; e, benché si
cercasse di fargli dei ponti d’oro, dovette immediatamente dimissionare dalla
direzione dell’ «Avanti!». Le spiegazioni, che egli ne ha dato all’epoca,
permettono di affondare lo sguardo nei suoi moventi: «Io capirei la nuova
neutralità assoluta qualora avesse il coraggio di arrivare fino in fondo e cioè
di provocare un’insurrezione; ma questa a priori la scartate, perché sapete di
andare incontro ad un insuccesso. E allora dite francamente che siete contrari
alla guerra ... perché avete paura delle baionette ... Se lo volete, se vi
sentite, io sono alla vostra testa: neutralisti fuori della legalità ...
ebbene, bisogna essere decisi. Ma la neutralità assoluta nella legalità ormai è
divenuta insostenibile.»
«Non viene addotto alcun motivo di
natura contenutistica: qui non si parla di democrazia, delle necessità vitali
dell’Italia, dei territori irredenti; l’impossibilità di una radicale coerenza
spinge il rivoluzionario su una strada, sulla quale avrebbe dovuto procedere
assieme ai suoi avversari più decisi. A quanto sembra, tuttavia Mussolini
sperava di portare dalla sua il partito ovvero cospicue frazioni di esso. Pochi
giorni gli sono sufficienti per togliergli le illusione: il 25 ottobre,
Mussolini scrive all’amico Torquato Nanni «Ho voluto aprire il vicolo cieco nel
quale si era ficcato il partito, ma nell’urto sono caduto»
«Mussolini non era uomo da
sottomettersi alla disciplina di partito; si sarebbe potuto aspettarsi da lui
che tacesse o, per lo meno, che non scrivesse contro il partito, e a quanto
pare una premessa del genere è stata da lui fatta ai compagni della direzione.
Ma egli non riuscì a tenersi chiuso dentro quella che riteneva la sua verità, e
nel giro di poche settimane tra Mussolini e gli antichi amici si scavò un
abisso di incomprension, disprezzo e odio, che mai più sarebbe colmato.
«Pare che alla fine di ottobre,
Mussolini abbia concepito l’idea di crearsi un proprio organo di stampa: già il
15 novembre, apparve il primo così numero del «Popolo d’Italia. E’
perfettamente comprensibile che i socialisti annusassero odor di «tradimento»,
che sospettassero che Mussolini si fosse «venduto»: sembrava impossibile che un
uomo completamente privo di mezzi potesse, con le sue sole forze e nel giro di
pochi giorni, far sorgere dal nulla un quotidiano. Effettivamente Mussolini,
ancora in veste di direttore dell’ «Avanti!» aveva avuto degli abboccamenti col
direttore di un foglio bolognese, che sapeva organo degli agrari; da costui,
egli ebbe, anche in seguito, un valido appoggio di carattere
tecnico-tipografico. Ma da dove venissero i capitali è, oggi ancora, cosa non
sufficientemente chiarita. Si parlò quasi subito di denaro francese,
supposizione che però non si riuscì mai a provare. L’ipotesi più probabile è
che organi governativi si siano assunti il compito di finanziatori indiretti;
numerosi erano infatti i circoli, in Italia, interessati a un indebolimento del
partito socialista. Indubbiamente dunque Mussolini nel momento in cui si fece
dare un giornale, divenne una carta in mano di qualcuno. Affatto infondata è
invece la supposizione che il denaro, il giornale proprio fossero il motivo per il suo passaggio in campo
interventista. Ma proprio questo lasciò supporre l’ «Avanti!», ponendo,
immediatamente dopo l’apparizione del nuovo giornale, e instancabilmente, la
domanda: «Chi paga?». Nel giro di poche settimane, l’ex-beniamino del partito
era divenuto un «venduto alla borghesia» e un «transfuga», che meritava «il
sacrosanto odio del proletariato italiano». Allorché, il 24 novembre, Mussolini
si presentò alla riunione dei membri della sezione milanese, chiamati a
decidere in merito alla sua espulsione, il suo discorso fu sommesso da un
uragano di ingiurie, fischi e minacce. Il partito socialista compì un
linciaggio morale nei confronti del «traditore»; nessuno dei fogli socialisti
italiani si schierò dalla sua parte, e Mussolini non riuscì a tirare dalla sua
parte neppure una minima frazione del partito. Era la sua prima sconfitta, e
insieme quella che avrebbe avuto le maggiori conseguenze. Mussolini era solo.»
Da qui «prese le mosse una polemica
della massima violenza e spesso bassamente ostile, nel corso della quale furono
poste le basi per l’interpretazione socialista del fascismo e per
l’interpretazione fascista del socialismo. In ogni caso, la dissociazioneera
compiuta. Mussolini era adesso un generale senza esercito, un credente senza
fede. Un piccolo gruppo di individui, per i quali egli era il «duce»,
naturalmente gli si raccolse ben presto attorno. Già nell’ottobre, quando
ancora Mussolini lottava con se stesso, dalle file dei sindacalisti e
socialisti si erano costituiti i fasci interventisti,
sotto la guida di Filippo Corridoni, Michele Bianchi, Massimo Rocca, Cesare
Rosssi e altri. In dicembre questi si fusero coi seguaci di Mussolini nel
«fascio d’azione rivoluzionaria», la cellula germinale del fascismo. L’unico
punto programmatico sostanziale è il proposito di provocare l’intervento a
fianco dell’Intesa; per il resto, Mussolini pone un postulato non facilmente
superabile: «Riaffermare le idealià socialiste rivedendole a lume della critica
sotto l’attuale terribile lezione dei fatti» [...]».
Ma tra fascismo e vicenda personale di Mussolini qual è la differenza? Si
dovrebbe essere d’accordo col Nolte quando afferma: «il fascismo è la propria storia e questa storia è
indissolubilmente connessa alla biografia di Mussolini» (op. cit. pag. 226).
Le vicende richiamate erano però faccende dei lontani e brumosi territori
di Milano e Bologna perché se ne possano cogliere significatiche rispondenze
nella solatìa Racalmuto, alle prese con lo zolfo, la mano d’opera contadina,
gli agrari liberali e gli esercenti di miniere che in parte con i primi si
confondevano e si parte se ne diversificavano. La guerra in ogni caso non era
appetibile: contadini e zolfatai che andavano soldati erano braccia sottratte
alla terra ed alle miniere, e ciò significava crisi. Quanto alle masse esse
erano ostili alla guerra, andandone di mezzo la vita della loro migliore
gioventù (la guerra del 1915-18 comporterà la morte di 196 racalmutesi oltre a
33 dispersi: a scorrerne i nomi, i figli dei “galantuomini” erano riusciti quasi
totalmente a farla franca; forte fu la corruzione per esoneri di comodo).
Quanto agli agrari e ai titolari delle miniere, la guerra era un guaio per il
diradarsi della mano d’opera. Una volta tanto, padroni e proletari erano
d’accordo nel professare il non interventismo. Eugenio Napoleone Messana
propende per una qualche presenza locale degli interventisi. Se vi fu, fu
comunque molto limitata, anche a credere a
quello storico locale, cui invero accordiamo poca credibilità: tutto si
sarebbe limitato a questa singolare vicenda: «L’interventismo, che fece leva
sulla politica italiana e condusse alla guerra la nazione, a Racalmuto fu
rappresentato da Vincenzo Tulumello di Giovanni , giovane ardente dalla parola
suasiva e convincente, il quale però, a guerra scoppiata, fece di tutto per non
andarvi e la voce popolare vuole che anche sia morto perché si provocò il
diabete.» ([21])
In ogni caso, siamo certi del fatto che il «Popolo d’Italia» giunse a
Racalmuto solo al tempo della completa affermazione del fascismo e i «fasci
d’azione rivoluzionaria» i racalmutesi non seppero neppure cosa fossero.
Ben diverso è il discorso per la fondazione dei fascismo ed in
particolare del primo Fascio di
combattimento in data 19 marzo 1919. Un racalmutese il notaio Giuseppe
Pedalino di Rosa sarebbe stato nientemeno che un “sansepolcrista”. Il
personaggio, sul quale sono disponibili alcune fonti che però sono di segno
divergente, rassomiglia a quello del Rubè di A.G. Borgese, anche se qui la
storia può dirsi a lieto fine. Nato a Racalmuto il 3.11.1879, si laurea in
giurisprudenza a Palermo nel 1901 e si
trasferisce a Milano per esercitarvi la professione di avvocato fino al 1925, e
dopo quella di notaio sino. Morì a Merate il 15\10\1957. Risulta iscritto al
P.N.F. dal 23.3.1919. E.N. Messana così ce lo descrive: «Fra i socialisti
divenuti interventisti si ricorda il notaro Giuseppe Pedalino di Rosa, finito
poi al fascio e divenuto un sansepolcrista. Questi fu anche un poeta in
vernacolo, un tipo bizzarro, che amò molto il paese. Scrisse «Lu cantastorie
d’America» in cui cantò luoghi e persone di Racalmuto nell’aulico dialetto
siciliano. Visse molti anni a Milano e vi morì». ([22])
Salvatore Restivo riscrive, palesemente agiografico, così la biografia nel
giornaletto locale del maggio 1993 ([23]) « ...
Fin dalla prima giovinezza appartenne al partito socialista; in Sicilia con
Giuseppe Lauricella della vicina Ravanusa, a Milano con il gruppo di cui
facevano parte tra gli altri Pietro Nenni ed Emilio Caldara. [ ..] Il 23 marzo 1919 partecipò alla
fondazione dei fasci di combattimento,
dai quali si allontanò progressivamente fino ad essere “eliminato per
diserzione”. [...] Nel 1934 organizzò a Racalmuto un raduno di poeti siciliani
a cui parteciparono anche Luigi Natoli e Ignazio Buttitta [..]». Il Pedalino
ebbe, invero, la sventura di una sorella che andò sposa ad un appartenente alla
celebre famiglia di anarchici di Grotte: i Vella. Il casellario politico
centrale registra alla busta 5342 gli anarchici: 1°) Vella Antonio (fasc. N.°
6504) nato a Grotte il 6.9.1886; 2°) Vella Giuseppe (fasc. N.° 3908) nato a
Grotte il 10.11.1895; 3°) Vella Diego (fasc. N.° 22144) nato a Racalmuto il
15.2.1901, 5°) Vella Dante Nunziato (fasc. N.° 4621) nato a Racalmuto il
24.3.1908, ed alla busta n.° 5344, il più celebre di tutti, 5°) Vella Randolfo
(fasc. 17912) nato a Grotte il
2o.4.1893. Non è questa la sede per accennare, anche brevemente,
all’affascinante storia di questa famiglia di anarchici, socialisti, antifascisti,
ma anche in rotta con gli esuli comunisti. Ai nostri fini, il richiamo al
C.P.C. dell’Archivio Centrale dello Stato (busta n.° 5342) ci serve per
inquadrare la figura del notaio Pedalino. Il 27 dicembre 1937, le questure
d’Italia sono alle prese con un dei suddetti schedati: Vella Dante Nunziato.
Scoprono che è parente del notaio milanese. Chiedono informazioni . Ecco la
risposta: «27 dicembre 1937 - anno XVI.
Oggetto: Vella Dante fu Giuseppe e fu Concetta Pedalino, nato a Racalmuto il
24/3/1908 residente a Lugano ... Prefettura di Milano ... “comunico che l’avv.
Pedalino Giuseppe fu Fedele e di Rosa Maria Vita, nato a Racalmuto il 3.11.1879
(e non 1895) risiede in questa città dal paese di origine, ed abita in via
Pergolesi n.° 23 con studio in via Monforte n.° 14.
«Coniugato con Passoni Maria di
Emilio e Speranza Rosa nata a Milano il 29.9.1897 ha una figlia a nome
Vitamaria Alfonsina, nata a Milano il 2.10.1926. Il Pedalino è zio materno del
Vella Dante. Il Pedalino risulta di regolare condotta in genere ed è iscritto
al P.N.F. dal 23.3.1919. Il prefetto: (G. Mangano).» ( [24])
Fino al 1937, il Pedalino è dunque ancora un “regolare fascista” che può
vantare la prestigiosa tessera dei primordi fascisti. Recante la data dei
sansepolcristi. Certo, fu tessera presa a Milano e Racalmuto c’entra solo per
un fatto anagrafico del Pedalino. Non è da escludere che questi ebbe guai dopo
quella richiesta d’informazioni della polizia poltica del 1937. I due suoi
nipoti, per parte della sorella, Dante Nunziato e Rodolfo Vella, proprio in
quell’anno si erano arruolati nelle “milizie rosse” della guerra di Spagna.
Ma davvero il Pedalino partecipò a quella adunata tenuta la sera del 23 marzo 1919, fra le mura di un vecchio
palazzo milanese in Piazza San Sepolcro, donde uscì il primo Fascio di combattimento? Non va dimenticato che quella fu una adunata che poi si tinse di un’aura veramente leggendaria. ([25]) Lo
stesso Mussolini non ricordava più quanti veramente fossero. Una volta parla di
cinquantadue che “giurarono che la lotta che avevano intrapresa - quella
sera del 23 marzo 1919 - non poteva finire se non con una trionfale vittoria”,
ed altra volta rettifica in cinquantatre (12 febbraio 1925) ([26]) Il
Pedalino, in quello ristretto stuolo, forse non fu mai. Una qualche piccola
astuzia (o menzogna), forse utilizzato al tempo del concorso a notaio. Era un
avventuroso siciliano, dopo tutto! Quei nipoti, della III Internazionale,
finiti nelle milizie rosse di Spagna ebbero fose a guastargli quella vantata
primogenitura politica.
Ma il Pedalino - a conferma della validità di certe valutazioni storiche
- potè aderire all’adunata di San Silvestro per lo sfumato socialismo che si
riverberava. Le sue origini socialiste ed anarchiche racalmutesi poterono
spingerlo in tal senso. Con il Nolte ([27])
bisogna ammettere che, fondato il 23 marzo 1919 a Milano, nel corso di una non
mumerosa assemblea, in massima parte da ex-inyterventisti di sinistra, vuole essere inteso come
l’inizio di un socialismo nazionale, primo germe della socialdemocrazia ..». E
questa tendenza mussoliniana verso un blando socialismo - a mo’ di richiamo
delle origini - gli storici la rinvengono puntualmente in varie contingenze,
almeno sino al congresso di Roma del 1921. ([28]) Non è
questa la sede per trattare tale atteggiamento mussoliniano. Vi si inseriscono
i travagli della sconfitta elettorale del 1919; l’autunno violento del 1920;
l’intrigo con la borghesia agraria emiliana; l’insuccesso dell’astuta manovra
di coinvolgimento di Giolitti; la resurrezione elettorale del maggio 1921
(elezioni volute - e perse - da Giolitti); l’accordo firmato con i socialisti
il 3 agosto 1921; la retromercia innestata al congresso di Roma (7-10 novembre
1921); la trasformazione in partito del “movimento fascista”; la professione
mussoliniana della “tendenza repubblica”, etc. Dalla sera di San Silvestro del
23 marzo 1919 all’abbraccio con Dino Grandi nel novembre del 1921 la storia
italiana ha le sue stigmate fasciste e la vicenda mussoliniana con collima del
tutto con quella del fascismo. Eppure tutto questo sembra, per la Sicilia, ed
ancor più per Racalmuto, avvenire in un alienissimo mondo, persino totalmente
ignorato. Annota il Nolte (pag. 288):«.. le regioni meridionali (salvo la
Puglia) e le isole non ne sapevano praticamente nulla fino a poco prima della
marcia su Roma.»
Ma che tipo di partito venne fuori dal Congresso dell’Augusteo del
novembre 1921? A questa domanda tenta di rispondere il Ragionieri ([29]). «Non
era poi un partito troppo differente dagli altri partiti di massa», afferma lo
storico di sinistra e continua: «La sua caratteristica più originale era in
foldo rappresentata dal fatto che esso
era dotato di un’organizzazione paramilitare [ma trasformatasi nella Milizia
solo nel 1923]»; ma era un partito «completamente diverso dalle organizzazioni
della borghesia italiana»; in esso «la prevalenza anche quantitativa degli
strati della borghesia indica già il processo in atto di ricomposizione di un
blocco di forze piccolo e medio borghesi sotto la direzione dei gruppi
superiori degli indusrtiali e degli agrari»; «figlio dei tempi nuovi portati
dal conflitto mondiale, il fascismo poteva trovare nella massiccia presenza dei
giovanissimi nelle sue file una solida garanzia per l’avvenire».
Sarà stato per la mancanza di quei “gruppi superiori degli industriali”;
sarà stato per la presenza della mafia (stando al quasi sillogismo sciasciano),
fatto sta che neppure sotto la nuova forma di partito il fascismo riesce a
diffondersi in Sicilia - tra il 1921 ed il 1922 - e men che meno a Racalmuto
(ove peraltro mancava un vero e proprio latifondo perché si ptesse parlare di
agrari nel senso del ragionieri, in senso cioè di classe borghese con una
propria coscienza di ceto egemone).
Nell’agosto del 1922 - con il fallimento dello sciopero dei giorni 1-3
voluto dal PSI e dalla CGDL - si registra la definitiva sconfitta del
socialismo italiano e si apre il viatico per l’avvento di Mussolini al potere
(con il suo viaggio a Roma in vagone letto nella notte del 29 ottobre, dopo la
Marcia su Roma).
Nulla troviamo che in qualche modo comprovi la minima percezione in quel
di Racalmuto che la storia era cambiata, che il cosiddetto stato liberale era
spirato, che i padrini della Democrazia Sociale (Guarino Amella a livello
strettamente locale, di Giovanni Antonio Colonna di Cesarò per un referente a respiro unpò più vasto, regionale) erano
avviati verso uno scialbo tramonto.
Racalmuto, invero, era troppo in
periferia, persino rispetto alla storia siciliana, per avere acume di analisi e
lungimiranza d’orizzonte. Quel che sorprende che in quel biennio cruciale per
la storia nazionale anche filosofi alla Croce, o raffinati giornalisti alla
Albertini, o, in particolare, economistti già celebre alla Einaudi non
riuscissero a vedere molto lontano, quanto al fascismo che esplodeva sotto i
loro occhi. Sorprende, ad esempio, la miopia di Luigi Einaudi. Sfogliando le
sue Cronache economiche e politiche di un
trentennio (1893-1925), lo vediamo impegnato nel gennaio 1921 in una
retriva polemica con i socialisti sull’ «ostruzionismo del pane». Scriveva che
«il primo atto concreto dei socialisti
unitari e concentrazionisti è stata la deliberazione di intensificare alla
camera l’ostruzionismo contro il progetto sul pane. Era facile prevedere che la
scisssione tra socialisti e comunisti avrebbe istigato ambedue le frazioni ad
una lotta acerba di concorrenza non per fare il bene, ma per dimostrarsi ognuna
di esse più accesa, più rossa, più avanzata.» ([30])
Sull’argomento tornava con l’articolo dell’11 febbraio “Alla ricerca di una formula definitiva per risolvere il problema
del pane” (op. cit. pag. 40 e
segg.) e con quello del 24 febbraio “ed
ora all’opera!” (op. cit. pag.
44 e segg.). Colpisce il linguaggio insolitamente pugnace contro i socialisti,
anche blandi, del suo intervento giornalistico del 13 aprile 1921 (op. cit.
pag. 111 e segg.): «Bisogna avere -
scrive a pag. 112 - il coraggio di dire che siffatto latte e miele è
pernicioso. Costoro, che dopo così recenti esperienze socialistiche dichiarano
ancora che tutto il mondo è socialista, sono gente senza idee, o sono semplici
procacciatori di voti. Bisogna escluderli dall’onore di fare parte del blocco
anticomunista. Non si può combattere il comunismo es eddere disposti ad ogni
sorta di socializzazioni, statizzazioni, controlli e simiglianti pesti. Coloro,
i quali hanno paura di essere detti “nemici del popolo o del proletariato” e
son pronti ad ogni sciocchezza, si dichiarino apertamente socialisti.
Provvederanno meglio alla propria dignità e coerenza. Noi non abbiamo bisogno
di noverare nelle nostre file siffatti amici del popolo. I quali, alla pari e
forse peggio dei comunisti, ne sono i veri nemici.» In una parola occorreva essere solo
«liberali» (op. cit. pag. 118 e segg.
Articolo del 17 aprile 1921); cioè «L’unica
nota veramente distintiva del blocco anticomunista è sempre quella di
“liberale”. Questa sì è una qualità che né socialisti né comunisti possono far
propria. Liberalismo e socialismo sono due concetti contraddittori. Lungo tutti
i secoli della storia sempre il concetto della libertà fu in guerra aperta con
concetto della tirannia - e socialismo e comunismo altro non sono che
asservimento completo dell’uomo alla collettività [ ....]». L’astuzia di
Giolitti che quelle premature elezioni del 1921 volle finì male, come ben si sa
per doverla qui commentare. Quel blocco “liberale” apriva irrimediabilmente la
porta al fascismo della dittatura. Proprio quella dittatura che l’Einaudi non
voleva (op. cit. pag. 766 e segg.).
Ma siamo già all’8agosto 1922. Troppo tardi.
Cert, a questo punto Einaudi è in grado di fornire una perspicua
fotografia dei tempi, anche se ancora scarsamente previggente. Val la pena di
riprodurla per ampi stralci.
«Lo spettacolo di incapacità offerto dal
parlamento e dal governo, le agitazioni continue, la guerriglia civile fra
partiti ed organizzazioni armate hanno avuto, fra gli altri disgraziati
effetti, quello di aver reso popolare in una parte notevole dell’opinione
pubblica una parola: “dittatura”. Si parla da molti oggi dittatura come della
sola via di salvezza dal disordine e dalla crisi profonda che attraversiamo.
Gli uominiai mali di cui soffrono vogliono trovare un rimedio semplice,
preciso, definitivo. Il governo dei molti, il governo dei partiti, il governo
dei chiacchieroni e degli ambiziosi di Montecitorio appare una cosa talmente
disgustevole, vana, impotente che a poco a poco l’idea della dittatura ha
finito per perdere quella nebbia di terrore e di tirannia da cui era
circondata. Si crede che l’uomo forte, che l’uomo sapiente saprà trarre il
paese dall’orlo della rovina. Mettiamo al posto di quindici ministri
provenienti da parti politiche opposte, neutralizzandosi gli uni gli altri,
alla mercè continua di un voto politico incerto, impotenti a concepire
qualunque piano d’avvenire e più ad attuarlo, costretti a render favori agli
elettori ed agli eletti per trascinare innanzi la loro vita quotidiana;
mettiamo al posto di questa parvenza di governo un uomo solo, fornito di poteri
illimitatiper un tempo limitato, il quale possa e sappia porsi una meta, il
quale sia libero di scegliere a suoi collaboratori i migliori tecnici nei vari
rami di governo e noi saremo in grado di arrestarci sulla china spaventevole
lungo la quale precipitiamo verso l’anarchia.
«Contro questa tesi non non torniamo a
citare la vecchia sentenza di Cavour: la peggiore delle camere essere
preferibile alla migliore delel anticamere:; noi non diremo ancora una volta
che la dittatura è il rimedio degli impotenti e degli incapaci. Noi non
ricorderemo che l’esperienza contemporanea è tutta contraria ai governi addoluti
e dittatoriali [..]
«Lasciamo pure da parte le massime dettate
dall’esperienza ed i precedenti e gli esempi stranieri. Chiediamoci soltanto:
dove sono gli uomini capaci di essere i dittatori dell’Italia contemporanea?
Per quale ragione non si sono fatti innanzi così da accogliere intorno a sé il
consenso dell’opinione pubblica? Degli uomini chiamati negli ultimi tempi a capo della politica italiana
alcuni sono a mala pena considerati degni di essere presidenti costituzionali
di un consiglio; intorno a nessuno di essi esiste tale favore di pubblico, non
diciamo parlamentare, da farli ritenere capaci di governare il paese con poteri
dittatoriali. Possibile che, se esistesse, l’uomo superiore, il Napoleone,
poiché a questo si pensa quando si parla di un dittatore capace di salvare il
paese, non si sarebbe fatto in qualche modo conoscere? E se c’è, ma non è
conosciuto come tale, quale probabilità vi è che egli e non altro sia scelto?
« [..] Ridotta alla sua semplice
espressione, la dittatura è una qualche cosa che noi conosciamo molto bene, di
cui abbiamo parlato molto male fino a ieri: è il governo per mezzo di
decreti-legge.
« [
...]
« [ ...] Il problema da risolvere non è già
di trovare dei grandi insustriali disposti a governare la cosa pubblica con la
mentalità industriale. Essi non potranno fare che del male. Saranno degli
straordinari improvvisatori. Chi può immaginare quali stravaganze è capace di
compiere un giovane audace e fidente in sé, un uomo d’azione, un industriale
abituato a decidersi rapidamente da solo, quando si troverà dinanzi a problemi
complessi e terribili come il disavanzo, le imposte, il cambio, il latifondo,
la giustizia? L’impulso primo che viene dagli audaci è di tagliare i nodi
gordiani, di mandare a spasso il giudice che non decide un processo in
ventiquattro ore, di ordinare ai direttori delle banche di emissione di far
scendere il cambio del dollaro a 10 lire e così via. [...]
«La verità è che la capacità e la pratica di
governo non sono innate e non si acquistano facendo grandi cose negli altri
campi dell’attività umana. Orator fit;
così l’uomo di governo si fa governando gli uomini, discutendo con gli
avversar, cercando di convincerli del loro errore e rimanendo anche persuaso
dagli avversari della necessità di mutare parzialmente la propria strada. [...]
«Insistiamo oggi su queste considerazioni
fondamentali perché le vicende di questi giorni hanno avuto per effetto, come
si diceva in principio, di render popolare presso una parte del pubblico l’idea
di forme più o meno larvate di governo autocratico, e da molte parti si è
parlato di spedizioni fasciste su Roma per prendere possesso del potere, di
colpi di stato, di dittature o di direttori nazionali, e via dicendo. Lo stesso
direttorio del partito fascista si è affrettato a smentire una parte di queste
chiacchiere, il che non impedirà che certe fantasie continuino a correre
basandosi sui «si dice» immancabili nei momenti agitati come questo, e sulla
riserva fatta dall’on. Mussolini durante l’ultimo discorso alla camera circa la
scelta che il partito fascista si riservava di fare fra la legalità e
l’insurrezione.
«Ora noi non vogliamo ammattere neppure per
un momento che le voci correnti possano corrispondere a reali propositi e che
propositi di tal genere possano trovare il consenso di coloro che hanno la
responsabilità del movimento fascista.
«Oggi i fascisti hanno ragione di credersi
sorretti dalla pubblica opinione; hanno probabilmente ragione di credere che la
loro rappresentanza parlamentare è assai inferiore al consenso che essi
riscuotono nel paese. Appunto per ciò essi non hanno nessun interesse ad
imporre agli altri le loro opinioni con l’ordine secco e perentorio, con la
facile arma della dittatura. Attraverso alla discusssione ed alle vie legali
essi possono ottenere tutto. Un parlamento di neutralisti diede durante la
guerra il voto a Salandra ed a gabinetti di guerra, perché esso sentiva che
l’opinione pubblica era per la guerra. Domani, il parlamento attuale darà il
proprio voto ad un gabinetto in cui entri come uomo rappresentativo il leader
del fascismo ed in cui qualche altro fascista sia a capo di dicasteri
importanti ed il fascismo impronti di se stesso e dei suoi ideali l’azione
intiera del governo. Il paese è ora favorevole ai fascisti perché essi hanno
dato il colpo decisivo che lo ha salvato dalla follia e dalla tirannia
bolscevica. Ed è pronto a consentire ad essi per le vie legali l’ascesa al
potere quando essi dimostrino di essere atti ad esercitarlo. Sinora sappiamo
che essi hanno fervore d’azione, che essi amano intensamente la nazione, che
essi la vogliono salva dalle malattie distruttive; che essi vogliono ridare a
tutti i cittadini la libertà di vivere e di agire e di pensare, fuori della
mortificante cappa di piombo della tirannia socialista. Per quanto essi hanno
fatto per ridare tonalità al paese, per trarlofuori dal brutto materialismo
ventraiolo denigratore della guerra combattuta, della vittoria ottenuta, dei
valori spirituali della nostra stirpe, tutti siamo loro grati.
«Ora si aprono ad essi le porte del potere,
le vie dell’azione immediata e diretta. Non più lotta per vincere, ma
traduzione in atto dei principii per cui si è vinto. Due vie si aprono a loro
dinanzi: quella rapida della dittatura, via brillante, senza avversari costretti
alla fuga, senza critiche dei giornali, soggetti a censura, con uomini fidi di
governo, dotati di poteri illimitati; e quella noiosa, fastidiosa, minuta della
legalità costituzionale, dinanzi ad un parlamento di scettici e di ambiziosi,
attraverso le lungaggini della procedura parlamentare, e sotto al maligno
vaglio di giornali avversari ed infidi.
«Ma la prima via, così attraente e
promettente, conduce fatalmente alla tirannia ed alla rovina del paese. Con un
re devolto al suo giuramento di fedeltà alla costituzione come è Vittorio
Emanuele III, essa vuol dire proclamazione della Repubblica; vuol dire l’inizio
di un periodo convulsionario di sperimenti politici, di contrasto fra le varie
tendenze aristocratiche e demagogiche a cui una nuova costituzione repubblicana
potrà essere informata; vuol dire necessità di giustificare ‘razionalmente’ i
nuovi sistemi costituzionali; vuol dire oscillare tra un governo di generali,
un consiglio dei dieci aristocratico od un consiglio di commissari socialisti.
A che scopo, quando non si vedono i generali ed i geni capaci di governare
dittatorialmente e quando i nostri comunisti sono goffe imitazioni di quei
Lenin che, nonostante il loro fanatismo, trassero la Russia alla morte?
«Quanto più gloriosa e feconda, agli occhi degli
uomini amanti del paese, è la seconda viadel rispetto alla costituzioneed alla
legalità! La costituzione e la monarchia valgono non per sé, ma come
incarnazione di tre quarti di secolo di vita nazionale e di un millennio di
sforzi verso l’egemonia e la formazione di uno stato unitario nella penisola
italiana. In quest’ora decisiva, tutti coloro i quali attribuiscono un pregio
ai valori spirituali, alla tradizione, alla continuità della storia nazionale,
tutti coloro i quali sentono che in politica le creazioni nuove non hanno
probabilità di vita, ma che ogni più audace novità può essere innestata nel
vecchio tronco e suggere dalla linfa di questo una vita assai più vigorosa e
lunga di quanta possa derivare dall’improvvisazione di dittature incapaci, devono
contrastare l’avvento della dittatura! [..]»
Einaudi raggiunse quei livelli di «gratitudine» alle lotte politiche dei
fascisti - se essa fu sincera e non strumentale al suo regionamento - molto
tardi, alla vigilia della “marcia su Roma”. Prima aveva sottovalutato il
fenomeno fascista. In quel biennio, rarissimamente aveva accennato al fascismo
sulle colonne del Corriere della Sera. Il 14 gennaio 1922, polemizzando con i
socialisti, aveva accordato loro «causa vinta»
«contro ai casi singoli di violazione dei diritti degli operai,
verificatisi sporadicamente ad opera di qualche nucleo fascista.» A parte il
lungo articolo citato, sembra - a scorrere le cronache einaudiane di quel torno
di tempo - che non esista una questione fascista. L’articolo «per lo stato» del 4 novembre 1922 (op.cit.
pag. 926 e segg.), con tutta la sua dose di supponenza, con il suo tono
arrogantemente monitorio, sbuca fuori inopinato, arcano, inspegabile che non si
sapesse aliunde della capitolazione
del re di fronte agli ultimatum di
Mussolini del 28 ottobre. ([31]).
Ottusità della pur colta alta borghesia o miopia politica di un economista?
Sottovalutazione di un fenomeno di massa o marginalità effettiva della realtà
politica del partito fascista, prima della scelta di Vittorio Emanuele III,
improvvisa e sollecitata da gruppi di pressione (borghesia agraria, corpi
militari dello stato, etc.)? Domande cui non è dato qui dare ponderate
risposte, se non altro per economia di lavoro. Un approccio alla storia del
fascismo di tal fatta non pare, però, che sinora sia stato mai tentata. Quel
che anoi preme qui rimarcare è che se ad un osservatore del calibro di Einaudi
sfuggiva l’importanza del fascismo ante-marcia,
ben speigabile è che - come avverte Nolte - nelle plaghe sperdute di Sicilia (e
noi appuntiamo il nostro osservatorio su quelle di Racalmuto) non venisse
neppure percepita.
Attorno al 1922, a Racalmuto premeva in sommo grado la questione della
crisi finanziaria del settore zolfifero.
Nel settembre del 1922 una
commissione degli esercenti le miniere di zolfo della Sicilia si era
recata a Roma per premere al fine di ottenere un decreto-legge autorizzante
l’emissione di obbligazioni per 120 milioni di lire garantite dallo stato.
Vagava tra la camera ed il senato un disegno di legge in tal senso. A dire il
vero la camera l’aveva approvato, ma il senato ancora no, per via della crisi
ministeriale. Si cercava, con il decreto-legge, di ovviare al pericolo che la
legge naufragasse in quel bailamme parlamentare. Pronubo il sottosegretario Lo
Piano.
La crisi zolfifera era allo stremo. La concorrenza degli Stati Uniti era
stata micidiale. Solo che con la guerra, si era estratto zolfo a prezzi
politici. Si era costituito il «consorzio obbligatorio per l’industria zolfifera siciliana» al quale il produttore
era obbligato di consegnare il minerale
estratto. Il consorzio, aveva accumulato uno stock di zolfo invenduto. Al 30
aprile del 1922 erano giacenti nei magazzini consortili 270.000 tonnellate di
zolfo. Su tale quantitativo le banche avevano anticipato 85 milioni di lire e
si rifiutavano di accordare altre anticipazioni sullo zolfo che frattanto si
era continuato a produrre. Si profilava un blocco nella produzione dello zolfo.
Gli industriali chiedavo di togliere - con l’emissione obbligazionaria - di
togliere lo stock dalla circolazione e di rendere quindi possibile la immediata
vendita della nuova produzione. ([32])
Einaudi era sferzante ed irriducibile: «Chi ha stock da vendere, -
rintuzzava (pag. 887) - si arrangi. Può
darsi che il modo migliore di arrangiarsi sia di accantonare lo stock, facendo
un’operazione con istituti bancari, nella speranza di poterlo vendere in tempi
migliori. E’ accaduto parecchie volte che l’operazione è riuscita bene.
Riuscirà tanto meglio, quanto meno lo stato ci ficcherà dentro il naso. [...]
Ma - si obietta - il consorzio fu creato
dallo stato; i prezzi li fissa il consorzio, col consenso del governo. Quindi
il governo o mantenga le sue promesse o sciolga il consorzio. Parliamoci
chiaro. A chi vuol dare ad intendere l’ing. Raverta questa solennissima bubbola
che il governo osi sciogliere di sua iniziativa il consorzio solfifero? Il
consorzio rimarrà finché lo vogliono deputati, rappresentanze, industriali
solfatai siciliani. Essi lo hanno creato ed essi lo vogliono. Il resto d’Italia
non ci ha messo bocca e non osa metterci
bocca, per timore di far cosa spiacevole ai siciliani. E’ uno di quei casi di
leggi, in cui deputati e senatori delle altre regioni hanno ritegno di parlare,
temendo, se parlano contro, di suscitare delicate recriminazioni regionali.
Tutta la responsabilità del cosiddetto ‘governo’ è qui: nel non avere osato, se
aveva un’opinione contraria al consorzio, di farla valere per timore di dire o
di fare cosa spiacevole ai siciliani. Se ora questi si persuadono, e sarebbe
tempo, che il consorzio è stato un errore, che la sua esistenza nuoce alla
Sicilia, ed è una minaccia all’industria solfifera, lo dicano chiaro e netto; e
lo dicano tutti. Troveranno governo e parlamento disposti a mandare a carte quarantotto
un esperimento tollerato solo per reverenza al volere che sembrava unanime di
quella grande e patriottica e nobile regione.»
Quel numero del Corriere della
Sera sarà arrivato a Racalmuto e letto dagli interessati. Einaudi era anche
senatore. Sarà stato considerato alla stregua del nostro Bossi. Negli ambienti
degli esercenti sarà corso un brivido; forse una fibrillazione. Intanto saliva
al potere quel Mussolini di cui si era appena sentito dire. A lui si guardò
certo con acuto interesse in quel di Racalmuto, più in speranzosa attesa che
con timore politico. Il «liberismo» di Einaudi non era proprio un’appetibile
scelta politica!
Lo storico locale E.N. Messana (op. cit. pag. 358) retrodata sentimenti
antifascisti del dopoguerra con evidente falsificazione della realtà, quando
storicizza le sue personali fantasie sul tiennio racalmutese 1919-1922. «A
Milano intanto, - annota - nel marzo dello stesso anno [1919], fu fondato il
fascio di combattimento. La borghesia e specialmente i capitalisti presero
respiro di quella forza antirivoluzionaria e violenta che subito cominciò a
bravacciare nelle città e nei comuni. A Racalmuto, il partito nazionalista, di
già menzionato, aveva accampato le pretese di rappresentare la conservazione
contro la evoluzione affiorante, sebbene con metodi inesperti e puerili. Le
notizie dei fasci e dello squadrismo si raccontavano al circolo Unione ed al
circolo degli Amici. Qualche do’
esultava a quelle nuove e non nascondeva il desiderio che anche a Racalmuto
venissero i prodi in camicia nera a bastonare gli zolfatai e i contadini.» Ma
la questione - come vedremo in seguito - era ben altra, più complessa e più gravida di conseguenze sociali.
Il biennio 1923-1924 è denso di avventimenti che sicuramente moficano lo
scenario nazionale: è però erroneo ritenere che si apra una parentesi destinata
a chiursi a conclusione della guerra, adottando il criterio interpretativo del
Croce. La storia non procede per salti. Solo alcuni processi modificativi hanno
sussulti di accelerazione. E la consegna dei pieni poteri a Mussolini alla fine
del 1922 è una di queste fase. Peculiare diventa l’acquisizione di una
sensibilità delle masse in senso nazionale che, sicuramente prima difettava,
specie in Sicilia.
Per il pensiero ufficiale del fascismo del tempo si iniziava una Rivoluzione; ma è da credere allo stesso
Mussolini se nel drammatico discorso al Senato del 1924 precisava: «all’indomani della Rivoluzione, io mi trovai
di fronte a questo quesito: creare una nuova legalità o innestare la Rivoluzione nel tronco, che io non ritenevo affatto
esausto, della vecchia legalità? Fuori la Costituzione o dentro la
Costituzione? Io scelsi e dissi; dentro la Costituzione. Questo vi spiega la
composizione del mio primo Ministero, e vi spiega la serie dei successivi atti
politici». Il 12 giugno del 1924, in un altro discorso al Senato, Mussolini
aveva ancor più puntualmente aveva ben raffigurato questo processo di
«normalizzazione costituzionale» del primo fascismo: «Si trattava di
riassorbire la illegalità nella Costituzione ... di rimettere grado a grado ...
nell’alveo della legalità la vasta fiumana che aveva rovesciato gli argini.
[...] Chiamai al governo uomini di tutti i partiti. Riapersi il Parlamento, e
ne ebbi, dopo regolari discussioni, i pieni poteri. Affrontai e risolsi di lì a
poche settimane il problema gravissimo degli squadristi. Ho esercitato i pieni
poteri per un anno. Potevo chiedere la proroga ... Vi rinunciai. Non avevo
proposte leggi eccezionali e mi proponevo di fare un altro passo innanzi sulla
strada della legalità .... Sciolta regolarmente la Camera, furono nei termini
prescritti dalla legge, indetti i comizi
elettorali. La lista nazionale ha raccolto circa 4 milioni ottocentomila voti
... Ottenuto il suffragio del popolo, le necessità della politica interna si
delinearono ancor più chiaramente nel mio spirito, precisate in questi
capisaldi fondamentali:
«1° far funzionare regolarmente l’istituto parlamentare come organo del
potere legislativo ...; 2°) regolare dal punto di vista della Costituzione la
situazione della Milizia Volontaria; 3°) reprimere i superstiti illegalismi del
Partito; 4°) chiamare all’opera di ricostruzione tutte le forze vive della
Nazione ... Tutte le mie manifestazioni politiche dal 6 aprile in poi tendono a
questa mèta: ad accelerare l’entrata definitiva del Fascismo nell’orbita della
Costituzione». E ritornando al discorso al Senato del 5 dicembre, Mussolini,
alla domanda rivolta a se stesso: «Da allora ad oggi c’è stato o non c’è stato
un processo di riassorbimento della Rivoluzione nella Costituzione?», affermava
«Rispondo nettamente: c’è stato: faticoso, lento, difficile, ma c’è stato ...».
([33])
Siamo propensi a credere che - ad onta delle autorevoli affermazioni del
Valiani e del Ragioneieri ([34]) - ben
diverso sarebbe stato il corso della storia nazionale se non ci fosse stato il
delitto Matteotti (10 agosto 1924) e l’irrigidimento aventiniano. Ciò -
s’intende - tenendo presente che la storia non ammette ipotesi.
Come veniva ricostruita quella tragica crisi seguita al delitto
Matteotti, all’interno del fascismo coevo? Stralciamo dallo studio dell’Ercole
([35]) i seguenti passaggi:
«Mussolini pareva esser riuscito ... «a
ristabilire i termini necessari di quella convivenza politica e civile che è
più necessaria fra le parti opposte della Camera ...» (V, p. 10),»; eppure «”mentre nel Paese si era diffusa la
sensazione che un nuovo periodo di tranquillità e di pace stava per iniziarsi
[si aveva] l’episodio tragico, che è costata la vita all’on. Matteotti” (IV, 24 giugno al Senatop. 195). Quella sciagurata beffa del giugno, come Egli
la chiamerà in Gerarchia, in uno
articolo scritto alla fine di ottobre ‘25,
“diventa orribile tragedia indipendentemente, anzi contro la volontà degli
autori”, la quale determinerà nello sviluppo della Rivoluzione la “sosta di un semestre” (v. Elementi di storia in Gerarchia, p. 179)»
«Perché dal delitto Matteotti le opposizioni credettero subito di poter
trarre il pretesto per tentare di “annullare
tutto quello che significa, dal punto di vista morale e politico, il Regime che
è uscito dalla Rivoluzione dell’ottobre” (IV, 25 giugno 1924, alla
maggioranza parlamentare, p. 207), inscenando la secessione parlamentare
cosidetta dell’Aventino e abusando di una persistente eccessiva libertà di parola
e di stampa, per chiedere, e per proprio conto iniziare, il processo al regime,
alla Marcia su Roma e alla Rivoluzione
... (‘il Regime non si fa processare se non dalla storia ‘.. (IV, 22 luglio
‘24: al Gran Consiglio, p. 214, e v. anche 7 agosto ‘24: al Consiglio Nazionale
del Partito, p. 242), in nome di una pretesa normalizzazione, dietro cui non si nascondeva che la speranza di
potere agganciare Mussolini, isolare materialmente e moralmente, disarmandolo,
il Fascismo e i Fascisti nel Paese, creare una situazione tale da permettere il
ritorno alla paralisi parlamentare,
sbarazzarsi del Governo fascista con un semplice voto di maggioranza della
Camera dei Deputati: come se il Fascismo fosse
arrivato al potere per la via ordinaria, e questo gli fosse stato dato
da un ordine del giorno: come, cioè, se esso potesse considerarsi “alla stregua di tutti i Partiti e
considerare il Parlamento come l’unico ambiente, nel quale tutte le situazioni
politiche di una Nazione in momenti eccezionali potessero trovare la loro
soluzione ordinaria e regolare” (IV, all’Associazione Costituzionale di
Milano, 4 ottobre ‘24, p. 290).»
«Alla quale speranza Mussolini darà la definitiva risposta, parlando il
29 ottobre 1924, al Popolo di Cremona:
«”Noi siamo qui a dire che .. non
siamo dei vanitosi e nemmeno dei prepotenti, ma siamo dei soldati fedeli alla
consegna, e la consegna ci è stata data dal Re e dalla Nazione. Solo al Re,
solo alla Nazione noi dobbiamo rendere atto del nostro operato; non a coloro,
che ad ogni gesto, ad ogni provvedimento, ad ogni legge, vorrebbero intentarci
il loro ridicolo processo, mentre sono gli esclusie i condannati dalla nuova
storia” (IV, p. 335): onde la
dichiarazionedel 5 dicembre in Senato: ... “Si
è detto: voi voleterestare al potere ad ogni costo. Non è vero. Nella grande
piazza di Cremona, ad una moltitudine immensa di Popolo, ho detto che
riconoscevo i diritti della Nazione e i diritti imprescrittibili di Sua Maestà
il Re. Se Sua Maestà al termine di questa seduta mi chiamasse e mi dicesse che
bisogna andarsene, mi metterei sull’attenti, farei il saluto militare e
obbedirei. Dico Sua Maestà il Re Vittorio Emanuele III di Savoia; ma, quando si
tratta di Sua Maestà il Corriere della Sera, allora no” (IV, p. 411).»
«[ ...] “La maggioranza cominciò a
perdere alcuni dei suoi elementi in
margine: liberali, democratici, combattenti. Credo che nella seduta del 16
dicembre - la seduta di tre ex-presidenti - questo processo di erosione ai
margini abbia toccato il punto estremo”
(V, Elogio ai gregari, p. 23)».
Il tentativo parlamentare di far crollare il fascismo non ebbe successo
«perché dall’altra parte stava il Fascismo “con
i suoi ottomila grusppi in ogni angolo d’Italia, con le sue forze politiche,
sindacali, amministrative, sempre imponenti”: il Fascismo che era stato “percosso, non abbattuto”, e a cui il
colpo aveva finito per giovare, facendogli perdere “le scorie funeste” (IV, p. 197). [..] “Se il Regime rapidamente potè
essere in grado di sferrare il contrattacco - il che avvenne il 3 gennaio di
quell’anno (1925) - il merito -- va alle masse rurali del Fascismo, che non si
sbandarono, a me, che rimasi tranquillo al mio posto nell’imperversare delle
molte bufere, e al Popolo italiano, che non fu dimentico del passato e non
disperò dell’avvenire” (V, Elementi di Storia, p. 179).»
Non crediamo che fra quelle “masse rurali” era da includere il ceto
contadino racalmutese. Nulla ce lo lascia intravedere. E’, però, certo che
agrari locali, esercenti delle miniere di zolfo racalmutese, gabellotti,
contadini e braccianti ed il piccolo ceto dell’infima borghesia di Racalmuto
ebbero modo di disaffezionarsi ai loro referenti politici sia della Democrazia
Sociale di Guarino Amella e Colonna di Cesarò, sia allo stesso partito
democratico-riformista di Enrico La Laggia, cui ultimamente aveva aderito una
frangia degli ottimati racalmutesi. Mussolini parlava dell’ «Aventino» quale epicedio dello stato demo-liberale. Non cìera cultura greca a
Racalmuto bastevole per apprezzare l’immagine classica. Vi era molto buon senso
(ed pressanti interessi del quotidiano) per dissentire dai loro deputati eletti nel listone “nazionale” del 1924 che ora
facevano l’«Aventino». In definitiva, nepppure Gramsci mostra di apprezzare
questi rappresentanti degli agrari siciliani con i quali, inopinatamente, si
trovava in sodalizio.
«Ho visto in faccia la “piccola borghesia “ con tutti i suoi tipici
caratteri di classe - scriveva Gramsci alla moglie il 22 giugno 1924
commentando i primi lavori dell’Aventino ([36]). - La
parte più ributtante di essa era costituita dai popolari e dai riformisti (per
non parlare dei massimalisti, povera gente di cascia andata a male; i più
simpatici erano Amendolae il generale Bencivenga dell’opposizione
costituzionale che si dichiaravano favorevoli in principio alla lotta armata e
disposti anche (almeno a parole) a porsi agli ordini dei comunisti, se questi
fossero in grado di organizzare un esercito contro il fascismo. Un deputato
democratico-sociale (è questo un partito siciliano che unisce latifondisti e
contadini) che è duca Colonna di
Cesarò, ministro di Mussolini fino al mese di marzo, dichiarò di essere più
rivoluzionario di me perché fa la propaganda del terrore individuale contro il
fascismo. Tutti, naturalmente, contrari allo sciopero generale da me proposto e
all’appello alle masse proletarie ... ».
Colonna di Cesarò - è certo - non riuscì a propagandare “il terrore
individuale contro il fascismo”, a Racalmuto. I locali suoi aderenti dovettero
disorientarsi non poco: già amavano molto poco i blandi socialisti racalmutesi
agli ordini dell’avv. Vella; figuriamoci se potevano dare credito a chi osava
associarsi con i bolscevichi del 1921.
A livello locale il problema centrale restava sempre quello dei
finanziamenti per lo zolfo invenduto. La faccenda del 1922 veniva ricordata
ancora. I più avvertiti avevano l’odiato
senatore Einaudi per quello che scriveva allora sulle colonne del Corriere
della Sera. Il governo di Mussolini diede quel decreto invocato sotto Facta
(D.L.n. 202 dell’11/1/1923). Nel nuovo corso fascista si potevano dunque
riporre attese meridionalistiche e di intervento statale. Tra le varie
provvidenze del decreto, lo stato garantiva lo smaltimento a prezzi
remunerativi dello stock e si impegnava nel finanziamento del Consorzio, ma su
obbligazioni dell’ente garantite sugli esercizi futuri. «Insomma - scrive Salvatore Lupo [37]- a
pagare sarebbe stata la futura produzione». Vi era - è vero - chi come Carlo
Sarauw, forse per opposto interesse, aveva di che ridire su quanto si riusciva
a conbiare in provincia di Agrigento e di Caltanissetta. «Io posso spiegarmi
che un’accolta di maffiosi ignoranti delle province di Girgenti e di
Caltanissetta abbia potuto premere a Palermo sull’amministrazione del Consorzio
[...] ma non posso ammettere che essa potesse allungare i suoi tentacoli fino a
Roma o piegasse il Governo alle direttive di quegli organi del Consorzio che
subivano la sua azione». ([38]) In
quel di Racalmuto, ove gli interessi zolfiferi passavano trasversalmente per
tutti i ceti sociali, vi fu soddisfazione per il provvedimento mussoliniano del
gennaio 1923 ed iniziava quel consenso che dopo il 1926 si consoliderà
penetrantemente, in profondità, in maniera totalizzante. Le bizze dell’Aventino dei propri deputati
dovettero apparire atteggiamenti incomprensibili, sospetti, fedifraghi, da non
approvare, da rimuovere.
Il delitto Matteotti, invero, non lasciò indifferente l’intera comunità
civica racalmutese. Se dobbiamo credere a E.N. Messana, il socialista Vella si
diede da fare: «Fu lui - scrive il Messana ([39]) - che
in seguito all’uccisione di Giacomo Matteotti si presentò con la guantiera a
raccogliere il contributo per la corona. Entrò nel salone di Salvatore Rizzo, Paparanni, e là Luigi Scimè, giovane figlio del Dr.
Nicolò, gli diede L. 0,50, altri uguale cifra o meno. Contribuirono molti
racalmutesi, oltre i summenzionati si ricordano il comm. Giuseppe Bartolotta
consigliere provinciale in carica, il sindaco Scimè, Pio Messana, Salvatore
Falcone, Calogero Mattina fu Gaetano, Carmelo Schillaci Ventura, Giuseppe
Cutaia, i fratelli Luigi e Giuseppe Lo Bue. Questi furono segnati a dito e
perseguitati dal fascismo. Luigi Scimè, ufficiale effettivo dell’esercito, non
avanzò più di grado.»
L’emozione per l’efferato delitto dovette essere una momentanea reazione,
non coinvolgente la stima verso Mussolini. Questo, almeno a Racalmuto. A più
ampio raggio, ancor oggi non crediamo che sia stata stabilita la verità
storica. Troppi risentimenti, molti condizionamenti ideologici. A distanza di
settant’anni, in riviste storiche pur autorevoli, la vicenda Matteotti viene
così rievocata, passionalmente, con evidenti pregiudizi di valore:
«Giacomo
Matteotti - leggesi nell’editoriale del
n. 1-2 del 1994 di Storia e Civiltà (
[40]) -
segretario del partito socialista unitario, capo - con Giovanni Amendola -
dell’opposizione al fascismo, [..] mentre dalla sua abitazione, per il
lungotevere Arnaldo da Brescia, si dirigeva, attorno alle 16, verso il
Parlamento, era sequestrato, costretto a entrare in un’automobile ed, essendosi
difeso, ucciso. [Fu] uno dei più esecrandi delitti che la storia ricordi. [AM1][Ad
eseguirlo, c’erano] una brutale figura di squadrista toscano, Amerigo Dumini e
suoi quattro complici.
«Come sarebbe
emerso, dal memoriale Rossi, e da altre ammissioni, se anche Mussolini non era stato il diretto mandante, vi aveva
dato il suo tacito consenso. La commozione popolare fu così profonda, che
avrebbe dovuto avere per sbocco, con quale vantaggio per l’Italia è inutile dire,
l’immediato tracollo del fascismo. Mancò una forza organizzata a dirigere la
rivolta. Non vi fu, da parte della Monarchia, come nel ‘22, la coscienza del
dovere. Al governo venne lasciato il modo, con pochi ritocchi alla sua
compagine, di sopravvivere, e al fascismo di consolidarsi, più per l’altrui
debolezza che per virtù propria, profittando anzi dell’irrimediabile errore
delle opposizioni, di astenersi dalla presenza in Parlamento (l’«Aventino»),
che avrebbe consentito, nel gennaio ‘26, di farne deliberare la decadenza. Non
mancò la “trahison des clercs”, in
un’ora straordinariamente feconda per la cultura: e Giovanni Gentile, pur
surrogato come ministro dell’istruzione, ad assicurarsi maggior potere, si
assunse la responsabilità d’un manifesto degli intellettuali a favore del
fascismo, cui, con un numero minore di firme, se ne sarebbe contrapposto un
altro, redatto dal Croce.
«[Il processo
venne trasferito] alla lontana e più tranquilla Chieti, [e si ebbe] l’arrogante
difesa di Farinacci (cui si consentì di dichiarare di assumerla “prima come
segretario del partito, e poi come avvocato” e che il processo non si sarebbe
fatto “né al regime né al partito”). Esclusa dalla stessa pubblica accusa, la
premeditazione ed ammessa la preterintenzionalità, la sentenza, del 24 marzo 1925, condannava solo tre degli
imputati a cinque anni, undici mesi e venti giorni, che, col condono di ben
quattro anni per una opportuna amnistia, e tenuto conto della carcerazione
preventiva, li rendeva, di fatto, liberi.»
L’avvento del fascismo nell’area provinciale di Agrigento.
Nella Sicilia - scrive Salvatore Leone ([41]) - in
cui il fascismo ebbe “natura ricettiva e non radiante”, schematizzando possiamo
dire che l’aristocrazia agraria aderì al regime nei tardi anni ‘20, quando si
renderà contodella sostanziale convenienza ad appoggiare il nuovo gruppo di
potere. La piccola borghesia cittadina darà il suo consenso agli inizi degli
anni ‘20 con uno spirito fortemente protestatario nei confronti di quello Stato
liberale che l’aveva schiacciata al basso al livello contadino. L’adesione al
nuovo regime della media borghesia e degli intellettuali, parecchi dei quali
avevano alle spalle una consistente tradizione autonomista, avvenne mediante
comportamenti incerti e talora contraddittori che si protrassero fino ai primi
anni ‘30».
La provincia di Agrigento (allora Girgenti) rispecchia grosso modo
siffatta diversa datazione del consenso al fascismo, anche se è difficile
rinvenire intellettuali di spicco che tardino nel concedere il loro
accondiscendimento al nuovo regime. Luigi Pirandello aderisce tempestivamente
al fascismo; Enrico La Loggia se ne mantenne sempre fuori; ed anche Giovanni
Guarino Amella. Francesco Renda vuole come nemico del fascismo padre Michele
Sclafani «che diede filo da torcere ai fascisti dell’Agrigentino [..] seppure
anche lui non fu alieno dal cercare l’intesa e la collaborazione con essi e ddirittura dal proporre soluzioni
impossibili, come la costituzione di un grande partito siciliano
clerico-fascista». ([42]) Per
non parlare dei socialisti rimasti coerenti, è difficile inquadrare figure come
i fratelli Ambrosini di Favara, o l’avv. Cesare Sessa, o l’avv. Bonfiglio.
Fortemente caratterizzata in termini di pronta adesione al fascismo è la figura
dell’on. Abisso, che alla fine, però, si guarda bene dall’aderire alla
Repubblica sociale di Salò. Analogo discorso potrebbe farsi per il narese on.
Riolo.
Francesco Renda ha ben ragione quando dichiara che le origini dei fasci
di comattimento di Girgenti (e di quei radi della provincia nel periodo
1919-20) sono «avvolte nella nebbia». ([43])
Nell’agrigentino, il fascismo ebbe davvero, dai suoi esordi sino al
consolidamento del Regime, “natura ricettiva, e non radiante.”
Quando nel 1942, in piena guerra, vari autori - spesso maldestri, o
ingenui o disinformati - redassero i «Panorami
di realizzazioni del Fascimo» che dovevan essere una ricerca delle
primissime origini del fascismo delle varie province, non avevano molta carne
al fuoco, per quanto riguarda il Meridione e la Sicilia. L’autore agrigentino -
tal Vincenzo Agozzino - deve proprio arrmpicarsi sugli specchi per reperire
esaltanti «cronache della vigilia
rivoluzionaria fascista nella provincia di Agrigento» ([44])
«Agrigento sempre più bella e
suggestiva», aveva detto Mussolini al popolo di Agrigento il 15 agosto
1937. E’ frase lapidaria che l’Agozzino
invoca in premessa. Ci racconta poi del fascio di Agrigento nel 1919. «..La
Camera del lavoro di Agrigento, - narra - aderente al Partito Socialista
Ufficiale, con rapida azione agganciò le masse delle zone industriali prima e
poi delle zone minerarie ed agricole, creando una forte organizzazione che
presto si mosse alla conquista delle amministrazioni comunali. Così in
Canicattì, Ravanusa e Palma Montechiaro si ebbero maggioranze socialiste e
quasi ovunque le minoranze furono rosse. [..] In questi ambienti [..] solo un
manipolo di giovanissimi intese il richiamo dei valori spirituali della stirpe
fondando nel maggio del 1919 il primo Fascio dell’agrigentino. La riunione
avvene in una stanza dell’Albergo Centrale dove si costituisce un nucleo di
azione contro il sovversivismo locale di vario colore, dal rosso, al nero e al
verde, che assume il nome di Fascio Futurista di Azione [..]
«1920- 21 - 22
«Si forma poi il Fascio di Combattimento che in un secondo tempo viene
intitolato al Caduto Pierino Del Piano. Solo il 20 novembre 1920 avviene il
riconoscimento ufficiale del Fascio di Combattimento di Agrigento. Viene anche
ad Agrigento la propagandista rossa Maria Giudice. Migliaia e migliaia di
persone sono adunate all’Arena Bonsignore [..] La propagandista non doveva
parlare e non parlò. Aveva appena pronunciato la parola ‘Compagni’ che ebbe
inizio una fitta sassaiola [da parte di piccoli bene appostati sulla terrazza
di villa Garibaldi]. [Ne seguì] un fuffi
fuggi generale, mentre la stessa oratrice veniva colpita al viso. Legnate da
orbi furono distribuiti agli uscenti dalla arena, mentre la lotta si
spezzettava in singoli episodi dai quali però risultava la coraggiosa fuga dei
rossi e il primo assalto alla Camera del lavoro [..] [Si trattava] di pochi
squadristi, circa quaranta, che [cominciarono a] sgominare le forse rosse, nere
e verdi.
«[Altra aggressione.] La Camera del lavoro viene assalita e devastata,
mentre mobilio e carte son dati alle fiamme fra il canto di Giovinezza. Successivamente dopo un comizio tenuto dai combattenti, vien
dato un nuovo assalto alla Camera del lavoro con la completa distruzione del
mobilio, delle carte e di una bandiera rossa che è poi bruciata in piazza Gallo.
La stessa sera avviene un conflitto con un gruppo di guardie regie, risoltosi
con una brillante fuga degli agenti di Cagoia [Nitti, n.d.r.]. [..] Altre azioni repressive, di ritorsione e di
propaganda vennero eseguite in tutta la provincia: vengono impediti alcuni
comizi; venne incendiato il circolo ferroviario; [talora] vengono a dar loro
man forte i camerati dei fasci di Porto Empedocle, Canicattì, Palma Montechiaro
e Sciacca. Il 24 aprile del 1921 una squadra agrigentina partecipò alle azioni
di rappresaglia in Caltanissetta in occasione dell’uccisione di Gigino Gattuso.
Alla Marcia di Roma [..] partecipò una squadra, mentre le altre rimasero
mobilitate in sede.
«In provincia agirono in periodo ante marcia i fasci di Canicattì,
Licata, Palma Montechiaro, Porto Empedocle, Ravanusa, Raffadali, Naro, Sambuca,
Grotte, Bivona. Il fascio di Canicattì venne riconosciuto il 4 dicembre 1920;
il Fascio di Licata, il 1° febbraio 1921; quello di Montechiaro fu fondato il
1° marzo 1921; quello di Porto Empedocle fu riconosciuto nel marzo 1921; quello
di Ravanusa, il 15 ottobre 1920. Altri fasci venero fondati nella seconda metà
del 1922 e fra questi Raffadali, Sambuca di Sicilia, Naro, Grotte e Bivona.
Naro soprattutto, fondatosi il fascio nel luglio del 1922 e riconosciuto il 18
ottobre successivo, si segnalò in vivaci interventi locali contro i sovversivi,
che culminarono con la devastazione della sezione socialista.»
Il volume dei “Panorami” riporta a questo punto un’altro squarcio del
discorso che Mussolini pronunciò “dalla terrazza del Palazzo Reale di Palermo -
5 maggio 1924”: “C’è forse una pietra del
Carso, pietra di quelle doline dove non abbiano sofferto e dove il popolo è
diventato grande, c’è forse zolla di tutto l’arco di trincee che andava dallo
Stelvio al mare che non sia stata bagnata da stille di purissimo sangue
siciliano?»
Prima della marcia su Roma, il quadro del fascismo agrigentino è rado e
sfilacciato. Iprefetti del luogo non vedevano di buon occchio il nuovo
movimento politico; lo tolleravano appena e se potevano lo disperdevano.
Rivelatrice è questa missiva al Ministero degli Interni del sostituto del
prefetto Vergara del 20 giugno 1922 ([45]):
«Significo che al 31 maggio 1922 esistevano in questa provincia le seguenti
sezioni del Fascio di combattimento: Girgenti con 50 aderenti; Canicattì 20;
Ravanusa 80; Sciacca 80. A Palma Montechiaro la sezione è stata sciolta, ma
esistono tuttavia una diecina di simpatizzanti del partito fascista. La sezione
di Naro, segnalata con mia nota dell’11 maggio 1921 n. 225, è composta da ex-combattenti
e non fascisti. Anche la sezione di Porto Empedocle è stata sciolta».
Con la
marcia su Roma, l’atteggiamento dei prefetti ovviamente cambia, anche perché
giungono prefetti di evidente ispirazione fascista. Più che con il Ministro
dell’Interno Benito Mussolini, i rapporti (improntantati alla più deferente
fiducia) sono con il sottosegretario Finzi (almeno sino alla caduta di costui
per il delitto Matteotti). In questa congiuntura fu prefetto di Agrigento il
dott. Ernesto Reale. Già vice prefetto, fu nominato nella carica il 16 marzo
1923 ed il 22 ottobre 1924 lasciò Agrigento per la prefettura di Potenza. Era
nato a Sassari il 30 giugno 1875 (morirà a Roma il 30/12/1947). Era dunque un
uomo di 58 anni, ma evidentemente aveva
fiutato il nuovo corso e vi si era prontamente adattato. Non è da credergli
quanfo afferma: «Escludo nel modo più formale che io abbia imposto la
costituzione di Fasci nei comuni dove non esistono sotto minaccia diretta o
indiretta di scioglimento dei Consigli Comunali o pressioni di qualsiasi altro
genere.» ([46]) Era una
risposta ad un perentorio telegramma dell’11 luglio 1923, a firma Mussolini,
che reclamava seccamente una giustificazione. « S.E. Cesarò - diceva il testo -
comunicami che V.S. avrebbe invitato costituire fasci dove non esistono sotto
minaccia scioglimento consiglio comunale. Voglia V.S. notiziarmi in propoisto.»
La
puntualizzazione del prefetto è abile come emerge dal seguente “rapporto
dimostrativo”:
«Dal marzo, quando
assunsi in questa provincia le funzioni di Prefetto, ad oggi furono istituiti
cinque nuove sezioni del P.N.F. nei seguenti comuni:
1. Castrofilippo - dove l’Amministrazione
comunale era già sciolta ed il Comune retto da un R.Commissario;
2. S. Giovanni Gemini - Amministrazione
Comunale Popolare;
3. Alessandria della Rocca - Amministrazione
Comunale Riformista;
4. Raffadali - Amministrazione Comunale
Socialista;
5. Montaperto - Frazione di Girgenti -
Amministrazione Comunale Popolare.
Per la costituzione di Tali Sezioni non ci
fu affatto bisogno di intimidazioni o minaccie né da parte mia né da parte
della Federazione Provinciale. Fu l’effetto di una attiva propaganda Fascista.
Faccio osservare a V.E. che fra i Comuni
sudetti non ve n’è alcuno amministrato da Democratici-Sociali. Sto esaminando
personalmente la posizione del Comune di Raffadali dove àavvi il feudo di S.E.
il Ministro Colonna Duca di Cesarò, il quale intende porre la Sua candidatura
in quel Mandamento, e mi riservo fare le proposte del caso.
Restano tuttora da costituirsi le sezioni
del P.N.F. nei comuni seguenti:
Aragona
|
Montallegro
|
Villafranca
|
Comitini
|
S. Angelo Muxaro
|
Calamonaci
|
Favara
|
Cianciana
|
Burgio
|
Lampedusa
|
Lucca Sicula
|
|
Ad eccezione degli ultimi due, dove
l’Amministrazione Comunale è Riformista e Popolare, e di Lampedusa, lontana,
sperduta nel mare Africano, tutti gli altri comuni sono amministrati da scritti
alla Democrazia Sociale. E per questi, non solo non fu fatta da me alcuna
pressione per la costituzione di Sezioni del P.N.F., ma dovetti mostrarmi a ciò
risolutamente contrario almeno per ora. Invero quei Comuni - specialmente i
maggiori - Favara e Aragona - sono talmente infestati dalla mafia, che è
necessario procedere ad un’accurata chiarificazione e selezione, per evitare
che nelle costituende Sezioni Fasciste venga ad annidarsi la forma più subdola
della delinquenza Isolana.
Nei detti Comuni pertanto, che come ho
detto, sono amministrati da Demo-Sociali, nonché esercitare pressioni, è stato
invece necessario a me ed al Fiduciario Provinciale resistere alle vive e ripetute
pressioni che ci vennero fatte per la costituzione di Sezioni Fasciste da
elementi di altri partiti troppo interessati e troppo malfidi.
Si addiverrà certamente a costituire anche
lì Sezioni Fasciste, ma solo quando il lavoro - delicatissimo - di selezione
sarà ultimato. E le Sezioni dovranno essere formate da elementi puri e sicuri.
E senza bisogno di minaccie di scioglimenti di Consigli Comunali.
A proposito dei quali debbo fare presente
alla E.V. che gli scioglimenti da me proposti furono sempre effettuati per
ragioni di ordine pubblico o per disordini amministrativi e riguardano i
seguenti Comuni:
Canicattì - Palma Montechiaro - Ravanusa -
già amministrati da socialisti ufficiali;
Sambuca Zabut - Campobello di Licata - S.
Margherita Belice (quest’ultimo in corso), già amministrati da riformisti (La
Loggiani).
Faccio osservare che nessuno di questi
comuni è amministrato da democratici Sociali.
Concludendo:
Nessuno dei Consigli Comunali sciolti dal
marzo in poi era amministrato da Democratici Sociali.
Non solo non ho fatto minaccie per la
costituzione di Sezioni Fasciste nei Comuni dove mancano (quasi tutti
amministrati da Demo-Sociali) ma ho dovuto e devo tuttora resistere, per le
ragioni suesposte, a pressioni che vengono fatte, anche da elementi
Demo-Sociali, per la costituzione di talune Sezioni stesse».
Nel successivo luglio il prefetto Reale sembra più un federale fascista
che un dipendente del Ministero degli Interni. Ecco quanto scrive il 10 luglio
1923:
«Alla vigilia della riunione della Giunta
Esecutiva del P.N.F. credo doveroso inoltrare il seguente rapporto riassuntivo
sull’andamento del Fascismo in questa Provincia.
Dal Marzo in poi si è verificato un
considerevole sviluppo ed una notevole chiarificazione.
Sviluppo: in quanto sono
numericamente cresciuti gli iscritti alle Sezioni dei Fasci (4568) e dei
Sindacati (4382). L’entrata nel Fascismo dell’on. Abisso ed una parziale
fusione, da me caldamente patrocinata, delle forze migliori degli
ex-combattenti, hanno contribuito a tale sviluppo. Occorrerà lavorare ancora
per assorbire nei Fasci almeno un altro migliaio di ex-combattenti che ora sono
fuori perché non possono e non credono di distaccarsi da altri partiti.
Chiarificazione: in quanto, dopo mie
vive insistenze, si è proceduto alla epurazione di talune sezioni, mediante
eliminazione di elementi indegni.
In proposito debbo rilevare di avere dovuto
superare non poche resistenze da parte del Fiduciario Provinciale e della
Federazione Provinciale che non vedevano con eccessiva simpatia l’ingerenza del
Prefetto in questo campo.
Questo processo di epurazione si è
accentuato maggiormente nei riguardi della M.V. i cui iscritti avevano
raggiunto il numero di 1800, mentre ora sono ridotti a poco meno di 1500. Ma è
un bene.
Attualmente la situazione, tenuto conto
delle difficoltà ambientali, e dei personalismi da superare, e specialmente dei
numerosi elementi malfidi infiltratisi nelle sezioni, e che debbono man mano
eliminarsi, può dirsi abbastanza soddisfacente.
Però la mia opera assidua di sgretolamento
delle camarille locali, dei vecchi ed agguerriti partiti, e specialmente del
partito riformista (La Loggia), di quelle Social-Comunista e popolare - opera
che ha portato allo scioglimento di sette Amministrazioni comunali, e che intendo
continuare - dovrebbe essere più attivamente fiancheggiata dalle Autorità
Fasciste di questa Provincia. Dovrebbe soprattutto essere ripresa l’azione di
propaganda fascista che ora languisce in una stasi apatica.
E’ d’uopo riconoscere che il Fiduciario
Provinciale attuale Ing. Narciso Dima, se pure non eccessivamente energico, ha
finora fatto il possibile per lo sviluppo del Fascismo, sacrificandosi anche
finanziariamente, contribuendo del proprio, trascurando la sua professione. Le
sezioni Fasciste non gli dànno che un aiuto finanziario scarsissimo.
Occorre, è anzi urgente, che l’On. Giunta
Esecutiva stabilisca un congruo aiuto finanziario.
Nessuna preparazione ha potuto fare la
Federazione per le lezioni Provinciali appunto per mancanza assoluta di
propaganda. Occorrerebbe istituire nuove sezioni nei Comuni dove ancora mancano
(18 su 41)), ma occorrono mezzi sopraluoghi locali ecc., mezzi che mancano.
Se si dovessero fare le elezioni provinciali
ora, alla scadenza dei poteri della Commissione Reale, sarebbe una débacle dal punto di vista fascista. Mentre gli
altri partiti, soprattutto i Democratici sociali e i popolari, si vanno
organizzando e preparando alla lotta, che ritengono imminente, e dispongono di
mezzi finanziari cospicui, i Fasci poco o niente hanno potuto fare. Occorre,
ripeto, finanziarli.
Ho detto débacle se i fasci dovessero lottare da soli, chiudendosi nella più
assoluta intransigenza nei riguardi degli altri partiti.
Ma occorre esaminare la situazione nei
riguardi della Democrazia Sociale: situazione che in questa Provincia è
estremamente delicata.
La Democrazia Sociale si mantiene qui in
piede di guerra pronta ad una lotta, come pronta ad un accordo coi Fasci, per
una eventuale collaborazione.
Senonché qui si presenta una difficoltà.
I Deputati Demo-Sociali sono gli On. Pancamo
e Guarino-Amella; binomio indissolubile. L’On. Pancamo è elemento puro,
inattacabile. L’ideale sarebbe poter scindere il binomio, e accordare i Fasci
cogli elementi migliori della Democrazia Sociale che fanno capo all’On.
Pancamo. Ma questo è impossibile.
Non poca parte degli elementi che fanno
parte all’On. Guarino-Amella - che ha largo seguito - sono bacati dalla mafia
che sino a poco tempo addietro ha imperato in questa provincia, e che ora è
smontata, disorientata. Effetto dei provvedimenti energici di P.S.- Accordarsi
cogli elementi demosociali che fanno capo all’On. Guarino Amella, vorrebbe dire
accordarsi anche in certo modo con la mafia. E allora si ricadrebbe nel vizio
delle elezioni precedenti che si facevano appunto con l’aiuto della mafia.
D’altra parte il partito Guarino Amella vuol
dire S.E. Di Cesarò, del quale il primo è il più fido e autorevole luogotenente
in questa Provincia.
I fasci risentono di questa situazione.
Il Fiduciario Provinciale Ing. Dima, sembra
contrario a qualsiasi accordo coi Democratici Sociali. I suoi avversari - e ne
ha anche in seno ai Fasci - dicono che ciò dipende dalla sua origine La
Loggiana.
Comunque questa situazione non può
risolversi se non si conoscono in modo preciso e in tempo utile le direttive
del Governo al riguardo.
Concludo:
Occorre finanziare la Federazione Provinciale
perché eserciti una più attiva azione di propaganda;
Occorre procedere alla nomina del Fiduciario
Provinciale. L’attuale Ing. Dima, in conseguenza della ritardata conferma ha
perduto un po’ di autorità e prestigio. Urge quindi o confermarlo o nominarne
uno nuovo, che possa esplicare con autorità e energia l’azione Fascista, e
fiancheggiare la mia azione politica e amministrativa.»
Il prefetto di Agrigento è, peraltro, quello che è in grado di fornire
ragguagli precisi e dettagliati sulla “situazione del Fascismo in Provincia di
Girgenti al 27 ottobre 1923”. Val la pena di riportare integralmente la sua
relazione al ministero:
«In mancanza di fascismo puro, limitato a
pochissimi elementi, i Fasci della Provincia di Girgenti sono costituiti
necessariamente da elementi tratti da altri partiti politici.
Il partito politico finora predominante in
questa Provincia era il partito Demosociale, imperniato sui Deputati Grarino
Amella e Pancamo, (agli ordini di S.E. Di Cesarò) e Abisso. Col passaggio di
quest’ultimo al Fascismo, avenuto nell’Aprile, questo partito cominciò a
sgretolarsi. Gli elementi migliori passarono anch’essi, in buon numero al
Fascismo. E se è vero che il partito personale Abisso si va sempre più
rafforzando, è pur vero che il Fascismo sta prendendo uno sviluppo sempre più
grande e più saldo - anche perché questi elementi ex-demosociali sono assai più
sinceri degli altri.
In sostanza non deve credersi che sia il
partito Abisso che si faccia sgabello del Fascismo per rafforzarsi, ma è il
Fascismo che acquista realmente forza e compattezza dai numerosissimi elementi
che staccatisi come ho detto dalla Democrazia Sociale facente capo all’On.
Guarino, Pancamo e Di Cesarò, si sono appoggiati all’on. Abisso.
Al Ministero è noto come io abbia visto con
una certa diffidenza il passaggio dell’On. Abisso al Fascismo.
E’ per me doveroso ora dopo diversi mesi di
vigile esperienza porre in rilievo la disciplina e l’ossequio non solo
apparente, ma effettivo alle Direttive del Duce, dell’On. Abisso verso il quale
ora convergono le forze migliori della Provincia, forze che Egli dirige e
orienta risolutamente verso il Fascismo.
Il Fiduciario Provinciale, d’intesa con lui
ha potuto sistemare la posizione prima equivoca, ora chiara di parecchie
sezioni Fasciste, ha potuto costituirne delle nuove, e rafforzarne delle altre.
Non è quindi vero che il Fascismo non abbia
presa in Provincia di Girgenti. Questo forse poteva dirsi alcuni mesi addietro,
quando si verificò una stasi - da me segnalata - che avrebbe dovuto preludere
ad una grave crisi, dovuta sopratutto all’azione allora scarsamente efficace
del Fiduciario Provinciale, il quale era rimasto per oltre due mesi quasi privo
di autorità. Causa il ritardo della sua conferma. Ma la crisi fu superata e la
minaccia di essa, in certo modo, fu anche benefica. L’attività del P.F. fu da
me e dall’On. Abisso galvanizzata; molte opposizioni più o meno interessate
furono smontate. Il susseguirsi di importanti avvenimenti patriottici, che
riunivano in un solo patriottico sentimento importanti forze Fasciste, valsero
a guadagnare anche le simpatie della grande massa della popolazione la quale prima diffidente, segue ora con
vivissima simpatia, gli spettacoli sempre bellissimi di giovinezza di forza di
disciplina che le adunate Fasciste hanno dato modo di apprestare. A questo
aggiungasi la continua, dirò quasi sistematica, valorizzazione dei veri
combattenti, mutilati e decorati di Guerra, ai quali spesso per mio personale
intervento si sono aperti i Fasci, portandovi una cospicua forza morale.
Concludendo la situazione nei riguardi del
Fascismo è molto migliorata in confronto al passato, e non credo di peccare di
soverchio ottimismo, se affermo che essa migliorerà ancora di più e più si
chiarificherà.
Personalità cospicue di cui non si può
mettere in dubbio l’alto patriottismo e che hanno sempre combattuto palesemente
il sovversivismo mascherato da riformismo e da popolarismo, come l’On. La Lumia
ex Deputato assai molto stimato nella importante zona di Licata, e l’On.
Parlapiano Vella, altro ex Deputato, nella zona di Ribera e Bivona, hanno
sinceramente aderito al Fascismo.
Degli altri partiti anche in conseguenza
dell’azione da me svolta; il Socialista è ormai morto; il Riformista è ridotto
ai minimi termini, il popolare è in continua dissoluzione.
Gravi incidenti tra Fascisti, per l’urto di
tendenze diverse, in questa Provincia non sono mai avvenuti. Incidenti non
gravi, sono stati risolti tempestivamente, anche pel mio intervento diretto,
senza strascichi di ire e di odi.
La situazione, quindi, può dirsi veramente
buona, specie se si raffronta con quella di altre Provincie Siciliane. E
diventerà migliore se si potrà continuare nell’attuale indirizzo, se questo non
verrà modificato per l’intervento, per ora non necessario, di elementi che, per
quanto autorevolissimi, non sarebbero forse in grado di valutare, per la scarsa
conoscenza di questo ambiente, le condizioni specialissime di esso in rapporto
ai partiti ed alle persone. Unisco un prospetto riguardante i sindoli Comuni
della Provincia.»
La relazione - un vero e proprio resoconto di un propagandista del
fascismo - è comunque perspicua per chiarezza, esaustività, penetrazione
dell’ambiente socio-politico. Il Reale doveva avere entrature preferenziali a
Roma - anche in ambito della direzione del P.F. - se può accennare, in
conclusione, alla eventualità - che poi si verificherà appieno - della venuta
ad Agrigento di “elementi autorevolissimi”. E saranno costoro a cambiare il
volto del fascismo agrigentino.
Frattanto, valga il prospetto del prefetto Reale, ai nostri fini molto
significativo perché stranamento vi è omesso totalmente il paese di Racalmuto
che in questa ricerca è il nostro oggetto di studio.
«Provincia
di Girgenti
1°) - Comuni nei quali i Fasci hanno una posizione dominante: (su un
totale di 41)
Casteltermini -
Siculiana - Porto Empedocle - Sciacca - Caltabellotta - Santa Margherita -
Sambuca - Menfi - Montevago - Calamonaci - Campobello di Licata - Camastra -
Ribera - Licata - Naro - Canicattì (n.°
16)
2°) -Comuni nei quali esistono dei
Fasci, sui quali non è ancora possibile fare sicuro assegnamento, ma la cui
situazione migliora giornalmente:
Cammarata - S.
Giovanni Gemini - Castrofilippo - Grotte - Bivona - S. Stefano Quisquina -
Villafranca - Palma Montechiaro - Ravanusa - Realmonte - Montallegro -
Alessandria Rocca - Favara - Cattolica - S. Biagio Platani - Raffadali (n.° 17:
in effetti sono sedici: il dattilografo omise di battere forse Racalmuto
per mero errore. Se aggiungiamo questo paese torna il totale di n. 41 centri
dell’agrigentino, n. d.r.)
3°) - Comuni dove il Fascismo non
ha ancora presa, specialmente perché combattuto dalla mafia:
Comitini -
Burgio - Lucca Sicula - Cianciana - S. Angelo - Aragona A Lampedusa, data la
grande distanza, e la difficoltà delle comunicazioni marittime (una volta alla
settimana) nulla si è potuto ancora fare.
4°) - Girgenti -
Situazione non buona, ma discreta, a motivo della esistenza degli Stati
Maggiori - attivissimi - dei partiti Riformista (che fa capo all’On. La
Loggia), Popolare (che fa capo al prosindaco Gr. Uff. Sclafani e all’On.
Fronda), e dei residui del partito Demo-Sociale (On. Pancamo e Guarino). I
primi due, specialmente difendono ostinatamente le proprie posizioni.
Fra giorni si verificherà la crisi
nell’Amministrazione Comunale Popolare-Riformista.
Molto vi sarà da guadagnare pel
Fascismo se il R. Commissario che verrà prescelto saprà lavorare bene e
risanare moralmente e finaziariamente il Comune.»
Il prefetto Reale, alla fine dell’anno, diviene un vero e proprio
fiduciario del fascismo. Ecco, a dimostrazione, quanto scrive all’On. Avv.
Francesco Giunta - Segretario Generale del Partito Naz. Fascista - in data 11
dicembre 1923:
«Situazione
del Fascismo nella Provincia di Girgenti
Ottemperando allo incarico da V.S.
On. Affidatomi a Siracusa di vigilare e seguire da vicino il Fascismo in questa
Provincia, pregiomi riferire quanto segue:
E’ continuata più attiva che mai la
ingerenza del Grande Uff. Sacerdote
Sclafani, capo del Partito Popolare nell’organizzazione del fascismo
Provinciale.
Alla lettera originale a firma sac. Sclafani
in data 25 ottobre, da me mostratale a Siracusa, con cui egli offriva
l’incarico di costituire un Fascio in Comitini (dove non era stato possibile
finora la sua costituzione trattandosi di un comune infestato dalla mafia) ad
un tale Dr. Bongiorno, congiunto di un capo della mafia locale, si sono
aggiunti altri gravi elementi.
E’ infatti in mio potere una dichiarazione
del Maggiore Cav. Orestano R. Commissario di Palma, con cui attesta che il Sac.
Sclafani inviò una lettera analoga al Sac. Zimmili per richiedere “il nome di
persona fidata al P.P. da far passare subito al Fascismo e da incaricare della
ricostituzione di quel Fascio”.
E’ pure in mio potere un rapporto del
Colonnello Sindico, R. Commissario di Raffadali, col quale mi informa che a
costituire il fascio di Joppolo “fu incaricato certo Onorio Sacco, alter
ego del Sac. Camilleri, capo del P.P. che
egli dirige secondo gli intendimenti di Padre Sclafani”.
E non più tardi di ieri ho potuto constatare
de visu perché mi trovavo sul posto,
un abboccamento tra il Sac. Sclafani e il Sindaco di Porto Empedocle. Da
informazioni certe mi risulta che lo Sclafani d’accordo col detto Sindaco
intende di riorganizzare quella Sezione Fascista, per asservirla ai suoi fini.
E non posso passare sotto silenzio un
episodio che non conferì certo serietà all’azione del Fiduciario nella
riorganizzazione del Fascio di Sciacca.
Giova premettere che egli anziché seguire le
direttive opportunamente dategli da V.S. On., di “lasciare in disparte gli
elementi dei vecchi partiti” incaricò della costituzione del fascio di Sciacca,
fra gli altri l’avv. Giuseppe Imbornone di oltre 60 anni che mai era
stato Fascista, bensì era in quest’ultimo periodo, riformista tanto che
aveva nello scorso anno partecipato ad un banchetto in onore dell’On. La
Loggia.
A prescindere dal fatto che l’Imbornone era
stato candidato politico bocciato per due volte, la sua scelta era inopportuna
perché cognato e suocero rispettivamente di Corrado Turano e vella
Gaetano, l’uno detenuto nelle Carceri di Sciacca, come capo di una vasta
associazione a delinquere; l’altro espluso dal Fascismo perché affiliato alla
maffia consenziente il Fiduciario Provinciale.
L’Avv. Calogero Guarino, capitano degli
Arditi, decorato e ferito, essendosi
dimesso dalla Commissione di reggenza per protestare contro
l’infiltrazione popolare, voluta dagli altri due membri riceveva da Girgenti un telegramma a
firma Dima con cui si accettavano le sue dimissioni, e quasi simultaneamente ne
riceveva un altro da Roma, a firma dello stesso Ing. Dima che gli riconfermava
lo incarico.
Tali provvedimenti contraddittorii, oggetto
di salaci commenti, valsero a dimostrare che a Girgenti qualcuno sostituisce il
Dima, e dà importanti disposizioni senza neanche interpellarlo. Inutile
ripetere chi possa essere questo qualcuno.
E così a Sciacca in luogo della Sezione
sorta nel 1920 esiste ora un piccolo Fascio trucco composto prevalentemente di
popolari.
A Menfi, altro centro dove i combattenti e i
mutilati, organizzati sin dal 1919, si erano trasfusi nel Fascismo, fu
incaricato della reggenza, insieme ad altre figure insignificanti, il Gr. Uff.
Bivona, di 75 anni, il quale nelle elezioni del 1919 distribuì i voti di cui
disponeva fra la lista di Nitti e quella di Don Sturzo; nel 1921 li diede alla
lista Verderame, voti annullati dalla Giunta delle Elezioni per corruzione. Nel
1922, il Bivona fu successivamente riformista (La Loggiano) e popolare
(Sturziano). Ora è a capo del Fascismo di Menfi, dove fece nominare Segretario
Politico Berto Ravedà, intimo congiunto del Segretario Provinciale del P.P. Sturziano
Avv. Molinari.
A Licata il Fiduciario Provinciale dopo
avere tolto l’incarico al signor Ettore Sapio amico e parente dell’On.
Verderame lo affidò ad una Commissione di Reggenza alla quale pure lo tolse per
riaffidarlo al Sapio.
Ciò, nel giro di pochi giorni, ha arrecato
grave pregiudizio al partito anche perché è notorio che l’Ing. Dima aveva
chiesto al Generale Starace, l’espulsione del Sapio per indegnità.
La Sezione Fascista di Licata è ora una succursale del partito riformista,
che, è bene si sappia, in questa Provincia fa causa comune coi popolari.
Analoghe repentine metamorfosi si
verificarono a Bambuca di Sicilia.
In taluni Comuni della Provincia, refrattari
al Fascismo perché completamente asserviti alla maffia (Cianciana - Burgio -
Aragona - Comitini - Favara) non era stato possibile - anche perché io mi ero
opposto risolutamente - costituire dei Fasci. In queste ultime settimane,
all’unico scopo di procurarsi segretari politici disposti a votare per la sua
rielezione il Fiduciario fece sorgere per incanto delle sezioni Fasciste,
composte di elementi apertamente devoti all’On. La Loggia, o al partito
popolare.
Il Fiduciario Provinciale, sapendo della mia
opposizione ad un Fascismo così impuro ed equivoco, non mi avvertì neppure
della costituzione di questi Fasci.
Le elezioni compiute per la ricostituzione
dei direttorii, tranne che a Girgenti nella prima votazione durante la mia
assenza, sono procedute ordinate, senza dar luogo a incidenti o proteste.
Specialmente la seconda votazione a Girgenti si svolse calmissima.
I risultati finora furono i seguenti:
1°) A Girgenti riuscì la lista dei vecchi
fascisti con carattere di opposizione al Fiduciario Provinciale.
2°) A Canicattì riuscì una lista ostile al
Fiduciario Provinciale composta quasi tutta di ex Ufficiali combattenti e
decorati con a capo il valoroso Generale Gangitano più volte decorato al valore
e ferito.
3°) A Porto Empedocle riuscì una lista degli
elementi uscenti, fascisti di vecchia data, contrarii al Fiduciario.
Vi furono anche elezioni in comuni di minore
importanza: Casteltermini, Bivona, Siculiana e Palma con risultati varî.
In complesso però si è creata una situazione artificiosa specie in queste
ultime settimane per effetto della sovrapposizione degli elementi popolari, riformisti,
alla gerarchia Fascista.
I maggiorenti demosociali si mantengono per
lo più inattivi nella incertezza dell’atteggiamento da assumere di Fronte al
Governo Fascista. Una organizzazione veramente forte e seria del Fascismo, ne
potrebbe diminuire di molto l’efficienza. Le Sezioni di vecchia data, in gran
parte ostili al Fiduciario Prov. Intendono affermarsi sul nome del predetto
Generale Gangitano, come Segretario Politico Provinciale, il quale ha sempre
combattuto apertamente la Democrazia Sociale. Per evitare questo pericolo si
minacciano nuovi scioglimenti da parte della Federazione Provinciale.
Per conto mio, ho ritenuto conveniente
mantenermi del tutto estraneo al movimento fascista di quest’ultima fase. E ho
pur dato disposizioni affinché i funzionari dipendenti si astenessero da
qualsiasi ingerenza.
Tali direttive sono state rigorasamente
osservate.
Date le circostanze di fatto sopra riferite
e delle quali potrei occorrendo dare la documentazione, ritengo di dover
confermare la proposta che ebbi l’onore di farLe a Siracusa e cioé lo scioglimento della
Federazione Provinciale, con la nomina di una Commissione di Reggenza che
proceda ad una rigorosa revisione delle Sezioni ed il rinvio delle elezioni.
In linea subordinata ritengo che si debba
negare il riconoscimento alle Sezioni di Comitini, Favara, Cianciana, Burgio,
Bivona, Joppolo e Aragona.
Infine per la ricostituzione delel Sezioni
di Licata, Sciacca, Menfi e Sambuca, dove le condizioni sono favorevoli allo
sviluppo di un forte e sincero Fascismo, propongo che vengano rigorasamente
seguite le direttive opportunamente dalla S.V. On. Date coll’ordine del giorno
emesso a Siracisa, affidandone la riorganizzazione a elementi estranei
all’ambiente, e non asserviti ai vecchi partiti locali.»
La peculiarità di Agrigento di un fiduciario a capo della federazione
fascista provincila si trascinò sino al 26 gennaio 1924. Sotto tale data venne
incaricata di regge il fascismo agrigentino una Commissione Straordinaria, come
aveva proposto il prefetto Reale in via principale. Tale Commissione si resse
sino al 17 aprile 1924, quando venne eletto tal Girolamo Galatioto, che durò
sino al 4 aprile 1925. Dopo abbiamo un certo Paladino Raffaele, che a diverso
titolo, fu capo del fascismo agrigentino sino al 13 settembre 1925. Quindi è il
tempo del celeberrimo Achille Starace che fu commissario straordinario del
federazione di Agrigento dal 13 settembre 1925 al 17 maggio 1926. Il 17 maggio
1926 subentra l’On. Angelo Abisso: esso è il federale di Agrigento sino al 29
dicembre 1927.
Questi sono i suoi successori:
1. D’Andrea Calogero dal 29 dic. 1929 sino
al 14 gennaio 1931;
2. Basile Carlo Emanuele dal 14 genn. 1931
al 17 aprile 1931 (Commissario Straordinario);
3. Morello Vincenzo dal 17 aprile 1931 all’
11 giugno1932;
4. Puccetti Corrado dall’11 giugno 1932 al
6 febbraio 1933;
5. Gaetani Alfonso dal 6 febbraio 1933 al
1° aprile 1937;
6. Guggino Emerico dal 1° aprile 1937 al 4
aprile 1940;
7. Di Marsciano Ermanno dal 4 aprile 1940
al 3 maggio 1943;
Ufficialmente, la Federazione fu costituita il 15 novembre 1922. I
personaggi che si sono succeduti alla sua guida non sono tutti di grosso
risalto. Alcuni dati biografici aiutano a comprendere l’altalenare di personalità
a vario spessore che si registra nella direzione del fascismo agrigentino.
Dima Narciso
Laurea in ingegneria - assicuratore. Iscritto ai fasci sin dal 1919.
Fiduciario della Federazione dal 15 novembre 1922. Agente generale dell’INA per
Girgenti.
Galatioto Gerolamo
nato a Ravanusa (Ag.) il 10 agosto 1894. Partecipò alla guerra del
1915-18 con il grado di tenente di fanteria. Ebbe due medaglie di bronzo.
Paladino Raffaele
nato a Floridia (Sr) il 10 gennaio 1884. Laurea in lettere, insegnante.
Figlio di Esattore Comunale. Socialista rivoluzionario; interventista;
nazionalista. Iscritto al Fascio nel 1920. Espulso dal PNF nel marzo 1926
«quale elemento disgregatore», fu riammesso nel maggio successivo. Non aderì
alla RSI.
Starace Achille
«”Buttatelo giù per le scale”, fu l’urlo di
Mussolini che scacciava definitivamente Starace dal’anticamera della Sala del
Mappamondo a Palazzo Venezia. Il “duce” lo aveva privato di ogni carica e di
ogni onore in breve tempo. Nel ‘39 Starace dovette dimettersi da segretario del
partito fascista e nel ‘41 da capo di stato maggiore della milizia: la sua
stella era tramontata per sempre. Cominciarono per lui gli anni delle
umiliazioni e della misera che non ebbero più termine fino al giorno della sua
esecuzione in Piazzale Loreto a Milano, il 29 aprile 1945.» [48]
«La sua vicenda personale non si chiude in
se stessa, maè il riverbero di un costume che andava mutando, la sua biografia
è anche il racconto della vita esemplare d’un gerarca fascista assai potente,
di una sacra autorità del Ventennio. E’ uno specchio in cui si riflettevano gli
italiani del Littorio irreggimentati in una coreografia alienante di cui
Starace era regista discusso e irriso ma ubbidito.
«La condanna del fascismo è nelle cose di
tutti i giorni e negli eventi della storia. Rovesci e sciagure furono
addebitati al regista, come conseguenza d’un’apparente organizzazione del
partito che non poteva reggere alla prova del fuoco. Di lui si fece un capro
espiatorio. Misero tutto sul suo conto. Lo distrussero, e forse lo meritava.
Mussolini lo scacciò, e forse aveva buone ragioni per farlo. L’ingranaggio
ormai lo stritolava e nessuno poteva riabilitarlo. Cercò di risollevarsi da
solo, con una morte dignitosa davanti al plotone d’esecuzione.» ([49])
Nel “carteggio riservato” della Segreteria particolare del Duce,
custodito nell’Archivio Centrale dello Stato di Roma, ben tre voluminosi
fascicoli riservati ([50]) sono
destinati allo Starace. Vi è di tutto. Mussolini lo seguiva in tuttto. Dalle
cose pruriginose (pederastia, tradimenti tra fratelli, orge) a quelle
invereconde (le celebri avventure galanti) ai latrocinii, alle concussioni. La
parentesi agrigentina di Starace vi emerge per gli aspetti più inquietanti: la
sua amicizia con Abisso fu molto interessata. Non è provato, ma niente
smentisce la miserevole vicenda dei tanti soldi spillati all’on. La Lumia di
Licata dietro promessa di una resurrezione politica.
Un anonimo faceva al “duce” in data 28/5/1932 questa delazione ([51])
«A S.E. Benito Mussolini - Ministro degli Interni,
Roma - Dopo un lavoro faticoso e pericoloso di spionaggio, ho potuto appurare i
dati di fatto che vengo ad esporVi, nell’interesse generale del Fascismo e
particolare della Provincia di Agrigento.
«Da parecchi anni l’On.le La Lomia,
politicamente di Licata, corrisponde la somma di lire cincquantamila annue
all’On.le Starace.- Detti pagamenti, che ad oggi ammontano a £. 350.000 sono
stati fatti direttamente con vaglia bancari girati dallo stesso all’attuale
Segretario del Partito, oppure a mezzo del Senatore Abisso, difensore della
delinquenza siciliana. Per detta somma l’On. Starace, fin dalla sua gestione
commissariale nella provincia di Agrigento, si è impegnato di difendere
l’associazione Abisso-La Lomia fino alle estreme conseguenze. In conseguenza di
questo fatto l’On. Starace ha inviato come Questore di Agrigento il Comm. Papa,
che appena arrivato in sede si è premurato di chiamare al telefono il Comm. Lo
Dico, ex Preside della Provincia di Agrigento, al quale comunicava un discorso
cifrato, in seguito al quale, dopo pochi giorni, avveniva nei pressi di Porto
Empedocle .. nel villino campestre del
detto Lo Dico , una riunione segreta alla quale partecipavano, il Questore, Lo
Dico, il senatore Abisso, il dott. Di Leo Calogero sanitario del comune di
Sciacca e fratello del Segretario Federale Agrigentino in pectore, il
dottore Venezia medico chirurgo dentista di Sciacca, fervente propagandista repubblicano, l’nsegnante Castellana Alfonso di Lucca Sicula,
il cav. Liborio Friscia di Ribera, il Capo Manipolo Friscia Gaetano di Ribera,
il Marturana Salvatore di Agrigento, alcuni rappresentanti dell’On.le La Lomia
ed altri Abissiani della Provincia.
«Scopo della riunione fu di impartire
disposizioni perché fosse fatto molto rumore in Provincia per la promessa
dell’On. Starace del rovesciamento imminente della situazione politica
provinciale.
«In seguito a tale riunione infatti in vari
paesi della Provincia furono sguinzagliati degli agenti provocatori che
tentarono dappertutto di sollevare incidenti. A prova della veridicità della
promessa dell’On. Starace in quella riunione l’On.le Abisso riferì per
comunicazione avuta dall’On. Starace che il ritardo del provvedimento di
rovesciamento si doveva al fatto che presso la magistratura di Sciacca giaceva una
pratica per la riesumazione di un processo di associazione a delinquere per
stabilire se il padre del futuro Segretario Federale di Agrigento fosse stato a
suo tempo coinvolto in detta associazione. Al che il Questore Papa prese la
parola assicurando ‘in ogni caso la Segreteria Federale sarà data a persona che
pur sembrando neutrale tuttavia sarà al completo servizio del Senatore
Abisso’».
Nella permanenza ad Agrigento, l’On. Starace ebbe modo di incontrarsi con
due uomini politici: l’on. Abisso e l’on. Cucco; del primo ne consolidò la
fortuna, del secondo ne stabilì l’umiliante radiazione dai ranghi (almeno sino
al 1939). La lotta alla mafia non c’entra affatto. Diversamente la sorte dei
due politici siciliani doveva esse parallella, identica essendo la radice
mafiosa.
L’on. Abisso fu tanto camerata dell’On. Starace da seguirlo in scandalose
frequentazioni di donnine romane. Le spie di Mussolini riferivano. Ma senza
effetto.
Abisso Angelo
E’ figura centrale dell’agone politico agrigentino, almeno dal 1913 sino
al 1933 quando il nobile Gaetani diviene federale di Agrigento. Equilibrismi
polticici, repentine conversioni, tradimenti, trasformismo determinano un
effetto alone sul personaggio, che resta equicoco, indefinibile, moralmente
opaco. Ciò trascende l’angusta economia di questa ricerca per il doveroso
approfondimento.
Al nutrito partito di fiancheggiatori - sprezzantemente chiamati
abissisiani - si contrappone quello dei denigratori ad oltranza. Nelle carte di
archivio abbondano le denunzie, le calunnie, le insinuazioni. L’on. Abisso
finisce nell’osservatorio della Segreteria particolare del Duce che apre a suo
carico un folto fascicolo informativo. ([52]) Il
potente amico Starace riesce, in ogni caso, a parare i fulmini mussoliniani. La
stella politica di Abisso potè appannarsi alla fine, ma non si oscurò per tutta
la durata del fascismo.
D’Andrea Calogero
Nato a Campobello di Licata (Ag) il 30 maggio 1877, si laureò in
giurisprudenza. Fu avvocato ed insegnante. Partecipò alla guerra del 1915-18
col grado di capitano, poi maggiore di fanteria. Iscrittosi al fascio il 20
novembre 1922, fu preside dell’Istituto Tecnico di Agrigento. Rivestì anche la
carica di Vice Preside dell’Amministrazione Provinciale di Agrigento. Non aderì
alla R.S.I.
Basile Carlo Emanuele
nato a Milano il 21 ottobre 1885, morì a Stresa il 1° novembre 1972.
Barone plurilaureato (giurisprudenza e lettere), giornalista e scrittore, era
figlio di un prefetto. Fu nominato senatore. E’ autore di romazi e novelle.
Aderì alla R.S.I. e fu quindi prefetto di Genova dal 25 ottobre 1943 al 26
giugno 1944. Ebbe l’incarico di sottosegretario alle FF.AA dal 27 giugno 1944.
Venne ad Agrigento come commissario straordinario di questa federazione per
consentire una svolta in termini di affrancamento dalla influenza dell’On.
Abisso. Vi restò dal 14 gennaio 1931 fino al 17 aprile 1931. Passò le consegne
alla scialba figura di Vincenzo Morello di cui sappiamo che fu fascista fin dal
1920. L’11 giugno 1932 viene sostituito da Corrado Puccetti: da questo momento
la vicenda della federazione agrigentina esula dai limiti della presente
investigazione storica.
Quale giudizio può formularsi sul primo quindicennio del fascismo
agrigentino (1921-1926)? Ci pare illuminante, pur nel suo settarismo e nella
passionalità per il ribollire delle passioni del tempo, la sguente anonima
delazione che si rinviene nella carte ministeriali romane ([53]):
«La storia politica della provincia di
Girgenti, [Girgenti cambia denominazione in Agrigento durante il fascismo,
nel 1927, con il r.d. 16 giugno 1927, n.° 1143, n.d.r.] specie nell’ultimo quindicennio, rappresenta quanto di più
deplorevole possa esservi nella vita pubblica italiana. Sparitò l’on. Nicolò
Gallo, che dal 1884 ne fu quasi ininterrottamente il dominatore, il suo posto
venne assunto dall’on. Domenico De Michele. Costui, ch’era stato del Gallo il
luogotenente fedele non aveva di lui né l’ingegno né la dottrina né
l’ascendente, ma seppe mantenersi al potere col favore di S.E. Giolitti, del
quale fu seguace fedelissimo, e creando attorno a sé una rete di interessi e di
interessati. Contro questa oligarchia, bollata col nome di cosca,
insorsero le forze nuove della Provincia ch’ebbero come principale loro
esponente Giovanni Guarino Amella. Sono ancora ricordate le polemiche, spesso
virulente, dell’organo dell’opposizione “IL MOSCONE”, nel quale al De Michele
ed ai suoi seguaci si fecero le accuse più atroci e più infamanti.
«In tali consizioni di cose venne
l’allargamento del suffragio e vennero le elezioni del 1913, nelle quali le
forze dell’opposizione riuscirono vittoriose e furono eletti deputati Giovanni
Grarino Amella, Antonino Parlapiano Vella e Angelo Abisso. Costui, fino a pochi
mesi prima semplice segratario al Ministero dei LL. PP., aveva compreso
l’enorme capovolgimento che il suffragio universale avrebbe prodotto nelle
imminenti elezioni e , dimessosi, si era lanciato a capofitto nella lotta,
aggregandosi alle file dell’opposizione, ma proclamandosi “individualista e
simpatizzante per i socialisti (discorso politico del 1913 a casa Gerardi)”
«Ma l’opposizione, divenuta maggioranza ed
impadronitasi del potere politico ed amministrativo in provincia, non credette
di meglio che di .... seguire i metodi dei precedenti padroni, anzi di
perfezionare e incrementare tali metodi. Il nepotismo più sfacciato, il
favoritismo più aperto furono regola di vita per essa, e poichédopo pochissimo
tempo scoppiava la guerra, se ne trasse motivo per inaugurare in provincia il
più sconfinato dispotismo. Messo da parte l’on. Antonino Parlapiano, che per
temperamento e per tradizione non era adatto a seguire in tutto e per tutto i
metodi della nuova cricca, questa s’imperniò sul binomio Guarino-Abisso, i
quali durante la guerra furono i dominatori incontrastati di tutti gli organi
amministrativi, statali e parastatali della provincia. Non solo
l’amministrazione provinciale propriamente detta e quella dei varii comuni
passò nelle loro mani ed in quelle delle loro creature; non solo per avere più
incontrastato dominiol’on. Abisso ad es. Tenne a Sciacca, malgrado il Consiglio
comunale - pu da lui eletto - non fosse sciolto, un Commissario prefettizio di
sua scelta per ben 5 anni; ma Consorzio granario, Commissione esoneri,
Consiglio d’amministrazione del Banco di Sicilia etc. etc. Commissioni militari
di requisizione furono accentrati nelle loro mani direttamente o a mezzo di
persone parenti od amiche. Quello che fu fatto al Consorzio granario, gli
scandali delle varie Commissioni di requisizione, nelle quali era magna pars
il comm. Lo Dico odierno alter ego dell’on. Abisso in quel di Girgenti,
non hanno bisogno di illustrazione, perché ancora se ne occupano le cronache
dei tribunali con i varii processi, ancora non chiusi, di truffe, falsi e
malversazioni a carico dello Stato, commesse tutte sotto le grandi ali dei due
grandi patroni della provincia. E mentre i due facevano a Roma professione
d’interventismo, e l’on. Abisso indossava la divisa di tenente del genio ma,
sebbene appena trentenne, non andava al fronte pur facendosi bello dell’amicizia
di Valentino Coda (dove mai l’ebbe a conoscere resta sempre un mistero!); a
Girgenti e Palermo si cooperavani per imboscare il maggior numero di gente,
fratelli, cognati e cugini; per esonerare come agricoltori barbieri e
murifabbri, e per difendere avanti ai tribunali militari il maggior numero di
disertori o di falsificatori di esoneri. La cronaca del tribunale militare di
Palermo informi. Si cominciava così da parte dell’on. Abisso a creare quella
leggenda d’irresistibile avvocato penalista, che, stabilitosi pieno ed
intero il suo dominio politico, gli doveva assicurare il monopolio delle
Assisie di Sciacca e Girgenti e la fama di “detentore delle chiavi del
carcere”.
Appartiene a questo periodo la persecuzione
inflitta dall’on. Abisso, attraverso a tre inchieste tutte quante negative, ad
un capitano - Gravina - reo di aver preso in contravvenzione lo zio di lui
Friscia per vendita illecita di grano requisito; contravvenzione sfumata per il
tempestivo intervento del Commissario dei Consumi che svincolava “a posteriori”
il grano venduto. Ed appartengono a questo periodo i contorcimenti politici
dell’Abisso e la smargiassata della “messa in stato di accusa dell’on. Giolitti
per altro tradimento” da lui chiesta a S.E. Salandra e da questi qualificata
come una semplice “sciocchezza” del deputato di Sciacca. Ciò che però non
impediva, all’on. Abisso, al feroce interventista del ‘15, di divenire, appena
Giolitti tornò al potere, di divenire un giolittiano ferventissimo, anzi il
luogotenente generale dell’uomo di Dronero in quelle famigerate elezioni del
1921, e di chiedere e di ottenere da lui, alla vigilia dell’elezioni istesse,
la nomina a commendatore motu proprio, affissa poi subito alle cantonate di Sciacca e provincia
col relativo telegramma di S.E. Giolitti.
«Venne il dopoguerra e venne di moda il
bolscevismo. Ed allora Guarino ed Abisso, ma questi più del primo, entrambi
però sempre in combutta tra di loro, provvidero a dare alla provincia di
Girgenti il saggio migliore e maggiore del’opera bolscevica. Le occupazioni delle terre di Ribera e Menfi,
ma sopratutto quelle di Ribera, col tentato sequestro del Duca di Bivona e con
i vandalismi conseguenziali, furono opera diretta, ispirata, suggerita e
talvolta predisposta dall’on. Abisso. Il quale arrivò persino ad ottenere che
l’autorità politica impedisse l’esecuzione delle sentenze del magistrato (come
per il rilascio del feudo Scifitelli disposto con sentenza della Corte di
appello, ed impedito dal Prefetto di Girgenti!). Né si dica che ciò egli abbia
fatto per venire in soccorso ai combattenti, perché di tali occupazioni poco o
nulla si sono giovati gli autentici combattenti e le terre, quando non sono
state retrocesse ai proprietari per inadempienza delle pseude cooperative da
lui create, sono andate a finire in mano a gente che la guerra non vide neanche
da lontano. Esempio la lottizzazione dell’ex feudo Nadore in quel di Sciacca,
dell’ex feudo Fiore e Bertolino di Menfi; e, uno per tutti, l’esperienza
disastrosa della celebre Cesare Battisti di Ribera.
Intanto alla Camera il binomio, per
sorreggersi, seguiva una linea di condotta veramente meravigliosa. Data
l’instabilità dei governi, i due, per trovarsi a cavallo, non votavano assieme
se non quando l’esito della votazione era sicuro; ma quando si trattava di
votazione incerta i due demo-sociali (giacché Abisso aveva finito per
rinunciare al suo individualismo e seguire l’amico Guarino anche nel partito di
S.E. Di Cesarò) o si dividevano votando uno contra ed uno a favore, oppure,
mentre l’uno si squagliava, l’altro votava a favore. Così i due poterono
rimanere ministeriali con tutti i ministeri ed essere fautori e sostenitori di
quei Governi imbelli del passato, contro di cui così spesso e volentieri, con
riconoscenza ammirevole, ora si scaglia ogni tanto il fascista on.
Abisso. Il quale una sola volta dovette passare per oppositore, quando cioè
l’on. Nitti, accortosi ch’egli erasi prudentemente squagliato in una votazione
non volle accettare le congratulazioni che s’era affrettato a fargli dopo
conosciuto l’esito favorevole del voto! E ministeriali furono persino col
ministero Fatta [Facta, n.d.r.] del
quale uno dei due avrebbe volentieri fatto parte se i popolari non si fossero
opposti facendo a loro preferire il La Loggia.
«Intanto il movimento fascista andava
montando, e lo Abisso, sempre tempista e previdente, disponeva che nei varii
comuni della provincia sorgessero delle sezioni fasciste composte da persone a
sé fide, ma di seconda mano; gente di scarto e sfiduciata al doppio scopo
d’impedire che la gente per bene potesse accostarsi e far proprio il movimento
e di poterlo sconfessare, e buttare a mare gli esponenti stessi senza sua
compromissione, ove il movimento fosse fallito. Né appena avvenuta la marcia su
Roma egli permise che quelle sezioni s’ingrossassero sia con elementi proprii, sia permettendo
l’ingresso di altri elementi estranei alla cricca, non essendo sicuro che il
regime potesse consolidarsi. Ma quando capì che esso ormai durava, allora fece
il gran passo, si separò dal Guarino ed entrò nel fascismo con tutti i suoi
adepti.
«Da quel giorno è stata sua cura costante
non solo di sfruttare nel modo migliore, a vantaggio proprio dei parenti e dei
gregari, la sua posizione dominante; ma sopratutto quella di allontanare dal
fascismo tutti coloro che gli potessero dare ombra costringendo l’elemento
migliore della provincia o a fare del dissidentismo o a starsene a casa o a
passare addirittura all’antifascismo. Del resto non potrebbe essere
diversamente. Infatti in provincia il fascismo non esiste, come del resto non
esiste antifascismo: non c’è che dell’abissinismo e dell’antiabissinismo. Anche
coloro che odiano il fascio possono esservi ammessi purché passino sotto le
forche caudine dell’omaggio e dedizione ad Abisso ed ai suoi luogotenenti. Di
esempii se ne possono citare a migliaia, ma noi citeremo i più gravi ed
importanti.
«Sciolto il Consiglio comunale di S. Stefano
Quisquina, poiché i veri fascisti di colà non erano da lui benvisti, egli volle
che il Fascio fosse rappresentato dai sigg. Vincenzo Ippolito e Con
osservanza., cioè dagli autentici maffiosi del luogo. E costoro ebbero
l’amministrazione comunale e furono i padroni del paese finché, passati
sinceramente o no poco importa, al fascismo i socialisti del luogo e denunciato
in alto loco i precedenti degli amministratori scelti dallo Abisso, costui fu
costretto di abbandonarli al loro destino.
«Così in Alessandria della Rocca non ha
esitato a silurare i vecchi fascisti del luogo, rei di poca arrendevolezza a
lui, per accogliere e mettere al loro posto un suo ex-compagno demo-sociale
reduce dal comitato aventiniano-matteottiano di Girgenti.
«Né basta. Abbattuto il La Loggia egli non
ha esitato a fare rivolgere invito ai partigiani di quello perché passassero
nelle sue file, e bastò che il dott. Traina di S. Margherita, anifascista
nell’anima, si ponesse a sua personale discrezione, perché egli senz’altro gli
lasciasse il dominio del paese abbandonando i suoi vecchi compagni, che
rappresentano il minor numero.
«Quello però che dimostra viemmeglio quale
sia lo spirito che anima lo Abisso, è dimostrato dal suo accordo col’ora
defunto on. De Michele. Costui, dopo la caduta, era passato nelle file del La
Loggia di cui fu fino ad ieri il seguace più ostinato, anche perché i Baiamonte
suoi oppositori nel paese natìo di Burgio erano passati al fascismo.
«Caduto il La Loggia, il De Michele fece
degli approcci per passare al fascismo, e poiché i Baiamonte avevano mostrato
di avere delle preferenze per il prof. Noto Sardegna, inviso allo Abisso perché
a lui superiore per intelligenza, cultura e ... tutt’altro, questi non esitò a
dimenticare il passato e ad ammettere il De Michele nel direttorio provinciale
dietro promessa di appoggiare, contro Noto, certo Ciaccio un vero Carneade di
Sambuca, come possibile candidato del Collegio di Bivona. Ed i Baiamonte furono
cacciati in galera!
«Del resto che lo Abisso faccia del fascismo
a suo uso e consumo lo dimostra un fatto per quanto piccolo e materiale: a
Sciacca, sua cittadella, si sono spese dal Comune fior di quattrini per creare
un lussuoso circolo ANGELO ABISSO, che tutti i fascisti, sopratutto se
impiegati, debbono frequentare; mentre per la Sezione del Fascio esiste una
stanzetta angusta che sta quasi sempre serrata.
«Non parliamo poi dei criteri amministrativi
seguiti al Comune di Sciacca. Due Consigli comunali, sebbene da lui eletti e
composti tutti suoi gregari, si sono dovuti dimettere rei soltanto di aver
voluto qualche volta ribellarsi agli ordini dello zio Salvatore Friscia, un
ex-rappresentante che ha monopolizzato, durante la guerra attraverso al
monopolio dei permessi d’esportazione, ed oggi attraverso altri sistemi, il
commercio locale, e che crede il Comune essere cosa sua personale. Ed oggi si
propone come podestà un impiegato di prefettura, mentre non mancano nel partito
gente idonea alla carica, per il timore, confessato, che queste possano avere,
dopo nominate, delle velleità d’indipendenza agli ordini delll Abisso e del suo
luogotenente!
«Del resto lo stesso sistema si segue negli
altri comuni. A Menfi alter ego dell’Abisso, è certo Volpe, un contadino semi
analfabeta, ma esecutore fedelissimo degli ordini ch’egli gli dà e suo
rappresentante ... anche negli affari professionali; a Girgenti domina
incontrastato in suo nome il Comm. Lo Dico, reduce dei fasti delle Commissioni
di requisizione, e che pur essendo un semplice procuratore legale NON laureato,
divide con lo Abisso i maggiori trionfi in Corte d’Assisie.
«Perché poi la piaga maggiore che il dominio
di quest’uomo ha portato in provincia, è la difesa assunta della peggiore
delinquenza, l’esautoramento completo della giustizia. [...] [Anonimo del
14.10.1926, n.d.r.]»
Lo spaccato è senza dubbio tutto in negativo e va accettato per quel che
vale: ma qualche luce la riverbera sul quel periodo. Uno dei suoi limiti più
vistosi è quello di limitare lo sguardo critico alla sola parte occidentale di
Agrigento. Per la restante parte disponiamo di altre carte riservate, anonime
ma informate, che ben si prestano a fornirci altri spunti critici.
L’anonimo proviene da Naro ed è datato: 15 settembre 1931. Qui viene presa di mira la fazione dell’On.
Riolo.
«Eccellenza - esordisce ([54]) - In nome di sedicimila coscienze, ancora non
vendute né aggiogate al carro del banditismo locale, si ha l’onore di farVi
conoscere quanto segue:
«La Sezione del P.N.F. venne istituita in
Naro nel Novembre del 1922 da pochi giovani animosi, di pura fede nostra, i
quali per riuscire SOLAMENTE AD ACCAMPARSI tra le rive di questa mefitica
palude politica dovettero sfidare tutte le ire e scavalcare tutti gli ostacoli,
opposti al loro sano e santo entusiasmo dagli altri Partiti locali, in modo
specialissimo da quella vera associazione a delinquere che fu il così detto
partito della democrazia social massonica.
«L’avvento del Fascismo al potere avrebbe
dovuto segnare la scomparsa di quella più vera e maggiore piaga di Egitto, ma
le prepotenze, le intimidazioni, le corruzioni, l’intrigo fecero sì che la
“COSCA” provinciale (facente capo allora all’on. Abisso, capo riconosciuto di
tutta la mala vita urbana e rurale) si mantenesse a galla e così nella prima
elezione politica fascista (1924) l’avv. Salvatore Riolo Specchi venne
compreso, tra lo stupore e la indignazione di tutti, nella lista Nazionale.
«Conseguenze dirette della candidatura e
quindi della elezione di questo oscuro satellite abissino furono:
1°) = L’ingresso di tutti i demo social
massonici nella sezione del Partito Fascista di Naro;
2°) = La caduta del direttorio locale e la
sostituzione di tutti i membri di questo, per imposizione del Deputato, con
elementi di pura marca Riolana;
3°) = L’automatico allontanamento dalle
cariche e anche dalle fila del Partito dei fascisti della prima ora.
«Da quel giorno sino ad oggi tutto l’immenso
ritmo fecondo di idee e di opere del regime è stato costretto a vivacchiare, in
servitù sterile e semi-boccaccesca, tra una parete e l’altra dell’allegra
dimora della signora TITA RINALDI RIOLO la quale ha voluto dividere col marito,
assiduamente, l’onere e l’onore di governare le sorti e la storia nuove del
paese, ad esclusivo beneficio della sua famiglia naturale e politica. Da allora
sino ad oggi, senza uno scarto, senza rossori, con la medesima flemma vuota e
sorniona, tutte le cariche del Partito, distribuite patriotticamente in
famiglia sono sate occupate nel modo seguente:
AVV. COMM. SALVATORE RIOLO SPECCHI - Classe
1876
Deputato alla Camera. Capo, di nome se non
di fatto del P. Fascista locale. Ex imboscato e protettore di imboscati ed
autolesionisti. Presidente del Consorzio granario durante la guerra, a
Girgenti. Capo della massoneria paesana e gran fratello di quella provinciale.
Attualmente, si dice, è dormiente. Venne incluso nella lista Nazionale con
questa esilarante menzogna: “PER ESSERSI COSTANTEMENTE OCCUPATO DEI PROBLEMI
DELL’AGRICOLTURA” = mentre qui è notorio che egli di agricoltura non conosce
neppure l’ortica. Tipo vano e vuoto ma ambiziosissimo sarebbe capace, pur di
conservare la medaglietta, di accodarsi anche a Don Sturzo, com’ebbe un giorno
cinicamente a dichiarare nella farmacia Bellomo: per sincerarsi chiedere
informazioni a costui e ad un reverendo Polizzi, se questi due individui sono
disposti a servire la verità. Espertissimo nell’intrigo e nelle pastette sa
conciliare le opposte tendenze e le sfrenate ingordigie di parenti, di amici e
di protetti, da sette anni tutti patriotticamente a posto con stipendi da
generalissimi chi in Naro chi nel Capoluogo.
«Nel breve giro di tre anni fece regalare a
questo povero Municipio la bellezza di VENTIDUE Commissari.
«Nel 1919, 20 e 21, imperversando il terrore
rosso non mise mai il naso fuori né permise che l’avessero messo fuori i trenta
satelliti della sua fortuna, lietissimi di poterlo imitare in questa bisogna
col medesimo entusiasmo col quale lo avevano imitato e talvolta superato in
viltà durante la guerra.
«Nel 1922 tradì e strozzo l’amministrazione
comunale dei combattenti dei quali, fin dal 1925, perseguita con ogni mezzo,
compresa la maldicenza in pubblico, la locale sezione.
«Dal 1925 sino al dicembre 1930 assassinò
politicamente, moralmente, finanziariamente il Podestà Cammilleri Sillitti
prima e costrinse dopo a dimettersi da Commissario Prefettizio, successo ad un
povero Re Travicello, il proprio cugino Comm. Totò Riolo Tomasi, reo dinanzi al
pubblico d’essere un povero idiota, sebbene onesto e fattivo come il Cammilleri
Sillitti. Lui che sa appena leggere e scrivere, ha anche l’incarico di
Sovrintendente ai Monumenti di Naro, ma i rari illustri visitatori che capitano
qui sono costretti a chiedersi esterrefatti
se Naro è in Italia o non, tali e tante sono le prove materiali delle
rapine, delle manomissioni, della incuria che hanno sofferto e continuano a
soffrire tutti i monumenti e le reliquie del nostro splendore antico.
«E fianlmente, tanto per conchiudere alla
svelta si fa noto che non sapendo fare altro, da sette anni ha sfruttato tutto
il suo genio nel far conferire croci e commende ad individui i quali
rappresentano in Naro o fuori il fiore della feccia, della incapacità,
dell’strionismo, dell’antipatriottismo e segnatamente dell’ANTIFASCISMO, come
si verrà mano a mano dimostrando. [Si butta quindi fango sulle seguenti
persone: Avv. Ignazio Riolo, classe 1887; avv. Giuseppe Riolo, classe 189; avv.
Carlo Riolo, classe 1892; Comm. Salvatore Riolo Tomasi; Girolamo Rinaldi,
classe 1889; Ciro Rinaldi, classe 1887; Luigi Rinaldi, classe 1885; Rosario
Specchi-Rinaldi; Cav. Uff. Antonio Castelli, classe 1874; Cav. Antonio
Castelli; Antonio Gueli Alletti, classe 1873; Alfonso Borsellino, classe 1884;
Antonino Costa di anni 37; Cav. Onofrio
Nicolaci, commissario di P.S.- Il corrosivo astio e la vigliaccheria
dell’anonimato rendono quelle note ributtanti e - ai nostri fini - per nulla
significative. Ci asteniamo pertanto dal riportarle, n.d.r.] [...]
« Eccellenza
- Sono due anni giusti che noi meditiamo se valeva proprio la pena di
stendere le paginette di questa deplorevole storia locale, tutt’altro che
completa specialemnte nei riguardi dei maggiori esponenti del P.N.F. di qui i
quali, se hanno la tessera e tutti gli onori del Partito, assolutamente non ne
possiedono lo spirito e meno ne incarnano il dovere e la pericolosa e
miracolosa missione.
«A Naro, Eccellenza, il Fascismo è un mito e
il feudo è tutto. La conseguenza, disastrosa, è la seguente:
contro una banda di senzapatria, composta
tra ladroni e lacchè, da un centinaio d’individui c’è tutta intera una
cittadinanza la quale vuole da sette anni e spera indarno che la luce di
verità, la febbre di bene, la protezione augusta del regime, divengano una realtà
viva e feconda anche per essa; oggi, nel momento in cui scriviamo, è il
collasso generale con brevissime parentesi d’insurrezione spirituale sorda e
furiosa, di cui qualche cosa devono pur sapere nel capoluogo. Arriveranno
queste povere pagine fino al Tribunale dell’E.V.? E se arriveranno avrete Voi
il tempo e la bontà di degnarle di uno sguardo?
«Ecco degli interrogativi che spezzano
l’anima e, perché no?, anche l’entusiasmo.
«Ma se Voi non potete e non volete leggere
la storia del falso Fascismo riolano di naro, degnateVi almeno dedicare cinque
soli minuti a queste ultime pagine il cui contenuto dedichiamo alla Vostra
serena Giustizia.
1
«A Naro esiste una banca dal pomposo titolo
“BANCA COMMERCIALE INDUSTRIALE AGRICOLA”. Ne è Presidente il Comm. Benedetto
Gaetani, COGNATO DELL’ON. RIOLO, ex massone, falso fascista anch’egli, falso
patriotta e nullità assoluta sotto qualsiasi punto di vista. Gran parte dei
debitori di quella Banca sono tutti della banda Riolo parecchi dei quali sono
anche debitori morosi da anni. Da circa 20 anni questa Banca non fa bilancio e
non dà conto a nessuno dei suoi numerosi azionisti.
«Di questi non parla e non ricorre nessuno
perché sta sempre pronta per chi osa la
minaccia delle manette e del confino.
2
«A Naro esiste una Congregazione della
Carità. Anche questo Istituto, per quanto concerne la sua attività, sino al 30
maggio 1928, è un groviglio di infamie irregolarità e di ladrerie. L’ex
cassiere, un certo Costa Gaetano, padre del perito Comunale Antonino Costa (del
quale ci occuperemo all’ultimo) deve dare una grossa somma CIRCA LIRE
SEDICIMILA e non vuole sentirne. Per informazioni sottoporre ad inchiesta
l’attuale Presidente dott. Salvatore Aronica e se questi non vuole parlare
metterlo a confronto per esempio con qualche magistrato locale, con un Sac,
Polizzi, con un farmacista Ferracani ecc.
3
«A Camastra (ora frazione di Naro) tre anni
addietro veniva costruita la strada interna principale. Questa è costata
centinaia di migliaia di lire ma è divenuta praticamente impraticabile come la
famosa pedonale di Naro. C’è stata in questi ultimi tempi e proprio per la
strada una sollevazione dei cittadini di quella sventuratissima borgata, ben
presto domata con minacce di deportazione e di altro contro i più cospicui capi
di quel movimento, volutamente presentato come antifascista (il solito
argomento dei tirannelli che vogliono godere in pace il frutto delle pubbliche
rapine).
«Autore e direttore tecnico di quell’opera è
stato precisamente il perito comunale di Naro ing. Antonino Costa, Il collaudo
è avvenuto di sera e dopo il ritorno qui del deputato Riolo, tra motti e
sarcasmi del pubblico che assisteva, Quest’anno le autorità provinciali tanto
per offrire una offa di soddisfazione alla opinione pubblica nervosissima, hanno
fatto eseguire sul posto una inchiesta la quale ha avuto la fine di tutte le
inchieste della provincia feudo dei deputati Abisso, Riolo e Con osservanza.
«Il pubblico di Naro e di Camastra non ha
più fiducia né ad uomini né a promesse. E questo è forse il suo torto e il suo
debole, del quale profittano sfacciatamente gli altri, i cosidetti padroni per
continuare ...
4
«Il deputato Riolo dice di avere la
protezione di eminenti Gerarchi del Partito, vanta l’appoggio incondizionato
del sig. Prefetto Miglio, si dichiara invulnerabile da parte del Segretario
Provinciale Cav. Morello. TUTTO CIO’ IN PUBBLICO E SENZA RETICENZE.
5
«A Naro il gagliardetto è nome e cosa
sconosciutissima. Non si vede in nessuna ricorrenza. Così per volere espresso
di questo Segretario Politico il quale si scusa dicendo che non ha fascisti ai
quali affidarlo.
6
«A Naro il cav. Borsellino Alfonso,
individuo privo sin’anche di licenza elementare, veniva proposto ripetute volte alle Gerarchie provinciali, sino a 15 giorni addietro, come
podestà di Naro dal Deputato Riolo.
«Ultima fresca, gloriosa azione di lui è
stato lo stupro d’una povera servetta, costretta dalla miseria a lasciarsi
tacitare con poche centinaia di lire. La servetta è minorenne.
«Il pubblico sa e pensa, mastica e dice innominabili cose
contro l’eroe e i compagni che lo salvarono. Chi ci guadagna non è certo il
Fascismo.
7
«A Naro, dopo l’ecatombe di podestà e di
commissari voluta dal deputato Riolo, nel corso di quest’anno è venuto con
funzioni di Commissario Prefettizio il Cav. Steno Pelatti di Bologna, austera
figura di fascista e di amministratore. Così, per lui da quel mese abbiamo
finalmente visto, conosciuto e toccato la febbre, la forza, l’idea del regime.
Ma abbiamo ragione di ritenere che il Commissario Prefettizio non sia stato mai
e oggi meno di prima di gradimento dell’onesto deputato, che egli cominci ad
essere stufo e nauseato della persecuzione lenta, tenace, ipocrita di questo
becchino di Funzionari patriotti e puliti e che quanto prima se va via lui
(Pelatti) si debba annegare nella solita fradicia baraonda tanto cara a
fruttifera alla truppa del nostro illuminato onorevole.
«Soggiungeremo che il Pelatti in pochi mesi
di permanenza al Municipio è riuscito a cattivarsi talmente la stima e la simpatia
del pubblico (riuscendo così anche a mettere nella voluta luce il viso legale e
romano del Fascismo) che un grosso milionario, famoso per la sua tirchieria,
gli ha spontaneamente messo a disposizione una forte somma acciocché ne faccia
uso a suo gradimento senza darne conto a chicchessia!
8
«Da anni era stata raccolta una ingentissima
somma in America e qui per la erezione di un Monumento ai Caduti.
«La funzione di cassiere venne assunta,
manco a dirlo, dal solito
Cav. Dott. Antonio Gueli Alletti - V.
Segretario Politico.
«Il Monumento è lì che aspetta d’essere
inaugurato, tanta è stata la patriottica sollecitudine in merito del
generalissimo Riolo e consorti, Mai denari, nelle mani nette e pure di questo
caro oculista di vili, si sono come sempre patriotticamente squagliati e non è
possibile ottenere i conti. Lo stesso generalissimo Riolo convenne talvolta in
pubblico dicendo che effettivamente il costo di quell’opera e delle altre
sussidiarie risulta enorme. Noi diciamo che per molto meno parecchia gente di qui e di altrove è andata a gustare la
muffa e l’onta delle patrie galere.
«Pertanto denunziamo il cav. Antonio Gueli
Alletti, cugino del deputato Riolo, per furto continuato di fondi pubblici in
danno del Comitato Pro-Monumento e forse per disubbidienza agli ordini
superiori di presentare conti di gestione puliti e leggibili. Così facendo
riteniamo di aver messo posto la nostra
coscienza di cittadini e di fascisti, e sentiamo di avere servito la giusta esigenza
di un pubblico che ha dato quasi 200 mila lire e da anni non può sapere come
queste siano andate a finire.
«Soggiungiamo che su questo terreno non
scenderà mai il desideratissimo oblìo, unico scampo liberatore cui crede di
affidare la propria vita e l’nore questo fortunato frutto di carabiniere.
«Quindicimila cittadini vaglieranno sempre
sino a tanto che il ladro camuffato fascista renda ai nostri morti l’oro
versato con sangue e lacrime di tutti. Insistiamo: tutto qui sarà possibile, ma
giammai permetteremo che vampiri sfrontati come il Gueli Alletti e C/i,
attacchino le loro immondissime labbra anche sui ricordi dei nostri
DUECENTOQUARANTA EROI CADUTI PER LA PATRIA.
9
«Il 13 Settembre u.s. Domenica, in seguito
ad accordi presi tra tutte le Autorità a proposito della Festa dell’Uva, tutta
la cittadinanza volle manifestare apertamente la sua simpatia e la gioia verso
il regime incarnato nel Cav. Pelatti (Commissario Prefettizio) distribuendo ed
affissando manifesti di colore inneggianti al Duce al Prefetto, al Cav.
Morello, al Commissario Pelatti, al Fascismo. Per questa manifestazione,
descritta come un delitto presso la Prefettura di Agrigento, parecchi fascisti
della prima ora, rei di avervi preso parte col solito entusiasmo, furono
diffidati dalla Questura di Agrigento. Vi preghiamo in modo specialissimo di
fare indagare su questo fatto.
«Naro, 15 Settembre dell’anno IX° E.F.
I Cittadini»
* * *
L’agone elettorale agrigentino aveva visto come protagononisti i seguenti
deputati:
Elezioni
del 16 novembre 1919:
Partito liberale democratico:
Abisso Angelo (voti
di lista 23.516) voti personali 8.825 +
65;
Guarino Giovanni ( “
“ “ “
) “ “
14.267 + 62;
Pancamo Antonino (
“ “ “
“ ) “
“ 6.109 + 153.
(Non eletti: Brucculeri Giuseppe, La Lumia Ignazio e Scaduto Francesco)
Partito Popolare Italiano
Fronda Eugenio (voti
di lista 12.206) voti personali 5.115 +
72.
(Non eletti: Arone Pietro, Micciché Giovanni, Montalbano Domenico,
Messina Giuseppe, Parlapiano Vella Antonino)
Partito Democratico
La Loggia Enrico (voti
di lista 19.383) voti personali 5.925
+ 0;
Vecchio Verderame Gaetano Arturo.
(Non eletti: Vaccaro Michelangelo, Caramazza Ignazio, Picone Gaspare
Ambrogio).
Partito Socialista Ufficiale
Voti 6.813: nessun eletto.
(Non eletti: Arancio Antonino, Cammarata Giuseppe, Friscia Michele, Giuliana Francesco, Sessa
Cesare (voti n.° 2.554), Vernocchi Olindo).
elezioni
del 25 maggio 1921
Partito Democratico Liberale
Verderame Gaetano arturo (voti
12.402)
Alleanza Democratica Sociale
Pasqualino Vassallo Rosario (voti 112.623)
Colajanni Napoleone
Lo Piano Agostino
Abisso Angelo (voti 95.146)
Camerata Salvatore
Guarino Amella Giovanni (voti
93.247)
Sorge Francesco.
(Non eletti Pancamo Antonino e Adonnino G. Battista).
Partito Democratico Riformista
La Loggia Enrico (voti 31.114)
(Non eletto: Ambrosini Gaspare con voti 22.032)
Partito Comunista Italiano
Voti di lista 8.071. Non eletto Sessa Cesare con voti 4.367.
Partito Popolare Italiano
Vassallo Ernesto (voti 46.922)
Cascino Calogero
Aldisio Salvatore.
Partito Socialista Ufficiale
Costa Mariano
Cigna Salvatore Domenico.
Le elezioni del 6 aprile del 1924 si svolsero - come noto - con un
listone nazionale cui andava il premio di maggioranza in base alla legge
Acerbo. Per la Sicilia, tale premio si risolse
invece in un danno, facendo perdere alla lista nazionale d’ispirazione
fascista due deputati. Annota il Renda ([55]): «Il
risultato elettorale, nella sua essenza, fu il risultato di un ampio e
indiscutibile consenso politico. Il previsto premio di maggioranza si risolse
in danno anziché in vantaggio del listone. In base ai voti ottenuti, infatti, i
deputati eletti avrebbero dovuto essere 40, cioè due in più dei 2/3 (38)
consentiti dalla legge. Non era dunque retorico parlare di trionfo.»
Elezioni
del 16 aprile 1924
Venivano eletti nel
Partito della Democrazia Sociale
Colonna di Cesaro’ Giovanni (voti
25.307);
Guarino Amella Giovanni (voti 9.455);
Lo Monte Giovanni (voti 12.537);
Fulci Luigi (voti 7.779);
Restivo Empedocle.
(Non veniva eletto Giulio Bonfiglio: voti 5.715).
Partito dell’Opposizione
Democratica
La Loggia Enrico (voti 5.259).
Partito Comunista
Lo Sardo Francesco (voti 5.057).
Partito Socialista Massimalista
Vella Arturo (voti 2.581)
Il listone nazionale ebbe, come si è detto, il pieno: i deputati che
in qualche modo avessero attinenza con Agrigento furono:
Lista Nazionale (n.° 21)
Cucco Alfredo (voti 52.973)
Abisso Angelo (voti 32.184)
Pasqualino Vassallo Rosario (voti 22.348)
Vassallo Ernesto (voti 21.017)
Palmisano Paolo (voti 18.408)
Riolo Salvatore (voti 21.017)
Gangitano Luigi (voti 5.718).
In quella tornata elettorale i trombati di lusso della provincia di
Agrigento furono: Giulio BONFIGLIO (voti 5.715) della Democrazia Sociale del
duca di Cesarò e Cesare Sessa (voti 3.004 del Partito Comunista). Riesce a
farsi, invece eleggere, sia pure con pochi voti, il Gangitano, una figura di ex
conbattente e quindi di fascista di vecchia data (lo troviamo attivo a
Racalmuto nel lontano 1919).
I successivi plebisciti del 1929 e del 1934 hanno tutt’altra fisionomia e
le elezioni al parlamento sono automatiche: basta avere avuto il consenso a
Roma, presso le corporazioni, a venire inseriti nel listone, da approvare o
respingere in toto con un sì o con un
no.
Per quel che qui occorre basta rammentare che nel 1929, il 24 marzo,
vanno Montecitario, dalla provincia di Agrigento: Luigi Gangitano, Salvatore
Riolo, Vito Palermo e Paolo Palmisano. Luigi Gangitano e Vito Palermo. Angelo Abisso fu invece mandato al Senato.
Nel 1934, nel plebiscito del 25 marzo, salgono al Parlamento Luigi Gangitano,
Vito Palermo; Paolo Palmisano e
Salvatore Riolo si perdono per strada.
Per la Sicilia, le statistiche ufficiali parlano di un inarrestabile
trionfo del Fascio Littorio:
Proporzioni dei voti ottenuti dalle
liste del Fascio Littorio in rapporto a 100
Anno
|
1924
|
1929
|
1934
|
Percentuale
|
69,8%
|
99,9%
|
100%
|
([56])
* * *
Si è già visto quale ruolo ebbe a svolgere il prefetto Reale nella
penetrazione del primo fascismo nella provincia di Agrigento. Era da tempo,
specie sotto Crispi e Giolitti, che l’istituto prefettizio aveva un peso
determinante nell’evoluzione politica nella zona d’influenza. Era un gioco
occulto ma penetrantissimo e di risolutiva importanza. Solo lo studio delle
carte d’archivio - mirabilmente custodite nell’Archivio Centrale di Stato -
consentono di squarciare questi misteri della gestione del potere nell’Italia
post-unitaria, almeno sino all’avvento della democrazia di popolo con la
riforma ed il ridimensionamento dei prefetti.
Un elenco dei prefetti di Agrigento (limitatamente al primo periodo
fascista) non è quindi qui ozioso:
Cognome e nome
|
titoli
|
dati
anagrafici
|
data
di nomina
|
data
di fine
incarico
|
nuova
destinazione
|
Pugliese Samuele
|
Dott. -
prefetto a disposizione
|
n. a Perano (Chieti) 6.9.1872
+ Roma, 14.8.1939
|
15 febbraio
1922
|
5 aprile
1922
|
prefetto di
Foggia
|
Rocco Raffaele
|
Dott.
Prefetto di Grosseto
|
n. a Napoli
il 2.12.1864
|
18 giugno
1922
|
16 giugno
1923
|
collocato a
disposizione
|
Reale Ernesto
|
Dott. Vice
prefetto
|
n. a Sassari
il 30.6.1875 + Roma il 30.12.1947
|
16 marzo
1923
|
22 ottobre
1924
|
prefetto di
Potenza
|
merizzi giovanni antonio
|
Dott.
Prefetto di Lecce
|
Sondrio
11.7.1861
|
22 ottobre
1924
|
10 gennaio
1925
|
prefetto di
Macerata
|
Rivelli Giovanni Battista
|
Dott. Vice
prefetto
|
Campagna
(Salerno) 24.6.1870 + Roma 10.9.1967
|
10 gennaio
1925
|
12 febbraio
1926
|
Prefetto di
Aquila
|
Salvetti Giacomo
|
Vice
prefetto
|
Pallanza
(Novara) 7.3.1877 + Torino 1°.10.1953
|
12 febbraio
1926
|
16 ottobre
1926
|
Prefetto
di Grosseto
|
Maggiotto Giovanni
|
Dott.
Prefetto di Grosseto
|
Venezia
18.2.1857 + Roma 18.12.1938
|
16 ottobre
1926
|
16 novembre
1927
|
collocato a
disposizione
|
Sacchetti Sebastiano
|
Dott. Vice
Prefetto
|
Teramo
15.8.1880 + Roma 13.2.1952
|
1° dicembre
1927
|
16 dicembre
1929
|
collocato a
disposizione
|
Miglio Federico
|
Dott.
Prefetto a disposizione
|
Castrovillari
(Cosenza) 4.8.1883 + Firenze 27.4.1956
|
16 dicembre
1929
|
16 aprile
1932
|
collocato a disposizione
|
* * *
L’anno della grande turbolenza in seno alla Federazione fascista di
Agrigento è il 1925 e ciò ben si spiega se si ha presente il quadro politico
nazionale. Tutto cambiava in Italia; tutto doveva cambiare ad Agrigento. Come?
Si ha voglia di affermare, a posteriore,
alla siciliana maniera, gattopardescamente. In definitiva, cambiava tutto per
non mutare nulla.
Ritroviamo, come al solito, la
cronaca fedele nelle carte prefettizie che si custodiscono a Roma ([57]). Il
quadro è decisamente esaustivo per non doverlo qui riportare piuttosto
integralmente.
Un telegramma cifrato parte dalla prefettura di Girgenti il 29.1.1925
alle ore 22 della sera. «Incidenti - recita - verificatisi occasione
rinnovazione Direttorio questa Federazione provinciale fascista e di cui
informai codesto On. Ministero con espresso 19 corrente n.° 31 Gab. Hanno avuto il seguito che si
prevedeva.» Il Ministero annota a matita “non è pervenuto a noi”.
«I quattro deputati fascisti - scende nel dettaglio il telegramma cifrato
- della provincia Onorevoli Abisso, Riolo, Palmisano e Gangitano hanno
concordemente aperta una decisa campagna contro il segretario provinciale Cav.
Galatioto considerato che dopo atteggiamento da lui assunto di aperto
antagonismo in loro confronto confermato dalla condotta tenuta nella predetta
circostanza non possa egli rimanere nella carica che ricopre, tanto più che
recente rielezione del Galatioto sarebbe illegale, perché riunione non fu
preceduta da regolare convocazione. Constami che predetti Deputati ed altri
esponenti Direttorio provinciale abbiano chiesto al Direttorio Nazionale
provvedimenti a carico del Galatioto e che sarebbe per venire qui On. Starace
per compire inchiesta. E’ opinione generale condivisa anche da persone
rispettabili al di fuori partiti locali che permanenza Galatioto al posto di
segretario provinciale può danneggiare anziché giovare al fascismo della
provincia, dato suo temperamento impulsivo, violento, inconciliabile che gli ha
procurato larghissime antipatie.
«Per questi motivi ritengo bene un eventuale suo allontanamento dalla
carica di segretario provinciale ed un probabile conseguente suo dissidentismo
non potrebbe pregiudicare molto situazione fascismo locale tenuto anche conto che suo ascendente si
limita a pochi elementi più SCALMANATI e irriflessivi. Tutte queste circostanze
mi hanno sconsigliato di tentare un amichevole componimento della vertenza ed
il Galatioto che prevede quasi certa perdita carica cerca correre ripari.
Sembra che egli intenda recarsi costà domani per portare nelle alte sfere sue
proteste ed ottenere anche udienza da S.E. il Presidente del Consiglio dei
Ministri. Prefetto RIVELLI».
Il lavorio sotterraneo diviene febbrile. Contro Galatioto opera,
subdolamente il prefetto Rivelli, che frattanto ottiene che venga nominato un
Commissario. Si tratta del prof. Paladino che sappiamo essere un siciliano di Floridia, a suo tempo
socialista rivoluzionario e quindi interventista e nazionalista, iscrittosi al Fascio nel 1920.
Il prefetto si premura di catechizzarlo. Vedremo: senza troppo successo. Il
collegamento prefettizio con Roma è puntuale. In data 5 aprile 1925 parte un
telegramma cifrato (alle ore 21) dalla prefettura di Girgenti per il Ministero
Interno - Gabinetto. Vi si legge: «La crisi che in gennaio erasi aperta in seno
Direttorio questa Federazione provinciale fascista e di cui riferii a codesto
On. Ministero con espresso 19 detto n.° 31 Gab. E con telegramma successivo
giorno 29, ha avuto ora suo epilogo con la nomina da parte della Direzione del
Partito fascista di un Commissario nella persona del Prof. Paladino, redattore
del giornale “Il Popolo d’Italia” edizione romana, il quale è giunto qui ieri
sera con incarico preparare e presiedere Congresso provinciale dei Fasci per
nomina nuovo Direttorio Federazione provinciale fascista.
«Situazione assume speciale importanza pel fatto che tutti e 4 i deputati
fascisti della provincia solidamente e di pieno accordo muovono guerra per
ragioni di indole morale al segretario federazione fascista Cav. Galatioto cui
figura fu già da me rappresentata nei succitati dispacci. Commissario Prof.
Paladino ha oggi avuto meco un colloquio nel quale gli ho fatto comprendere che
il dissenso è insanabile e che nell’interesse del fascismo sarebbe bene
escludere il Galatioto dalle future
combinazioni del Direttorio provinciale.»
La fazione di Galatioto è in subbuglio. E’ molto forte nella parte
orientale dell’agrigentino. Racalmutesi emergenti ne fanno parte: Puma e
Burruano. Un personaggio che diverrà fin troppo celebre nel dopoguerra:
Calogero Vizzini, è della congrega. Il prefetto Rivelli è vigile ed ostile. Telegrafa
a Roma il 15 maggio 1926 (ore 20,35) in questi termini: «Viene oggi spedito da
qui a V.E. nonché a S.E. il Presidente Consiglio e segretario generale Partito
a firma Commissari Prefettizi Canicattì, Racalmuto e Grotte e Sindaco Ravanusa
[Calogero Vizzini, n.d.r.] telegramma
protesta voluta mia azione ostile fascismo. Con espresso odierno onoromi dare
dettagliati chiarimenti in merito tale infondata protesta ispirata e promossa
da noto esaltato Gerolamo Galatioto già segretario federazione fascista scopo
sfogare suo livore per vedersi oramai spogliato ogni autorità e prestigio
seguito sua azione deleteria in seno Partito e in conseguenza suo atteggiamento
di aperta avversione ai quattro deputati fascisti della provincia per fini
personali elettorali. PREFETTO RIVELLI»
Il telegramma accusatorio era partito solo poche ore prima (16,20) da
Girgenti e ovviamente lo spionaggio prefettizio era vigile e solerte. Era stato
indirizzato a S.E. Mussolini; a S.E. Federzoni e a S.E. Suardo; testualmente
affermava: «Sottoscritti commissari prefettizi Canicattì, Racalmuto, Grotte e
sindaco Racavanusa protestano vivamente contro operato questo Prefetto che
calpestando pure idealità fasciste tende
sfacciatamente agevolare elementi democratici sociali e principalmente
Guarino Amella nel suo vecchio collegio composto nostri paesi. Denunciano
costante inspiegabile sabotaggio amministrativo scopo favorire elementi
antifascisti che notoriamente invita suoi ricevimenti. Denunciano sue basse
persecuzioni contro puri fascisti rei solo di non sottomettersi sue intenzioni
ricorrendo anche fornire informazioni false. Denunciano recrudescenza abigeati.
Denunciano sua mancanza impegno onore imponendo dimissioni chieste da notissimi
democratici sociali. Comunicano loro dimissioni da commissari e sindaco e
chiedono energico intervento Governo Partito con rigorosa inchiesta.
Sottoscritti segretari politici fasci Grotte, Canicattì, Racalmuto, Ravanusa,
fermi loro posto responsabilità perché ripongono fiducia piena commissario
straordinario federazione fascista e organi Partito, affermano loro piena
solidarietà commissari sindaco ai quali dànno pubblico atto per magnifica opera
fascista svolta nonostante palese ostruzionismo Prefetto.
«Puma avv. Agostino - Commissario
prefettizio Canicattì;
«Vassallo Ernesto - Commissario
prefettizio Grotte;
«Burruano avv. Salvatore - Commissario
prefettizio Racalmuto;
«Vizzini Calogero - Sindaco
Ravanusa;
«Caramazza Gaetano - Segretario
politico Fascio Canicattì;
«Montagna Nino - Segretario
politico Fascio Grotte:
«Burruano Salvatore - Segretario
politico Fascio Racalmuto;
«Vizzini Calogero - Segretario
politico Fascio Ravanusa.»
Il corso degli eventi elettorali del primo fascismo post-aventiniano per
le cariche del direttorio provinciale sembra che si sia risolto, in un primo
momento, in modo avverso al prefetto. Un altro dei soliti telegrammo cifrati,
partito da Agrigento il 10 giugno 1925, informa il Ministero che «per Domenica
prossima 14 corrente è indetto congresso fasci questa provincia per elezioni Federazione
provinciale fascista. Frattanto da Commissario straordinario Prof. Paladino con
mal dissimulato accordo con ex segretario provinciale Cav. Galatioto, di cui è
nota precedente deprecata azione, sono stati sciolti e ricostituiti vari altri
fasci oltre quelli segnalati mio rapporto 23 maggio scorso 344 Gab., parimenti
con intonazione contraria ai 4 deputati fascisti, onde prevedesi probabilità
che dette elezioni diano vita ad una situazione poco favorevole ai veri
interessi del Fascismo ed avente precipuo scopo capovolgere situazioni
municipali ai fini esclusivamente particolaristici e personali e preparare ...
per combattere nelle prossime elezioni politiche attuali deputati fascisti.
Compio dovere informare V. Ecc. In relazione surriferito mio rapporto per
eventuali passi presso Direzione del Partito Fascista e convenienti direttive
al Prof. Paladino. Ossequi. Prefetto Rivelli».
Il 14 giugno al prefetto non restò altro che confermare seccamente di
avere previsto lo sgradito risultato elettorale. «Oggi - telegrafa - ha avuto
qui luogo elezione direttorio provinciale fascista. Risultò eletta lista
presentata da commissario straordinario prof. Paladino. Opposizione si astenne
votazione; ordine pubblico tranquillo. Riservomi più dettagliate informazioni. Prefetto
Rivelli.»
Il giorno dopo (15 giugno 1926, ore 10,50) un altro cifrato redatto nei
seguenti termini: «Seguito telegramma ieri, significo che iersera in seno
Direttorio Provinciale Fascista, eletti prof. Paladino Raffaele a segretario
politico e Cav. Galatioto Girolamo a segretario politico aggiunto.»
Il rapporto prefettizio sugli eventi è contenuto in un espresso inviato
da Girgenti il 15 giugno 1925 - Div. Gab. N.° 886. «Di seguito ai miei
telegrammi di ieri e di oggi pari numero - relaziona il prefetto Giovan
Battista Rivelli - pregiomi significare a codesto On. Ministero che ieri, alle
ore 10,30 sotto la presidenza dell’On. Cucco, arrivato espressamente da Palermo
ebbe luogo, nei locali di questo Municipio, il Congresso per l’elezione del
Direttorio della Federazione Provinciale Fascista.
«Intervennero tutti i Segretari politici delle Sezioni Fasciste della
Provincia, nonché gli On.li Palmisano, Gangitano e Riolo.
«La discussione fu lunga ed in qualche punto anche movimentata, avendo
gli Onorevoli presenti attaccato di poco lealismo il Commissario Straordinario
per la Federazione Prof. Paladino, specie per quanto si riferisce al
tesseramento dei nuovi soci delle recenti ricostituite Sezioni Fasciste, mentre
questi ed i suoi amici accusavano di
poca sincerità fascista i Deputati della Provincia, presenti ed assenti.
«Verso le ore 14,30, chiusa la discussione gli Onorevoli presenti con i
segretari fascisti loro amici, abbandonavano il Congresso, e procedutosi alla
votazione risultavano eletti i Signori:
«Pladino Prof. Raffaele - Galatioto
Cav. Girolamo - Martorana Avv. Salvatore - Mangiavillani Avv. Nitto - Damiani
Crispo Avv. Salvatore - Burruano Avv. Salvatore - Puma Avv. Agostino -
Baiamonte Dott. Giacomo - Pontillo Cav. Avv. Giuseppe - Sferlazzas Ing.
Giovanni - Chiarenza Emilio.
«Iersera poi nei locali
della Federazione Provinciale, in seno al Direttorio, vennero eletti il Prof.
Blandini Segretario politico e Cav. Galatioto Segretario politico aggiunto.
«Tutta la giornata ieri trascorse senza alcun incidente per le rigorose
misure di ordine pubblico adottate. L’On. Cucco ieri stesso partì per Palermo -
Prefetto (Giov. Battista Rivelli).»
Con un successivo espresso (Div. Gab. N.° 886 del 19.6.1925) il prefetto tiene informato il
Ministero sugli sviluppi elettorali. «Per doverosa notizia - scrive - pregiomi
comunicare a codesto On. Ministero che 14 andante, all’arrivo dell’autobus
postale a Raffadali, che portava una ventina di fascisti, reduci da Girgenti,
pel Congresso Provinciale fascista, avvenne uno scambio di invettive tra i
fascisti di cui sopra e quelli che si trovavano in paese, e che attendevano
l’esito del Congresso, gli uni e gli altri, facenti capo rispettivamente alle
due tendenze in lotta al Congresso Provinciale stesso. Non si ebbero a deplorare
incidenti, degni di nota, anche per il pronto intervento dell’Arma.
«Alle ore 20 dello stesso giorno il Corpo musicale di Raffadali, dopo
aver terminato pubblico concerto in quell’abitato, richiesto di suonare l’inno
“Giovinezza” non vi aderì, adducendo che dato quanto era avvenuto qualche ora
prima, tra le due fazioni fasciste, temeva potessero verificarsi serii
incidenti. Promise però che giorno dopo avrebbe aderito a quanto si richiedeva.
Nessun incidente. Ordine pubblico normale.
«Anche a Racalmuto la stessa sera conosciutosi esito Federazione
Provinciale Fascista, s’improvvisò manifestazione giubilo, cui presero parte
fascisti e circa 300 simpatizzanti, che preceduti musica, percosse via
principale suono inni patriottici e al grido Viva Casa Savoia, S.E. Mussolini,
Galatioto e Burruano. Dopo poche parole occasione dette Avvocato Burruano
Carmelo dimostrazione si sciolse senza incidenti. Ordine pubblico tranquillo.
P/Prefetto: Giordano.»
Un biglietto urgente del solito Giordano del 22 giugno 1925 informa: «Per
doverosa notizia pregiomi comunicare a codesto On.le Ministero che alle ore 19
del 15 andante circa 150 fascisti in Ravanusa con bandiere e banda musicale si
recarono allo sbocco dello stradale di Riesi per fare incontro al Segretario
Provinciale Politico Aggiunto Cav. Galatioto Girolamo. Alle ore 19,30 egli vi
giunse e venne accompagnato alla sede del Fascio ove furono tenuti brevi
discorsi di occasione. Alle ore 20,10 la cerimonia ebbe termine senza alcun
incidente. Ordine pubblico tranquillo.»
Il successivo 16 agosto siamo ancora su questa lunghezza d’onda. «Per
doverosa notizia - ed ora è il prefetto Rivelli a firmare di suo pugno -
pregiomi comunicare a codesto On. Ministero che ieri nel Teatro Nazionale di
Canicattì si riunì l’assemblea di quella Sezione Fascista cui intervennero
circa 250 fascisti per decidere due questioni importanti: 1°) Elezioni
Amministrative. 2°) Appalto del Dazio. L’assemblea approvò ad unanimità, la
relazione letta da Caramazza Imperia Giuseppe componente il Direttorio ed
inviata alla Autorità Superiore per indire al più presto le elezioni per la
costituzione del nuovo Consiglio Comunale. Alla quasi unanimità approvò
l’ordine del giorno presentato da Narbone Salvatore componente del Direttorio
per rimandare la discussione e la decisione
dell’appalto del Dazio alla nuova Amministrazione Comunale. Nessun
incidente.»
Il contrasto deputati fascisti-federazione provinciale esplodeva in piena
estate. Veniva da Roma per una composizione il segretario nazionale Farinacci.
Le note prefettizie ci ragguagliano mano mano sugli avvenimenti.
20 agosto 1925
«Ieri questo segretario federale fascista Prof. Paladino telegrafava
Segretario Generale Partito on. Farinacci essersi raggiunto accordo fra
deputati e federazione provinciale fascista. Rammento che on. Farinacci venuto
qui scorso luglio esaminare crisi fascismo provincia incaricava prof. Paladino
e on. Palmisano rivedere situazione alcuni fasci per quali erasi determinato
dissidio fra deputati fascisti da un lato e federazione provinciale
fascista e sottoporre conclusioni a
qust’ultima.
«Dopo lunga assenza da qui prof. Paladino durante la quale lavoro
revisione appena iniziato era rimasto sospeso riunivansi ieri mio gabinetto
deputati on. Palmisano Gangitano e Riolo con prof. Paladino e segretario fed.
Fascista Umberto Galatioto per accordo preventivo circa proposte da presentare
giorno stesso federazione prov. Fascista. Mancava on. Abisso che trovasi
Trentino. Si stabilì soprassedere per fascio Licata non sembrando prudente momento
attuale emettere qualsiasi decisione data condizione spirito pubblico locale
pei recenti sanguinosi incidenti; rinviare per ulteriore esame situazione
Canicattì e Cammarata; ratificare elezioni nuovo direttorio Ribera e Siculiana; ratificare costituzione
nuovo fascio Campobello riammettendovi però cessato segretario politico fascio
e cessato segretario sindacati che ne erano stati esplulsi; sciogliere fasci
Cattolica Eraclea e Cianciana rimandandone ricostituzione ad epoca da
stabilire; affidare reggenza triumvirale fascio S. Stefano Quisquina.
«Portate subito tali proposte assemblea federale furono approvate. Dopo
ciò Prof. Paladino e direttorio provinciale hanno avuto premura spargere subito
voce essersi raggiunto accordo con deputati ritenendo che da decisioni prese
sia uscita rafforzata la posizione in confronto di questi ultimi. Deputati
d’altra parte non intendono affatto che provvedimenti concordati e deliberati
possano risolversi diminuzione loro autorità e influenza. Ho impressione perciò
che accordo sia più che altro apparente e comunque abbia abbia basi assai
deboli e precarie. Basta infatti considerare anzitutto mancato intervento on.
Abisso il più autorevole dei deputati interessati che non avendo conferito
alcun mandato colleghi può aver voluto con sua assenza riservarsi libertà
d’azione. Occorre inoltre notare che per alcune situazioni più importanti e
delicate come Licata e Canicattì essendosi rinviate decisioni rimane sempre
aperta via a più o meno prossime contese. A rafforzare miei dubbi sulla
sincerità e solidità acordi sia poi il fatto che comunicazione telegrafica ad
On. Farinacci del raggiunto accordo è stata fatta a firma soltanto Prog.
Paladino e non pure on. Palmisano mentre ad entrambi on. Farinacci aveva
conferito incarico riesame situazioni. Seguo corso avvenimenti per informare
ulteriormente Vostra Eccellenza. Prefetto Rivelli».
Il 4 settembre partiva dal
Ministero per il Vice Prefetto di Girgenti questo dispaccio telegrafico:
«Pregasi comunicare codesto viceprefetto seguente dispaccio del prefetto
titolare comm. Rivelli. Stop. “Ieri
deciso scioglimento Direttorio Federale et invio commissario straordinario alla
Federazione Fascista. Stop. Nella eventualità provvedimento possa fornire
occasione agitazioni, manifestazioni, concentramenti squadre, violenze contro
persone e beni, occorre prendere d’urgenza tutte necessarie misure perché ciò
sia assolutamente impedito agendo energicamente contro chiunque tentasse farlo
senza distinzione persone et partito. Stop. Occorre anche vigilare severamente
et impedire che persone specie le più turbolente vadano armate senza licenza o
che continuino a godere di questa qualora diventate indegne e costituiscano
pericolo ordine pubblico. Stop. Vigilanza autorotà P.S. deve principalmente e
più efficacemente svolgersi dove più forti e più acri si agitano contese
fasciste e dove maggiore influenza esercitano i capi dissidenti. Stop. Prego
perciò V.S. prendere subito accordi con Questore e con comandanti divisioni
arma anche prima mio ritorno costà predisponendo opportuno piano vigilanza.
Stop. All’uopo Ministero su mia richiesta ha disposto invio costà altri cento
carabinieri. Stop. Domani Sabato giungeranno Girgenti onorevoli Riolo e
Palmisano. Prego disporre servizio vigilanza tutela”.»
Una lunga relazione dei carabinieri di Campobello di Licata, che il vice
prefetto Giordano manda in copia l’11 settembre 1925, chiarisce il clima
turbolento che si era determinato tra le fazioni fasciste agrigentine.
«Con
riferimento alla nota sopraindicata pregiomi trascrivere qui di seguito quanto
mi comunica la locale divisione interna de CC.RR.:
«Con riferimento al foglio controdistinto si
partecipa che da verifiche praticate in Campobello di Licata dal Capitano
Coppaloni Sig. Pietro Comandante la locale Compagnia Esterna è risultato quanto
segue:
«L’attuale Direttorio fascista di Campobello
di Licata si compone di individui taluni dei quali sino al 21 giugno 1924 non
erano inscritti al partito fascista, e altri, pur essendo ex combattenti,
costituirono e diressero la Società “Per la Patria e per il Re” emanazione
legittima dell’ “Italia Libera” che fu sciolta per decreto Prefettizio del 6
gennaio 1925 perché formata da elementi sovvertitori dell’ordine pubblico e di
idee strettamente antifasciste.
«Il Direttorio stesso è stato creato dal
Professore Paladini in seguito allo scioglimento di altro Direttorio contro il
volere concorde dei quattro Deputati della Provincia.
«Alcuni dei componenti il Direttorio
predetto fra cui il segretario politico Dott. Cammarata Costantino perché
ritenuti professanti idee antinazionali, e designati dalla voce pubblica quali
detentori abusivi di armi da fuoco, subirono il sei gennaio del corrente anno,
perquisizioni domiciliari eseguite dai militari dell’Arma e dal Funzionario di P.S.;
come risulta dal verbale n.° 3 in data 6 gennaio 1925 della Stazione di
Campobello.
«Lo stesso Direttorio del Fascio che conta
circa 120 nuovi iscritti su una popolazione di oltre 18.000 abitanti cerca con
ogni mezzo di potere aumentare il proprio prestigio e la propria autorità e
vorrebbe per raggiungere tale scopo, avere dall’Arma locale incondizionato
appoggio e completa dedizione mentre al contrario l’Arma di Campobello e per
essa il Maresciallo d’Alloggio Maggiore Burati Crescenzo si mantiene molto
indipendente ed obiettivo e gode la piena fiducia dei deputati fascisti della
Provincia.
«Il Burati per la sua opera prestata in
Campobello fu encomiato dal Comando Generale dell’Arma. Al Maresciallo Burati
si fanno i seguenti addebiti:
1°) Di amicizia intima con l’ex segretario
politico al quale il Burati avrebbe fatto apertamente dichiarazione di
devozione incondizionata e promesse di ausilio.
«Il Maresciallo Burati giunse a Campobello
di Licata nel novembre 1924. Reggeva in quell’epoca il fascio il Comm. Dott.
Curatolo Medico Condotto uomo superiore ad ogni sospetto. [...]
«2°) Di esersi opposto in ogni occasione che
i fascisti cantassero inni fascisti e per sino di aver vietato che la musica
suonasse detti inni. [...]
«I fascisti dissidenti di campobello,
secondo dichiarazione del predetto Direttorio, sono due: il Dott. Curatolo
suddetto e suo nipote Sammarco, entrambi fatti espellere dal partito per opera
dell’attuale Direttorio.
«Dopo la loro esplulsione si astennero dal
prendere parte attiva alla vita pubblica del paese. Non si comprende quindi in
che consista l’atteggiamento tollerante dell’Arma [...] Ma per meglio
prospettare il caos che regna nel Direttorio di Campobello, si fa presente che
il suddetto Rag. Sammarco sebbene espulso dal partito, è tuttora capo manipolo
della M.V.S.N.
«3°) Di acquiescenza per fatti verificatisi
in Campobello il 23 giugno 1925.
«Il 23 giugno 1925 ebbero luogo in
Campobello di Licata le elezioni del nuovo Direttorio. L’avvocato Galatioto
fratello di un membro dell’attuale Direttorio, simpatizzante fascista designato dal dott. Cammarata come colui il
quale avrebbe potuto obiettivamente sul comportamento del Maresciallo Burati
così ha raccontato i fatti:
«””Il Maresciallo Burati [..] comprese con
rara avvedutezza la vera situazione dell’ordine pubblico in Campobello.
[..]Verso sera di detto giorno man mano che si veniva a conoscenza dell’esito
delle elezioni, gli animi degli appartenenti alle due tendenze in lotta
andavano eccitandosi. Ad un certo punto, quattro o cinque individui usciti
dalla casa del rag. Sammarco situata nei pressi della sala della votazione,
attreversarono in atto spavaldo e di sfida quella piazza XX Settembre gremita
di gente [..]””
«Per gli spari avvenuti il giorno seguente
il Burati non era presente perché ammalato in Caserma; ma l’autore di tali
spari identificato per certo Carneci Carmelo fascista, venne arrestato come
risulta dal verbale n.° 71 del 25 giugno della Stazione di Campobello.
«Per gli spari verificatisi i giorni
successivi (si sparò solo il giorno 28) l’autore, identificato per certo
Cassaro Carmelo, datosi alla latitanza, venne denunciato all’Autorità
Giudiziaria come risulta dal verbale n.° 72 del 29 giugno della Stazione di
Campobello.
«4°) Arresto del Maresciallo dei CC.RR. in
pensione Sansone Giovanni in seguito ai disordini avvenuti il 6 luglio.
« .. verso le ore 21 del 6 luglio […] nella piazza XX Settembre e precisamente
davanti la Sezione Fascista si era inscenata una dimostrazione ostile contro
quel Commissario Prefettizio, Cav. Crisafulli [..] Certo Sansose Giovanni fu
Giuseppe di anni 55 Maresciallo dell’Arma in congedo, con le mani in alto e
gesticolando in atto minaccioso [si rivolse in malo modo] al maresciallo Burati
... Ad assembramento sciolto .. Il Sansoni .. venne invitato .. in casermadove
fu dichiarato in arresto. [..] Durante la stessa notte l’arrestato venne
tradotto al carcere mandamentale di
Ravanusa, per evitare che l’indomani si tentasse, come era stato progettato
qualche atto incolsulto da parte dei fascisti per liberare il Sansone. [..]
«5°) di avere elevato contravvenzione ai
fascisti il 4 agosto 1925.
«[..] il 4 agosto u.s. verso le ore 24 circa
una quarantina di individui con canti e schiamazzi, suonando anche chitarre e
mandolini disturbavano in quella Via V. Emanuele la quiete pubblica. [...] Il
maresciallo [..] riusci a fermarne sette ed a perquisirli: uno di questi certo
Alaimo Cristoforo fascista tesserato, venne trovaro in possesso di una
rivoltella senza licenza, per cui fu arrestato [..]»
I fatti non sono lievi ma non tali da spiegare il pandemonio che
determinarono. C’era, certo, alla base, una strumentalizzazione politica. I
deputati facevano fronte comune. Il Paladino è figura opaca per contrastare
l’abilità di un Abisso. Il Galatioto non dovette rifulgere per acume tattico.
Avere contro il prefetto si dimostrò, per lui e la sua congrega, esiziale. In
ogni caso, il fascismo cominciava davvero a mostrare il suo volto duro. E
l’ordine pubblico cominciava a guadagnarci. Comunque la si pensi.
Il 16 settembre il prefetto Rivelli aveva partita vinta. Era arrivato ad
Agrigento nientemeno che Achille Starace. «On. Starace - informa - giunto qui
il 13 corrente quale inviato straordinario della Direzione del Partito Fascista
presso questa disciolta Federazione provinciale fascista, dopo esaminata
situazione, ha, con determinazione odierna, stabilito sciogliere tutti i fasci
della provincia, riservandosi incaricare appositi fiduciari ricomposizione a
suo tempo fasci medesimi.
«Provvedimento improntato opportunissimo senso serenità obiettività ha
riscosso applauso generale ed è stato accolto assai favorevolmente da
popolazione che da esso trae motivo ritorno desiderata tranquillità intera
provincia e nobile sprone rafforzamento locali energie fasciste in guisa da
assicurare al Governo Nazionale il più largo consenso e la più incondizionata e
disciplinata devozione.»
E l’on. Starace è proprio un duro. Gongola il prefetto telegrafando il 18
seguente: «On. Starace commissario straordinario questa federazione provinciale
fascista con provvedimento ieri ha
sciolto tutti fasci questa provincia ordinando segretari politici sezioni
portare presso sede federazione stessa chiavi dei locali. Provveduto tutela
ordine pubblico esecuzione ordine suddetto commissario.»
Dobbiamo sempre al Rivelli la cronistoria del frenetico operare di
Starace ad Agrigento. Il 13 novembre 1925 il prefetto così ragguaglia il
ministero: «On. Starace Commissario straordinario questa federazione fascista,
ha radunato qui dieci corrente fiduciari da lui nominati per ricostituzione
fasci provincia, impartendo loro precise nobilissime istruzioni per tale lavoro
destinato ridare lustro decoro e solidità al fascismo provincia che opera insana disciolto direttorio aveva
traviato con meschine interessate competizioni. Erano presenti anche 4 deputati
fascisti provincia On. Abisso, Gangitano, Palmisano e Riolo.
«Iscrizioni nuovi fasci incominciano oggi e termineranno 20 corrente.
Congresso Federale per nomina Direttorio provinciale prevedesi possa avere
luogo entro primi mesi dicembre.
«Avviata così a felice brillante sistemazione mercè opera impareggiabile
ferma ed accorta On. Starace politica fascista provinciale si è riconosciuta
d’accordo con me possibilità addivenire a breve scadenza ed a gradi,
ricostruzione Amm.ni Comunali rette da commissari attualmente in n.° 23
cominciando da questa città e altri centri importanti su cui riservomi a parte
relative specifiche proposte.»
Il prefetto di Agrigento, a fine novembre 1925 (Telegramma del 29/11/1925)
opera ormai in piena sintonia col regime: sono le vicende delle sezioni
fasciste ad interessarlo e sono queste ad interessare il Ministero degli
Interni. «Oggi hanno avuto luogo - telegrafa il Rivelli - elezioni direttori sezioni fasciste in tutta
provincia. Da notizie finora pervenute da parecchi comuni ovunque è riuscita
lista propugnata da fiduciari del commissario straordinario federazione
provinciale On. Starace.»
Il 2 dicembre successivo, il prefetto ritorna sull’argomento con una
relazione alquanto più dettagliata. Vi fa capolino anche l’on. La Loggia. Il
suo destino politico viene qui marcato come l’ultimo atto. La fine
dell’importante uomo politico di Agrigento è inappellabilmente segnata.
«Ieri segretari politici dei 42 fasci provincia, riuniti sede Federazione
Provinciale Fascista hanno telegrafato On. Farinacci formulando unanime
voto sia ritardata convocazione
congresso Provinciale per lasciare direzione Fascismo Provincia On.le Starace,
fino esaurimento elezioni ricostituzione Consigli Comunali e Provinciali ed
esprimendo unanime plauso per rifiuto opposto da Direzione Partito ingresso
On.le La Loggia stop Entrambe manifestazioni
rispondono alto criterio interesse politico provincia e incontrano perciò
mio pieno consenso. Ricostituzione normale rappresentanza provincia e rimanente
diciotto comuni retti da Commissari potrebbe infatti aver luogo entro gennaio e
febbraio prossimi essendosi oramai mercé validissimo contributo On.le Starace
sistemata e chiarita situazione politica provincia ed è quindi opportuno che
anche nel periodo conclusivo della situazione amministrativa non manchi
prezioso concorso opera sua stop Ostilità poi così vibratamente espressa da
tutti Segretari Politici dei Fasci riguardo On.le La Loggia avvalorano
segnalazioni fatte a Vostra Eccellenza miei telegrammi 12 e 22 novembre n. 916
e 935 circa discredito cui detto
Deputato è caduto questa provincia e conseguenze .... che deriverebbero da
eventuale convalidazione sua elezione. Ossequi, prefetto Rivelli.»
Il Galatioto che aveva retto il fascismo provinciale per vario tempo è
orami alle corde. Ha un sapore patetico questa corrispondenza che il prefetto
Rivelli ha col Ministero sulla definitiva scomparsa dalla scena politica del
fascista della prima ora di Ravanusa.
«Per doverosa notizia - esordisce un telegramma prefettizio del 17
novembre 1925 - pregiomi significare a codesto on. Ministero che ore 21,10
corrente in Ravanusa allo arrivo dell’Avv. Sillitti Alfredo e Cav. Gallo Vito
quali designati per la reggenza di quel fascio, venne improvvisata imponente
manifestazione da parte dei nuovi fascisti al grido di viva S.E. Mussolini. Il
corteo si diresse sede fascio inneggiando agli ospiti suddetti, a S.E.
Mussolini, all’on. Gangitano ed a tutti i deputati fascisti. Nella sede
pronunciarono brevi discorsi occasione Avv. Stillitti, Cav. Gallo ed il Dott.
Attanasio Salvatore, ringraziando i convenuti e innegiando alle glorie del
fascismo e del suo Duce. Poco dopo corteo si sciolse senza nessun incidente.»
Qualche giorno dopo, il 23 novembre, il prefetto s’interessa per l’ultima
volta del Galatioto. «Ore 15,30 ieri - telegrafa - in Ravanusa Galatioto
Girolamo ex segretario politico federazione provinciale fascista, Sindaco
Vizzini ed altri deridevano aversari. Intervento funzionario sicurezza ivi in
missione arma e militi nazionali furono allontanati. Contegno medesimi provocò
risentimento popolazione e per subitanea reazione formossi imponente
manifestazione che percorse vie principali inneggiando Re e Duce. Dopo brevi
parole maggiori esponenti fascismo quel comune, dimostranti si diressero verso
Municipio con intendimenti ostili quella amministrazione comunale; per opera
però del funzionario sicurezza e della commissione reggenza nuovo fascio,
manifestazione si sciolse senza incidenti. Per evitare turbamento ordine
pubblico ho inviato colà 20 carabinieri rinforzo, giusta richiesta quel
funzionario al quale ho rinnovato tassative energiche disposizioni procedere
senza riguardo carico perturbatori ordine pubblico. Giacché poi permanenza a
atteggiamento provocatori amministrazione comunale causa principale
dell’agitazione che minaccia turbamento ordine pubblico e amministrazione
stessa, è oramai divenuta invisa maggioranza popolazione, con decreto odierno
ho sospeso per urgenti motivi di ordine
pubblico consiglio inviando qual commissario prefettizio il commissario di P.S.
Dr. Montalbano Edvige e riservomi proposta scioglimento.»
La svolta del 1925
Il 1925 segna senza dubbio una svolta nel modo di essere del fascismo.
Dopo il discorso del 3 gennaio cambia Mussolini, cambia il suo modo di vedere
il parlamento, cambia il suo atteggiamento nei confronti delle istituzioni
tradizionali. E l’Italia si avvia verso un regime indubitabilmente
dittaroriale.
«Il 3
gennaio 1925, con in tasca un decreto di scioglimento della Camera firmato in
bianco dal re, dopo una resistenza neppure troppo convinta, Mussolini si
presentò in Parlamento e assunse per sé e per il suo movimento ogni
responsabilità di quanto era avvenuto. Non si trattò dello spartiacque fra due
epoche, ma del momento della scelta esplicita e irreversibile della soluzione di forza: “Quando due
elementi sono in lotta e sono irriducibili - dichiarò Mussolini - la soluzione
è la forza”. Gli strumenti adottati furono ancora una volta offerti
dall’autoritarismo delle leggi vigenti e della pratica repressiva e
centralizzatrice dello Stato, nonché delle nuove restrizioni introdotte dallo
stesso fascismo in questi anni. La notte del 3 gennaio Federzoni telegrafò ai
prefetti ordinando loro l’applicazione più rigorosa delle norme vigenti che già
limitavano drasticamente ogni libertà d’associazione e di movimentoe
prescrivendo la soppressione dei gruppi di “Italia libera”, organizzazioni di
ex combattenti, e retate di comunisti. Venivano così colpiti ad un tempo, con
una tecnica caratteristica del fascismo che si apprestava a divenire regime
totalitario, gli oppositori storicamente più vicini e più lontani, cioè gli
elementi più capaci di operare una disgregazione all’interno della base sociale
del fascismo o di organizzare la resistenza più intransigente e più combattiva
alla costruzione del regime.»
Per una
valutazione meno ostile, valgano le note del Nolte ([59]): «Mussolini non cadde perché lo appoggiavano
il re e il papa, il senato e l’industria, timorosi di potersi trovare di nuovo
di fronte ai socialisti e ai comunisti. Ma si perdette irrimediabilmente una
delle possibilità di evoluzione di Mussolini, soprattutto quella che non
dipendeva tanto dalla sua “fede” e dal suo temperamento quanto dalla sua
visione politica: di essere il capo, e non il dittatore, di una democrazia
sociale. Eppure ancora nel famoso discorso del 3 gennaio 1925, che “chiarì la
situazione” e significò l’accettazionedefinitiva del totalitarismo fascista, è
possibile avvertire una vena di tristezza se non di disperazione, e in pari tempo - per quanto la cosa possa
sembri paradossale - un più forte vincolo con la monarchia e con le forze conservatrici.»
«L’avvenimento più importante di questa
epoca, - scrive sempre il Nolte a pag. 317 e segg. - che per lumghezza e prosperità viene seconda nell’esistenza
politica di Mussolini, fu la creazione di ciò che si suole chiamare dominio
totalitario.
«Dopo il 3 gennaio Mussolini non si oppone
più alla “ripresa totale, integrale” dell’azione fascista, che da tempo i suoi
estremisti esigevano. Lo squadrismo, di nuovo potente, leva ancora la testa e
porta contro i suoi avversari gli argomenti che gli sono tipici. Farinacci,
nuovo segretario generale, si applica con tutta l’energia del suo fanatismo al
compito di “smatteottizzare”, esalta l’ “intransigenza rivoluzionaria ” del
fascismo, minaccia gli avversari di una “terza ondata”, e nega Nè più né meno che
gli antifascisti possano essere considerati italiani. Ben presto l’opposizione
non ha più nessuna possibilità di muoversi liberamente. Se in un primo tempo ci
si accontenta di sequestrare senza ritegno i suoi giornali, dopo l’attentato di
Bologna tutti i giornali ostili al regime vengono proibiti, viene istituito un
tribunale speciale supremo, la punizione del “confino” diventa una misura
preventiva lasciata all’arbitrio dei prefetti senza praticamente alcuna
possibilità di protesta o di controllo. Dove mai avrebbero potuto vivere gli
avversari anche solo potenziali del fascismo se non su isole rocciose, ora che
la “feroce volontà totalitaria” di Mussolini aveva da un pezzo negato a tutti i
partiti ogni diritto all’esistenza e voleva fare della nazione un “blocco
granitico” o “monolitico”? Aveva già dimenticato che appena due anni prima
un’Italia senza opposizione e senza contrasti di forze sociali gli era parsa
“insopportabile”? Ora si diceva che in un regime totalitario come quello
fascista l’opposizione era stolta e superflua, dal momento che il regime
trovava nel proprio petto e nella resistenza delle cose l’indispensabile
opposizione.
«Come, l’opposizione, anche lo Stato è in
lui stesso. La citatissima formula “tutto nello Stato, niente al di fuori dello
Stato, nulla contro lo Stato” non va affatto intesa, statalisticamente, come
una contrapposizione tra Stato e una
particolarità di tipo individuale o collettivo. Questo Stato è caratterizzato
piuttosto dal fatto che esso non può essere rigorosamente separato dal partito
o contrapposto a questo: l’apparato dello Stato e quello del partito sono
strumenti di dominio in mano a Mussolini, e anzi il partito - grazie alla sua
maggiore modernità o anche per la sua dignità ideologica - diventa più
importante ogni anno che passa.
«L’opera legislativa che fissò la
“mussolinizzazione” dello Stato fu costituita dalle così dette “leggi
fascistissime”, non a caso create da Alfredo Rocco.» ([60])
Un quadro abbastanza veridico - anche se non privo di preconcetti ideologici
- di quello che ebbe a verificarsi in quest’anno di svolta nell’intera Sicilia
ci viene fornito dal Renda ([61]).
«I fascisti non vollero lasciare dubbi che i
veri padroni della situazione fossero loro - stralciamo dal testo del Renda
- e soltanto loro. La riprova di quella
verità, del resto, venne poco dopo, allorché nell’agosto 1925, si procedette
alla elezione del consiglio comunale di Palermo. In tale occasione, il fronte
delle opposizioni, ammaestrato dagli avvenimenti nel frattempo verificatisi nel
paese, si presentò compatto nella lista Unione per la libertà, chiusa solo ai
comunisti, i quali formarono lista propria. [..] In modo aperto, e senza giro
di parole, lo scontro venne affrontato fra la libertà e la dittatura. Sul
momento vinse quest’ultima. I voti della lista fascista furono 26.249; i voti
della lista di concentrazione liberale, 16.616; i voti della lista comunista,
211. [...] Non diedero quel segnale di rivolta politica e morale che l’Italia
antifascista dalla Sicilia si aspettava. La classe dirigente dell’isola rimase
ferma nella scelta già fatta in favore del fascismo.
«Le elezioni amministrative di Palermo
furono l’ultimo guizzo di resistenza legale al fascismo. Vittorio Emanuele
Orlando ne trasse la conclusione che “nell’attuale vita politica italiana non
vi è posto per un uomo del mio passato e della mia fede”; e si dimise da
deputato per protesta [..] A chi non seguì il suo gesto, non fu riservata sorte
migliore. Subito dopo, infatti, varate le leggi eccezionali, altri 13 deputati
di opposizione (fra i quali Colonna di Cesarò, Giuffrida, Guarino Amella)
furono dimissionati dal parlamento con atto d’imperio. Francesco Lo Sardo,
addirittura, oltre che privato del mandato parlamentare, fu anche arrestato.
Contemporaneamente si procedette allo scioglimento formale dei partiti politici
(di fatto erano già paralizzati da tempo); furono soppressi i sindacati; fu
abolita la libertà di stampa e proibita ogni forma di vita politica a chi non
accettasse di sottostare al regime. Ne seguì legalmente la fine del regime
liberale e l’instaurazione della dittatura. A non perdere la fede nella libertà
e a non ammainare la bandiera furono solo piccoli gruppi o singole personalità;
ea distinguersi nella volontà e nel proposito di non cedere fu, in particolare,
il piccolo partito comunista, fatto di alcune centinaia o di alcune migliaia di
militanti, che, per sfuggire alla spietata caccia della polizia, cercò riparo
nella più rigorosa clandestinità.
«Instaurato il regime del partito unico, la
storia politica isolana, al pari di quella nazionale, sembrò identificarsi, e
non pochi pretesero che si identificasse, col fascismo. [..]
«Il passaggio dal regime liberale al regime
fascista, pur carattterizzato da un largo consenso poi in parte rimesso in
discussione, non fu indolore, e non si limitò alla distruzione di qualche
camera del lavoro, di qualche cooperativa, di qualche sezione comunista o
socialista e neppure alla somministrazione di una certa quantità di olio di
ricino accompagnata da dosi più o meno maccicce di manganellate. La transizione
dalla libertà alla dittatura, oltre che un processo politico, fu anche un
rivolgimento sociale. Alla vecchia classe dirigente di ispirazione
democratico-liberale se ne sostituì una nuova, la cui formazione politica fu diversa,
e la cui composizione non si identificò tutta nel fascismo, ma in parte trovò
la propria ragione d’essere fuori del fascismo e in parte anche nello stesso
antifascismo. La nuova classe dirigente si defferenziò dalla vecchia, anche per
il fatto che la sua matrice sociale non fu necessariamente legata, come nel
passato, alla grande proprietà terriera, e più ancora alla campagna, ma divenne
espressione del ruolo emergente assunto nella società dai ceti medi e in
particolare dai ceti impiegatizi dello Stato e degli enti pubblici parastatali.
In questo senso, la scelta filofascista dei grandi proprietari terrieri,
operata fra il 1922 e il 1924, e poi consolidata negli anni successivi, più che
un errore, fu il segno dell’esaurirsi della loro capacità di egemonia sul resto
della società.
«[..] negli equilibri di potere interni al
regime, la nuova classe dirigente siciliana, formatasi durante il ventennio,
sia per qualità che per capacità di rappresentanza, non fu più capace di
esercitare un qualche peso di rilievo nazionale [...].
«Quella situazione al livello della
rappresentanza parlamentare si riflesse con maggiore evidenza nelle istituzioni
locali, nei comuni, nelle istanze del partito, nei sindacati. Non fu più come
ai tempi della Sinistra storica, quando gran parte del personale politico
periferico era costituito direttamente da medi e grandi proprietari terrieri.
Segretari federali fascisti, essi stessi possessori di latifondi o rampolli del
vecchio baronaggio, come il conte Gaetani di Naro, durante il ventennio, si
contano sulla punta delle dita. La quasi totalità dei gerarchi appartiene,
invece, ai ceri di media e di piccola borghesia così urbana come anche rurale.
Naturalmente, pure in regime liberale non erano pochi i rappresentanti politici
e parlamentari di origine piccolo borghese; ma la loro funzione era quella di
agenti fiduciari delle classi dominanti proprietarie. In regime fascista, tale
stretto legame di dipendenza non esiste più, non essendo più la stessa di un
tempo la fonte di legittimazione del potere. Per altro, come segno di un
mutamento istituzionale, tende a diffondersi e
generalizzarsi la figura del funzionario di partito, che non esercita la
politica come servizio occasionale e temporaneo, bensì come professione
organica e permanente, le cui fortune si identificano con la ragion d’essere
del regime. Da questo punto di vista, il fascismo, generalizzando un fenomeno
già presente nelle organizzazioni politiche e sindacali della Sinistra
socialista, e anche fra le organizzazioni cattoliche, rappresenta un fenomeno
sociale e politico da non sottovalutare nella prospettiva di lungo periodo. In
effetti, è la prima volta che, in forma vistosa e quasi plateale, la grande
proprietà terriera siciliana viene staccata drasticamente dal potere, sebbene
il potere manifesta il proprio ossequio verso la proprietà medesima.
«Durante il ventennio, senza dubbio, i
grandi signori del latifondo siciliano conservano la terra, mantengono o
restaurano la loro influenza sociale, ricevono anche vantaggi economici
sostanziali (la battaglia del grano e la bonifica(; ma non hanno più voce
diretta e vincolante negli affari del governo nazionale e nel controllo delle
amministrazioni locali. Significativamente, il primo podestà fascista di
Palermo è un docente universitario, che prende il posto di un qualificato
esponente della vecchia aristocrazia. [..]
«Insieme alla forzata separazione della
grande proprietà terriera dalla diretta gestione del potere, altra importante
novità del fascismo è il suo essere un regime di massa, che porta al
reclutamento obbligatorio di tutti gli strati sociali della popolazione nel
partito, nel sindacato, nei circoli dopolavoristici, in altre associazioni
sportive e culturali varie.»
Nel giornale L’Impero del 24
marzo 1929 il 1925 viene definito l’anno della “seconda ondata”. Gli iscritti
al fascio non erano poi molti: solo 599.988. Il fascismo provinciale di
Agrigento si dibatte nelle beghe interne per la conquista del potere.
Galatioto, sincero fascista, si scontra con i deputati tradizionali ed in
ispecie con il trasformista on. Abisso e, come abbiamo visto, soccombe
miseramente. Galatioto non capì, peraltro, il ruolo del prefetto nella
strategia del nuovo regime. Si credette al di sopra del prefetto Rivelli e
questi lo giubilò. Ancora non si era nel pieno regime totalitario. Si pensi che
vecchi esponenti dei clerico-moderati potevano avere possibilità
nell’agrigentino di restare a galla. E’ il caso dell’ex deputato dei Popolari on..le avv. Eugenio Fronda. L’on.le
La Loggia alla fine del 1925 non avrà però possibilità alcuna di salvarsi
politicamente ed il prefetto che forse in cuor suo avrebbe voluto recuperarlo
deve sprezzantemente silurarlo, come si è detto sopra. Nel settembre del 1925
la situazione provinciale si coglie significativamente da questi scorci di
corrispondenza del solito prefetto Rivelli con il Ministero degli Interni. ([62])
Riemerge la solita faccenda della estromissione di Galatioto. «La recente
riunione al Viminale - scrive il prefetto Rivelli in data 24 settembre 1925 -
del direttorio di questa federazione provinciale fascista, sotto la presidenza
della E. V. E con l’intervento dell’on. Farinacci e dello scrivente avvenuta ai
primi del corrente mese, e il conseguente provvedimento dello scioglimento
della federazione stessa, con la nomina del commissario straordinario in
persona dell’on. Starace, mentre son valsi a chiarire la situazione politica
del fascismo in questa provincia, rafforzando il prestigio e la posizione dei
quattro deputati fascisti, contro i quali ingiustamente si appuntavano le
ostilità del direttorio provinciale, hanno per conseguenza determinato un più
ragionevole, più serio e più esplicito indirizzo della politica fascista
provinciale.» In tale quadro non c’è più posto per un personaggio come Galatioto
che, peraltro, rivestiva ancora una carica presso la provincia. Ed allora,
essendo stato “il cav. Girolamo Galatioto ([63]) .. il
condottiero della campagna ostile ai deputati”, questi andava escluso “per
incompatibilità politica” che risultava evidente “data la nuova situazione
politica della provincia.” Per converso, poteva farsi ancora affidamento per la
carica provinciale sull’on. Fronda. Ci si può fidare dell’ «on. Avv. Eugenio
Fronda - può permettersi di affermare il prefetto del tempo -, leader del
locale gruppo cattolico, perché, sebbene
capo della locale sezione del Centro cattolico, ha dato già prova nelle
elezioni generali politiche del 6 aprile 1924 di essere un fedele sostenitore
del governo nazionale, e perché nelle prossime elezioni amministrative di
questo capoluogo il suo gruppo potrà dare un efficace ed influente aiuto
all’esiguo fascio locale per combattere il partito demo-sociale, che è forte ed
agguerrito.»
Il passo del prefetto rappresenta una testimonianza della provincia di
Agrigento di eccezionale valore. Dunque, sino al settembre del 1925 si pensava
ancora in termini elettorali, come se fosse d’attualità il pluralismo politico
e partitico. Cattolici e demosociali vengono additati dal prefetto come forze
egemoni nell’agrigentino contro un “fascio debole”. La logica delle alleanze
perdura in periferia o in quella estrema periferia come quella marginale
provincia siciliana. Certo, non si era avuto il risultato amministrativo di
Palermo. Ma la chiave di lettura dell’evoluzione politica delle realtà
periferiche o di quelle agrigentine resta, a livello ufficiale, quella del
prefetto Rivelli. E a dire il vero non pare molto simmetrica alla storiografia
imperante.
Ciò, invero, non significa che i giudizi in fondo burocratici dei
prefetti cogliessero proprio nel segno. La convinzione del funzionario
periferico poteva essere fallace ed al centro non si voleva o non si aveva
interesse a correggerla.
Non va dimenticato che nel 1925 ministro degli interni era Federzoni,
figura di fascista particolare, vicino al re e sicuramente legalista. Le
circolari cui accenna il Ragionieri saranno state di taglio dittatoriale; resta
al contempo incontrovertibile che proprio sotto Federzoni - e finché restò
ministro degli interni - inizia un processo di raddrizzamento della Milizia. Il
prefetto Ravelli - l’abbiamo già citato - non mostra tenerezza verso quel corpo
separato militare.
Sino al 10 gennaio 1925 prefetto di Agrigento fu Giovanni Antonio
Merizzi, di nomina preaventina. A lui vengono indirizzate le famose circolari
Federzoni ed è lui che così ragguaglia il ministero in data 7 gennaio 1925 ([64]): « ..
presso alcuni comunisti di questo capoluogo sono state sequestrate circolari e
stampe di propaganda sovversiva, parecchi bollettini del Comitato esecutivo
comunista, elenchi di componenti le cellule ed altro. Sono stati perciò tratti
in arresto sei comunisti mentre altri si sono resi irreperibili ...»
Il successivo giorno 10, il prefetto torna a fornire ulteriori ragguagli:
« ... Presso avv. Molinari capo del partito popolare di Sciacca è stata
sequestrata corrispondenza con deputato on. Aldisio, nella quale contengonsi
notizie relative movimento e intendimenti Comitato Centrale opposizione. Sono
stati chiusi i seguenti circoli sospetti in linea politica: sezione socialista
di Palma di Montechiaro e quella di Licata; sezione “Italia libera” di
Campobello di Licata. Sono stati pure chiusi esercizi pubblici che erano
ritrovi di sovversivi.»
Ed il 14 gennaio: «.. sono state eseguite altre numerose perquisizioni e
sono state in vari comuni revocate licenze di esercizi pubblici che erano
ritrovi di persone politicamente sospette. Sono state chiuse le seguenti altre
associazioni: a Sciacca il circolo popolare e quello socialista; a Campobello
il sodalizio dei sensali; ad Aragona il circolo agrario ed il circolo
democratico “Duca di Cesarò”; a Naro l’associazione combattenti e
smobilitati ed il circolo manovali; a
Palma Montechiaro la sezione socialista unitaria; a Canicattì il circolo
operaio e la sezione democratica sociale; a Ravanusa il circolo operaio, il
circolo operaio sensali, il circolo giovanile cattolico ed il circolo sportivo
[..] Proseguono operazioni per chiudere altri sodalizi politicamente sospetti,
perquisizioni domiciliari per rastrellamento armi e munizioni non denunziate e
revoche licenze esercizi pubblici.»
Nel febbraio 1925 è già operante
in Agrigento il prefetto Rivelli di cui si è avuto modo di citare svariate
volte. Il 4 febbraio 1925, questi, sulla scia del suo predecessore, informa il
ministero di altri provvedimenti restrittivi. «Pregio assicuare - scrive - la
chiusura delle sezioni democratiche sociali di Girgenti, Canicattì ed Aragona e
della società agraria di produzione e lavoro di S. Angelo Muxaro ... per
ragioni d’ordine pubblico. I relativi locali erano divenuti ritrovi di elementi
turbolenti e capaci di sovvertire i poteri dello Stato e perché ivi veniva
fatta la più pericolosa propaganda antinazionale ed antifascista”. Il
linguaggio del nuovo prefetto è trasparentemente più allineato ideologicamente
al nuovo corso della politica nazionale. Il 17 marzo del 1925 è in grado di
rassicuare il ministro che l’impopolare provvedimento di scioglimento di
“Italia libera” è stato adottato anche in quel di Agrigento. Sezioni di ”Italia
libera” «risultavano costituite solamente in Licata e Campobello di Licata”.
Esse erano “state sciolte nel gennaio scorso”.
Il 5 marzo 1925, dopo appena un mese di permanenza in Agrigento, il prefetto Rivelli è - o si mostra -
conoscitore della psicologia delle masse
agrigentine. «Provvedimento sospensione
funzioni organi centrali amministrativi dell’Associazione Nazionale
Combattenti, - telegrafa ([65]) - è
stato in questa Provincia favorevolmente accolto meno in qualche centro. Data però apatia
queste popolazioni provvedimento non è stato eccessivamente commentato ..»
Fra le carte ministeriali troviamo alcuni accenni alla situazione
politica e sociale dell’agrigentino, contenuti nelle relazioni del 1925 della
M.V.S.N. di Palermo ([66]). La
prima relazione risale al 28 febbraio 1925, ed a proposito di Girgenti si
allude al contrasto «sorto in seno alla Federazione provinciale» ed ai «motivi
che l’avevano determinato». «La situazione - si assicura - però ora è stata
così ricomposta. La Federazione Provinciale è stata dal Direttorio Nazionale sciolta e ne affidò
la reggenza ai 4 deputati fascisti della provincia on.li Abisso, Palmisano,
Riolo e Gangitano ed al cessato Segretario Cav. Galatioto. A quest’ultimo il
Direttorio Nazionale ha conferito i poteri di Segretario della reggenza.»
Più esplicito il successivo rapporto del 5 maggio 1925. Quanto a Girgenti
«l’andamento della politica provinciale, in seguito allo scioglimento della
reggenza e nomina del Commissario Straordinario alla Federazione del P.N.F.
nella presona del sig. Prof. Paladino Raffaele, ha subito un ristagno venendo
tutto ad innestare sulla dibattuta e nota questione, onde fu necessario il
provvedimento della Direzione del P.N.F. La situazione economica della
provincia va sempre più migliorando con l’inoltrarsi della stagione. Il
malumore del passato, dovuto al rincaro dei viveri, è un po’ attutito per il
buon raccolto che si prepara nell’anno agricolo in corso. Il costo dei generi
alimentari, però, si mantiene tuttavia relativamente caro: il lieve ribasso di
prezzo apportato dalle Commissioni economiche non è stato bene accolto dalle
popolazioni, giacché esso, in relazione al diminuito costo del grano è
veramente irrisorio. Nel corso del mese è stato in parte superato il grave
dissidio economico-sociale fra i zolfatai. I padroni e proprietari di miniere
non volevano concedere l’aumento del 15% stabilito sulle paghe giornaliere come
da concordato posto dalle organizzazioni sindacali. Venne minacciato uno
sciopero generale, che però non si effettuò, in parte dovuto alle tristi
condizioni economiche dei lavoratori. Non si deplorano incidenti di sorta. Una
certa preoccupazione desta in tutti una certa recrudescenza manifestatasi in
questi giorni di delitti vari. Sono in corso misure che sta adottando la P.S.»
Il 1925 si chiude in Agrigento con qualche turbolenza politica, sia pure
tutta racchiusa al’interno del movimento fascista.
Un certo Guzzo Giovanni protesta il 13 dicembre da Licata ([67]) contro
una lunga sequela di violenze che furono denunziate alla Procura generale di
Palermo a carico di un funzionario di P.S. che avrebbe impedito di presentare
un’altra lista facente capo ai cittadini di Licata di “pura fede fascista”.
Parla di un “facinoroso bloccamento”. In particolare sarebbe stata omessa la
distribuzione di certificati elettorali.
Il 14 dicembre il prefetto scrive a Roma che l’on. Starace si era interessato di Licata. “Nella sua
opera di epurazione aveva espulso dal partito ex fascisti per gravi atti di
indisciplina.”
Nel complesso l’anno si conclude all’insegna del vittorioso raffermarsi
del fascismo. La solita documentazione ministeriale contiene ora il linguaggio
trionfalistico del nuovo regime. «Imponente, delirante dimostrazione per
proclamazione eletti lista» telegrafa da Agrigento il 18 dicembre 1925 il
prefetto. Il successivo giorno, la relazione prefettizia accenna ad una
manifestazione in teoatro dello stesso prefetto, dell’on. Starace, dei deputati
fascisti ed altre presonalità politiche “per elezioni amministrative questo
capoluogo indette per domani”. Ovviamente, tutto è superlativo: “efficace” è il
discorso del comm. Altieri, candidato sindaco; ma “robusto, brillantissimo” è
il discorso dell’on. Starace “che ha riscosso continui deliranti applausi”.
A Grotte si hanno le elezioni in quello stesso giorno (20.12.1925). Su
4281 elettori sono presenti 3711. Votano la lista fascista in 2186. Il fascismo
guadagna maggioranza e minoranza. L’avv. Seminerio subentra al commissario
prefettizio cav. Fede. La prefettura ragguaglia il ministero anche su tali, minime
vicende dello scenario politico agrigentino.
Racalmuto verso il regime fascista.
Racalmuto passò, pressoché inavvertitamente, dal regime della democrazia
sociale del duca Colonna di Cesarò a quello fascista. Fu decisione presa
dall’alto, subita, ma accettata di buon grado, senza alcuna opposizione. Fu il
prefetto a determinare la svolta con lo scioglimento d’imperio
dell’amministrazione demo-sociale. Quel che sorprende è il fatto che il regio
decreto (23 marzo 1924) con il quale veniva sciolto il consiglio comunale
matura in tempi in cui il duca di Cesarò era alleto nel listone nazionale con
Mussolini. Gli amministratori locali erano di fede demo-sociale: ciò nonostante
vennero travolti da un’inchiesta amministrativa, quanto veritiera ed obiettiva
non si riesce bene a valutare. E’ da supporre una frattura tra i politici
locali ed i vertici della democrazia sociale. I personaggi che dominavano sulla
scena amministrativa racalmutese non sono da giudicare, del resto, campioni di
fedeltà politica. Un rinnegamento dall’alto non è da escludere, ma non figura
in alcun modo provato.Sindaco in carica risultava un medico: il dottor Nicolò
Scimé; il vero dominatore erà, però, un personaggio della nuova borghesia
agraria: il commentatore Giuseppe Bartolotta, non proprio un capo mafia,
seppure molto temuto dalla locale cosca mafiosa.
E.N. Messana così ci racconta l’ascesa al comune dei due personaggi ([68]):
«A guerra finita gli schieramenti politici
del paese sopravvissuti erano il gruppo dei fautori di Marchesano, capeggiato
dal Comm. Giuseppe Bartolotta e dal dott. Nicolò Scimé ed il gruppo dei fautori
di Gangitano rappresentato dal Comm. Angelo Nalbone e dal dott. Salvatore
Busuito. Il primo aveva avuto una specie di scissione. Bartolotta e Scimé erano
passati con Guarino Amella, il dott. Enrico Macaluso invece con Abisso. I
socialisti antichi, quelli alla De Felice, nell’avv. Calogero Picone Chiodo
avevano trovato un degnissimo rappresentante, della stessa levatura di Vincenzo
Vella. I due avvocati socialisti non riuscirono in pese a creare una forza
elettorale di sinistra vera e propria, perché per la purezza delle loro anime,
recependo la concezione marxista, non erano riusciti a liberarsi
dell’estremismo ed erano rimasti ancorati ad una forma infantile di intransigenza,
affascinante, interessante ma incapace a maturare le coscienze delle masse. E
dire che Calogero Picone Chiodo svolse un’attività politica che trascese la
limitatezza paesana.
«Egli, figlio del popolo, appena laureato in
legge si dedicò all’insegnamento nelle scuole elementari. Poi si dimise dal
posto di maestro ed intraprese una densa attività giornalistica. Protestò ed
insultò Mussolini per il tradimento della classe operaia, ordito e consumato
nel 1919. Fu un oratore felice, trascinatore di folle e contribuì ad avvicinare
al socialismo e la gioventù del paese. Lui, col classico cappellolargo dei
socialisti dell’epoca, organizzava scioperi e proteste, teneva conferenze, in
paese e fuori, tanto da rendersi famoso e notabile nel circondario. Allorché il
fascismo soppresse la libertà ed instaurò la dittatura, Calogero Picone Chiodo
dovette fuggire da Racalmuto per non incappare in qualche processo davanti il
tribunale speciale istituito da Mussolini contro l’opposizione di ogni colore.
Peregrinò per l’Italia perseguitato ad ogni istante. Si ridusse a fare il
venditore ambulante. Appena avvistato doveva fuggire per non essere arrestato.
Dopo tanto girare riparò a Bolzano in casa di Ettore Messana, suo amico
d’infanzia ed ex compagno, già vice questore in quella città. I due erano tanto
intimi che si chiamavano compari. Ettore Messana intanto una mattina arrivando
in questura trovò un telegramma firmato dal Ministro dell’Interno così
concepito: “Dicesi ricercato antifascista Calogero Picone Chiodo aggirasi
pressi cotesta città, pregasi disporre accurati servizi onde assicurarlo
giustizia prima che valichi frontiere.”
«Il ministro dell’interno nel ventennio
fascista fu quasi sempre lo stesso capo del governo Benito Mussolini. Il
telegramma perciò valeva un ordine di Mussolini. Il ricercato era l’ospite suo
compare e suo paesano. Tornatosene a casa, aspettò che finisse il pranzo, poi
si chiamò in disparte il compare e glielo esibì. Il povero Liddu Chiodo non
seppe che dire, Ettore Messana gli assicurò che lo avrebbe messo in salvo lui
oltre il confine. Verso sera gli procurò un passaporto con false generalità e
lo fece scortare fino ad Insbruk da due agenti. Calogero Picone Chiodo in
Austria si affermò, prese moglie e vi rimase fino all’occupazione tedesca, poi
passò in Svizzera ed il 25 luglio 1943 in Italia, morì a Milano. Fu anche un
medium fortissimo. Scrisse sullo spiritismo parecchie opere, si ricordano “la
verità sullo spiritismo” e “L’Immortalità dell’anima”, scrisse ancora “il
bolscevismo”, dove criticò aspramente il leninismo. Calogero Picone Chiodo fu,
infine, l’unico fuoriuscito racalmutese del periodo fascista. [Se prestiamo
fede, però, al fascicolo del Casellario Politico Centrale - busta n.° 3951, il
personaggio ne esce malconcio e molto meno nobile di quello che il Messana
tenta, con la sua incespicante sintassi, di accreditarci. Ma di ciò in seguito,
n.d.r.]
«Nel 1919 vi fu una nuova epidemia, il
vaiuolo, con le sue vittime e i superstiti sgrefiati dalle cicatrici del
terribile male. La sofferenza degli .....sino a pag. 366]
Riportiamo una relazione della Prefettura di Agrigento,
datata 16 dicembre 1919, sulle
condizioni dell'ordine pubblico e
della sicurezza nella Provincia (cfr.
Archivio Centrale dello Stato -
Ministero Interno - Ps - 1919, b. 121).
«Da qualche tempo ad opera di aderenti al partito socialista
ufficiale, per sfruttare l'attuale momento critico di disagio generale, viene
preso pretesto da qualsiasi argomento per creare agitazioni più o meno "ingiustificate". Si
cerca così di tener compatte le masse per le prossime lotte elettorali
amministrative e di fare opera proficua
di propaganda per rafforzare il partito stesso in provincia, che finora ha
potuto fare solamente assegnamento su nuclei di scarsa importanza.
«Primo pretesto per il R. Decreto 2 settembre
scorso, recante provvedimenti per l'occupazione delle terre incolte. Le
associazioni agricole della Provincia, istigati da agitatori messi in giro dalla locale Camera del Lavoro,
iniziarono subito una campagna per ottenere dalla Prefettura l'applicazione del
decreto suddetto; e tale movimento, iniziato apparentemente con carattere di
legalità, degenerò subito in vera e
propria agitazione, tendente ad impedire ai
proprietari di terre l'aumento dei canoni annui di fitto e la modifica
dei patti di mezzadria e si ricorse persino ad intimidazioni su fittavoli e
mezzadri per indurli ad abbandonare le terre e renderle incolte, onde
facilitare l'occupazione.
«Quest'Ufficio contrappose subito l'opera
propria e dei dipendenti funzionari perché‚ l'agitazione non sortisse pratici
risultati ed ottenere che i minacciati disordini abortissero ovunque, sia
assecondando le trattative di componimenti colà dove i proprietari di terre si
erano dimostrati proclivi ad intavolarle, sia provvedendo con i mezzi a
disposizione, a tutelare l’ordine pubblico e a fare opera di propaganda per
impedire l'abbandono delle terre e la sospensione delle culture intraprese.
«Finita tale agitazione, i socialisti ne
inscenarono un’altra ancora. Forti del lodo
arbitrale del collegio dei probiviri di Caltanissetta sulle pretese di aumento
dei salari avanzate dagli operai di quel bacino minerario, inducono la numerosa
classe zolfifera della Provincia ad invocare l'applicazione anche in questa giurisdizione: Aragana,
Favara, Cianciana, Racalmuto, Grotte, Comitini abboccano all'amo.
«I proprietari delle miniere però resistono:
gli operai di rimando proclamano lo
sciopero.
«Quest'Ufficio, nell’interesse dell’ordine
pubblico, interviene nella vertenza e dopo pratiche loboriosissime ottenne
ovunque la ripresa del lavoro, riuscendo a persuadere le organizzazioni
zolfifere che non poteva il lodo accennato applicarsi alle industrie del genere
di questa provincia, nella quale la vertenza sorgeva ex novo e che, in ogni
caso, dovevansi attendere le
deliberazioni della commissione di
appello in Roma, cui era stata deferito su ricorso degli industriali la
soluzione della controversia. Ottennero però nell’occasione gli zolfatari quasi
ovunque aumenti di salario, con pagamento di arretrati da parte degli
esercenti, che accogliendo in parte le
pretese dei propri lavotarori, volontariamente vi si sobbarcarono.
«Visto abortire anche tale pretesto, i
mestatori, che erano ricorsi per mantenere desta l’agitazione anche coll’ausilio
di compagni, all’uopo qui venuti da fuori provincia, prova cotesta che le fila del movimento vengono
mosse dall’alto, si danno ad aizzare ancora le masse per pretese irregolarità
nella distribuzione degli sfarinati nei vari comuni, per la cattiva qualità della farina fornita e per
invocare la distribuzione del grano in sostituzione della farina stessa, alla
popolazione che ne avesse diritto.
«E così, a Favara si cerca di scimmiottare i
Soviet pretendendo che una commissione di operai regoli la distribuzione degli
sfarinati; a S. Giovanni, S. Biagio Platani, Cammarata ed altrove si minacciano
torbidi e si pretende l'aumento del
contingentamento; a S. Stefano Quisquina, rocca del socialismo in Provincia, si
crea una vivissima agitazione per ottenere grano invece di farina, pur non disponendosi di mezzi idonei alla
macinazione, prendendo a pretesto la cattiva qualità della farina, che, al
contrario, è ottima perché‚ fornita da stabilimenti che approvvigionano altri
Comuni, nei quali mai sono stati lamentati inconvenienti del genere. In
quest'ultimo Comune, ove sorge a tale scopo
un comitato permanente di agitazione, si pretende persino impedire alla
Commissione Militare di Requisizione il trasporto del frumento requisito e
depositato in quei magazzini
statali.
«A questo movimento, per ovvie ragioni di
tornaconto e di speculazione, è stata
trascinata tutta la cittadinanza, e ciò ha costretto quest’Ufficio a dislocare
colà un forte nucleo di truppa allo
scopo di assicurare il regolare funzionamento delle operazioni di requisizione
e il conseguente regolare approvvigionamento della Provincia; d'altra parte si
è interessato il Consorzio per addivenire a qualche aumento nell'assegnazione
degli sfarinati effettivamente non
corrispondenti al bisogno e tali provvedimenti sono valsi ad infrenare i più violenti e a tranquillizzare
i più timidi, esasperati al punto da
indurre il Sindaco a telegrafare a diversi deputati della Provincia, sia pure
di tendenze opposte, perché‚ patrocinassero presso il competente Ministero
l'accoglimento dei desiderata della popolazione, anche a costo di dare
soddisfazione ai socialisti, avversari irriducibili con l'amministrazione al potere.
«Anche tale agitazione è stata così ridotta
in modesti confini. L’ordine pubblico anche in S. Stefano Quisquina tende
a ritornare normale.
«E' naturale e logico che il succedersi
ininterrotto di tutte queste agitazioni che io riferisco a codesto Ministero
perché‚ si renda conto della difficoltà che quest’Ufficio attraversa quotidianamente
per far fronte alle esigenze dell’ordine
pubblico e per evitare fatti che potrebbero avere su di esso grave
ripercussione, ciò implichi lo spostamento continuo dei mezzi limitati di cui dispone, e la
peregrinazione continua dall’uno all’altro Comune della Provincia dei nuclei di
agenti della Forza Pubblica che sono quindi distratti dai servizi di Istituto e
di quelli di Polizia Giudiziaria, nelle campagne in ispecie.
«Tali fatti influiscono evidentemente sulla
recrudescenza dei reati e conseguente
allarme nella popolazione rurale che non
può accudire, con tranquillità, al lavoro dei campi.
«Si aggiunga a tali circostanze la
soppressione della locale Tenenza Guardie Città, che contribuisce ad
assottigliare il numero degli Agenti
disponibili, per quanto sostituiti dai soldati sui quali pochissimo
assegnamento può farsi per i servizi di prevenzione e anche di repressione dei
reati.
«Anche ciò credo di portare a conoscenza di
codesto On.le Ministero perché‚ si compiaccia esaminare benevolmente la
possibilità di mettere quest’Ufficio in grado di ovviare agli inconvenienti prospettati, aumentando
convenientemente il numero dei carabinieri in Provincia, per potere, sia
rafforzando le stazioni, sia costituendo nuclei speciali, porre almeno un
argine al dilagare della delinquenza e della propaganda sovversiva che
intenderebbe farsi a base di
intimidazioni, di sopraffazioni e di violenze.
«IL
PREFETTO: Nannetti».
Un quadro di grave turbolenza sociale nella Racalmuto
dell’agosto del 1920 emerge dai rapporti di polizia e dai ragguagli della
prefettura al Ministero degli Interni ( [69]) Le avvisaglie della rivolta d'estate
della popolazione racalmutese si erano avuti l’anno prima per il diffuso
malcontento in seno agli zolfatai.
Un telegramma prefettizio (n. 4113 dell'8 luglio 1919)
aveva informato il Ministero dell'Interno che «in Racalmuto centro minerario
tutti zolfatai scioperarono scopo protesta contro caro-viveri ed iniziarono
dimostrazione tosto sedata pronto intervento quel funzionario. Seguito promessa
attuazione nuovo calmiere scioperanti si sciolsero.»
Nella successiva estate la faccenda si complica. Per tre giorni (dal 14 al 17 luglio
1920) si hanno - precisa un telegramma
della solita prefettura agrigentina:
«dimostrazioni ostili amministrazione comunale
Racalmuto, togliendosi a pretesto insufficienza e cattiva distribuzione
sfarinati. Pro sindaco e giunta comunale cedendo intimazione folla tumultuante
ha rassegnato dimissioni. Nomina R. Commissario imponesi perciò anche come mezzo
calmare gli animi. Non avendo assolutamente come provvedere ho delegato funzioni commissario prefettizio al V.
Commissario di P.S. Allisio Carlo già
mandato in luogo finché‚ non sia possibile sostituirlo. Pregasi ratificare.
Prefetto Nannetti.»
Segue un altro dispaccio al Ministero per segnalare
che proprio quel diciassette luglio del 1920 una «colonna di circa tremila
dimostranti tentò di saccheggiare e incendiare magazzino fave comm. Narbone
(sic) un maggiorente dell'amministrazione comunale.» Il prefetto Nannetti soggiunge di avere chiesto al «Comm. Mori [che]
sia colà [cioè a Racalmuto] inviato oggi
stesso parte nucleo carabinieri servizio rinforzo». La faccenda ha un corso che
indispettisce l'on. Abisso[che] sia
colà [cioè a Racalmuto] inviato oggi stesso parte nucleo carabinieri servizio rinforzo». La faccenda ha un corso
che indispettisce l’on. Abisso. Il Ministero chiede una prima delucidazione
al prefetto di Girgenti che tra l'amaro
ed il velenoso così replica il 19
luglio:
«on. Abisso che prima era un mio non
desiderato laudatore sotto tutti i rapporti, oggi, per suo tornaconto politico,
pare abbia cambiato giudizio [..] [E
tanto perché a Racalmuto]
procedono accertamenti con arresto responsabili, ciò che non si vorrebbe dai partigiani
on. Abisso, militanti partito avverso amministrazione comunale, contro cui
disordini furono promossi sotto pretesto deficienza servizi approvvigionamento
per i quali purtroppo si attraversa un
periodo di difficoltà non avendosi rifornimento stabile e non riuscendo che, a stento, con grano
requisito di produzione locale, soddisfare giornalmente bisogni
popolazione.»
I partigiani dell’on. Abisso, avversari del Nalbone ed
altri componenti dell'amministrazione comunale, erano personaggi eccellenti
della scena politica e sociale di Racalmuto. L'on. Abisso, per difenderli,
lancia un'interrogazione parlamentare, a risposta scritta, il 7 agosto del
1920. Il prefetto è costretto a
difendersi. L'iniziale sicumera scema ed ora
chiarisce che
«V. Commissario Micucci fu da me fatto sostituire con Allisio e Mazzora perché‚
Pro-Sindaco Racalmuto era fisso nell'idea che funzionario fosse stato
influenzato dai suoi avversari, circostanza questa che dimostra infondatezza
accusa on. Abisso. Quanto al tenente presidente gruppo requisizione, egli ha
affermato non aver mai detto le
parole attribuitegli da
commissione zolfatai presentatasi 15 dic. mese a quell'ufficio p.s.- Ha pure
affermato non avere mai ricevuto denunzie per vendite clandestine di grano a
prezzi superiori ai prescritti.»
Certo, l'on. Abisso era stato perentorio e sferzante
nella sua interrogazione parlamentare. L'onorevole voleva sapere, senza mezzi
termini, quali provvedimenti intendeva
prendere il Ministero «contro quei funzionari che nel loro impudente partigiano
contegno [avevano] provocato gravi
tumulti nel comune di Racalmuto». La cronistoria di quei gravi tumulti la
troviamo negli stessi documenti ministeriali.
«Telegramma 10417 da Girgenti 5.8.920:
partenza ore 21.45 arrivo 6 1,30 - Min.
Interni:
«Dal
prefetto di Catania è stato trasmesso telegramma ieri di codesto Ministero
17583 relativo interrogazione On. Abisso contro contegno funzionari ai quali imputa tumulti
verificatisi Racalmuto dal 14 al 16 decorso luglio. - Premesso che disordini
Racalmuto ebbero inizio improvvisamente e che
malcontento per deficienza approvvigionamento servì per pretesto
avversari amministrazione comunale per abbatterla costringendo pro-sindaco dott.
ALAIMO a dimettersi, escludo che unico
funzionario in luogo Domenico Micucci all'inizio dei disordini e gli altri V.
Commissario Allisio Carlo e dott. Marzani Francesco, colà andati giorno 15 per
sostituirlo perché‚ pro-sindaco
ne dimostrò convenienza, abbiano provocato
essi i tumulti. Devesianzi ai funzionari P.S. se i disordini furono
arginati e vinti senza conseguenze per le persone.»
Segue
'dettagliata' del 23.
«Aggiungo per quel conto che dovesse farsene e allo scopo di essere il
più possibilmente preciso su ogni circostanza che il 15 luglio Commissione
zolfatari, contadini ed operai presentossi ufficio P.S. Racalmuto reclamando
sostituzione tenente quel gruppo requisizione cereali che dicevano non aver
dato corso denuncia avuta vendita grano prezzo lire 170 al quintale e che alle
rimostranze popolazione avrebbe risposto
"mangiate patate". In proposito riferii subito presidente
Commissione Provinciale requisizione per provvedimenti caso.
«Presidente dispose inchiesta ma ancora non
conoscesi risultato che perciò riservomi comunicare avendo fatto speciale sollecitazione. - Prefetto Nannetti -.»
In
contemporanea, la Prefettura di Girgenti
ragguagliava il Ministero su quelli che definiva ‘i disordini di
Racalmuto' nei seguenti termini:
«Trascrivo - esordisce il prefetto Nannetti - il rapporto presentatomi da quel V. Commissario di
P.S. - "Con riferimento a precedente corrispondenza telegrafica,
pregiomi riferire alla S.V. Ill.ma che in questo Comune serpeggiava un
forte malcontento per la deficienza
degli sfarinati.
«"La mattina del 14 corrente un gruppo
di circa 300 persone, all'arrivo di due autocarri carichi di pasta, li
circondavano per impedire che la pasta venisse depositata nel magazzino consorziale per tema di possibili
sottrazioni. Intervenuto il V. Commissario sig. Domenico Micucci, detta pasta
venne depositata in questo ufficio di P.S.
«"Nel frattempo si raccolsero circa 200
persone, che, precedute dalla bandiera nazionale, si avviarono presso
l'abitazione del pro-sindaco con grida di abbasso, reclamando le di lui
dimissioni.
«"Contro l'abitazione del pro-sindaco
vennero lanciati sassi che frantumarono i vetri di tutte le invetriate.
«"Però, per l'intervento del V. Commissario
Sig. Micucci, la folla desistette da
altre violenze e si diresse verso la casa
comunale con minaccia di saccheggiarla se il pro-sindaco non si fosse
dimesso.
«"Poco dopo il dott. Alaimo fece sapere
che egli aveva già presentate le proprie dimissioni e la folla ritornò in
piazza continuando a protestare per la scarsa distribuzione degli sfarinati.
Indi, mercé‚ l'esortazione del predetto funzionario, i dimostranti si
sciolsero. Il quindici successivo, si ebbe altro tentativo di dimostrazione, che, senza incidenti, venne
sciolta.
«"La sera del 16, alle ore 20 e 15,
essendosi ad arte propalata la notizia che l'ill.mo signor Prefetto non aveva
accettate le dimissioni del pro-sindaco e trattenuto a Girgenti, in segno di
punizione, il V. Commissario sig. Micucci, in Piazza Umberto 1ø s’improvvisò
una dimostrazione con grida 'Abbasso l'amministrazione comunale', e per
l'abolizione del tesseramento al mulino per la macinazione del grano. I dimostranti percorsero la Via
Garibaldi, frantumando molti vetri delle abitazioni private, non esclusi quelli
di quell'Ufficio di P.S.; e mentre lo scrivente parlamentava con il Presidente
del gruppo della requisizione grano, sig. Tenente Veniero Giuseppe, per un
componimento conforme ai desiderata della popolazione, parte dei dimostranti si
avviò alla casa del comm. sig. Angelo NALBONE e, quivi, dopo avergli frantumato
tutti i vetri, scassinarono la porta di un magazzino sottostante all'abitazione
dello stesso e vi appiccarono incendio, per cui, il comm. Nalbone, per
richiamare l'attenzione della forza, cominciò a sparare colpi d'arma da fuoco.
«"Recatomi sul posto con i pochi
militari dell'arma presenti, dopo aver subito fugati i dimostranti, mi diedi
con l'ausilio anche dei vicini di casa Nalbone, a fare opera di spegnimento.
Durante le quali operazioni i dimostranti si riversarono verso l'abitazione del
pro-sindaco, ove, oltre di avergli frantumato altri pochi vetri rimasti intatti
il giorno avanti, gli devastarono la villetta prospiciente all'abitazione, gli
abbatterono parte della ringhiera di ferro che cingeva la villetta dalla parte
della strada e tutta quella laterale che divide la villetta dal cortile
d'ingresso. Tentarono pure di forzare il portone di entrata, di scassinare la
porta del magazzino con cereali e quella della cantina, che resistettero,
rubandogli due paia di colombi, cagionandogli un danno complessivo di L.
2.000.-
«"Durante tale vandalismo il Prosindaco
cominciò a sparare colpi d'arma da fuoco per fare ivi accorrere la forza in di
lui soccorso, ed in seguito ai quali
colpi mi recai subito in luogo con i militari dell'arma, ma il furore popolare
aveva già compiuto la sua opera, e, dopo non pochi superati stenti si riuscì a
fare gradatamente allontanare la folla.
«"Dalle indagini successivamente svolte
si è potuto stabilire che la causale dei disordini non è stato solamente
il malcontento per la deficienza degli
sfarinati ma l'influenza politico-amministrativa locale dei maggiorenti del
partito contrario, per rovesciare l'amministrazione comunale.
«"Accertata la responsabilità degli
esecutori dei lamentati danneggiamenti, si è proceduto all'arresto di Macaluso
Leonardo di Calogero, di Rizzo Eduardo fu Vincenzo, di Rizzo Francesca di Pietro, di Ippolito Stefana
di Gaetano, di Scibetta Luigia fu Luigi e Ansaldo Giovanna fu Mariano. E
denunciati, per la loro irreperibilità, i nominati Grego Giuseppe di Vincenzo,
Cacciato Pietro d'Ignoti, Chiodo Giuseppe fu Calogero, Campanella Salvatore fu
Antonio, Cino Francesco fu Calogero, fratelli Giuseppe e Luigi Lo Bue e
Giuseppe Castelli d'Ignoti, siccome tutti esecutori materiali; e denunciati inoltre per istigazione il comm.
Giuseppe Bartolotta fu Luigi, l'avv. Emanuele Cavallaro fu Felice, Luigi
Messana di Emilio, Alfonso Vinci di Giuseppe, Nicolò Sferrazza di Carmelo, Nestore Falletto fu
Luigi, Francesco Caratozzolo fu Felice e l'avv. Calogero Picone Chiodo fu
Giuseppe”. Il Prefetto Nannetti.»
Quelle suffragette in formato paesano e racalmutese trascondono la nota
di colore. Alla testa di quel codazzo manzoniano, tutto preso dal pane e dalla farina in termini di un più
o meno convinto populismo, erano donne fiere, irrituali, imperiose, ardenti e
passionarie. Ombre fluttuanti nelle memorie dei racalmutesi. Annidda la Pisciara
o Carmela l'Acqualora erano come loro se non loro. In una Racalmuto
maschilista, prevenuta contro le donne, un po’
codina, quegli esempi di
ribellismo femminile sono eccezioni, ma pur sempre casi di rimarchevole
ribellismo.
erché facevi all'amore con me.
[1]) Luigi Pirandello - I vecchi e
i giovani - Oscar Mondadori 1973 - pag. 142-143
[2]) Nino Savarese - La Sicilia nei suoi aspetti poco noti od ignoti - in
Delle cose di Sicilia - vol. IV - Sellerio editore Palermo 1986, pag.
254 e segg.
[3]) Cfr. Atti della Giunta per l’Inchiesa Agraria
sulle condizioni della classe agricola, vol. XIII, tomo I, fasc. III, Relazione generale, Roma 1885, pp. 661-662.
[4]) Cfr. L. Hamilton Caico, Vicende e
costumi siciliani, Epos, Palermo 1983, pp. 118-121.
[5])
Archivio Centrale dello Stato - Ministero Interno - Pubblica Sicurezza - 1930,
busta 310 fasc. C1 - Relazione del prefetto Miglio del 16 luglio 1931.
[6]) Cit. in
S.
Bosco, Il proletariato a Favara. Lotte
scioperi ed altre manifestazioni dal 1860 al 1960, Sicilia Punto L
Edizioni, Ragusa. S.d., p. 75.
[7])
Archivio Centrale dello Stato - Giunta per l’inchiesta sulla Sicilia -
Fascicolo 66.
[8])
Elaborazione dai dati riportati dallo studio di Mario
Cassetti - Fascismo e crollo operaio. I
villaggi minerari (1937-1942)
in Economia e società nell’area dello
zolfo - secoli XIX-XX - Sciascia
Caltanissetta editore 1989 - pag. 456.
[9]) Eugenio Napoleone Messana - Racalmuto
nella storia della Sicilia - Canicattì 1969 - pag. 443.
[10]) Calogero Taverna - conferenza tenuta nella Fondazione
Sciascia il 18 giugno 1995 - ds. pag.
14.
[11]) Leonardo Sciascia - del dormire con un solo occhio
- nota alle Opere 1932-1946 di Vitaliano Brancati - Bompiani, Milano
1987, pagg. XIII e XIV.
[12]) Christopher Duggan - La mafia durante il fascismo - editore Soveria Mannelli,
1987. Sciascia definisce l’autore «giovane ricercatore dell’Università di
Oxford ed allievo di Denis Mack Smith»
[13]) Leonardo Sciascia - a futura memoria (se la memoria ha un futuro) - Bompiani,
Milano 1989, pagg. 126-128.
[14])
crediamo che si riferisca al racconto il ladro dottore de i
fascisti invecchiano in opere cit. pagg. 1118 e segg. Tra l’antifiscismo di Sciascia e quello di
Brancati vi sono assonaneze impressionanti, persino sotto il profilo
stilistico. Non è questa la sede per approfondimenti. Del resto - si sa - che
ad avviare all’ “antifascismo” Sciascia, fu proprio Brancati al tempo in cui
era il suo insegnante di italiano all’istituto magistrale di Caltanissetta. I
due “antifascimi”, tanto affini da confondersi, appaiono, però, meri
atteggiamenti cerebrali, in negativo. Sono due atteggiamenti “contro”. Per
converso, entrambi gli scrittori non sanno, non vogliono prendere partito in
positivo. La politica come “non valore” riaffiora immancabilmente nei loro
scritti. Non per nulla Sciascia si presentò e fu eletto nelle liste di
Pannella.
[15]) Leonardo Sciascia - a futura memoria (se la memoria ha un futuro) - Bompiani,
Milano 1989, pagg. 138-139.
[16]) Leonardo Sciascia - Una Kermesse - in Malgrado
tutto - periodico cittadino di Racalmuto - settembre 1993 Anno XII
n.° 4, pagg. 4-5.
[17]) Archivio Centrale
dello Stato - Casellario Politico
Centrale - busta n.° 5344 - fascicolo n.°
16434.
[18]) Ernst Nolte - I tre volti del
fascismo - Oscar Mondadori 1978 - pp. 252-254.
[19]) Tra i tanti includiamo
l’opera del Ragionieri che abbiamo già citata.
[20]) Valga per tutti il lavoro
prima richiamato di Francesco Ercole.
[21]) Eugenio Napoleone Messana - Racalmuto
nella storia della Sicilia - Canicattì 1969 - pp. 344-5.
[22]) ibidem, pag. 345.
[23]) Malgrado tutto - periodico
cittadino di Racalmuto - maggio 1993 Anno XII n.°2, pag. 3.
[24])
Archivio Centrale dello Stato - Casellario Politico Centrale (C.P.C.) - Busta
n.° 5342 - fasc. N.° 4621 intestato a Vella Dante fu Giuseppe e fu Concetta
Pedalino, nato a Racalmuto il 24.3.1908.
[25]) Francesco Ercole - La Rivoluzione Fascista - Ciuni
Editore Palermo 1936, pag. 82
[26]) ibidem pag. 83 e pag. 84.
[27]) E. Nolte, op. cit., pag. 266.
[28]) Paradigmatiche ci appaiono
in tal senso le pagine del Nolte: pagg. 266-302.
[29]) op. cit., passim, ma in particolare pag. 2111 e ss.
[30]) Luigi Einaudi - Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925) - VI (1921-1922) - Giulio Einaudi
Editore 1963 - pag. 14. (Articolo sul
Corriere della Sera del 25 gennaio 1921).
[31]) Per la cronaca puntuale dei
fatti, valgano le pagine, magari giornalistiche, di Antonio Spinosa - Vittorio
Emanuele III, l’astuzia di un re - Milano 1990
[32])
Illuminante al riguardo la polemica dell’Einaudi con il siciliano ing. Raverta sul Corriere
della Sera in data 13 ottobre 1922 op. cit. pagg. 881-888, a seguito
dell’articolo del 10 settembre (op. cit.
pag. 824 e segg.)
[33]) cit.
in ERCOLE, op. cit. pag. 206 e
segg.
[34]) Cfr. Nota n.° 7.
[35]) Francesco Ercole - La Rivoluzione Fascista - Ciuni
Editore Palermo 1936, pag. 234 e segg.
[36]) 2000
pagine di Gramsci, vol. II:
Lettere edite e inedite 1912-1937, a cura di G. Ferrara e N. Gallo, Milano
1964, p. 45.
[37]) Salvatore Lupo, La crisi del monopolio naturale. Dal Consorzio obbligatorio all’Ente
Zolfi, in Economia e società nell’area dello zolfo
- secoli XIX-XX - Salvatore Sciascia editore, Caltanissetta-Roma, 1989,
pag. 354.
[38])
Lettera ad A. Di Nola in Archivio
Carnazza, fasc. 28, III 37, busta “C” ;
Industria zolfifera e legge mineraria. Cit. in Lupo, op. cit. pag. 354.
[39]) Eugenio Napoleone Messana - Racalmuto
nella storia della Sicilia - Canicattì 1969 - p. 234.
[40])
Editoriale “Il delitto Matteotti” di Storia
e Civiltà - gennaio-giugno 1994 - Edizione del Lavoro - Roma - a. X, n. 1-2
- a firma P.F.P. (Pier Fausto Palumbo, direttore responsabile), pag.
7-9.
[41]) Salvatore Leone - Per una storia delle strutture culturali: le Società di storia patria -
in Storia d’Italia - Le Regioni: dall’Unità ad oggi - la Sicilia
- Einaudi editore 1987 - pagg. 876-877.
[42]) Francesco Renda - Storia della Sicilia - dal 1860 al 1970 - Vol. II - Sellerio
Editore Palermo, 1985, pag. 365.
[43]) ibidem pag. 354.
[44]) Vincenzo Agozzino - Cronache della Vigilia rivoluzionaria fascista nella provincia di
Agrigento - in Panorami di realizzazioni del Fascismo - Il
movimento delle squadre nell’Italia meridionale e insulare - Vol. VI
- Roma, 1942 , pag. 167 e segg.
[45])
Archivio Centrale dello Stato - M.I. - P.S. - 1925 - busta 115 G1
[46])
Archivio Centrale dello Stato - Gabinetto Finzi - 1922-24 - busta 6 fascicolo
53. Anche i successivi passi virgolettati che si riferiscono al prefetto Reale
sono tratti dal predetto fascicolo dell’ACS di Roma.
[47]) Mario Missori - Gerarchie e statuti del P.N.F. - Roma 1986 - pag. 91.
[48]) Dalla copertina di Starace
- l’uomo che inventò lo stile fascista di Antonio
Spinosa BUR Milano 1988.
[49]) Antonio Spinosa - l’uomo che
inventò lo stile fascista di Antonio Spinosa - BUR Milano 1988,
pagg.8-9.
[50])
Archivio Centrale dello Stato - Segreteria particolare del Duce “Carteggio
riservato 1922-1943” - buste nn.° 36; 49 e 94.
[51]) Archivio Centrale dello
Stato - Segreteria particolare del Duce “Carteggio riservato 1922-1943” - busta
n.° 94.
[52]) Archivio Centrale dello
Stato - Segreteria particolare del Duce “Carteggio riservato 1922-1943” - busta
n.° 78.
[53]) Archivio Centrale dello
Stato - M.I. - P.S. - 1926 - busta 88 - C1.
[54]) Archivio Centrale dello
Stato - M.I. - P.S. - 1931 - busta 310 - C1.
[55]) Francesco Renda - Storia
della Sicilia - dal 1860 al 1970 - Vol. II - Sellerio Editore
Palermo, 1985, pag. 372.
[56]) Per i
dati statistici cfr.: ISTAT Statistiche Elezioni Politiche - XXV Legislatura,
elezioni del 16 novembre 1919 (Roma 1920) - XXVI Legislatura, elezioni del 25
maggio 1921, Collegio di Girgenti pag. 78 - XXVII Legislatura, elezioni del 6
aprile 1924, passim - XXVIII
Legislatura, elezioni del 24 marzo 1929 (Roma 1930), passim - XXIX Legislatura, elezioni del 25 marzo 1934, passim (ma in particolare pagg. 39 e 51).
[57])
Archivio Centrale di Stato - M.I. - P.S. 1925 - Busta n.° 121.)
[58]) Storia d’Italia -
Einaudi Torino 1976 - volume quarto - dall’Unità ad oggi - pag. 2145.
[59]) Ernst Nolte - I tre volti del
fascismo - Oscar Mondadori 1978 - p. 316.
[60]) Si
sogliono chiamare leggi fascistissime i tre seguenti gruppi di legge: a) «le
leggi di difesa»; b) «le leggi di riforma costituzionale» e c) «le leggi di riforma sociale». Con le prime
leggi s’introducono i tribunali speciali; con le leggi di riforma il capo del
governo è anche capo dei ministri ed il parlamento si trasforma in un’assemblea
di partito; con le leggi di riforma sociale si istituisce lo “stato corporativo”.
[61]) Francesco Renda - Storia
della Sicilia dal 1860 al 1970 - vol. II - Palermo 1990, pag. 372 e
segg.
[62])
Archivio Centrale dello Stato - Ministero degli Interni - Comuni - busta n.°
2069.
[63]) Dalle
citate carte dell’Archivio Centrale dello Stato emerge che il Galatioto fu poi
cacciato dal Partito Fascista. Galatioto era accusato - a dire del solito
prefetto Rivelli - di ostacolare “l’opera di risanamento intrapresa dall’on. Starace”. Il 10 dicembre
1925 il prefetto telegrafa che «Tale
atteggiamento indusse questi [Starace] a decretare l’espulsione dal partito,
per gravi atti di indisciplina, del predetto segretario provinciale cav. Galatioto, e del sindaco di Ravanusa
signor Calogero Vizzini.»
[64]) Archivio Centrale dello
Stato - Ministero degli Interni - P.S. 1925 - busta n.° 110.
[65]) Archivio Centrale dello
Stato - Ministero degli Interni - P. S. 1925 - busta n.° 107.
[66]) Archivio Centrale dello
Stato - Ministero degli Interni - P.S. 1925 - busta n.° 113.
[67]) Archivio Centrale dello
Stato - Ministero degli Interni - P.S. 1925 - busta n.° 103.
[68]) Eugenio Napoleone Messana - Racalmuto
nella storia della Sicilia - Canicattì 1969 - pag.358 e segg.
[69]) Archivio Centrale dello
Stato - Ministero degli Interni - P.S. 1920 - busta n.° 89.
Nessun commento:
Posta un commento