giovedì 17 marzo 2016


 

Luigi Pirandello ne I vecchi e i giovani ([1] accenna alle condizioni - avvilentissime - dei ceti infimi racalmutesi. Vi include ovviamente gli zolfatai. Triste la sorte dei ‘mafiosi’ incastrati dalla giustizia: miseranda la vita delle loro donne.

«..s’affollavano storditi i paesani zotici di Grotte o di Favara, di Racalmuto o di Raffadali  o di Montaperto, solfaraj e contadini, la maggior parte, dalle facce terrigne e arsicce, dagli occhi lupigni, vestiti dei grevi abiti di festa di panno turchino con berrette di strana foggia: a cono, di velluto; a calza, di cotone; o padavovane; con cerchietti o cateneccetti d’oro agli orecchi; venuti per testimoniare o per assistere i parenti carcerati. Parlavano tutti con cupi suoni gutturali o con aperte pretratte interjezioni. Il lastricato della strada schizzava faville al cupo fracasso dei loro scarponi imbullettati, di cuojo grezzo, erti, massicci e scivolosi. E avevan seco le loro donne, madri e mogli e figlie e sorelle, dagli occhi spauriti o lampeggianti d’un’ansietà torbida e schiva, vestite di baracane, avvolte nelle brevi mantelline di panno, bianche o nere, col fazzoletto dai vivaci colori in capo, annodato sotto il mento, alcune coi lobi degli orecchi strappati dal peso degli orecchini a cerchio, a pendagli, a lagrimoni; altre vestite di nero e con gli occhi e le guance bruciati dal pianto, parenti di qualche assassinato. Fra queste, quand’eran sole, s’aggirava occhiuta e obliqua qualche vecchia mezzana a tentar le più giovani e appariscenti che avvampavano per l’onta e che pur non di meno tavolta cedevano ed eran condotte, oppresse di angoscia e tremanti, a fare abbandono del proprio corpo, senz’alcun loro piacere, per non ritornare al paese a mani vuote, per comperare ai figlioli lontani, orfani, un pajo di scarpette, una vesticciuola.»

 

Forse un tantinello oleografica, ma pur sempre molto pertinente, la raffigarazione che Nino Savarese ([2]) fa delle zolfare e dei zolfatai che ben si attaglia alla Racalmuto dell’avvento fascista. «I fazzoletti di seta sgargiantissimi, i pantaloni a campana, gli scarpini di pelle lucida con lo  scricchiolìo, il berretto sulle ventitre e il grumoletto giallo dei semprevivi all’occhiello, sono distintivi della classe zolfilfera, non solo ignorati, ma ironizzati, dalla gente di campagna. Dopo di essere stati mezzo nudi come selvaggi, grondanti sudore anche di pieno inverno, nelle gallerie e nei pozzi afosi o sotto il peso delle corbe nei trasporti, per i quali spesso non esistono mezzi animali o meccanici, quelle vistose gale sono come una rivincita, una specie di commemorazione domenicale, di fatto, non tanto naturale e prevedibile, di essere ancora in vita e con le tasche piene di danaro  ben guadagnato. E fra i proprietari e dirigenti di zolfare e proprietari di terre, c’è ancora, una netta distinzione di modi, di vita, di gusti e persino una certa differenza nel linguaggio: gli uni sempre intenti a tentare nuove avventure di pozzi e di gallerie, con l’animo sospeso sulle incognite degli abissi e degli improvvisi disastri dei crolli e del grisù, gli altri con gli occhi pacificamente rivolti al cielo a scrutare i cambiamenti del tempo. [...] L’isola è ancora ricchissima di zolfo. Specie nella parte centrale, le miniere, in certe contrade, si seguono a brevissima distanza.

«Dalla profondità delle loro viscere esse hanno mandato ricchezze enormi: intere generazioni di padroni vi si sono arricchite; intere generazioni di operai vi hanno logorato la loro esistenza, ed eccole che fumano ancora, che è il loro modo di dire che esistono, che producono ancora e vogliono nuove braccia e nuovi sacrifici, in cambio di nuove promesse di ricchezza e di felicità! La fumata di una miniera altera le linee del paesaggio di una contrada, come per l’avvertimento che, in quel punto, la terra si sta consumando in una dissoluzione e in uno struggimento innaturali: c’è qualcosa che richiama la vampata di un incendio o di un disastro irreparabile. Non vedi le poche colonnine di fumo delle ciminiere di una fabbrica, le quali hanno sempre qualche cosa di simmetrico e di preordinato, ma centinaia di colonne di fumo che salgono, ora altissime, ora basse, ora a larghe volute come veli di nebbia densa e giallastra. [...]

«I molli pascoli, gli orti grassi, le vigne sembrano girare al largo da questi luoghidove la terra si è resa maledettamente infeconda.  [...]

«Qua e là, tra le distese grige del tufo e i mucchi rossastri dei detriti della fusione, sbocciano improvvisamente come grandi fiori gialli, i mucchi dello zolfo già fuso ed accatastato, pronto per essere spedito. Queste cataste vengono fatte in prossimità dei forni e dei calcheroni, che sono i luoghi della fusione; a sistema moderno, i primi, a modo antico, i secondi. I calcheroni, mucchi di minerale più minuto, a cono, sembrano piccolissimi vulcani a catena; i forni, piatte costruzioni in muratura hanno nell’interno la forma di botti da vino, col mezzule e la spina e l’ampio cocchiume aperto, dal quale, per certi soppalchi praticabili, viene versato il mineralegrezzo. Lo zolfo, acceso all’interno, filtra attraverso i residui che non fondono, e viene fuori dalla spina, in un liquido scuro, ancora denso, sfrigolante di fiammelle azzurrognole, tra vapori acri ed irrespirabili. Le operazioni che si vedono in una miniera sembrano allora quelle di una vendemmia diabolica condotta nel centro della terra, e questo il vino di Mefistofele!

«Di notte la miniera è appena segnata da grappoli di lampadine. Ma nel suo grembo infuocato il lavoro non si arresta nemmeno durante la notte. Squadre di minatori non lasciano il piccone. Si suda ancora e si impreca mentre nelle campagne intorno, i lumi delle casette campestri si spensero assai per tempo, e i contadini aspettano il nuovo soleper riprendere la loro fatica. E i campanacci dei bovi e delle pecore levano sui campi silenziosi il loro suono di pace e di tranquillità.»

 

Quanto al contrasto contadini-zolfatai che affiora dalla pagina di Savarese, per Racalmuto dovremmo fare un qualche distinguo se già nel lontano 1885 il pretore locale così riferiva alla Giunta per l’Inchiesta Agraria sulle condizioni della classe agricola ([3]): «Il contadino di questi luoghi non è un servo della gleba, non è scarsamente pagato come in altri luoghi: se non gli è ben pagato il suo lavorosui campi, trova sicuro lavoro e ben retribuito nelle miniere e perciò non è misero, ha di che vivere e può mantenere la sua famiglia [...], veri contadini, individui che attendono esclusivamente alla cultura dei campi, non ve ne sono: lavorano alternativamente, ora in miniera di zolfo, ora nei campi.»

L. Hamilton Caico, l’irrequita moglie di uno dei membri dell’importante famiglia Caico di Montedoro (paese finitimo con Racalmuto), commentando vicende e costumi di un paese agricolo-minerario attorno al primo decennio del secolo, in pieno riferimento, quindi, al centro che qui interessa, scriveva: «Il lavoro al quale il piconiere è sottoposto corrode e disgrega la sua personalità, fino alla perdita totale di ogni senso morale. Imbroglia e deruba il pur severo sorvegliante, durante il lavoro della miniera; e quando rientra in paese, non fa altro che bere e gioca d’azzardo, sperperando così tutto quello che ha guadagnato durante la settimana [...]. E’ rispettoso e sottomesso ai superiori durante le ore di lavoro, ma appena ritorna in paese diventa prepotente e litigioso, con un atteggiamento sprezzantee provocatorio [...]. E i carusi? Le infelici creature vengono ingaggiate per lavorare all’aperto non appena compiono dieci anni e, quando hanno compiuto i quattordici anni, per lavorare dentro la miniera [...] questo genere di vita li predispone al rachitismo e alla deformità e, moralmente, sopprime in essi ogni istinto di umana bontà, poiché crescono avendo a loro modello i piconieri, anzi con un più completo e generale disfacimento della dignità umana [...], mentre nell’animo nascono e crescono istinti violenti di ribellione e di malvagità, i sensi di un odio inconscio, le tendenze più perverse.» ([4])

Gli zolfatai di Racalmuto furono politicamente e sindacalmente vivaci. Abbiamo visto come subito passarono al fascismo, ma con un ribellismo sindacale che fu domato molto tardi dallo stesso fascismo. Ancora, nel 1931, osavano scioperare per contestare la riduzione della paga unilaterlmente decisa dagli esercenti. ([5]) Prima di tale - sospetta - conversione al fascismo, erano stati socialisti sotto l’egida di una strana figura d’avvocato locale, Vincenzo Vella, figura che illustreremo dopo. Non crediamo proprio che avessero gradito lo sproloquio moralistico che ebbe a propinargli un noto socialista dell’epoca, il geom. Domenico Saieva. Costui, organizzatore di minatori a Favara fra fine secolo ed i primi del ‘900, in un comizio agli zolfatai di Racalmuto del 12 marzo 1905 redarguiva i locali zolfatai in questi termini: «Io ho sentito il dovere di dirvi ... che se volete andare avanti occorre educarvi, abbandonare il vizio, le bettole e dare una contingente inferiore alla criminalità [...] le statistiche criminali parlano chiaro e fanno spavento [..]. Ignoranti, viziosi e disorganizzati come siete oggi, vivrete sempre nella più orribile abiezione morale ed economica [..].» ([6])

Quanto alla vexata quaestio dei carusi, il moralismo era antico, ma in fondo cinico. Richeggiano le scriteriate parole che un sindaco di Racalmuto, Gaspare Matrona, tanto conclamato da Leonardo Sciascia, ebbe a pronunciare nel 1875 davanti alla Giunta per l’Inchiesa sulla Sicilia: «A domanda: E l’affare fanciulli nelle zofare? Risponde: E’ questione grave, ci è l’umanità da una parte e l’interesse economico dall’altra. A domanda: Produce danni fisici e morali: Risponde Non quanto si crede. Per le zolfare credo che ci vorrebbe una specie di consorzio. Qui la proprietà è divisa. Tutti siamo nella commodità generale. Per togliere l’acqua occorrerebbe potersi avvalere per costruzione di acquedotto dei terreni sottostanti; una specie di servitù di acquedotto o meglio consorzio.» ([7])

 

Racalmuto si consegnava al fascismo dopo una freneteca corsa allo zolfo. Un indice è quello demografico che è bene qui segnare:

Abitanti di Racalmuto

Anno
N.ro abit.
Indici 1825 =100
1825
7.170
100
1831
7.806
108,87
1852
9.030
125,94
1869
12.252
170,88
1894
13.384
186,67
1901
16.029
223,56
1911
14.398
200,81
1921
13.045
181,94
1931
14.044
195,87
1936
13.061
182,16
1951
12.623
176,05
1961
11.293
157,50
1980
10.000
139,47


In  quasi un secolo, dal 1861 al 1951, i quozienti medi annui dell’incremento totale, di quello naturale ed il saldo emigratorio sono stati:

Comune di Racalmuto

 
 
 
 
 
 
 
 
Periodi
 
Incremento totale
incremento naturale
saldo migratorio
1861 -1 871
3,6
8,86
-5,26
1871 - 1881
20
18,43
1,55
1881 - 1901
09,65
13,26
-4,64
1901 - 1911
-10,8
11,32
-22,12
1911 - 1921
-14,6
4,19
-18,79
1921 - 1931
11,4
9,93
1,47
1931 - 1951
-06,72
9,97
-16,69


 

Nel periodo 1861-1871 l’incremento totale della popolazione è inferiore a quello naturale, il che comporta una emigrazione netta del 5,26 per mille; in quello successivo tra il 1871 ed il 1881 il saldo migratorio s’inverte ed abbiamo una immigrazione netta dell’1,55 per mille; dopo l’emigrazione prende il sopravvento e nel periodo 1881-1901 è del 4,64 per mille, nel decennio successivo di ben il 22,12 per mille e tra il 1911 ed il 1921 è ancora del 18,79 per mille; dopo - nel primo decennio fascista - abbiamo un’inversione di tendenza: il flusso diviene immigratorio per l’1,47 per mille; quindi il flusso emigratorio riprende il sopravvento ( 16,69 per mille nel ventennio 1931-1951). ([8])

Rispetto alla provincia di Agrigento, lo sviluppo demografico di Racalmuto ha avuto il seguente andamento:

Anno
abit. Racalmuto (A)
N.ro ind.
 (B).
abitanti prov. Ag. (C)
N.ro ind.
 (D)
Rapporto %
A/C
Rapporto % B/D
1901
16.029
100
371.638
100
4,313
100
1911
14.398
89,825
393.804
105,96
3,656
84,77
1921
13.045
90,603
369.856
93,92
3,527
96,47
1931
14.044
107,658
398.886
107,85
3,521
99,82
1936
13.061
93,001
407.759
102,22
3,203
90,98
1951
12.623
96,647
461.660
113,22
2,734
85,36
1961
11.293
89,464
447.458
96,92
2,524
92,30
1980
10.000
88,550
449.699
100,50
2,224
88,11

 

Rispetto al territorio del’intera provincia di Agrigento, la popolazione di Racalmuto scema sempre più d’importanza passando dal 4,313% del 1901 al 2,224% dei tempi d’oggi: un vero dimezzamento d’importanza.  Eugenio Napoleone Messana ([9], uno storico locale degli anni sessanta, da prendersi molto con le pinze, è alquanto malizioso quando scrive: «Osservando i dati dell’Istituto Centrale di statistica [...] balza evidente una crescente flessione demografica dal 1936 al 1961». Quasi si trattasse di un fenomeno inziato in pieno fascismo. Era invece, come abbiamo visto, un deflusso che affondava le radici alla fine dell’Ottocento.

 

La lezione di Leonardo Sciascia e la storia del fascismo racalmutese.

 

Scrive in Occhio di Capra,  Leonardo Sciascia, il grande scrittore che a Racalmuto è nato: «Isola nell’isola, ...la mia terra, la mia Sicilia, è Racalmuto.. E si può fare un lungo discorso su questa specie di sistema di isole nell’isola: l’isola-vallo  .. dentro l’isola Sicilia, l’isola-provincia dentro l’isola-vallo, l’isola paese, dentro l’isola-provincia, l’isola-famiglia dentro l’isola-paese, l’isola-individuo dentro l’isola-famiglia ...». I ricercatori di storia locale non si mostrano però tutti d’accordo. Annota, ad esempio, uno di loro: «Se il passo ha un valore metafisico, filosofico, di incomunicabilità esistenzialistica, non oso addentrarmici, ma se vuol essere nota storica su Racalmuto, ebbene mi pare proprio inattendibile. Racalmuto  è solo uno scisto della storia ma questa tutta quanta vi si riverbera.» ([10]) Quanto a storia fascista, ci pare che bisogna dar prorio ragione più ai locali ricercatori che a Sciascia.

 Leonardo Sciascia, nato nel 1921, qualche sapida nota sul fascismo racalmutese, qua e là, ce la fornisce. Affermatosi come scrittore alla fine degli anni cinquanta, si professa antifascista ed il suo rievocare non è quindi contrassegnato da obiettività. Bisogna depurare, ma alla fine un nucleo di verità emerge.

Qualche volta accenna al consenso delle masse al fascismo e può cogliersi un riferimento a Racalmuto, ove trascorse infanzia e giovinezza ed ebbe a frequentare  con devozione quasi filiale la famiglia di una sua zia materna, famiglia di spicco nel fascismo locale.

Si riferisce a Brancati ventenne, ma in sostanza od anche a se stesso e quindi a Racalmuto, in questo passo molto efficace ([11]): «Nato nel 1907 ... aveva dodici anni al momento in cui Mussolini fondava i fasci (di combattimento: parola che è mancata, negli anni nostri, alla pur possibile resurrezione del fascismo, d in fascismo) e quindici quando i fasci marciavano su Roma; tra adolescenza e giovinezza visse, come noi tra infanzia e adolescenza, quello che lo storico chiama “gli anni del consenso”: un consenso che, pieno e fervido nella classe borghese (e specialmente nella piccola ed infima, poiché mai lo stipendio del travet, del questurino, del maestro di scuola, è stato come allora sufficiente in rapporto al bisogno e a quel tanto di superfluo - pochissimo - cui si poteva limitatamente accedere), arrivava alla classe operaia , cui la “carta del lavoro” aveva dato, un po' in concreto un po’ d’illusione, quel che decenni di lotte sindacali e socialiste non avevano ottenuto. E c’erano le parole, che dal Poeta erano passate al regime: eroiche, solenni, vibranti. E l’adunarsi, l’aggregarsi: insopprimibile istanza giovanile oggi d’altro squallore. E i riti. Tutto era allora fascismo, insomma, intorno ad un uomo di vent’anni. E perché un uomo di vent’anni cominciasse a non sentirsi fascista, a detestare quelle parole, quei riti, quella violenza, quella unanimità, occorreva insorgesseuna strana quanto benefica mancanza di  rispetto”: verso i padri, le madri, i parenti tutti, le autorità tutte, la scuola, il Poeta, la Chiesa. Sicché, paradossalmente, il guadagnare buona salute d’intelligenza, di giudizio, finiva col riscuotere una condizione di malattia: l’isolamento (alla mercé dei delatori, anche fisico), la solitudine, l’esilio»

 

Sui rapporti tra fascismo e mafia, pubblicava, in quei tempi, un articolo sul Corriere della Sera, destinato a suscitare un vespaio polemico, ancora oggi non sopito. Vi riecheggiano i precedenti moralismi a sfondo storico. Commentando un lavoro  di Christopher Duggan ([12]) «L’idea, - scrive Sciascia - e  il conseguente comportamento, che il primo fascismo ebbe nei riguardi della mafia, si può riassumere in una specie di sillogismo: il fascismo stenta a sorgerelà dove il socialismo è debole; in Sicilia la mafia ha impedito che il socialismo prendesse forza: la mafia è già fascismo. Idea non infondata, evidentemente: solo che occorreva incorporare la mafia nel fascismo vero e proprio. Ma la mafia era anche, come il fascismo, altre cose. E tra le altre cose che il fascismo era, un corso di un certo vigore aveva l’istanza  rivoluzionaria degli ex combattenti , dei giovani che dal partito nazionalista di federzoni per osmosi quasi naturale passavano al fascismo o al fascismo  trasmigravano non dismettendo del tutto vagheggiamenti socialisti ed anarchici: sparute minoranze, in Sicilia; ma che, prima facilmente conculcate, nell’invigorirsi del fascismo nelle regioni settentrionali  e nella permissività e protezione di cui godeva da parte dei prefetti, dei questori, dei commissari di polizia e di quasi tutte le autorità dello stato; nella paura che incuteva ai vecchi rappresentanti dell’ordine (a quel punto disordine) democratico, avevano assunto un ruolo del tutto sproporzionato al loro numero , un ruolo invadente e temibile. Temibile anche dal fascismo stesso che - nato nel Nord in rispondenza agli interessi degli agrari, industriali e imprenditori di quelle regioni e, almeno in questo, ponendosi in precisa continuità agli interessi “risorgimentali” - volentieri avrebbe fatto a meno di loro per più agevolmente patteggiare con gli agrari siciliani, e quindi con la mafia. E se ne liberò, infatti, appena dopo il delitto Matteotti, consolidatosi nel potere: e ne fu segno definitivo l’arresto di Alfredo Cucco [arresto mai avvenuto, n.d.r.] (figura del fascismo isolano, di linea radical-borghese e progressista, per come Duggan e Mack Smith lo definiscono, che da questo libro ottiene, credo giustamente, quella rivalutazione che vanamente sperò di ottenere dal fascismo, che soltanto durante la repubblica di Salò lo riprese [invero Cucco fu riabilitato nel 1939 divenendo vicesegretario del PNF, subito dopo la caduta in disgrazia di Starace, n.d.r.] e promosse nei suoi ranghi. Nel fascismo arrivato al potere, ormai sicuro e spavaldo, non è che quella specie di sillogismo svanisse del tutto: ma come il fascismo doveva, in Sicilia, liberarsi delle frange “rivoluzionarie” per patteggiare con gli agrari e gli esercenti delle zolfare, costoro dovevano - a garantire al fascismo almeno l’immagine di restauratore dell’ordine pubblico - liberarsi delle frange criminali più inquiete e appariscenti. E non è senza significato che nella lotta condotta da Mori, contro la mafia assumessero ruolo determinante i campieri [...]: che erano, i campieri, le guardie del feudo, prima insostituibili mediatori tra la proprietà fondiaria e la mafia e, al momento della repressione Mori, insostituibile elemento a consentire l’efficienza e l’efficacia del patto. [...] Rimasto inalterato il suo [di Mori] senso del dovere nei riguardi dello stato, che era ormai lo stato fascista, e alimentato questo suo senso del dovere da una simpatia che un conservatore non liberale non poteva non sentire per il conservatorismo, in cui il fascismo andava configurandosi, l’innegabile successo delle sue operazioni repressive (non c’è, nei miei ricordi, un solo arresto effettuato dalle squadre di Mori in provincia di Agrigento che riscuotesse dubbio o disapprovazione nell’opinione pubblica) nascondeva anche il gioco di una fazione fascista conservatrice e di vasto richiamo contro altra che approssimativamente si può dire progressista, e più debole. Sicché se ne può concludere che l’antimafia è stata allora strumento di una fazione, internamente al fascismo, per il raggiungimento di un potere incontrastato e incontrastabile E incontrastabile non perché assiomaticamente incontrastabile era il regime - o non solo: ma perché innegabile appariva la restituzione all’ordine pubblico che il dissenso, per qualsiasi ragione e sotto qualsiasi forma, poteva essere facilmente etichettato come “mafioso”. Morale che possiamo estrarrre, per così dire, dalla favola (documentatissima) che Duggan ci racconta. E da tener presente: l’antimafia come strumento di potere. Che può benissimo accadere anche in un sistema democratico, retorica aiutando e spirito critico mancando.)» ( [13])

Qualche giorno dopo (il 26 gennaio 1987, sempre sul Corriese della Sera), sull’onda della polemica con Scalfari e Pansa, Sciascia ha modo di aggiungere: «Respingere quello che con disprezzo viene chiamato “garantismo” - e che è poi un richiamo alle regole, al diritto, alla Costituzione - come elemento debilitante nella lotta alla mafia, è un errore di incalcolate conseguenze. Non c’è dubbio che il fascismo poteva nell’immediato (e si può anche riconoscere che c’è riuscito) condurre una lotta alla mafia molto più efficace di quella che può condurre la democrazia: ma era appunto il fascismo, al cui potere - se messi alla stretta - alcuni italiani avrebbero preferito che la mafia continuasse a vivere. Dico alcuni: poiché non soltanto per aver letto De Felice so del consenso dei più, ma per preciso e indelebile ricordo. Da ciò è venuta, in certe pagine di Brancati ([14]) la rappresentazione del mafioso buono, del mafioso di ragione - e cioè del mafioso antifascista.» ([15])

In altri tempi e con più serenità, con una sintassi meno labirintica - che stranamente emerge nei passi citati, segno forse del tormentato delinerasi del pensiero - Sciascia ragguagliava sull’epilogo del fascismo, scrivendo: «”avanti che cambia bandierà”! Questo era lo stato d’animo dei siciliani: l’attesa che “cambiasse bandiera”, nel senso di un rovesciamento della situazione interna. Tale rovesciamento era impensabile non avvenisse per il non delinearsi o per il realizzarsi di una vittoria anglo-americana. Cos’ americani ed inglesi erano attesi; magari vagamenti, che pur nutrendo la più grande fiducia per il colonnello Stevans, la voce di Palazzo Venezia manteneva una sua tenue ragnatela d’incanto. [ ... ] Quando [...] sirene e campane a martello annunciarono l’emergenza, la cosa apparve diversa. Dalla proclamazione dello stato di emergenza ha inizio quella che senza ironia e senza risentimento, ha tutti i caratteri di una kermesse. S’intende che cadenze tragiche non mancarono; che città e paesi interi assunsero un pietoso volto di morte sotto la violenza, spesso inutile e sciocca, dell’invasore . Ma un’aria di festa popolare accompagnò da Gela a Messina il cammino delle armate anglo-americane. Ci auguravamo allora fosse la Kermesse della libertà. Forse lo era. Ma quel che dopo è accaduto, fino ad oggi, ci fa diversamente credere. Era la kermesse dei servi che finalmente si liberano da un padrone ed un altro ne attendono che sperano più largo, più generoso, più stupido. Era la festa che degnamente terminava un ventenniodi diseducazione, di adorazione alla forza, di culto al proprio stomaco. Era giusto che la più balorda e cieca primogenitura che un capo abbia mai offerta ad un popolo, venisse dal popolo cambiata per una scatola di ‘ragione K’  dell’esercito nemico. [...] Eravamo al 14 luglio. Nel pomeriggio si diffuse la notizia che gli americavano arrivavano. Il podestà, l’arciprete e un interprete si avviarono ad incontrarli. La popolazione, in attesa, si preoccupò di bruciare, ciascuno nella propria casa, tessere, ritratti di Mussolini, opuscoli di propaganda. Dagli occhielli i distintivi scivolarono nelle fogne. [....] cinque soldati col lungo fucile abbassato sbucarono improvvisamente nella piazza, indecisi. Videro, davanti una porta semiaperta, qualche uomo in divisa; e si mossero sicuri. I carabinieri si trovarono puntati addosso i fucili senza ancora capire che gli americani erano finalmente arrivati. Le loro pistole penzolavano nelle mani di uno della pattuglia. Un applauso scoppiò. Una voce chiese sigarette; e il caporale americano tastò le tasche del brigadiere dei carabinieri, ne tirò un pacchetto di Africa e lo lanciò agli spettatori. Come in un salotto quando fiorisce una battuta di spirito, un senso di amenità si diffuse al gesto del caporale. La festa era cominciata. Da tutte le strade la popolazione affluiva. Non si sa come, ‘cannate’ di vino passate di mano in mano sorvolarono la folla, bicchieri si arrubinarono, pieni e grondanti venivano offerti con dolce violenza alla pattuglia che li rifiutava. L’inglese degli emigranti sciamava goffo e servile intorno a quei cinque uoministupefatti: tutti coloro che in America avevano guadagnato quel po’ di denaro che in patria era divenuto casa e podere, erano corsi come ad un appuntamento felice. Una enorme bandiera di seta lacera, la bandiera degli Stati Uniti, fu totla di mano a quel prover’uomo che l’aveva tirata fuori: passò saldamente nelle mani di un altro che per caso, proprio in quei giorni, aveva lasciato le carceri regie. Fu allora il momento di pensare alle insegne della casa del  fascio. Tirate giù, furono accompagnate a calci per tutte le strade: e l’indomani si trovarono galleggianti dentro un abbeveratoio. Sembravano di bronzo, ma in realtà erano di latta. [...] Il segretario politico, il podestà, il maresciallo dei carabinieri furono l’indomani prelevati: e loro notizie giunsero alle famiglie, qualche mese dopo da Orano. In fondo nemmeno il segretario politico era quel che agli americani fu riferito su tutti e tre. Si può dire anzi che aveva una qualità che, in un gerarca, potrà sembrar strana al lettore: non era ladro. Ma qualcuno bisognava proprio mandarlo in galera, almeno per dare un segno dei tempi nuovi. Il fascismo lasciava una pingue eredità di spie di ladri di odio di diffidenza. Chi qualche giorno dopo si trovò a calcolarne un inventario, dovette proprio cominciarlo col cittadino che gli americani subito predilessero.» ([16])

A voler adattare la lezione sciasciana del fascimo alla storia locale di Racalmuto, potremmo rimarcare i seguenti aforismi e la relativa periodizzazione:

1°) l’inconsistente forza del socialismo racalmutese aveva svilito ogni forma di fascismo nel paese per quella “specie di sillogismo” mutuabile dalla “favola (documentatissima)” del giovane studioso di Oxford, Duggan;

2°) in loco l’antidoto al socialismo era costituito dalla mafia legata agli agrari del luogo, mafia che pertanto “è già fascismo”;

3°) ma il fascismo, come la mafia, “era .. anche altre cose”;

4)° “era l’istanza rivoluzionaria degli ex combattenti”... che trasmigrano al fascismo “non dismettendo del tutto vagheggiamenti socialisti ed anarchici”. (Si dà il caso che uno dei fondatori del fascismo racalmutese, l’avv. Salvatore Burruano, fosse un ex ardito e che l’altro fondatore, l’avv. Agostino Puma, s’interessasse alla lega zolfatai d’ispirazione socialista, convertendola, come si è visto, al fascismo):

5°) ma il fascismo “volentieri avrebbe fatto a meno di loro (gli ex nazionalisti)  per più agevolmente patteggiare con gli agrari siciliani, e quindi con la mafia”. Qui invero la costruzione sciasciana stride con l’evolversi degli eventi locali. Calogero Vizzini, che se ne stava a Racalmuto per essere gabellotto dell’importante miniera di Gibillini, figura in consorteria, piuttosto ambigua, con i pretesi puri del fascismo degli ex-nazionalisti;

6°) degli ex-nazionalisti il fascismo “se ne liberò .. dopo il delitto Matteotti”; “ne fu segno definitivo l’arresto di Alfredo Cucco”. Questa però appare lettura affrettata (e poco documentata). Ad Agrigento (e provincia) è il segretario della federazione fascista Galatioto (e con lui Puma, Burruano e  Calogero Vizzini) che ha la peggio. Risulta vittorioso l’on. Abisso che ebbe trasformista lo era stato da tempo e che a seconda dei casi può considerarsi legato alla mafia o appartenente agli ex-combattenti;

7°) giunto il fascismo al potere, “ormai sicuro e spavaldo”, nel liberarsi delle sue frange “rivoluzionarie” chiede in contropartita agli agrari ed agli esercenti le zolfare di “liberarsi delle frange criminali più inquiete ed appariscenti”. Questa fase, invero, risulta così nebulosa per Racalmuto da considerala inesistente;

8°) inizia la repressione Mori contro la mafia che incotra il favore delle masse nell’agrigentino (“non c’è, nei miei ricordi, - scrive Sciascia - un solo arresto effettuato dalle squadre di Mori in provincia di Agrigento che riscuotesse dubbio o disapprovazione”). A noi risulta qualche elemento di stridore. Si racconta ancor oggi che se i militi di Mori incontravano qualche quieto racalmutese, che in piazza osasse andare  “cu lu tascu tuortu” (berretto storto), procedevano a raddrizzarglielo con sputi di scherno. Sciascia limita la lotta alla mafia alla sola azione di Mori - piuttosto inconsistente in provincia di Agrigento - ed alla sua folkloristica politica dei campieri (che a Racalmuto potevano ridursi ad una sola unità e riguardante il feudo di Villanova degli “ex-clericali” Nalbone);

9°) l’azione di Mori sarebbe equivalsa alla moderna antimafia; siffatta antimafia sarebbe stata “strumento di una fazione all’interno del fascismo, per il raggiungimento di un potere incontrastato ed incontrastabile”. Tesi invero letterariamente suasiva; storicamente dubbia;

10°) vengono quindi “gli anni del consenso dei più”: Sciascia ne è convinto sia perchè l’afferma “lo storico” sia perché lo sa “non soltanto per aver letto De Felice [....], ma per preciso e indelebile ricordo”;

11°) è un consenso che ben si attaglia a Racalmuto: esso è «pieno e fervido nella classe borghese ... [e arriva] alla classe operaia , cui la “carta del lavoro” aveva dato, un po' in concreto un po’ d’illusione, quel che decenni di lotte sindacali e socialiste non avevano ottenuto»; e qui non si può non essere d’accordo con lo scrittore racalmutese;

12) è un consenso che a Racalmuto si protrae sino al 1943, in definitiva sino al luglio di quell’anno, come la splendida pagina di Kermesse illustra e spiega.  

 

La storia nazionale del fascismo e suoi (flebili) echi sulla vicenda locale prima del 1925.

 

Quando il 18 ottobre 1914 Benito Mussolini  pubblicò sull’ «Avanti!» lo storico articolo «Dalla neutralità assoluta alla neutralità attiva ed operante», è molto dubbio che qualcuno a Racalmuto ebbe a leggerlo. Poteva, eventualmente, averne presa visione l’unico socialista di cultura di Racalmuto: l’avv. Vincenzo Vella. Il suo fascicolo che la P.S. da tempo approntava ce lo mostra assiduo lettore di «La Lotta di classe», «La Giustizia sociale», di «Riscossa» e di certi «opuscoli editi dal Comitato Regionale della Federazione socialista Ligure» .([17]) Per il questore di Girgenti, il Vella - così annota il 20 ottobre 1913 - «è laureato in legge, ma la sua cultura non va oltre gli studi fatti e le molte pubblicazioni socialiste lette e ben poco ben assimilate». Fose fra quelle letture c’era l’ «Avanti!», ma possiamo essere certi - a prescindere dalle malevoli note del questiore ‘girgentano’ - che non afferrò di certo che la storia d’Italia prendeva in quell’ottobre 1914 una radicale svolta nella storia dei partiti politici d’Italia. La successiva velenosa polemica tra il partito socialista e Benito Mussolini, il Vella, però, sicuramente la dovette seguire in quel di Racalmuto. E quando - dopo il delitto Matteotti - finì sul serio negli schedari politici del fascismo e ne fu perseguitato ancor più pressantemente di quanto non lo fosse stato prima dalle questure antisocialiste dei governi liberali.

A noi pare che la lezione di Ernst Nolte ([18]) abbia maggiore vigore di quanto leggesi tra i detrattori ([19]) del fascismo e i suoi coevi esaltatori([20]): non sembri quindi ozioso se ci permettiamo di riportare il seguente stralcio dell’opera dello studioso tedesco. «L’articolo fu in effetti l’ultimo scritto da Mussolini in veste di direttore dell’ «Avanti!». Il giorno dopo, il direttorio del partito si riuniva a Bologna, e qui la posizione di Mussolini non trovava neppure un difensore; e, benché si cercasse di fargli dei ponti d’oro, dovette immediatamente dimissionare dalla direzione dell’ «Avanti!». Le spiegazioni, che egli ne ha dato all’epoca, permettono di affondare lo sguardo nei suoi moventi: «Io capirei la nuova neutralità assoluta qualora avesse il coraggio di arrivare fino in fondo e cioè di provocare un’insurrezione; ma questa a priori la scartate, perché sapete di andare incontro ad un insuccesso. E allora dite francamente che siete contrari alla guerra ... perché avete paura delle baionette ... Se lo volete, se vi sentite, io sono alla vostra testa: neutralisti fuori della legalità ... ebbene, bisogna essere decisi. Ma la neutralità assoluta nella legalità ormai è divenuta insostenibile.»

«Non viene addotto alcun motivo di natura contenutistica: qui non si parla di democrazia, delle necessità vitali dell’Italia, dei territori irredenti; l’impossibilità di una radicale coerenza spinge il rivoluzionario su una strada, sulla quale avrebbe dovuto procedere assieme ai suoi avversari più decisi. A quanto sembra, tuttavia Mussolini sperava di portare dalla sua il partito ovvero cospicue frazioni di esso. Pochi giorni gli sono sufficienti per togliergli le illusione: il 25 ottobre, Mussolini scrive all’amico Torquato Nanni «Ho voluto aprire il vicolo cieco nel quale si era ficcato il partito, ma nell’urto sono caduto»

«Mussolini non era uomo da sottomettersi alla disciplina di partito; si sarebbe potuto aspettarsi da lui che tacesse o, per lo meno, che non scrivesse contro il partito, e a quanto pare una premessa del genere è stata da lui fatta ai compagni della direzione. Ma egli non riuscì a tenersi chiuso dentro quella che riteneva la sua verità, e nel giro di poche settimane tra Mussolini e gli antichi amici si scavò un abisso di incomprension, disprezzo e odio, che mai più sarebbe colmato.

«Pare che alla fine di ottobre, Mussolini abbia concepito l’idea di crearsi un proprio organo di stampa: già il 15 novembre, apparve il primo così numero del «Popolo d’Italia. E’ perfettamente comprensibile che i socialisti annusassero odor di «tradimento», che sospettassero che Mussolini si fosse «venduto»: sembrava impossibile che un uomo completamente privo di mezzi potesse, con le sue sole forze e nel giro di pochi giorni, far sorgere dal nulla un quotidiano. Effettivamente Mussolini, ancora in veste di direttore dell’ «Avanti!» aveva avuto degli abboccamenti col direttore di un foglio bolognese, che sapeva organo degli agrari; da costui, egli ebbe, anche in seguito, un valido appoggio di carattere tecnico-tipografico. Ma da dove venissero i capitali è, oggi ancora, cosa non sufficientemente chiarita. Si parlò quasi subito di denaro francese, supposizione che però non si riuscì mai a provare. L’ipotesi più probabile è che organi governativi si siano assunti il compito di finanziatori indiretti; numerosi erano infatti i circoli, in Italia, interessati a un indebolimento del partito socialista. Indubbiamente dunque Mussolini nel momento in cui si fece dare un giornale, divenne una carta in mano di qualcuno. Affatto infondata è invece la supposizione che il denaro, il giornale proprio fossero il motivo per il suo passaggio in campo interventista. Ma proprio questo lasciò supporre l’ «Avanti!», ponendo, immediatamente dopo l’apparizione del nuovo giornale, e instancabilmente, la domanda: «Chi paga?». Nel giro di poche settimane, l’ex-beniamino del partito era divenuto un «venduto alla borghesia» e un «transfuga», che meritava «il sacrosanto odio del proletariato italiano». Allorché, il 24 novembre, Mussolini si presentò alla riunione dei membri della sezione milanese, chiamati a decidere in merito alla sua espulsione, il suo discorso fu sommesso da un uragano di ingiurie, fischi e minacce. Il partito socialista compì un linciaggio morale nei confronti del «traditore»; nessuno dei fogli socialisti italiani si schierò dalla sua parte, e Mussolini non riuscì a tirare dalla sua parte neppure una minima frazione del partito. Era la sua prima sconfitta, e insieme quella che avrebbe avuto le maggiori conseguenze. Mussolini era solo.»

Da qui «prese le mosse una polemica della massima violenza e spesso bassamente ostile, nel corso della quale furono poste le basi per l’interpretazione socialista del fascismo e per l’interpretazione fascista del socialismo. In ogni caso, la dissociazioneera compiuta. Mussolini era adesso un generale senza esercito, un credente senza fede. Un piccolo gruppo di individui, per i quali egli era il «duce», naturalmente gli si raccolse ben presto attorno. Già nell’ottobre, quando ancora Mussolini lottava con se stesso, dalle file dei sindacalisti e socialisti si erano costituiti i fasci interventisti, sotto la guida di Filippo Corridoni, Michele Bianchi, Massimo Rocca, Cesare Rosssi e altri. In dicembre questi si fusero coi seguaci di Mussolini nel «fascio d’azione rivoluzionaria», la cellula germinale del fascismo. L’unico punto programmatico sostanziale è il proposito di provocare l’intervento a fianco dell’Intesa; per il resto, Mussolini pone un postulato non facilmente superabile: «Riaffermare le idealià socialiste rivedendole a lume della critica sotto l’attuale terribile lezione dei fatti» [...]».

Ma tra fascismo e vicenda personale di Mussolini qual è la differenza? Si dovrebbe essere d’accordo col Nolte quando afferma: «il fascismo è la propria storia e questa storia è indissolubilmente connessa alla biografia di Mussolini» (op. cit. pag. 226).

Le vicende richiamate erano però faccende dei lontani e brumosi territori di Milano e Bologna perché se ne possano cogliere significatiche rispondenze nella solatìa Racalmuto, alle prese con lo zolfo, la mano d’opera contadina, gli agrari liberali e gli esercenti di miniere che in parte con i primi si confondevano e si parte se ne diversificavano. La guerra in ogni caso non era appetibile: contadini e zolfatai che andavano soldati erano braccia sottratte alla terra ed alle miniere, e ciò significava crisi. Quanto alle masse esse erano ostili alla guerra, andandone di mezzo la vita della loro migliore gioventù (la guerra del 1915-18 comporterà la morte di 196 racalmutesi oltre a 33 dispersi: a scorrerne i nomi, i figli dei “galantuomini” erano riusciti quasi totalmente a farla franca; forte fu la corruzione per esoneri di comodo). Quanto agli agrari e ai titolari delle miniere, la guerra era un guaio per il diradarsi della mano d’opera. Una volta tanto, padroni e proletari erano d’accordo nel professare il non interventismo. Eugenio Napoleone Messana propende per una qualche presenza locale degli interventisi. Se vi fu, fu comunque molto limitata, anche a credere a  quello storico locale, cui invero accordiamo poca credibilità: tutto si sarebbe limitato a questa singolare vicenda: «L’interventismo, che fece leva sulla politica italiana e condusse alla guerra la nazione, a Racalmuto fu rappresentato da Vincenzo Tulumello di Giovanni , giovane ardente dalla parola suasiva e convincente, il quale però, a guerra scoppiata, fece di tutto per non andarvi e la voce popolare vuole che anche sia morto perché si provocò il diabete.» ([21])

In ogni caso, siamo certi del fatto che il «Popolo d’Italia» giunse a Racalmuto solo al tempo della completa affermazione del fascismo e i «fasci d’azione rivoluzionaria» i racalmutesi non seppero neppure cosa fossero.

Ben diverso è il discorso per la fondazione dei fascismo ed in particolare del primo Fascio di combattimento in data 19 marzo 1919. Un racalmutese il notaio Giuseppe Pedalino di Rosa sarebbe stato nientemeno che un “sansepolcrista”. Il personaggio, sul quale sono disponibili alcune fonti che però sono di segno divergente, rassomiglia a quello del Rubè di A.G. Borgese, anche se qui la storia può dirsi a lieto fine. Nato a Racalmuto il 3.11.1879, si laurea in giurisprudenza a Palermo nel 1901  e si trasferisce a Milano per esercitarvi la professione di avvocato fino al 1925, e dopo quella di notaio sino. Morì a Merate il 15\10\1957. Risulta iscritto al P.N.F. dal 23.3.1919. E.N. Messana così ce lo descrive: «Fra i socialisti divenuti interventisti si ricorda il notaro Giuseppe Pedalino di Rosa, finito poi al fascio e divenuto un sansepolcrista. Questi fu anche un poeta in vernacolo, un tipo bizzarro, che amò molto il paese. Scrisse «Lu cantastorie d’America» in cui cantò luoghi e persone di Racalmuto nell’aulico dialetto siciliano. Visse molti anni a Milano e vi morì». ([22]) Salvatore Restivo riscrive, palesemente agiografico, così la biografia nel giornaletto locale del maggio 1993 ([23]) « ... Fin dalla prima giovinezza appartenne al partito socialista; in Sicilia con Giuseppe Lauricella della vicina Ravanusa, a Milano con il gruppo di cui facevano parte tra gli altri Pietro Nenni ed Emilio Caldara.    [ ..] Il 23 marzo 1919 partecipò alla fondazione dei fasci  di combattimento, dai quali si allontanò progressivamente fino ad essere “eliminato per diserzione”. [...] Nel 1934 organizzò a Racalmuto un raduno di poeti siciliani a cui parteciparono anche Luigi Natoli e Ignazio Buttitta [..]». Il Pedalino ebbe, invero, la sventura di una sorella che andò sposa ad un appartenente alla celebre famiglia di anarchici di Grotte: i Vella. Il casellario politico centrale registra alla busta 5342 gli anarchici: 1°) Vella Antonio (fasc. N.° 6504) nato a Grotte il 6.9.1886; 2°) Vella Giuseppe (fasc. N.° 3908) nato a Grotte il 10.11.1895; 3°) Vella Diego (fasc. N.° 22144) nato a Racalmuto il 15.2.1901, 5°) Vella Dante Nunziato (fasc. N.° 4621) nato a Racalmuto il 24.3.1908, ed alla busta n.° 5344, il più celebre di tutti, 5°) Vella Randolfo (fasc. 17912) nato a  Grotte il 2o.4.1893. Non è questa la sede per accennare, anche brevemente, all’affascinante storia di questa famiglia di anarchici, socialisti, antifascisti, ma anche in rotta con gli esuli comunisti. Ai nostri fini, il richiamo al C.P.C. dell’Archivio Centrale dello Stato (busta n.° 5342) ci serve per inquadrare la figura del notaio Pedalino. Il 27 dicembre 1937, le questure d’Italia sono alle prese con un dei suddetti schedati: Vella Dante Nunziato. Scoprono che è parente del notaio milanese. Chiedono informazioni . Ecco la risposta: «27 dicembre 1937 - anno XVI. Oggetto: Vella Dante fu Giuseppe e fu Concetta Pedalino, nato a Racalmuto il 24/3/1908 residente a Lugano ... Prefettura di Milano ... “comunico che l’avv. Pedalino Giuseppe fu Fedele e di Rosa Maria Vita, nato a Racalmuto il 3.11.1879 (e non 1895) risiede in questa città dal paese di origine, ed abita in via Pergolesi n.° 23 con studio in via Monforte n.° 14.

«Coniugato con Passoni Maria di Emilio e Speranza Rosa nata a Milano il 29.9.1897 ha una figlia a nome Vitamaria Alfonsina, nata a Milano il 2.10.1926. Il Pedalino è zio materno del Vella Dante. Il Pedalino risulta di regolare condotta in genere ed è iscritto al P.N.F. dal 23.3.1919. Il prefetto: (G. Mangano).» ( [24])

Fino al 1937, il Pedalino è dunque ancora un “regolare fascista” che può vantare la prestigiosa tessera dei primordi fascisti. Recante la data dei sansepolcristi. Certo, fu tessera presa a Milano e Racalmuto c’entra solo per un fatto anagrafico del Pedalino. Non è da escludere che questi ebbe guai dopo quella richiesta d’informazioni della polizia poltica del 1937. I due suoi nipoti, per parte della sorella, Dante Nunziato e Rodolfo Vella, proprio in quell’anno si erano arruolati nelle “milizie rosse” della guerra di Spagna.

Ma davvero il Pedalino partecipò a quella adunata tenuta la sera del 23 marzo 1919, fra le mura di un vecchio palazzo milanese in Piazza San Sepolcro, donde uscì il primo Fascio di combattimento?  Non va dimenticato che quella fu una adunata che poi si tinse di un’aura veramente leggendaria. ([25]) Lo stesso Mussolini non ricordava più quanti veramente fossero. Una volta parla di cinquantadue che “giurarono  che la lotta che avevano intrapresa - quella sera del 23 marzo 1919 - non poteva finire se non con una trionfale vittoria”, ed altra volta rettifica in cinquantatre  (12 febbraio 1925) ([26]) Il Pedalino, in quello ristretto stuolo, forse non fu mai. Una qualche piccola astuzia (o menzogna), forse utilizzato al tempo del concorso a notaio. Era un avventuroso siciliano, dopo tutto! Quei nipoti, della III Internazionale, finiti nelle milizie rosse di Spagna ebbero fose a guastargli quella vantata primogenitura politica.

Ma il Pedalino - a conferma della validità di certe valutazioni storiche - potè aderire all’adunata di San Silvestro per lo sfumato socialismo che si riverberava. Le sue origini socialiste ed anarchiche racalmutesi poterono spingerlo in tal senso. Con il Nolte ([27]) bisogna ammettere che, fondato il 23 marzo 1919 a Milano, nel corso di una non mumerosa assemblea, in massima parte da ex-inyterventisti  di sinistra, vuole essere inteso come l’inizio di un socialismo nazionale, primo germe della socialdemocrazia ..». E questa tendenza mussoliniana verso un blando socialismo - a mo’ di richiamo delle origini - gli storici la rinvengono puntualmente in varie contingenze, almeno sino al congresso di Roma del 1921. ([28]) Non è questa la sede per trattare tale atteggiamento mussoliniano. Vi si inseriscono i travagli della sconfitta elettorale del 1919; l’autunno violento del 1920; l’intrigo con la borghesia agraria emiliana; l’insuccesso dell’astuta manovra di coinvolgimento di Giolitti; la resurrezione elettorale del maggio 1921 (elezioni volute - e perse - da Giolitti); l’accordo firmato con i socialisti il 3 agosto 1921; la retromercia innestata al congresso di Roma (7-10 novembre 1921); la trasformazione in partito del “movimento fascista”; la professione mussoliniana della “tendenza repubblica”, etc. Dalla sera di San Silvestro del 23 marzo 1919 all’abbraccio con Dino Grandi nel novembre del 1921 la storia italiana ha le sue stigmate fasciste e la vicenda mussoliniana con collima del tutto con quella del fascismo. Eppure tutto questo sembra, per la Sicilia, ed ancor più per Racalmuto, avvenire in un alienissimo mondo, persino totalmente ignorato. Annota il Nolte (pag. 288):«.. le regioni meridionali (salvo la Puglia) e le isole non ne sapevano praticamente nulla fino a poco prima della marcia su Roma.»

Ma che tipo di partito venne fuori dal Congresso dell’Augusteo del novembre 1921? A questa domanda tenta di rispondere il Ragionieri ([29]). «Non era poi un partito troppo differente dagli altri partiti di massa», afferma lo storico di sinistra e continua: «La sua caratteristica più originale era in foldo  rappresentata dal fatto che esso era dotato di un’organizzazione paramilitare [ma trasformatasi nella Milizia solo nel 1923]»; ma era un partito «completamente diverso dalle organizzazioni della borghesia italiana»; in esso «la prevalenza anche quantitativa degli strati della borghesia indica già il processo in atto di ricomposizione di un blocco di forze piccolo e medio borghesi sotto la direzione dei gruppi superiori degli indusrtiali e degli agrari»; «figlio dei tempi nuovi portati dal conflitto mondiale, il fascismo poteva trovare nella massiccia presenza dei giovanissimi nelle sue file una solida garanzia per l’avvenire».

Sarà stato per la mancanza di quei “gruppi superiori degli industriali”; sarà stato per la presenza della mafia (stando al quasi sillogismo sciasciano), fatto sta che neppure sotto la nuova forma di partito il fascismo riesce a diffondersi in Sicilia - tra il 1921 ed il 1922 - e men che meno a Racalmuto (ove peraltro mancava un vero e proprio latifondo perché si ptesse parlare di agrari nel senso del ragionieri, in senso cioè di classe borghese con una propria coscienza di ceto egemone).

Nell’agosto del 1922 - con il fallimento dello sciopero dei giorni 1-3 voluto dal PSI e dalla CGDL - si registra la definitiva sconfitta del socialismo italiano e si apre il viatico per l’avvento di Mussolini al potere (con il suo viaggio a Roma in vagone letto nella notte del 29 ottobre, dopo la Marcia su Roma).

Nulla troviamo che in qualche modo comprovi la minima percezione in quel di Racalmuto che la storia era cambiata, che il cosiddetto stato liberale era spirato, che i padrini della Democrazia Sociale (Guarino Amella a livello strettamente locale, di Giovanni Antonio Colonna di Cesarò per un referente  a respiro unpò più vasto, regionale) erano avviati verso uno scialbo tramonto.

 Racalmuto, invero, era troppo in periferia, persino rispetto alla storia siciliana, per avere acume di analisi e lungimiranza d’orizzonte. Quel che sorprende che in quel biennio cruciale per la storia nazionale anche filosofi alla Croce, o raffinati giornalisti alla Albertini, o, in particolare, economistti già celebre alla Einaudi non riuscissero a vedere molto lontano, quanto al fascismo che esplodeva sotto i loro occhi. Sorprende, ad esempio, la miopia di Luigi Einaudi. Sfogliando le sue Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), lo vediamo impegnato nel gennaio 1921 in una retriva polemica con i socialisti sull’ «ostruzionismo del pane». Scriveva che «il primo atto concreto dei socialisti unitari e concentrazionisti è stata la deliberazione di intensificare alla camera l’ostruzionismo contro il progetto sul pane. Era facile prevedere che la scisssione tra socialisti e comunisti avrebbe istigato ambedue le frazioni ad una lotta acerba di concorrenza non per fare il bene, ma per dimostrarsi ognuna di esse più accesa, più rossa, più avanzata.» ([30]) Sull’argomento tornava con l’articolo dell’11 febbraio “Alla ricerca di una formula definitiva per risolvere il problema del pane” (op. cit. pag. 40 e segg.) e con quello del 24 febbraio “ed ora all’opera!” (op. cit. pag. 44 e segg.). Colpisce il linguaggio insolitamente pugnace contro i socialisti, anche blandi, del suo intervento giornalistico del 13 aprile 1921  (op. cit. pag. 111 e segg.): «Bisogna avere - scrive a pag. 112 - il coraggio di dire che siffatto latte e miele è pernicioso. Costoro, che dopo così recenti esperienze socialistiche dichiarano ancora che tutto il mondo è socialista, sono gente senza idee, o sono semplici procacciatori di voti. Bisogna escluderli dall’onore di fare parte del blocco anticomunista. Non si può combattere il comunismo es eddere disposti ad ogni sorta di socializzazioni, statizzazioni, controlli e simiglianti pesti. Coloro, i quali hanno paura di essere detti “nemici del popolo o del proletariato” e son pronti ad ogni sciocchezza, si dichiarino apertamente socialisti. Provvederanno meglio alla propria dignità e coerenza. Noi non abbiamo bisogno di noverare nelle nostre file siffatti amici del popolo. I quali, alla pari e forse peggio dei comunisti, ne sono i veri nemici  In una parola occorreva essere solo «liberali» (op. cit. pag. 118 e segg. Articolo del 17 aprile 1921); cioè «L’unica nota veramente distintiva del blocco anticomunista è sempre quella di “liberale”. Questa sì è una qualità che né socialisti né comunisti possono far propria. Liberalismo e socialismo sono due concetti contraddittori. Lungo tutti i secoli della storia sempre il concetto della libertà fu in guerra aperta con concetto della tirannia - e socialismo e comunismo altro non sono che asservimento completo dell’uomo alla collettività [ ....]». L’astuzia di Giolitti che quelle premature elezioni del 1921 volle finì male, come ben si sa per doverla qui commentare. Quel blocco “liberale” apriva irrimediabilmente la porta al fascismo della dittatura. Proprio quella dittatura che l’Einaudi non voleva  (op. cit. pag. 766  e segg.). Ma siamo già all’8agosto 1922. Troppo tardi.

Cert, a questo punto Einaudi è in grado di fornire una perspicua fotografia dei tempi, anche se ancora scarsamente previggente. Val la pena di riprodurla per ampi stralci.

«Lo spettacolo di incapacità offerto dal parlamento e dal governo, le agitazioni continue, la guerriglia civile fra partiti ed organizzazioni armate hanno avuto, fra gli altri disgraziati effetti, quello di aver reso popolare in una parte notevole dell’opinione pubblica una parola: “dittatura”. Si parla da molti oggi dittatura come della sola via di salvezza dal disordine e dalla crisi profonda che attraversiamo. Gli uominiai mali di cui soffrono vogliono trovare un rimedio semplice, preciso, definitivo. Il governo dei molti, il governo dei partiti, il governo dei chiacchieroni e degli ambiziosi di Montecitorio appare una cosa talmente disgustevole, vana, impotente che a poco a poco l’idea della dittatura ha finito per perdere quella nebbia di terrore e di tirannia da cui era circondata. Si crede che l’uomo forte, che l’uomo sapiente saprà trarre il paese dall’orlo della rovina. Mettiamo al posto di quindici ministri provenienti da parti politiche opposte, neutralizzandosi gli uni gli altri, alla mercè continua di un voto politico incerto, impotenti a concepire qualunque piano d’avvenire e più ad attuarlo, costretti a render favori agli elettori ed agli eletti per trascinare innanzi la loro vita quotidiana; mettiamo al posto di questa parvenza di governo un uomo solo, fornito di poteri illimitatiper un tempo limitato, il quale possa e sappia porsi una meta, il quale sia libero di scegliere a suoi collaboratori i migliori tecnici nei vari rami di governo e noi saremo in grado di arrestarci sulla china spaventevole lungo la quale precipitiamo verso l’anarchia.

 

«Contro questa tesi non non torniamo a citare la vecchia sentenza di Cavour: la peggiore delle camere essere preferibile alla migliore delel anticamere:; noi non diremo ancora una volta che la dittatura è il rimedio degli impotenti e degli incapaci. Noi non ricorderemo che l’esperienza contemporanea è tutta contraria ai governi addoluti e dittatoriali [..]

 

«Lasciamo pure da parte le massime dettate dall’esperienza ed i precedenti e gli esempi stranieri. Chiediamoci soltanto: dove sono gli uomini capaci di essere i dittatori dell’Italia contemporanea? Per quale ragione non si sono fatti innanzi così da accogliere intorno a sé il consenso dell’opinione pubblica? Degli uomini chiamati negli  ultimi tempi a capo della politica italiana alcuni sono a mala pena considerati degni di essere presidenti costituzionali di un consiglio; intorno a nessuno di essi esiste tale favore di pubblico, non diciamo parlamentare, da farli ritenere capaci di governare il paese con poteri dittatoriali. Possibile che, se esistesse, l’uomo superiore, il Napoleone, poiché a questo si pensa quando si parla di un dittatore capace di salvare il paese, non si sarebbe fatto in qualche modo conoscere? E se c’è, ma non è conosciuto come tale, quale probabilità vi è che egli e non altro sia scelto?

 

« [..] Ridotta alla sua semplice espressione, la dittatura è una qualche cosa che noi conosciamo molto bene, di cui abbiamo parlato molto male fino a ieri: è il governo per mezzo di decreti-legge.

 

«  [ ...]

 

« [ ...] Il problema da risolvere non è già di trovare dei grandi insustriali disposti a governare la cosa pubblica con la mentalità industriale. Essi non potranno fare che del male. Saranno degli straordinari improvvisatori. Chi può immaginare quali stravaganze è capace di compiere un giovane audace e fidente in sé, un uomo d’azione, un industriale abituato a decidersi rapidamente da solo, quando si troverà dinanzi a problemi complessi e terribili come il disavanzo, le imposte, il cambio, il latifondo, la giustizia? L’impulso primo che viene dagli audaci è di tagliare i nodi gordiani, di mandare a spasso il giudice che non decide un processo in ventiquattro ore, di ordinare ai direttori delle banche di emissione di far scendere il cambio del dollaro a 10 lire e così via.  [...]

 

«La verità è che la capacità e la pratica di governo non sono innate e non si acquistano facendo grandi cose negli altri campi dell’attività umana. Orator fit; così l’uomo di governo si fa governando gli uomini, discutendo con gli avversar, cercando di convincerli del loro errore e rimanendo anche persuaso dagli avversari della necessità di mutare parzialmente la propria strada. [...]

 

«Insistiamo oggi su queste considerazioni fondamentali perché le vicende di questi giorni hanno avuto per effetto, come si diceva in principio, di render popolare presso una parte del pubblico l’idea di forme più o meno larvate di governo autocratico, e da molte parti si è parlato di spedizioni fasciste su Roma per prendere possesso del potere, di colpi di stato, di dittature o di direttori nazionali, e via dicendo. Lo stesso direttorio del partito fascista si è affrettato a smentire una parte di queste chiacchiere, il che non impedirà che certe fantasie continuino a correre basandosi sui «si dice» immancabili nei momenti agitati come questo, e sulla riserva fatta dall’on. Mussolini durante l’ultimo discorso alla camera circa la scelta che il partito fascista si riservava di fare fra la legalità e l’insurrezione.

 

«Ora noi non vogliamo ammattere neppure per un momento che le voci correnti possano corrispondere a reali propositi e che propositi di tal genere possano trovare il consenso di coloro che hanno la responsabilità del movimento fascista.

 

«Oggi i fascisti hanno ragione di credersi sorretti dalla pubblica opinione; hanno probabilmente ragione di credere che la loro rappresentanza parlamentare è assai inferiore al consenso che essi riscuotono nel paese. Appunto per ciò essi non hanno nessun interesse ad imporre agli altri le loro opinioni con l’ordine secco e perentorio, con la facile arma della dittatura. Attraverso alla discusssione ed alle vie legali essi possono ottenere tutto. Un parlamento di neutralisti diede durante la guerra il voto a Salandra ed a gabinetti di guerra, perché esso sentiva che l’opinione pubblica era per la guerra. Domani, il parlamento attuale darà il proprio voto ad un gabinetto in cui entri come uomo rappresentativo il leader del fascismo ed in cui qualche altro fascista sia a capo di dicasteri importanti ed il fascismo impronti di se stesso e dei suoi ideali l’azione intiera del governo. Il paese è ora favorevole ai fascisti perché essi hanno dato il colpo decisivo che lo ha salvato dalla follia e dalla tirannia bolscevica. Ed è pronto a consentire ad essi per le vie legali l’ascesa al potere quando essi dimostrino di essere atti ad esercitarlo. Sinora sappiamo che essi hanno fervore d’azione, che essi amano intensamente la nazione, che essi la vogliono salva dalle malattie distruttive; che essi vogliono ridare a tutti i cittadini la libertà di vivere e di agire e di pensare, fuori della mortificante cappa di piombo della tirannia socialista. Per quanto essi hanno fatto per ridare tonalità al paese, per trarlofuori dal brutto materialismo ventraiolo denigratore della guerra combattuta, della vittoria ottenuta, dei valori spirituali della nostra stirpe, tutti siamo loro grati.

 

«Ora si aprono ad essi le porte del potere, le vie dell’azione immediata e diretta. Non più lotta per vincere, ma traduzione in atto dei principii per cui si è vinto. Due vie si aprono a loro dinanzi: quella rapida della dittatura, via brillante, senza avversari costretti alla fuga, senza critiche dei giornali, soggetti a censura, con uomini fidi di governo, dotati di poteri illimitati; e quella noiosa, fastidiosa, minuta della legalità costituzionale, dinanzi ad un parlamento di scettici e di ambiziosi, attraverso le lungaggini della procedura parlamentare, e sotto al maligno vaglio di giornali avversari ed infidi.

 

«Ma la prima via, così attraente e promettente, conduce fatalmente alla tirannia ed alla rovina del paese. Con un re devolto al suo giuramento di fedeltà alla costituzione come è Vittorio Emanuele III, essa vuol dire proclamazione della Repubblica; vuol dire l’inizio di un periodo convulsionario di sperimenti politici, di contrasto fra le varie tendenze aristocratiche e demagogiche a cui una nuova costituzione repubblicana potrà essere informata; vuol dire necessità di giustificare ‘razionalmente’ i nuovi sistemi costituzionali; vuol dire oscillare tra un governo di generali, un consiglio dei dieci aristocratico od un consiglio di commissari socialisti. A che scopo, quando non si vedono i generali ed i geni capaci di governare dittatorialmente e quando i nostri comunisti sono goffe imitazioni di quei Lenin che, nonostante il loro fanatismo, trassero la Russia alla morte?

 

«Quanto più gloriosa e feconda, agli occhi degli uomini amanti del paese, è la seconda viadel rispetto alla costituzioneed alla legalità! La costituzione e la monarchia valgono non per sé, ma come incarnazione di tre quarti di secolo di vita nazionale e di un millennio di sforzi verso l’egemonia e la formazione di uno stato unitario nella penisola italiana. In quest’ora decisiva, tutti coloro i quali attribuiscono un pregio ai valori spirituali, alla tradizione, alla continuità della storia nazionale, tutti coloro i quali sentono che in politica le creazioni nuove non hanno probabilità di vita, ma che ogni più audace novità può essere innestata nel vecchio tronco e suggere dalla linfa di questo una vita assai più vigorosa e lunga di quanta possa derivare dall’improvvisazione di dittature incapaci, devono contrastare l’avvento della dittatura! [..]»

 

Einaudi raggiunse quei livelli di «gratitudine» alle lotte politiche dei fascisti - se essa fu sincera e non strumentale al suo regionamento - molto tardi, alla vigilia della “marcia su Roma”. Prima aveva sottovalutato il fenomeno fascista. In quel biennio, rarissimamente aveva accennato al fascismo sulle colonne del Corriere della Sera. Il 14 gennaio 1922, polemizzando con i socialisti, aveva accordato loro «causa vinta»  «contro ai casi singoli di violazione dei diritti degli operai, verificatisi sporadicamente ad opera di qualche nucleo fascista.» A parte il lungo articolo citato, sembra - a scorrere le cronache einaudiane di quel torno di tempo - che non esista una questione fascista. L’articolo «per lo stato» del 4 novembre 1922  (op.cit. pag. 926 e segg.), con tutta la sua dose di supponenza, con il suo tono arrogantemente monitorio, sbuca fuori inopinato, arcano, inspegabile che non si sapesse aliunde della capitolazione del re di fronte agli ultimatum di Mussolini del 28 ottobre. ([31]). Ottusità della pur colta alta borghesia o miopia politica di un economista? Sottovalutazione di un fenomeno di massa o marginalità effettiva della realtà politica del partito fascista, prima della scelta di Vittorio Emanuele III, improvvisa e sollecitata da gruppi di pressione (borghesia agraria, corpi militari dello stato, etc.)? Domande cui non è dato qui dare ponderate risposte, se non altro per economia di lavoro. Un approccio alla storia del fascismo di tal fatta non pare, però, che sinora sia stato mai tentata. Quel che anoi preme qui rimarcare è che se ad un osservatore del calibro di Einaudi sfuggiva l’importanza del fascismo ante-marcia, ben speigabile è che - come avverte Nolte - nelle plaghe sperdute di Sicilia (e noi appuntiamo il nostro osservatorio su quelle di Racalmuto) non venisse neppure percepita.

 

Attorno al 1922, a Racalmuto premeva in sommo grado la questione della crisi finanziaria del settore zolfifero.

Nel settembre del 1922 una  commissione degli esercenti le miniere di zolfo della Sicilia si era recata a Roma per premere al fine di ottenere un decreto-legge autorizzante l’emissione di obbligazioni per 120 milioni di lire garantite dallo stato. Vagava tra la camera ed il senato un disegno di legge in tal senso. A dire il vero la camera l’aveva approvato, ma il senato ancora no, per via della crisi ministeriale. Si cercava, con il decreto-legge, di ovviare al pericolo che la legge naufragasse in quel bailamme parlamentare. Pronubo il sottosegretario Lo Piano.

La crisi zolfifera era allo stremo. La concorrenza degli Stati Uniti era stata micidiale. Solo che con la guerra, si era estratto zolfo a prezzi politici. Si era costituito il «consorzio obbligatorio per l’industria  zolfifera siciliana» al quale il produttore era obbligato di consegnare  il minerale estratto. Il consorzio, aveva accumulato uno stock di zolfo invenduto. Al 30 aprile del 1922 erano giacenti nei magazzini consortili 270.000 tonnellate di zolfo. Su tale quantitativo le banche avevano anticipato 85 milioni di lire e si rifiutavano di accordare altre anticipazioni sullo zolfo che frattanto si era continuato a produrre. Si profilava un blocco nella produzione dello zolfo. Gli industriali chiedavo di togliere - con l’emissione obbligazionaria - di togliere lo stock dalla circolazione e di rendere quindi possibile la immediata vendita della nuova produzione. ([32])

Einaudi era sferzante ed irriducibile: «Chi ha stock da vendere, - rintuzzava (pag. 887) -   si arrangi. Può darsi che il modo migliore di arrangiarsi sia di accantonare lo stock, facendo un’operazione con istituti bancari, nella speranza di poterlo vendere in tempi migliori. E’ accaduto parecchie volte che l’operazione è riuscita bene. Riuscirà tanto meglio, quanto meno lo stato ci ficcherà dentro il naso. [...] Ma  - si obietta - il consorzio fu creato dallo stato; i prezzi li fissa il consorzio, col consenso del governo. Quindi il governo o mantenga le sue promesse o sciolga il consorzio. Parliamoci chiaro. A chi vuol dare ad intendere l’ing. Raverta questa solennissima bubbola che il governo osi sciogliere di sua iniziativa il consorzio solfifero? Il consorzio rimarrà finché lo vogliono deputati, rappresentanze, industriali solfatai siciliani. Essi lo hanno creato ed essi lo vogliono. Il resto d’Italia non ci ha messo bocca  e non osa metterci bocca, per timore di far cosa spiacevole ai siciliani. E’ uno di quei casi di leggi, in cui deputati e senatori delle altre regioni hanno ritegno di parlare, temendo, se parlano contro, di suscitare delicate recriminazioni regionali. Tutta la responsabilità del cosiddetto ‘governo’ è qui: nel non avere osato, se aveva un’opinione contraria al consorzio, di farla valere per timore di dire o di fare cosa spiacevole ai siciliani. Se ora questi si persuadono, e sarebbe tempo, che il consorzio è stato un errore, che la sua esistenza nuoce alla Sicilia, ed è una minaccia all’industria solfifera, lo dicano chiaro e netto; e lo dicano tutti. Troveranno governo e parlamento disposti a mandare a carte quarantotto un esperimento tollerato solo per reverenza al volere che sembrava unanime di quella grande e patriottica e nobile regione.»

Quel numero  del Corriere della Sera sarà arrivato a Racalmuto e letto dagli interessati. Einaudi era anche senatore. Sarà stato considerato alla stregua del nostro Bossi. Negli ambienti degli esercenti sarà corso un brivido; forse una fibrillazione. Intanto saliva al potere quel Mussolini di cui si era appena sentito dire. A lui si guardò certo con acuto interesse in quel di Racalmuto, più in speranzosa attesa che con timore politico. Il «liberismo» di Einaudi non era proprio un’appetibile scelta politica!

 

Lo storico locale E.N. Messana (op. cit. pag. 358) retrodata sentimenti antifascisti del dopoguerra con evidente falsificazione della realtà, quando storicizza le sue personali fantasie sul tiennio racalmutese 1919-1922.  «A Milano intanto, - annota - nel marzo dello stesso anno [1919], fu fondato il fascio di combattimento. La borghesia e specialmente i capitalisti presero respiro di quella forza antirivoluzionaria e violenta che subito cominciò a bravacciare nelle città e nei comuni. A Racalmuto, il partito nazionalista, di già menzionato, aveva accampato le pretese di rappresentare la conservazione contro la evoluzione affiorante, sebbene con metodi inesperti e puerili. Le notizie dei fasci e dello squadrismo si raccontavano al circolo Unione ed al circolo degli Amici. Qualche do’ esultava a quelle nuove e non nascondeva il desiderio che anche a Racalmuto venissero i prodi in camicia nera a bastonare gli zolfatai e i contadini.» Ma la questione - come vedremo in seguito - era ben altra, più complessa e  più gravida di conseguenze sociali.

 

 

Il biennio 1923-1924 è denso di avventimenti che sicuramente moficano lo scenario nazionale: è però erroneo ritenere che si apra una parentesi destinata a chiursi a conclusione della guerra, adottando il criterio interpretativo del Croce. La storia non procede per salti. Solo alcuni processi modificativi hanno sussulti di accelerazione. E la consegna dei pieni poteri a Mussolini alla fine del 1922 è una di queste fase. Peculiare diventa l’acquisizione di una sensibilità delle masse in senso nazionale che, sicuramente prima difettava, specie in Sicilia.

Per il pensiero ufficiale del fascismo del tempo si iniziava una Rivoluzione; ma è da credere allo stesso Mussolini se nel drammatico discorso al Senato del 1924 precisava: «all’indomani della Rivoluzione, io mi trovai di fronte a questo quesito: creare una nuova legalità o innestare la Rivoluzione  nel tronco, che io non ritenevo affatto esausto, della vecchia legalità? Fuori la Costituzione o dentro la Costituzione? Io scelsi e dissi; dentro la Costituzione. Questo vi spiega la composizione del mio primo Ministero, e vi spiega la serie dei successivi atti politici». Il 12 giugno del 1924, in un altro discorso al Senato, Mussolini aveva ancor più puntualmente aveva ben raffigurato questo processo di «normalizzazione costituzionale» del primo fascismo: «Si trattava di riassorbire la illegalità nella Costituzione ... di rimettere grado a grado ... nell’alveo della legalità la vasta fiumana che aveva rovesciato gli argini. [...] Chiamai al governo uomini di tutti i partiti. Riapersi il Parlamento, e ne ebbi, dopo regolari discussioni, i pieni poteri. Affrontai e risolsi di lì a poche settimane il problema gravissimo degli squadristi. Ho esercitato i pieni poteri per un anno. Potevo chiedere la proroga ... Vi rinunciai. Non avevo proposte leggi eccezionali e mi proponevo di fare un altro passo innanzi sulla strada della legalità .... Sciolta regolarmente la Camera, furono nei termini prescritti  dalla legge, indetti i comizi elettorali. La lista nazionale ha raccolto circa 4 milioni ottocentomila voti ... Ottenuto il suffragio del popolo, le necessità della politica interna si delinearono ancor più chiaramente nel mio spirito, precisate in questi capisaldi fondamentali:

«1° far funzionare regolarmente l’istituto parlamentare come organo del potere legislativo ...; 2°) regolare dal punto di vista della Costituzione la situazione della Milizia Volontaria; 3°) reprimere i superstiti illegalismi del Partito; 4°) chiamare all’opera di ricostruzione tutte le forze vive della Nazione ... Tutte le mie manifestazioni politiche dal 6 aprile in poi tendono a questa mèta: ad accelerare l’entrata definitiva del Fascismo nell’orbita della Costituzione». E ritornando al discorso al Senato del 5 dicembre, Mussolini, alla domanda rivolta a se stesso: «Da allora ad oggi c’è stato o non c’è stato un processo di riassorbimento della Rivoluzione nella Costituzione?», affermava «Rispondo nettamente: c’è stato: faticoso, lento, difficile, ma c’è stato ...». ([33])

Siamo propensi a credere che - ad onta delle autorevoli affermazioni del Valiani e del Ragioneieri ([34]) - ben diverso sarebbe stato il corso della storia nazionale se non ci fosse stato il delitto Matteotti (10 agosto 1924) e l’irrigidimento aventiniano. Ciò - s’intende - tenendo presente che la storia non ammette ipotesi.

 

Come veniva ricostruita quella tragica crisi seguita al delitto Matteotti, all’interno del fascismo coevo? Stralciamo dallo studio dell’Ercole ([35])  i seguenti passaggi:

«Mussolini pareva esser riuscito ... «a ristabilire i termini necessari di quella convivenza politica e civile che è più necessaria fra le parti opposte della Camera ...» (V, p. 10),»; eppure «”mentre nel Paese si era diffusa la sensazione che un nuovo periodo di tranquillità e di pace stava per iniziarsi [si aveva] l’episodio tragico, che è costata la vita all’on. Matteotti” (IV,  24 giugno al Senatop. 195). Quella sciagurata beffa del giugno, come Egli la chiamerà in Gerarchia, in uno articolo scritto alla fine di ottobre ‘25, “diventa orribile tragedia indipendentemente, anzi contro la volontà degli autori”, la quale determinerà nello sviluppo della Rivoluzione la “sosta di un semestre” (v. Elementi di storia in Gerarchia, p. 179)»

«Perché dal delitto Matteotti le opposizioni credettero subito di poter trarre il pretesto per tentare di “annullare tutto quello che significa, dal punto di vista morale e politico, il Regime che è uscito dalla Rivoluzione dell’ottobre” (IV, 25 giugno 1924, alla maggioranza parlamentare, p. 207), inscenando la secessione parlamentare cosidetta dell’Aventino e abusando di una persistente eccessiva libertà di parola e di stampa, per chiedere, e per proprio conto iniziare, il processo al regime, alla Marcia su Roma e alla Rivoluzione ... (‘il Regime non si fa processare se non dalla storia ‘.. (IV, 22 luglio ‘24: al Gran Consiglio, p. 214, e v. anche 7 agosto ‘24: al Consiglio Nazionale del Partito, p. 242), in nome di una pretesa normalizzazione, dietro cui non si nascondeva che la speranza di potere agganciare Mussolini, isolare materialmente e moralmente, disarmandolo, il Fascismo e i Fascisti nel Paese, creare una situazione tale da permettere il ritorno  alla paralisi parlamentare, sbarazzarsi del Governo fascista con un semplice voto di maggioranza della Camera dei Deputati: come se il Fascismo fosse  arrivato al potere per la via ordinaria, e questo gli fosse stato dato da un ordine del giorno: come, cioè, se esso potesse considerarsi “alla stregua di tutti i Partiti e considerare il Parlamento come l’unico ambiente, nel quale tutte le situazioni politiche di una Nazione in momenti eccezionali potessero trovare la loro soluzione ordinaria e regolare” (IV, all’Associazione Costituzionale di Milano, 4 ottobre ‘24, p. 290).»

«Alla quale speranza Mussolini darà la definitiva risposta, parlando il 29 ottobre 1924, al Popolo di Cremona:

«”Noi siamo qui a dire che .. non siamo dei vanitosi e nemmeno dei prepotenti, ma siamo dei soldati fedeli alla consegna, e la consegna ci è stata data dal Re e dalla Nazione. Solo al Re, solo alla Nazione noi dobbiamo rendere atto del nostro operato; non a coloro, che ad ogni gesto, ad ogni provvedimento, ad ogni legge, vorrebbero intentarci il loro ridicolo processo, mentre sono gli esclusie i condannati dalla nuova storia”  (IV, p. 335): onde la dichiarazionedel 5 dicembre in Senato: ... “Si è detto: voi voleterestare al potere ad ogni costo. Non è vero. Nella grande piazza di Cremona, ad una moltitudine immensa di Popolo, ho detto che riconoscevo i diritti della Nazione e i diritti imprescrittibili di Sua Maestà il Re. Se Sua Maestà al termine di questa seduta mi chiamasse e mi dicesse che bisogna andarsene, mi metterei sull’attenti, farei il saluto militare e obbedirei. Dico Sua Maestà il Re Vittorio Emanuele III di Savoia; ma, quando si tratta di Sua Maestà il Corriere della Sera, allora no” (IV, p. 411).»

«[ ...] “La maggioranza cominciò a perdere alcuni dei suoi  elementi in margine: liberali, democratici, combattenti. Credo che nella seduta del 16 dicembre - la seduta di tre ex-presidenti - questo processo di erosione ai margini abbia toccato il punto estremo”  (V, Elogio ai gregari, p. 23)».

 

Il tentativo parlamentare di far crollare il fascismo non ebbe successo «perché dall’altra parte stava il Fascismo “con i suoi ottomila grusppi in ogni angolo d’Italia, con le sue forze politiche, sindacali, amministrative, sempre imponenti”: il Fascismo che era stato “percosso, non abbattuto”, e a cui il colpo aveva finito per giovare, facendogli perdere “le scorie funeste” (IV, p. 197). [..] “Se  il Regime rapidamente potè essere in grado di sferrare il contrattacco - il che avvenne il 3 gennaio di quell’anno (1925) - il merito -- va alle masse rurali del Fascismo, che non si sbandarono, a me, che rimasi tranquillo al mio posto nell’imperversare delle molte bufere, e al Popolo italiano, che non fu dimentico del passato e non disperò dell’avvenire” (V, Elementi di Storia, p. 179).»

 

Non crediamo che fra quelle “masse rurali” era da includere il ceto contadino racalmutese. Nulla ce lo lascia intravedere. E’, però, certo che agrari locali, esercenti delle miniere di zolfo racalmutese, gabellotti, contadini e braccianti ed il piccolo ceto dell’infima borghesia di Racalmuto ebbero modo di disaffezionarsi ai loro referenti politici sia della Democrazia Sociale di Guarino Amella e Colonna di Cesarò, sia allo stesso partito democratico-riformista di Enrico La Laggia, cui ultimamente aveva aderito una frangia degli ottimati racalmutesi. Mussolini parlava dell’ «Aventino» quale epicedio dello stato demo-liberale. Non cìera cultura greca a Racalmuto bastevole per apprezzare l’immagine classica. Vi era molto buon senso (ed pressanti interessi del quotidiano) per dissentire dai loro deputati eletti nel listone “nazionale” del 1924 che ora facevano l’«Aventino». In definitiva, nepppure Gramsci mostra di apprezzare questi rappresentanti degli agrari siciliani con i quali, inopinatamente, si trovava in sodalizio.

«Ho visto in faccia la “piccola borghesia “ con tutti i suoi tipici caratteri di classe - scriveva Gramsci alla moglie il 22 giugno 1924 commentando i primi lavori dell’Aventino ([36]). - La parte più ributtante di essa era costituita dai popolari e dai riformisti (per non parlare dei massimalisti, povera gente di cascia andata a male; i più simpatici erano Amendolae il generale Bencivenga dell’opposizione costituzionale che si dichiaravano favorevoli in principio alla lotta armata e disposti anche (almeno a parole) a porsi agli ordini dei comunisti, se questi fossero in grado di organizzare un esercito contro il fascismo. Un deputato democratico-sociale (è questo un partito siciliano che unisce latifondisti e contadini) che è duca Colonna di Cesarò, ministro di Mussolini fino al mese di marzo, dichiarò di essere più rivoluzionario di me perché fa la propaganda del terrore individuale contro il fascismo. Tutti, naturalmente, contrari allo sciopero generale da me proposto e all’appello alle masse proletarie ... ».

 

Colonna di Cesarò - è certo - non riuscì a propagandare “il terrore individuale contro il fascismo”, a Racalmuto. I locali suoi aderenti dovettero disorientarsi non poco: già amavano molto poco i blandi socialisti racalmutesi agli ordini dell’avv. Vella; figuriamoci se potevano dare credito a chi osava associarsi con i bolscevichi del 1921.

 

A livello locale il problema centrale restava sempre quello dei finanziamenti per lo zolfo invenduto. La faccenda del 1922 veniva ricordata ancora.  I più avvertiti avevano l’odiato senatore Einaudi per quello che scriveva allora sulle colonne del Corriere della Sera. Il governo di Mussolini diede quel decreto invocato sotto Facta (D.L.n. 202 dell’11/1/1923). Nel nuovo corso fascista si potevano dunque riporre attese meridionalistiche e di intervento statale. Tra le varie provvidenze del decreto, lo stato garantiva lo smaltimento a prezzi remunerativi dello stock e si impegnava nel finanziamento del Consorzio, ma su obbligazioni dell’ente garantite sugli esercizi futuri. «Insomma  - scrive Salvatore Lupo [37]- a pagare sarebbe stata la futura produzione». Vi era - è vero - chi come Carlo Sarauw, forse per opposto interesse, aveva di che ridire su quanto si riusciva a conbiare in provincia di Agrigento e di Caltanissetta. «Io posso spiegarmi che un’accolta di maffiosi ignoranti delle province di Girgenti e di Caltanissetta abbia potuto premere a Palermo sull’amministrazione del Consorzio [...] ma non posso ammettere che essa potesse allungare i suoi tentacoli fino a Roma o piegasse il Governo alle direttive di quegli organi del Consorzio che subivano la sua azione». ([38]) In quel di Racalmuto, ove gli interessi zolfiferi passavano trasversalmente per tutti i ceti sociali, vi fu soddisfazione per il provvedimento mussoliniano del gennaio 1923 ed iniziava quel consenso che dopo il 1926 si consoliderà penetrantemente, in profondità, in maniera totalizzante. Le bizze dell’Aventino dei propri deputati dovettero apparire atteggiamenti incomprensibili, sospetti, fedifraghi, da non approvare, da rimuovere.

 

Il delitto Matteotti, invero, non lasciò indifferente l’intera comunità civica racalmutese. Se dobbiamo credere a E.N. Messana, il socialista Vella si diede da fare: «Fu lui - scrive il Messana ([39]) - che in seguito all’uccisione di Giacomo Matteotti si presentò con la guantiera a raccogliere il contributo per la corona. Entrò nel salone di Salvatore Rizzo, Paparanni,  e là Luigi Scimè, giovane figlio del Dr. Nicolò, gli diede L. 0,50, altri uguale cifra o meno. Contribuirono molti racalmutesi, oltre i summenzionati si ricordano il comm. Giuseppe Bartolotta consigliere provinciale in carica, il sindaco Scimè, Pio Messana, Salvatore Falcone, Calogero Mattina fu Gaetano, Carmelo Schillaci Ventura, Giuseppe Cutaia, i fratelli Luigi e Giuseppe Lo Bue. Questi furono segnati a dito e perseguitati dal fascismo. Luigi Scimè, ufficiale effettivo dell’esercito, non avanzò più di grado.»

L’emozione per l’efferato delitto dovette essere una momentanea reazione, non coinvolgente la stima verso Mussolini. Questo, almeno a Racalmuto. A più ampio raggio, ancor oggi non crediamo che sia stata stabilita la verità storica. Troppi risentimenti, molti condizionamenti ideologici. A distanza di settant’anni, in riviste storiche pur autorevoli, la vicenda Matteotti viene così rievocata, passionalmente, con evidenti pregiudizi di valore:

«Giacomo Matteotti  - leggesi nell’editoriale del n. 1-2 del 1994 di Storia e Civiltà ( [40]) - segretario del partito socialista unitario, capo - con Giovanni Amendola - dell’opposizione al fascismo, [..] mentre dalla sua abitazione, per il lungotevere Arnaldo da Brescia, si dirigeva, attorno alle 16, verso il Parlamento, era sequestrato, costretto a entrare in un’automobile ed, essendosi difeso, ucciso. [Fu] uno dei più esecrandi delitti che la storia ricordi. [AM1] [Ad eseguirlo, c’erano] una brutale figura di squadrista toscano, Amerigo Dumini e suoi quattro complici.

 

«Come sarebbe emerso, dal memoriale Rossi, e da altre ammissioni, se anche Mussolini  non era stato il diretto mandante, vi aveva dato il suo tacito consenso. La commozione popolare fu così profonda, che avrebbe dovuto avere per sbocco, con quale vantaggio per l’Italia è inutile dire, l’immediato tracollo del fascismo. Mancò una forza organizzata a dirigere la rivolta. Non vi fu, da parte della Monarchia, come nel ‘22, la coscienza del dovere. Al governo venne lasciato il modo, con pochi ritocchi alla sua compagine, di sopravvivere, e al fascismo di consolidarsi, più per l’altrui debolezza che per virtù propria, profittando anzi dell’irrimediabile errore delle opposizioni, di astenersi dalla presenza in Parlamento (l’«Aventino»), che avrebbe consentito, nel gennaio ‘26, di farne deliberare la decadenza. Non mancò la “trahison des clercs”, in un’ora straordinariamente feconda per la cultura: e Giovanni Gentile, pur surrogato come ministro dell’istruzione, ad assicurarsi maggior potere, si assunse la responsabilità d’un manifesto degli intellettuali a favore del fascismo, cui, con un numero minore di firme, se ne sarebbe contrapposto un altro, redatto dal Croce.

 

«[Il processo venne trasferito] alla lontana e più tranquilla Chieti, [e si ebbe] l’arrogante difesa di Farinacci (cui si consentì di dichiarare di assumerla “prima come segretario del partito, e poi come avvocato” e che il processo non si sarebbe fatto “né al regime né al partito”). Esclusa dalla stessa pubblica accusa, la premeditazione ed ammessa la preterintenzionalità, la sentenza,  del 24 marzo 1925, condannava solo tre degli imputati a cinque anni, undici mesi e venti giorni, che, col condono di ben quattro anni per una opportuna amnistia, e tenuto conto della carcerazione preventiva, li rendeva, di fatto, liberi.»

 

 

L’avvento del fascismo nell’area provinciale di Agrigento.   

 

Nella Sicilia - scrive Salvatore Leone ([41]) - in cui il fascismo ebbe “natura ricettiva e non radiante”, schematizzando possiamo dire che l’aristocrazia agraria aderì al regime nei tardi anni ‘20, quando si renderà contodella sostanziale convenienza ad appoggiare il nuovo gruppo di potere. La piccola borghesia cittadina darà il suo consenso agli inizi degli anni ‘20 con uno spirito fortemente protestatario nei confronti di quello Stato liberale che l’aveva schiacciata al basso al livello contadino. L’adesione al nuovo regime della media borghesia e degli intellettuali, parecchi dei quali avevano alle spalle una consistente tradizione autonomista, avvenne mediante comportamenti incerti e talora contraddittori che si protrassero fino ai primi anni ‘30».

 

La provincia di Agrigento (allora Girgenti) rispecchia grosso modo siffatta diversa datazione del consenso al fascismo, anche se è difficile rinvenire intellettuali di spicco che tardino nel concedere il loro accondiscendimento al nuovo regime. Luigi Pirandello aderisce tempestivamente al fascismo; Enrico La Loggia se ne mantenne sempre fuori; ed anche Giovanni Guarino Amella. Francesco Renda vuole come nemico del fascismo padre Michele Sclafani «che diede filo da torcere ai fascisti dell’Agrigentino [..] seppure anche lui non fu alieno dal cercare l’intesa e la collaborazione con essi  e ddirittura dal proporre soluzioni impossibili, come la costituzione di un grande partito siciliano clerico-fascista». ([42]) Per non parlare dei socialisti rimasti coerenti, è difficile inquadrare figure come i fratelli Ambrosini di Favara, o l’avv. Cesare Sessa, o l’avv. Bonfiglio. Fortemente caratterizzata in termini di pronta adesione al fascismo è la figura dell’on. Abisso, che alla fine, però, si guarda bene dall’aderire alla Repubblica sociale di Salò. Analogo discorso potrebbe farsi per il narese on. Riolo.

 

Francesco Renda ha ben ragione quando dichiara che le origini dei fasci di comattimento di Girgenti (e di quei radi della provincia nel periodo 1919-20) sono «avvolte nella nebbia». ([43]) Nell’agrigentino, il fascismo ebbe davvero, dai suoi esordi sino al consolidamento del Regime, “natura ricettiva, e non radiante.”

 

Quando nel 1942, in piena guerra, vari autori - spesso maldestri, o ingenui o disinformati - redassero i «Panorami di realizzazioni del Fascimo» che dovevan essere una ricerca delle primissime origini del fascismo delle varie province, non avevano molta carne al fuoco, per quanto riguarda il Meridione e la Sicilia. L’autore agrigentino - tal Vincenzo Agozzino - deve proprio arrmpicarsi sugli specchi per reperire esaltanti «cronache della vigilia rivoluzionaria fascista nella provincia di Agrigento» ([44])

«Agrigento sempre più bella e suggestiva», aveva detto Mussolini al popolo di Agrigento il 15 agosto 1937.  E’ frase lapidaria che l’Agozzino invoca in premessa. Ci racconta poi del fascio di Agrigento nel 1919. «..La Camera del lavoro di Agrigento, - narra - aderente al Partito Socialista Ufficiale, con rapida azione agganciò le masse delle zone industriali prima e poi delle zone minerarie ed agricole, creando una forte organizzazione che presto si mosse alla conquista delle amministrazioni comunali. Così in Canicattì, Ravanusa e Palma Montechiaro si ebbero maggioranze socialiste e quasi ovunque le minoranze furono rosse. [..] In questi ambienti [..] solo un manipolo di giovanissimi intese il richiamo dei valori spirituali della stirpe fondando nel maggio del 1919 il primo Fascio dell’agrigentino. La riunione avvene in una stanza dell’Albergo Centrale dove si costituisce un nucleo di azione contro il sovversivismo locale di vario colore, dal rosso, al nero e al verde, che assume il nome di Fascio Futurista di Azione [..]

«1920- 21 - 22

«Si forma poi il Fascio di Combattimento che in un secondo tempo viene intitolato al Caduto Pierino Del Piano. Solo il 20 novembre 1920 avviene il riconoscimento ufficiale del Fascio di Combattimento di Agrigento. Viene anche ad Agrigento la propagandista rossa Maria Giudice. Migliaia e migliaia di persone sono adunate all’Arena Bonsignore [..] La propagandista non doveva parlare e non parlò. Aveva appena pronunciato la parola ‘Compagni’ che ebbe inizio una fitta sassaiola [da parte di piccoli bene appostati sulla terrazza di villa Garibaldi]. [Ne seguì]  un fuffi fuggi generale, mentre la stessa oratrice veniva colpita al viso. Legnate da orbi furono distribuiti agli uscenti dalla arena, mentre la lotta si spezzettava in singoli episodi dai quali però risultava la coraggiosa fuga dei rossi e il primo assalto alla Camera del lavoro [..] [Si trattava] di pochi squadristi, circa quaranta, che [cominciarono a] sgominare le forse rosse, nere e verdi.

«[Altra aggressione.] La Camera del lavoro viene assalita e devastata, mentre mobilio e carte son dati alle fiamme fra il canto di Giovinezza. Successivamente  dopo un comizio tenuto dai combattenti, vien dato un nuovo assalto alla Camera del lavoro con la completa distruzione del mobilio, delle carte e di una bandiera rossa che è poi bruciata in piazza Gallo. La stessa sera avviene un conflitto con un gruppo di guardie regie, risoltosi con una brillante fuga degli agenti di Cagoia [Nitti, n.d.r.]. [..] Altre azioni repressive, di ritorsione e di propaganda vennero eseguite in tutta la provincia: vengono impediti alcuni comizi; venne incendiato il circolo ferroviario; [talora] vengono a dar loro man forte i camerati dei fasci di Porto Empedocle, Canicattì, Palma Montechiaro e Sciacca. Il 24 aprile del 1921 una squadra agrigentina partecipò alle azioni di rappresaglia in Caltanissetta in occasione dell’uccisione di Gigino Gattuso. Alla Marcia di Roma [..] partecipò una squadra, mentre le altre rimasero mobilitate in sede.

«In provincia agirono in periodo ante marcia i fasci di Canicattì, Licata, Palma Montechiaro, Porto Empedocle, Ravanusa, Raffadali, Naro, Sambuca, Grotte, Bivona. Il fascio di Canicattì venne riconosciuto il 4 dicembre 1920; il Fascio di Licata, il 1° febbraio 1921; quello di Montechiaro fu fondato il 1° marzo 1921; quello di Porto Empedocle fu riconosciuto nel marzo 1921; quello di Ravanusa, il 15 ottobre 1920. Altri fasci venero fondati nella seconda metà del 1922 e fra questi Raffadali, Sambuca di Sicilia, Naro, Grotte e Bivona. Naro soprattutto, fondatosi il fascio nel luglio del 1922 e riconosciuto il 18 ottobre successivo, si segnalò in vivaci interventi locali contro i sovversivi, che culminarono con la devastazione della sezione socialista.»

Il volume dei “Panorami” riporta a questo punto un’altro squarcio del discorso che Mussolini pronunciò “dalla terrazza del Palazzo Reale di Palermo - 5 maggio 1924”: “C’è forse una pietra del Carso, pietra di quelle doline dove non abbiano sofferto e dove il popolo è diventato grande, c’è forse zolla di tutto l’arco di trincee che andava dallo Stelvio al mare che non sia stata bagnata da stille di purissimo sangue siciliano?»

Prima della marcia su Roma, il quadro del fascismo agrigentino è rado e sfilacciato. Iprefetti del luogo non vedevano di buon occchio il nuovo movimento politico; lo tolleravano appena e se potevano lo disperdevano. Rivelatrice è questa missiva al Ministero degli Interni del sostituto del prefetto Vergara del 20 giugno 1922 ([45]): «Significo che al 31 maggio 1922 esistevano in questa provincia le seguenti sezioni del Fascio di combattimento: Girgenti con 50 aderenti; Canicattì 20; Ravanusa 80; Sciacca 80. A Palma Montechiaro la sezione è stata sciolta, ma esistono tuttavia una diecina di simpatizzanti del partito fascista. La sezione di Naro, segnalata con mia nota dell’11 maggio 1921 n. 225, è composta da ex-combattenti e non fascisti. Anche la sezione di Porto Empedocle è stata sciolta».

 

Con la marcia su Roma, l’atteggiamento dei prefetti ovviamente cambia, anche perché giungono prefetti di evidente ispirazione fascista. Più che con il Ministro dell’Interno Benito Mussolini, i rapporti (improntantati alla più deferente fiducia) sono con il sottosegretario Finzi (almeno sino alla caduta di costui per il delitto Matteotti). In questa congiuntura fu prefetto di Agrigento il dott. Ernesto Reale. Già vice prefetto, fu nominato nella carica il 16 marzo 1923 ed il 22 ottobre 1924 lasciò Agrigento per la prefettura di Potenza. Era nato a Sassari il 30 giugno 1875 (morirà a Roma il 30/12/1947). Era dunque un uomo di 58 anni,  ma evidentemente aveva fiutato il nuovo corso e vi si era prontamente adattato. Non è da credergli quanfo afferma: «Escludo nel modo più formale che io abbia imposto la costituzione di Fasci nei comuni dove non esistono sotto minaccia diretta o indiretta di scioglimento dei Consigli Comunali o pressioni di qualsiasi altro genere.» ([46]) Era una risposta ad un perentorio telegramma dell’11 luglio 1923, a firma Mussolini, che reclamava seccamente una giustificazione. « S.E. Cesarò - diceva il testo - comunicami che V.S. avrebbe invitato costituire fasci dove non esistono sotto minaccia scioglimento consiglio comunale. Voglia V.S. notiziarmi in propoisto.»


 La  puntualizzazione del prefetto è abile come emerge dal seguente “rapporto dimostrativo”:


«Dal marzo, quando assunsi in questa provincia le funzioni di Prefetto, ad oggi furono istituiti cinque nuove sezioni del P.N.F. nei seguenti comuni:


1.    Castrofilippo - dove l’Amministrazione comunale era già sciolta ed il Comune retto da un R.Commissario;


2.    S. Giovanni Gemini - Amministrazione Comunale Popolare;

3.    Alessandria della Rocca - Amministrazione Comunale Riformista;

4.    Raffadali - Amministrazione Comunale Socialista;

5.    Montaperto - Frazione di Girgenti - Amministrazione Comunale Popolare.

 

Per la costituzione di Tali Sezioni non ci fu affatto bisogno di intimidazioni o minaccie né da parte mia né da parte della Federazione Provinciale. Fu l’effetto di una attiva propaganda Fascista.

 

Faccio osservare a V.E. che fra i Comuni sudetti non ve n’è alcuno amministrato da Democratici-Sociali. Sto esaminando personalmente la posizione del Comune di Raffadali dove àavvi il feudo di S.E. il Ministro Colonna Duca di Cesarò, il quale intende porre la Sua candidatura in quel Mandamento, e mi riservo fare le proposte del caso.

 

Restano tuttora da costituirsi le sezioni del P.N.F. nei comuni seguenti:

Aragona
Montallegro
Villafranca
Comitini
S. Angelo Muxaro
Calamonaci
Favara
Cianciana
Burgio
Lampedusa
Lucca Sicula
 

 

 

Ad eccezione degli ultimi due, dove l’Amministrazione Comunale è Riformista e Popolare, e di Lampedusa, lontana, sperduta nel mare Africano, tutti gli altri comuni sono amministrati da scritti alla Democrazia Sociale. E per questi, non solo non fu fatta da me alcuna pressione per la costituzione di Sezioni del P.N.F., ma dovetti mostrarmi a ciò risolutamente contrario almeno per ora. Invero quei Comuni - specialmente i maggiori - Favara e Aragona - sono talmente infestati dalla mafia, che è necessario procedere ad un’accurata chiarificazione e selezione, per evitare che nelle costituende Sezioni Fasciste venga ad annidarsi la forma più subdola della delinquenza Isolana.

 

Nei detti Comuni pertanto, che come ho detto, sono amministrati da Demo-Sociali, nonché esercitare pressioni, è stato invece necessario a me ed al Fiduciario Provinciale resistere alle vive e ripetute pressioni che ci vennero fatte per la costituzione di Sezioni Fasciste da elementi di altri partiti troppo interessati e troppo malfidi.

 

Si addiverrà certamente a costituire anche lì Sezioni Fasciste, ma solo quando il lavoro - delicatissimo - di selezione sarà ultimato. E le Sezioni dovranno essere formate da elementi puri e sicuri. E senza bisogno di minaccie di scioglimenti di Consigli Comunali.

 

A proposito dei quali debbo fare presente alla E.V. che gli scioglimenti da me proposti furono sempre effettuati per ragioni di ordine pubblico o per disordini amministrativi e riguardano i seguenti Comuni:

Canicattì - Palma Montechiaro - Ravanusa - già amministrati da socialisti ufficiali;

Sambuca Zabut - Campobello di Licata - S. Margherita Belice (quest’ultimo in corso), già amministrati da riformisti (La Loggiani).

 

Faccio osservare che nessuno di questi comuni è amministrato da democratici Sociali.

 

Concludendo:

             Nessuno dei Consigli Comunali sciolti dal marzo in poi era amministrato da Democratici        Sociali.

             Non solo non ho fatto minaccie per la costituzione di Sezioni Fasciste nei Comuni dove mancano (quasi tutti amministrati da Demo-Sociali) ma ho dovuto e devo tuttora resistere, per le ragioni suesposte, a pressioni che vengono fatte, anche da elementi Demo-Sociali, per la costituzione di talune Sezioni stesse».

 

Nel successivo luglio il prefetto Reale sembra più un federale fascista che un dipendente del Ministero degli Interni. Ecco quanto scrive il 10 luglio 1923:

«Alla vigilia della riunione della Giunta Esecutiva del P.N.F. credo doveroso inoltrare il seguente rapporto riassuntivo sull’andamento del Fascismo in questa Provincia.

 

Dal Marzo in poi si è verificato un considerevole sviluppo ed una notevole chiarificazione.

 

Sviluppo: in quanto sono numericamente cresciuti gli iscritti alle Sezioni dei Fasci (4568) e dei Sindacati (4382). L’entrata nel Fascismo dell’on. Abisso ed una parziale fusione, da me caldamente patrocinata, delle forze migliori degli ex-combattenti, hanno contribuito a tale sviluppo. Occorrerà lavorare ancora per assorbire nei Fasci almeno un altro migliaio di ex-combattenti che ora sono fuori perché non possono e non credono di distaccarsi da altri partiti.

 

Chiarificazione: in quanto, dopo mie vive insistenze, si è proceduto alla epurazione di talune sezioni, mediante eliminazione di elementi indegni.

 

In proposito debbo rilevare di avere dovuto superare non poche resistenze da parte del Fiduciario Provinciale e della Federazione Provinciale che non vedevano con eccessiva simpatia l’ingerenza del Prefetto in questo campo.

 

Questo processo di epurazione si è accentuato maggiormente nei riguardi della M.V. i cui iscritti avevano raggiunto il numero di 1800, mentre ora sono ridotti a poco meno di 1500. Ma è un bene.

 

Attualmente la situazione, tenuto conto delle difficoltà ambientali, e dei personalismi da superare, e specialmente dei numerosi elementi malfidi infiltratisi nelle sezioni, e che debbono man mano eliminarsi, può dirsi abbastanza soddisfacente.

 

Però la mia opera assidua di sgretolamento delle camarille locali, dei vecchi ed agguerriti partiti, e specialmente del partito riformista (La Loggia), di quelle Social-Comunista e popolare - opera che ha portato allo scioglimento di sette Amministrazioni comunali, e che intendo continuare - dovrebbe essere più attivamente fiancheggiata dalle Autorità Fasciste di questa Provincia. Dovrebbe soprattutto essere ripresa l’azione di propaganda fascista che ora languisce in una stasi apatica.

 

E’ d’uopo riconoscere che il Fiduciario Provinciale attuale Ing. Narciso Dima, se pure non eccessivamente energico, ha finora fatto il possibile per lo sviluppo del Fascismo, sacrificandosi anche finanziariamente, contribuendo del proprio, trascurando la sua professione. Le sezioni Fasciste non gli dànno che un aiuto finanziario scarsissimo.

 

Occorre, è anzi urgente, che l’On. Giunta Esecutiva stabilisca un congruo aiuto finanziario.

 

Nessuna preparazione ha potuto fare la Federazione per le lezioni Provinciali appunto per mancanza assoluta di propaganda. Occorrerebbe istituire nuove sezioni nei Comuni dove ancora mancano (18 su 41)), ma occorrono mezzi sopraluoghi locali ecc., mezzi che mancano.

 

Se si dovessero fare le elezioni provinciali ora, alla scadenza dei poteri della Commissione Reale, sarebbe una débacle dal punto di vista fascista. Mentre gli altri partiti, soprattutto i Democratici sociali e i popolari, si vanno organizzando e preparando alla lotta, che ritengono imminente, e dispongono di mezzi finanziari cospicui, i Fasci poco o niente hanno potuto fare. Occorre, ripeto, finanziarli.

 

Ho detto débacle se i fasci dovessero lottare da soli, chiudendosi nella più assoluta intransigenza nei riguardi degli altri partiti.

 

Ma occorre esaminare la situazione nei riguardi della Democrazia Sociale: situazione che in questa Provincia è estremamente delicata.

 

La Democrazia Sociale si mantiene qui in piede di guerra pronta ad una lotta, come pronta ad un accordo coi Fasci, per una eventuale collaborazione.

 

Senonché qui si presenta una difficoltà.

 

I Deputati Demo-Sociali sono gli On. Pancamo e Guarino-Amella; binomio indissolubile. L’On. Pancamo è elemento puro, inattacabile. L’ideale sarebbe poter scindere il binomio, e accordare i Fasci cogli elementi migliori della Democrazia Sociale che fanno capo all’On. Pancamo. Ma questo è impossibile.

 

Non poca parte degli elementi che fanno parte all’On. Guarino-Amella - che ha largo seguito - sono bacati dalla mafia che sino a poco tempo addietro ha imperato in questa provincia, e che ora è smontata, disorientata. Effetto dei provvedimenti energici di P.S.- Accordarsi cogli elementi demosociali che fanno capo all’On. Guarino Amella, vorrebbe dire accordarsi anche in certo modo con la mafia. E allora si ricadrebbe nel vizio delle elezioni precedenti che si facevano appunto con l’aiuto della mafia.

 

D’altra parte il partito Guarino Amella vuol dire S.E. Di Cesarò, del quale il primo è il più fido e autorevole luogotenente in questa Provincia.

 

I fasci risentono di questa situazione.

 

Il Fiduciario Provinciale Ing. Dima, sembra contrario a qualsiasi accordo coi Democratici Sociali. I suoi avversari - e ne ha anche in seno ai Fasci - dicono che ciò dipende dalla sua origine La Loggiana.

 

Comunque questa situazione non può risolversi se non si conoscono in modo preciso e in tempo utile le direttive del Governo al riguardo.

 

Concludo:

             Occorre finanziare la Federazione Provinciale perché eserciti una più attiva azione di propaganda;

             Occorre procedere alla nomina del Fiduciario Provinciale. L’attuale Ing. Dima, in conseguenza della ritardata conferma ha perduto un po’ di autorità e prestigio. Urge quindi o confermarlo o nominarne uno nuovo, che possa esplicare con autorità e energia l’azione Fascista, e fiancheggiare la mia azione politica e amministrativa.»

 

 

Il prefetto di Agrigento è, peraltro, quello che è in grado di fornire ragguagli precisi e dettagliati sulla “situazione del Fascismo in Provincia di Girgenti al 27 ottobre 1923”. Val la pena di riportare integralmente la sua relazione al ministero:

«In mancanza di fascismo puro, limitato a pochissimi elementi, i Fasci della Provincia di Girgenti sono costituiti necessariamente da elementi tratti da altri partiti politici.

 

Il partito politico finora predominante in questa Provincia era il partito Demosociale, imperniato sui Deputati Grarino Amella e Pancamo, (agli ordini di S.E. Di Cesarò) e Abisso. Col passaggio di quest’ultimo al Fascismo, avenuto nell’Aprile, questo partito cominciò a sgretolarsi. Gli elementi migliori passarono anch’essi, in buon numero al Fascismo. E se è vero che il partito personale Abisso si va sempre più rafforzando, è pur vero che il Fascismo sta prendendo uno sviluppo sempre più grande e più saldo - anche perché questi elementi ex-demosociali sono assai più sinceri degli altri.

 

In sostanza non deve credersi che sia il partito Abisso che si faccia sgabello del Fascismo per rafforzarsi, ma è il Fascismo che acquista realmente forza e compattezza dai numerosissimi elementi che staccatisi come ho detto dalla Democrazia Sociale facente capo all’On. Guarino, Pancamo e Di Cesarò, si sono appoggiati all’on. Abisso.

 

Al Ministero è noto come io abbia visto con una certa diffidenza il passaggio dell’On. Abisso al Fascismo.

 

E’ per me doveroso ora dopo diversi mesi di vigile esperienza porre in rilievo la disciplina e l’ossequio non solo apparente, ma effettivo alle Direttive del Duce, dell’On. Abisso verso il quale ora convergono le forze migliori della Provincia, forze che Egli dirige e orienta risolutamente verso il Fascismo.

 

Il Fiduciario Provinciale, d’intesa con lui ha potuto sistemare la posizione prima equivoca, ora chiara di parecchie sezioni Fasciste, ha potuto costituirne delle nuove, e rafforzarne delle altre.

 

Non è quindi vero che il Fascismo non abbia presa in Provincia di Girgenti. Questo forse poteva dirsi alcuni mesi addietro, quando si verificò una stasi - da me segnalata - che avrebbe dovuto preludere ad una grave crisi, dovuta sopratutto all’azione allora scarsamente efficace del Fiduciario Provinciale, il quale era rimasto per oltre due mesi quasi privo di autorità. Causa il ritardo della sua conferma. Ma la crisi fu superata e la minaccia di essa, in certo modo, fu anche benefica. L’attività del P.F. fu da me e dall’On. Abisso galvanizzata; molte opposizioni più o meno interessate furono smontate. Il susseguirsi di importanti avvenimenti patriottici, che riunivano in un solo patriottico sentimento importanti forze Fasciste, valsero a guadagnare anche le simpatie della grande massa della popolazione  la quale prima diffidente, segue ora con vivissima simpatia, gli spettacoli sempre bellissimi di giovinezza di forza di disciplina che le adunate Fasciste hanno dato modo di apprestare. A questo aggiungasi la continua, dirò quasi sistematica, valorizzazione dei veri combattenti, mutilati e decorati di Guerra, ai quali spesso per mio personale intervento si sono aperti i Fasci, portandovi una cospicua forza morale.

 

Concludendo la situazione nei riguardi del Fascismo è molto migliorata in confronto al passato, e non credo di peccare di soverchio ottimismo, se affermo che essa migliorerà ancora di più e più si chiarificherà.

 

Personalità cospicue di cui non si può mettere in dubbio l’alto patriottismo e che hanno sempre combattuto palesemente il sovversivismo mascherato da riformismo e da popolarismo, come l’On. La Lumia ex Deputato assai molto stimato nella importante zona di Licata, e l’On. Parlapiano Vella, altro ex Deputato, nella zona di Ribera e Bivona, hanno sinceramente aderito al Fascismo.

 

Degli altri partiti anche in conseguenza dell’azione da me svolta; il Socialista è ormai morto; il Riformista è ridotto ai minimi termini, il popolare è in continua dissoluzione.

 

Gravi incidenti tra Fascisti, per l’urto di tendenze diverse, in questa Provincia non sono mai avvenuti. Incidenti non gravi, sono stati risolti tempestivamente, anche pel mio intervento diretto, senza strascichi di ire e di odi.

 

La situazione, quindi, può dirsi veramente buona, specie se si raffronta con quella di altre Provincie Siciliane. E diventerà migliore se si potrà continuare nell’attuale indirizzo, se questo non verrà modificato per l’intervento, per ora non necessario, di elementi che, per quanto autorevolissimi, non sarebbero forse in grado di valutare, per la scarsa conoscenza di questo ambiente, le condizioni specialissime di esso in rapporto ai partiti ed alle persone. Unisco un prospetto riguardante i sindoli Comuni della Provincia.»

 

 

La relazione - un vero e proprio resoconto di un propagandista del fascismo - è comunque perspicua per chiarezza, esaustività, penetrazione dell’ambiente socio-politico. Il Reale doveva avere entrature preferenziali a Roma - anche in ambito della direzione del P.F. - se può accennare, in conclusione, alla eventualità - che poi si verificherà appieno - della venuta ad Agrigento di “elementi autorevolissimi”. E saranno costoro a cambiare il volto del fascismo agrigentino.

 

Frattanto, valga il prospetto del prefetto Reale, ai nostri fini molto significativo perché stranamento vi è omesso totalmente il paese di Racalmuto che in questa ricerca è il nostro oggetto di studio.

 

«Provincia di Girgenti

 

1°) - Comuni nei quali i Fasci hanno una posizione dominante: (su un totale di 41)

Casteltermini - Siculiana - Porto Empedocle - Sciacca - Caltabellotta - Santa Margherita - Sambuca - Menfi - Montevago - Calamonaci - Campobello di Licata - Camastra - Ribera - Licata - Naro - Canicattì (n.°  16)

 

2°) -Comuni nei quali esistono dei Fasci, sui quali non è ancora possibile fare sicuro assegnamento, ma la cui situazione migliora giornalmente:

Cammarata - S. Giovanni Gemini - Castrofilippo - Grotte - Bivona - S. Stefano Quisquina - Villafranca - Palma Montechiaro - Ravanusa - Realmonte - Montallegro - Alessandria Rocca - Favara - Cattolica - S. Biagio Platani - Raffadali (n.° 17: in effetti sono sedici: il dattilografo omise di battere forse Racalmuto per mero errore. Se aggiungiamo questo paese torna il totale di n. 41 centri dell’agrigentino, n. d.r.)

3°) - Comuni dove il Fascismo non ha ancora presa, specialmente perché combattuto dalla mafia:

Comitini - Burgio - Lucca Sicula - Cianciana - S. Angelo - Aragona A Lampedusa, data la grande distanza, e la difficoltà delle comunicazioni marittime (una volta alla settimana) nulla si è potuto ancora fare.

 

4°) - Girgenti - Situazione non buona, ma discreta, a motivo della esistenza degli Stati Maggiori - attivissimi - dei partiti Riformista (che fa capo all’On. La Loggia), Popolare (che fa capo al prosindaco Gr. Uff. Sclafani e all’On. Fronda), e dei residui del partito Demo-Sociale (On. Pancamo e Guarino). I primi due, specialmente difendono ostinatamente le proprie posizioni.

 

Fra giorni si verificherà la crisi nell’Amministrazione Comunale Popolare-Riformista.

Molto vi sarà da guadagnare pel Fascismo se il R. Commissario che verrà prescelto saprà lavorare bene e risanare moralmente e finaziariamente il Comune.»

 

 

Il prefetto Reale, alla fine dell’anno, diviene un vero e proprio fiduciario del fascismo. Ecco, a dimostrazione, quanto scrive all’On. Avv. Francesco Giunta - Segretario Generale del Partito Naz. Fascista - in data 11 dicembre 1923:

 

«Situazione del Fascismo nella Provincia di Girgenti

 

Ottemperando allo incarico da V.S. On. Affidatomi a Siracusa di vigilare e seguire da vicino il Fascismo in questa Provincia, pregiomi riferire quanto segue:

E’ continuata più attiva che mai la ingerenza del Grande Uff.  Sacerdote Sclafani, capo del Partito Popolare nell’organizzazione del fascismo Provinciale.

 

Alla lettera originale a firma sac. Sclafani in data 25 ottobre, da me mostratale a Siracusa, con cui egli offriva l’incarico di costituire un Fascio in Comitini (dove non era stato possibile finora la sua costituzione trattandosi di un comune infestato dalla mafia) ad un tale Dr. Bongiorno, congiunto di un capo della mafia locale, si sono aggiunti altri gravi elementi.

 

E’ infatti in mio potere una dichiarazione del Maggiore Cav. Orestano R. Commissario di Palma, con cui attesta che il Sac. Sclafani inviò una lettera analoga al Sac. Zimmili per richiedere “il nome di persona fidata al P.P. da far passare subito al Fascismo e da incaricare della ricostituzione di quel Fascio”.

 

E’ pure in mio potere un rapporto del Colonnello Sindico, R. Commissario di Raffadali, col quale mi informa che a costituire il fascio di Joppolo “fu incaricato certo Onorio Sacco, alter ego del Sac. Camilleri, capo del P.P. che egli dirige secondo gli intendimenti di Padre Sclafani”.

 

E non più tardi di ieri ho potuto constatare de visu perché mi trovavo sul posto, un abboccamento tra il Sac. Sclafani e il Sindaco di Porto Empedocle. Da informazioni certe mi risulta che lo Sclafani d’accordo col detto Sindaco intende di riorganizzare quella Sezione Fascista, per asservirla ai suoi fini.

 

E non posso passare sotto silenzio un episodio che non conferì certo serietà all’azione del Fiduciario nella riorganizzazione del Fascio di Sciacca.

 

Giova premettere che egli anziché seguire le direttive opportunamente dategli da V.S. On., di “lasciare in disparte gli elementi dei vecchi partiti” incaricò della costituzione del fascio di Sciacca, fra gli altri l’avv. Giuseppe Imbornone di oltre 60 anni che mai era stato Fascista, bensì era in quest’ultimo periodo, riformista tanto che aveva nello scorso anno partecipato ad un banchetto in onore dell’On. La Loggia.

 

A prescindere dal fatto che l’Imbornone era stato candidato politico bocciato per due volte, la sua scelta era inopportuna perché cognato e suocero rispettivamente di Corrado Turano e vella Gaetano, l’uno detenuto nelle Carceri di Sciacca, come capo di una vasta associazione a delinquere; l’altro espluso dal Fascismo perché affiliato alla maffia consenziente il Fiduciario Provinciale.

 

L’Avv. Calogero Guarino, capitano degli Arditi, decorato e ferito, essendosi  dimesso dalla Commissione di reggenza per protestare contro l’infiltrazione popolare, voluta dagli altri due  membri riceveva da Girgenti un telegramma a firma Dima con cui si accettavano le sue dimissioni, e quasi simultaneamente ne riceveva un altro da Roma, a firma dello stesso Ing. Dima che gli riconfermava lo incarico.

 

Tali provvedimenti contraddittorii, oggetto di salaci commenti, valsero a dimostrare che a Girgenti qualcuno sostituisce il Dima, e dà importanti disposizioni senza neanche interpellarlo. Inutile ripetere chi possa essere questo qualcuno.

 

E così a Sciacca in luogo della Sezione sorta nel 1920 esiste ora un piccolo Fascio trucco composto prevalentemente di popolari.

 

A Menfi, altro centro dove i combattenti e i mutilati, organizzati sin dal 1919, si erano trasfusi nel Fascismo, fu incaricato della reggenza, insieme ad altre figure insignificanti, il Gr. Uff. Bivona, di 75 anni, il quale nelle elezioni del 1919 distribuì i voti di cui disponeva fra la lista di Nitti e quella di Don Sturzo; nel 1921 li diede alla lista Verderame, voti annullati dalla Giunta delle Elezioni per corruzione. Nel 1922, il Bivona fu successivamente riformista (La Loggiano) e popolare (Sturziano). Ora è a capo del Fascismo di Menfi, dove fece nominare Segretario Politico Berto Ravedà, intimo congiunto del Segretario Provinciale del P.P. Sturziano Avv. Molinari.

 

A Licata il Fiduciario Provinciale dopo avere tolto l’incarico al signor Ettore Sapio amico e parente dell’On. Verderame lo affidò ad una Commissione di Reggenza alla quale pure lo tolse per riaffidarlo al Sapio.

 

Ciò, nel giro di pochi giorni, ha arrecato grave pregiudizio al partito anche perché è notorio che l’Ing. Dima aveva chiesto al Generale Starace, l’espulsione del Sapio per indegnità.

 

La Sezione Fascista di Licata  è ora una succursale del partito riformista, che, è bene si sappia, in questa Provincia fa causa comune coi popolari.

 

Analoghe repentine metamorfosi si verificarono a Bambuca di Sicilia.

 

In taluni Comuni della Provincia, refrattari al Fascismo perché completamente asserviti alla maffia (Cianciana - Burgio - Aragona - Comitini - Favara) non era stato possibile - anche perché io mi ero opposto risolutamente - costituire dei Fasci. In queste ultime settimane, all’unico scopo di procurarsi segretari politici disposti a votare per la sua rielezione il Fiduciario fece sorgere per incanto delle sezioni Fasciste, composte di elementi apertamente devoti all’On. La Loggia, o al partito popolare.

 

Il Fiduciario Provinciale, sapendo della mia opposizione ad un Fascismo così impuro ed equivoco, non mi avvertì neppure della costituzione di questi Fasci.

 

Le elezioni compiute per la ricostituzione dei direttorii, tranne che a Girgenti nella prima votazione durante la mia assenza, sono procedute ordinate, senza dar luogo a incidenti o proteste. Specialmente la seconda votazione a Girgenti si svolse calmissima.

 

I risultati finora furono i seguenti:

1°) A Girgenti riuscì la lista dei vecchi fascisti con carattere di opposizione al Fiduciario Provinciale.

2°) A Canicattì riuscì una lista ostile al Fiduciario Provinciale composta quasi tutta di ex Ufficiali combattenti e decorati con a capo il valoroso Generale Gangitano più volte decorato al valore e ferito.

3°) A Porto Empedocle riuscì una lista degli elementi uscenti, fascisti di vecchia data, contrarii al Fiduciario.

 

Vi furono anche elezioni in comuni di minore importanza: Casteltermini, Bivona, Siculiana e Palma con risultati varî. In complesso però si è creata una situazione artificiosa specie in queste ultime settimane per effetto della sovrapposizione degli elementi popolari, riformisti, alla gerarchia Fascista.

 

I maggiorenti demosociali si mantengono per lo più inattivi nella incertezza dell’atteggiamento da assumere di Fronte al Governo Fascista. Una organizzazione veramente forte e seria del Fascismo, ne potrebbe diminuire di molto l’efficienza. Le Sezioni di vecchia data, in gran parte ostili al Fiduciario Prov. Intendono affermarsi sul nome del predetto Generale Gangitano, come Segretario Politico Provinciale, il quale ha sempre combattuto apertamente la Democrazia Sociale. Per evitare questo pericolo si minacciano nuovi scioglimenti da parte della Federazione Provinciale.

 

Per conto mio, ho ritenuto conveniente mantenermi del tutto estraneo al movimento fascista di quest’ultima fase. E ho pur dato disposizioni affinché i funzionari dipendenti si astenessero da qualsiasi ingerenza.

 

Tali direttive sono state rigorasamente osservate.

 

Date le circostanze di fatto sopra riferite e delle quali potrei occorrendo dare la documentazione, ritengo di dover confermare la proposta che ebbi l’onore di farLe  a Siracusa e cioé lo scioglimento della Federazione Provinciale, con la nomina di una Commissione di Reggenza che proceda ad una rigorosa revisione delle Sezioni ed il rinvio delle elezioni.

 

In linea subordinata ritengo che si debba negare il riconoscimento alle Sezioni di Comitini, Favara, Cianciana, Burgio, Bivona, Joppolo e Aragona.

 

Infine per la ricostituzione delel Sezioni di Licata, Sciacca, Menfi e Sambuca, dove le condizioni sono favorevoli allo sviluppo di un forte e sincero Fascismo, propongo che vengano rigorasamente seguite le direttive opportunamente dalla S.V. On. Date coll’ordine del giorno emesso a Siracisa, affidandone la riorganizzazione a elementi estranei all’ambiente, e non asserviti ai vecchi partiti locali.»

 

 

 

La peculiarità di Agrigento di un fiduciario a capo della federazione fascista provincila si trascinò sino al 26 gennaio 1924. Sotto tale data venne incaricata di regge il fascismo agrigentino una Commissione Straordinaria, come aveva proposto il prefetto Reale in via principale. Tale Commissione si resse sino al 17 aprile 1924, quando venne eletto tal Girolamo Galatioto, che durò sino al 4 aprile 1925. Dopo abbiamo un certo Paladino Raffaele, che a diverso titolo, fu capo del fascismo agrigentino sino al 13 settembre 1925. Quindi è il tempo del celeberrimo Achille Starace che fu commissario straordinario del federazione di Agrigento dal 13 settembre 1925 al 17 maggio 1926. Il 17 maggio 1926 subentra l’On. Angelo Abisso: esso è il federale di Agrigento sino al 29 dicembre 1927.

Questi sono i suoi successori:

1.    D’Andrea Calogero dal 29 dic. 1929 sino al 14 gennaio 1931;

2.    Basile Carlo Emanuele dal 14 genn. 1931 al 17 aprile 1931 (Commissario Straordinario);

3.    Morello Vincenzo dal 17 aprile 1931 all’ 11 giugno1932;

4.    Puccetti Corrado dall’11 giugno 1932 al 6 febbraio 1933;

5.    Gaetani Alfonso dal 6 febbraio 1933 al 1° aprile 1937;

6.    Guggino Emerico dal 1° aprile 1937 al 4 aprile 1940;

7.    Di Marsciano Ermanno dal 4 aprile 1940 al 3 maggio 1943;

Candrilli Manlio dal 13 maggio 1943 sino all’entrata degli americani. ([47])

 

Ufficialmente, la Federazione fu costituita il 15 novembre 1922. I personaggi che si sono succeduti alla sua guida non sono tutti di grosso risalto. Alcuni dati biografici aiutano a comprendere l’altalenare di personalità a vario spessore che si registra nella direzione del fascismo agrigentino.

 

Dima Narciso

Laurea in ingegneria - assicuratore. Iscritto ai fasci sin dal 1919. Fiduciario della Federazione dal 15 novembre 1922. Agente generale dell’INA per Girgenti.

Galatioto Gerolamo

nato a Ravanusa (Ag.) il 10 agosto 1894. Partecipò alla guerra del 1915-18 con il grado di tenente di fanteria. Ebbe due medaglie di bronzo.

 

Paladino Raffaele

nato a Floridia (Sr) il 10 gennaio 1884. Laurea in lettere, insegnante. Figlio di Esattore Comunale. Socialista rivoluzionario; interventista; nazionalista. Iscritto al Fascio nel 1920. Espulso dal PNF nel marzo 1926 «quale elemento disgregatore», fu riammesso nel maggio successivo. Non aderì alla RSI.

 

Starace Achille

«Buttatelo giù per le scale”, fu l’urlo di Mussolini che scacciava definitivamente Starace dal’anticamera della Sala del Mappamondo a Palazzo Venezia. Il “duce” lo aveva privato di ogni carica e di ogni onore in breve tempo. Nel ‘39 Starace dovette dimettersi da segretario del partito fascista e nel ‘41 da capo di stato maggiore della milizia: la sua stella era tramontata per sempre. Cominciarono per lui gli anni delle umiliazioni e della misera che non ebbero più termine fino al giorno della sua esecuzione in Piazzale Loreto a Milano, il 29 aprile 1945.» [48]

 

«La sua vicenda personale non si chiude in se stessa, maè il riverbero di un costume che andava mutando, la sua biografia è anche il racconto della vita esemplare d’un gerarca fascista assai potente, di una sacra autorità del Ventennio. E’ uno specchio in cui si riflettevano gli italiani del Littorio irreggimentati in una coreografia alienante di cui Starace era regista discusso e irriso ma ubbidito.

 

«La condanna del fascismo è nelle cose di tutti i giorni e negli eventi della storia. Rovesci e sciagure furono addebitati al regista, come conseguenza d’un’apparente organizzazione del partito che non poteva reggere alla prova del fuoco. Di lui si fece un capro espiatorio. Misero tutto sul suo conto. Lo distrussero, e forse lo meritava. Mussolini lo scacciò, e forse aveva buone ragioni per farlo. L’ingranaggio ormai lo stritolava e nessuno poteva riabilitarlo. Cercò di risollevarsi da solo, con una morte dignitosa davanti al plotone d’esecuzione.» ([49])

 

 

Nel “carteggio riservato” della Segreteria particolare del Duce, custodito nell’Archivio Centrale dello Stato di Roma, ben tre voluminosi fascicoli riservati ([50]) sono destinati allo Starace. Vi è di tutto. Mussolini lo seguiva in tuttto. Dalle cose pruriginose (pederastia, tradimenti tra fratelli, orge) a quelle invereconde (le celebri avventure galanti) ai latrocinii, alle concussioni. La parentesi agrigentina di Starace vi emerge per gli aspetti più inquietanti: la sua amicizia con Abisso fu molto interessata. Non è provato, ma niente smentisce la miserevole vicenda dei tanti soldi spillati all’on. La Lumia di Licata dietro promessa di una resurrezione politica.

Un anonimo faceva al “duce” in data 28/5/1932 questa delazione ([51])

«A S.E. Benito Mussolini - Ministro degli Interni, Roma - Dopo un lavoro faticoso e pericoloso di spionaggio, ho potuto appurare i dati di fatto che vengo ad esporVi, nell’interesse generale del Fascismo e particolare della Provincia di Agrigento.

 

«Da parecchi anni l’On.le La Lomia, politicamente di Licata, corrisponde la somma di lire cincquantamila annue all’On.le Starace.- Detti pagamenti, che ad oggi ammontano a £. 350.000 sono stati fatti direttamente con vaglia bancari girati dallo stesso all’attuale Segretario del Partito, oppure a mezzo del Senatore Abisso, difensore della delinquenza siciliana. Per detta somma l’On. Starace, fin dalla sua gestione commissariale nella provincia di Agrigento, si è impegnato di difendere l’associazione Abisso-La Lomia fino alle estreme conseguenze. In conseguenza di questo fatto l’On. Starace ha inviato come Questore di Agrigento il Comm. Papa, che appena arrivato in sede si è premurato di chiamare al telefono il Comm. Lo Dico, ex Preside della Provincia di Agrigento, al quale comunicava un discorso cifrato, in seguito al quale, dopo pochi giorni, avveniva nei pressi di Porto Empedocle  .. nel villino campestre del detto Lo Dico , una riunione segreta alla quale partecipavano, il Questore, Lo Dico, il senatore Abisso, il dott. Di Leo Calogero sanitario del comune di Sciacca e fratello del Segretario Federale Agrigentino in pectore,  il dottore Venezia medico chirurgo dentista di Sciacca,  fervente propagandista repubblicano,  l’nsegnante Castellana Alfonso di Lucca Sicula, il cav. Liborio Friscia di Ribera, il Capo Manipolo Friscia Gaetano di Ribera, il Marturana Salvatore di Agrigento, alcuni rappresentanti dell’On.le La Lomia ed altri Abissiani della Provincia.

 

«Scopo della riunione fu di impartire disposizioni perché fosse fatto molto rumore in Provincia per la promessa dell’On. Starace del rovesciamento imminente della situazione politica provinciale.

 

«In seguito a tale riunione infatti in vari paesi della Provincia furono sguinzagliati degli agenti provocatori che tentarono dappertutto di sollevare incidenti. A prova della veridicità della promessa dell’On. Starace in quella riunione l’On.le Abisso riferì per comunicazione avuta dall’On. Starace che il ritardo del provvedimento di rovesciamento si doveva al fatto che presso la magistratura di Sciacca giaceva una pratica per la riesumazione di un processo di associazione a delinquere per stabilire se il padre del futuro Segretario Federale di Agrigento fosse stato a suo tempo coinvolto in detta associazione. Al che il Questore Papa prese la parola assicurando ‘in ogni caso la Segreteria Federale sarà data a persona che pur sembrando neutrale tuttavia sarà al completo servizio del Senatore Abisso’».

 

Nella permanenza ad Agrigento, l’On. Starace ebbe modo di incontrarsi con due uomini politici: l’on. Abisso e l’on. Cucco; del primo ne consolidò la fortuna, del secondo ne stabilì l’umiliante radiazione dai ranghi (almeno sino al 1939). La lotta alla mafia non c’entra affatto. Diversamente la sorte dei due politici siciliani doveva esse parallella, identica essendo la radice mafiosa.

L’on. Abisso fu tanto camerata dell’On. Starace da seguirlo in scandalose frequentazioni di donnine romane. Le spie di Mussolini riferivano. Ma senza effetto.

 

Abisso Angelo

E’ figura centrale dell’agone politico agrigentino, almeno dal 1913 sino al 1933 quando il nobile Gaetani diviene federale di Agrigento. Equilibrismi polticici, repentine conversioni, tradimenti, trasformismo determinano un effetto alone sul personaggio, che resta equicoco, indefinibile, moralmente opaco. Ciò trascende l’angusta economia di questa ricerca per il doveroso approfondimento.

Al nutrito partito di fiancheggiatori - sprezzantemente chiamati abissisiani - si contrappone quello dei denigratori ad oltranza. Nelle carte di archivio abbondano le denunzie, le calunnie, le insinuazioni. L’on. Abisso finisce nell’osservatorio della Segreteria particolare del Duce che apre a suo carico un folto fascicolo informativo. ([52]) Il potente amico Starace riesce, in ogni caso, a parare i fulmini mussoliniani. La stella politica di Abisso potè appannarsi alla fine, ma non si oscurò per tutta la durata del fascismo.

D’Andrea Calogero

Nato a Campobello di Licata (Ag) il 30 maggio 1877, si laureò in giurisprudenza. Fu avvocato ed insegnante. Partecipò alla guerra del 1915-18 col grado di capitano, poi maggiore di fanteria. Iscrittosi al fascio il 20 novembre 1922, fu preside dell’Istituto Tecnico di Agrigento. Rivestì anche la carica di Vice Preside dell’Amministrazione Provinciale di Agrigento. Non aderì alla R.S.I.

 

Basile Carlo Emanuele

 

nato a Milano il 21 ottobre 1885, morì a Stresa il 1° novembre 1972. Barone plurilaureato (giurisprudenza e lettere), giornalista e scrittore, era figlio di un prefetto. Fu nominato senatore. E’ autore di romazi e novelle. Aderì alla R.S.I. e fu quindi prefetto di Genova dal 25 ottobre 1943 al 26 giugno 1944. Ebbe l’incarico di sottosegretario alle FF.AA dal 27 giugno 1944. Venne ad Agrigento come commissario straordinario di questa federazione per consentire una svolta in termini di affrancamento dalla influenza dell’On. Abisso. Vi restò dal 14 gennaio 1931 fino al 17 aprile 1931. Passò le consegne alla scialba figura di Vincenzo Morello di cui sappiamo che fu fascista fin dal 1920. L’11 giugno 1932 viene sostituito da Corrado Puccetti: da questo momento la vicenda della federazione agrigentina esula dai limiti della presente investigazione storica.

 

Quale giudizio può formularsi sul primo quindicennio del fascismo agrigentino (1921-1926)? Ci pare illuminante, pur nel suo settarismo e nella passionalità per il ribollire delle passioni del tempo, la sguente anonima delazione che si rinviene nella carte ministeriali romane ([53]):

«La storia politica della provincia di Girgenti, [Girgenti cambia denominazione in Agrigento durante il fascismo, nel 1927, con il r.d. 16 giugno 1927, n.° 1143, n.d.r.] specie nell’ultimo quindicennio, rappresenta quanto di più deplorevole possa esservi nella vita pubblica italiana. Sparitò l’on. Nicolò Gallo, che dal 1884 ne fu quasi ininterrottamente il dominatore, il suo posto venne assunto dall’on. Domenico De Michele. Costui, ch’era stato del Gallo il luogotenente fedele non aveva di lui né l’ingegno né la dottrina né l’ascendente, ma seppe mantenersi al potere col favore di S.E. Giolitti, del quale fu seguace fedelissimo, e creando attorno a sé una rete di interessi e di interessati. Contro questa oligarchia, bollata col nome di cosca, insorsero le forze nuove della Provincia ch’ebbero come principale loro esponente Giovanni Guarino Amella. Sono ancora ricordate le polemiche, spesso virulente, dell’organo dell’opposizione “IL MOSCONE”, nel quale al De Michele ed ai suoi seguaci si fecero le accuse più atroci e più infamanti.

 

«In tali consizioni di cose venne l’allargamento del suffragio e vennero le elezioni del 1913, nelle quali le forze dell’opposizione riuscirono vittoriose e furono eletti deputati Giovanni Grarino Amella, Antonino Parlapiano Vella e Angelo Abisso. Costui, fino a pochi mesi prima semplice segratario al Ministero dei LL. PP., aveva compreso l’enorme capovolgimento che il suffragio universale avrebbe prodotto nelle imminenti elezioni e , dimessosi, si era lanciato a capofitto nella lotta, aggregandosi alle file dell’opposizione, ma proclamandosi “individualista e simpatizzante per i socialisti (discorso politico del 1913 a casa Gerardi)”

 

«Ma l’opposizione, divenuta maggioranza ed impadronitasi del potere politico ed amministrativo in provincia, non credette di meglio che di .... seguire i metodi dei precedenti padroni, anzi di perfezionare e incrementare tali metodi. Il nepotismo più sfacciato, il favoritismo più aperto furono regola di vita per essa, e poichédopo pochissimo tempo scoppiava la guerra, se ne trasse motivo per inaugurare in provincia il più sconfinato dispotismo. Messo da parte l’on. Antonino Parlapiano, che per temperamento e per tradizione non era adatto a seguire in tutto e per tutto i metodi della nuova cricca, questa s’imperniò sul binomio Guarino-Abisso, i quali durante la guerra furono i dominatori incontrastati di tutti gli organi amministrativi, statali e parastatali della provincia. Non solo l’amministrazione provinciale propriamente detta e quella dei varii comuni passò nelle loro mani ed in quelle delle loro creature; non solo per avere più incontrastato dominiol’on. Abisso ad es. Tenne a Sciacca, malgrado il Consiglio comunale - pu da lui eletto - non fosse sciolto, un Commissario prefettizio di sua scelta per ben 5 anni; ma Consorzio granario, Commissione esoneri, Consiglio d’amministrazione del Banco di Sicilia etc. etc. Commissioni militari di requisizione furono accentrati nelle loro mani direttamente o a mezzo di persone parenti od amiche. Quello che fu fatto al Consorzio granario, gli scandali delle varie Commissioni di requisizione, nelle quali era magna pars il comm. Lo Dico odierno alter ego dell’on. Abisso in quel di Girgenti, non hanno bisogno di illustrazione, perché ancora se ne occupano le cronache dei tribunali con i varii processi, ancora non chiusi, di truffe, falsi e malversazioni a carico dello Stato, commesse tutte sotto le grandi ali dei due grandi patroni della provincia. E mentre i due facevano a Roma professione d’interventismo, e l’on. Abisso indossava la divisa di tenente del genio ma, sebbene appena trentenne, non andava al fronte pur facendosi bello dell’amicizia di Valentino Coda (dove mai l’ebbe a conoscere resta sempre un mistero!); a Girgenti e Palermo si cooperavani per imboscare il maggior numero di gente, fratelli, cognati e cugini; per esonerare come agricoltori barbieri e murifabbri, e per difendere avanti ai tribunali militari il maggior numero di disertori o di falsificatori di esoneri. La cronaca del tribunale militare di Palermo informi. Si cominciava così da parte dell’on. Abisso a creare quella leggenda d’irresistibile avvocato penalista, che, stabilitosi pieno ed intero il suo dominio politico, gli doveva assicurare il monopolio delle Assisie di Sciacca e Girgenti e la fama di “detentore delle chiavi del carcere”.

 

Appartiene a questo periodo la persecuzione inflitta dall’on. Abisso, attraverso a tre inchieste tutte quante negative, ad un capitano - Gravina - reo di aver preso in contravvenzione lo zio di lui Friscia per vendita illecita di grano requisito; contravvenzione sfumata per il tempestivo intervento del Commissario dei Consumi che svincolava “a posteriori” il grano venduto. Ed appartengono a questo periodo i contorcimenti politici dell’Abisso e la smargiassata della “messa in stato di accusa dell’on. Giolitti per altro tradimento” da lui chiesta a S.E. Salandra e da questi qualificata come una semplice “sciocchezza” del deputato di Sciacca. Ciò che però non impediva, all’on. Abisso, al feroce interventista del ‘15, di divenire, appena Giolitti tornò al potere, di divenire un giolittiano ferventissimo, anzi il luogotenente generale dell’uomo di Dronero in quelle famigerate elezioni del 1921, e di chiedere e di ottenere da lui, alla vigilia dell’elezioni istesse, la nomina a commendatore motu proprio, affissa poi  subito alle cantonate di Sciacca e provincia col relativo telegramma di S.E. Giolitti.

 

«Venne il dopoguerra e venne di moda il bolscevismo. Ed allora Guarino ed Abisso, ma questi più del primo, entrambi però sempre in combutta tra di loro, provvidero a dare alla provincia di Girgenti il saggio migliore e maggiore del’opera bolscevica.  Le occupazioni delle terre di Ribera e Menfi, ma sopratutto quelle di Ribera, col tentato sequestro del Duca di Bivona e con i vandalismi conseguenziali, furono opera diretta, ispirata, suggerita e talvolta predisposta dall’on. Abisso. Il quale arrivò persino ad ottenere che l’autorità politica impedisse l’esecuzione delle sentenze del magistrato (come per il rilascio del feudo Scifitelli disposto con sentenza della Corte di appello, ed impedito dal Prefetto di Girgenti!). Né si dica che ciò egli abbia fatto per venire in soccorso ai combattenti, perché di tali occupazioni poco o nulla si sono giovati gli autentici combattenti e le terre, quando non sono state retrocesse ai proprietari per inadempienza delle pseude cooperative da lui create, sono andate a finire in mano a gente che la guerra non vide neanche da lontano. Esempio la lottizzazione dell’ex feudo Nadore in quel di Sciacca, dell’ex feudo Fiore e Bertolino di Menfi; e, uno per tutti, l’esperienza disastrosa della celebre Cesare Battisti di Ribera.

 

Intanto alla Camera il binomio, per sorreggersi, seguiva una linea di condotta veramente meravigliosa. Data l’instabilità dei governi, i due, per trovarsi a cavallo, non votavano assieme se non quando l’esito della votazione era sicuro; ma quando si trattava di votazione incerta i due demo-sociali (giacché Abisso aveva finito per rinunciare al suo individualismo e seguire l’amico Guarino anche nel partito di S.E. Di Cesarò) o si dividevano votando uno contra ed uno a favore, oppure, mentre l’uno si squagliava, l’altro votava a favore. Così i due poterono rimanere ministeriali con tutti i ministeri ed essere fautori e sostenitori di quei Governi imbelli del passato, contro di cui così spesso e volentieri, con riconoscenza ammirevole, ora si scaglia ogni tanto il fascista on. Abisso. Il quale una sola volta dovette passare per oppositore, quando cioè l’on. Nitti, accortosi ch’egli erasi prudentemente squagliato in una votazione non volle accettare le congratulazioni che s’era affrettato a fargli dopo conosciuto l’esito favorevole del voto! E ministeriali furono persino col ministero Fatta [Facta, n.d.r.] del quale uno dei due avrebbe volentieri fatto parte se i popolari non si fossero opposti facendo a loro preferire il La Loggia.

 

«Intanto il movimento fascista andava montando, e lo Abisso, sempre tempista e previdente, disponeva che nei varii comuni della provincia sorgessero delle sezioni fasciste composte da persone a sé fide, ma di seconda mano; gente di scarto e sfiduciata al doppio scopo d’impedire che la gente per bene potesse accostarsi e far proprio il movimento e di poterlo sconfessare, e buttare a mare gli esponenti stessi senza sua compromissione, ove il movimento fosse fallito. Né appena avvenuta la marcia su Roma egli permise che quelle sezioni s’ingrossassero  sia con elementi proprii, sia permettendo l’ingresso di altri elementi estranei alla cricca, non essendo sicuro che il regime potesse consolidarsi. Ma quando capì che esso ormai durava, allora fece il gran passo, si separò dal Guarino ed entrò nel fascismo con tutti i suoi adepti.

 

«Da quel giorno è stata sua cura costante non solo di sfruttare nel modo migliore, a vantaggio proprio dei parenti e dei gregari, la sua posizione dominante; ma sopratutto quella di allontanare dal fascismo tutti coloro che gli potessero dare ombra costringendo l’elemento migliore della provincia o a fare del dissidentismo o a starsene a casa o a passare addirittura all’antifascismo. Del resto non potrebbe essere diversamente. Infatti in provincia il fascismo non esiste, come del resto non esiste antifascismo: non c’è che dell’abissinismo e dell’antiabissinismo. Anche coloro che odiano il fascio possono esservi ammessi purché passino sotto le forche caudine dell’omaggio e dedizione ad Abisso ed ai suoi luogotenenti. Di esempii se ne possono citare a migliaia, ma noi citeremo i più gravi ed importanti.

 

«Sciolto il Consiglio comunale di S. Stefano Quisquina, poiché i veri fascisti di colà non erano da lui benvisti, egli volle che il Fascio fosse rappresentato dai sigg. Vincenzo Ippolito e Con osservanza., cioè dagli autentici maffiosi del luogo. E costoro ebbero l’amministrazione comunale e furono i padroni del paese finché, passati sinceramente o no poco importa, al fascismo i socialisti del luogo e denunciato in alto loco i precedenti degli amministratori scelti dallo Abisso, costui fu costretto di abbandonarli al loro destino.

 

 

«Così in Alessandria della Rocca non ha esitato a silurare i vecchi fascisti del luogo, rei di poca arrendevolezza a lui, per accogliere e mettere al loro posto un suo ex-compagno demo-sociale reduce dal comitato aventiniano-matteottiano di Girgenti.

 

«Né basta. Abbattuto il La Loggia egli non ha esitato a fare rivolgere invito ai partigiani di quello perché passassero nelle sue file, e bastò che il dott. Traina di S. Margherita, anifascista nell’anima, si ponesse a sua personale discrezione, perché egli senz’altro gli lasciasse il dominio del paese abbandonando i suoi vecchi compagni, che rappresentano il minor numero.

 

«Quello però che dimostra viemmeglio quale sia lo spirito che anima lo Abisso, è dimostrato dal suo accordo col’ora defunto on. De Michele. Costui, dopo la caduta, era passato nelle file del La Loggia di cui fu fino ad ieri il seguace più ostinato, anche perché i Baiamonte suoi oppositori nel paese natìo di Burgio erano passati al fascismo.

 

«Caduto il La Loggia, il De Michele fece degli approcci per passare al fascismo, e poiché i Baiamonte avevano mostrato di avere delle preferenze per il prof. Noto Sardegna, inviso allo Abisso perché a lui superiore per intelligenza, cultura e ... tutt’altro, questi non esitò a dimenticare il passato e ad ammettere il De Michele nel direttorio provinciale dietro promessa di appoggiare, contro Noto, certo Ciaccio un vero Carneade di Sambuca, come possibile candidato del Collegio di Bivona. Ed i Baiamonte furono cacciati in galera!

 

«Del resto che lo Abisso faccia del fascismo a suo uso e consumo lo dimostra un fatto per quanto piccolo e materiale: a Sciacca, sua cittadella, si sono spese dal Comune fior di quattrini per creare un lussuoso circolo ANGELO ABISSO, che tutti i fascisti, sopratutto se impiegati, debbono frequentare; mentre per la Sezione del Fascio esiste una stanzetta angusta che sta quasi sempre serrata.

 

«Non parliamo poi dei criteri amministrativi seguiti al Comune di Sciacca. Due Consigli comunali, sebbene da lui eletti e composti tutti suoi gregari, si sono dovuti dimettere rei soltanto di aver voluto qualche volta ribellarsi agli ordini dello zio Salvatore Friscia, un ex-rappresentante che ha monopolizzato, durante la guerra attraverso al monopolio dei permessi d’esportazione, ed oggi attraverso altri sistemi, il commercio locale, e che crede il Comune essere cosa sua personale. Ed oggi si propone come podestà un impiegato di prefettura, mentre non mancano nel partito gente idonea alla carica, per il timore, confessato, che queste possano avere, dopo nominate, delle velleità d’indipendenza agli ordini delll Abisso e del suo luogotenente!

 

«Del resto lo stesso sistema si segue negli altri comuni. A Menfi alter ego dell’Abisso, è certo Volpe, un contadino semi analfabeta, ma esecutore fedelissimo degli ordini ch’egli gli dà e suo rappresentante ... anche negli affari professionali; a Girgenti domina incontrastato in suo nome il Comm. Lo Dico, reduce dei fasti delle Commissioni di requisizione, e che pur essendo un semplice procuratore legale NON laureato, divide con lo Abisso i maggiori trionfi in Corte d’Assisie.

 

«Perché poi la piaga maggiore che il dominio di quest’uomo ha portato in provincia, è la difesa assunta della peggiore delinquenza, l’esautoramento completo della giustizia. [...] [Anonimo del 14.10.1926, n.d.r.]»

 

 

Lo spaccato è senza dubbio tutto in negativo e va accettato per quel che vale: ma qualche luce la riverbera sul quel periodo. Uno dei suoi limiti più vistosi è quello di limitare lo sguardo critico alla sola parte occidentale di Agrigento. Per la restante parte disponiamo di altre carte riservate, anonime ma informate, che ben si prestano a fornirci altri spunti critici.

L’anonimo proviene da Naro ed è datato: 15 settembre 1931.  Qui viene presa di mira la fazione dell’On. Riolo.

 

«Eccellenza - esordisce ([54]) - In nome di sedicimila coscienze, ancora non vendute né aggiogate al carro del banditismo locale, si ha l’onore di farVi conoscere quanto segue:

 

«La Sezione del P.N.F. venne istituita in Naro nel Novembre del 1922 da pochi giovani animosi, di pura fede nostra, i quali per riuscire SOLAMENTE AD ACCAMPARSI tra le rive di questa mefitica palude politica dovettero sfidare tutte le ire e scavalcare tutti gli ostacoli, opposti al loro sano e santo entusiasmo dagli altri Partiti locali, in modo specialissimo da quella vera associazione a delinquere che fu il così detto partito della democrazia social massonica.

 

«L’avvento del Fascismo al potere avrebbe dovuto segnare la scomparsa di quella più vera e maggiore piaga di Egitto, ma le prepotenze, le intimidazioni, le corruzioni, l’intrigo fecero sì che la “COSCA” provinciale (facente capo allora all’on. Abisso, capo riconosciuto di tutta la mala vita urbana e rurale) si mantenesse a galla e così nella prima elezione politica fascista (1924) l’avv. Salvatore Riolo Specchi venne compreso, tra lo stupore e la indignazione di tutti, nella lista Nazionale.

 

«Conseguenze dirette della candidatura e quindi della elezione di questo oscuro satellite abissino furono:

1°) = L’ingresso di tutti i demo social massonici nella sezione del Partito Fascista di Naro;

2°) = La caduta del direttorio locale e la sostituzione di tutti i membri di questo, per imposizione del Deputato, con elementi di pura marca Riolana;

3°) = L’automatico allontanamento dalle cariche e anche dalle fila del Partito dei fascisti della prima ora.

 

«Da quel giorno sino ad oggi tutto l’immenso ritmo fecondo di idee e di opere del regime è stato costretto a vivacchiare, in servitù sterile e semi-boccaccesca, tra una parete e l’altra dell’allegra dimora della signora TITA RINALDI RIOLO la quale ha voluto dividere col marito, assiduamente, l’onere e l’onore di governare le sorti e la storia nuove del paese, ad esclusivo beneficio della sua famiglia naturale e politica. Da allora sino ad oggi, senza uno scarto, senza rossori, con la medesima flemma vuota e sorniona, tutte le cariche del Partito, distribuite patriotticamente in famiglia sono sate occupate nel modo seguente:

AVV. COMM. SALVATORE RIOLO SPECCHI - Classe 1876

Deputato alla Camera. Capo, di nome se non di fatto del P. Fascista locale. Ex imboscato e protettore di imboscati ed autolesionisti. Presidente del Consorzio granario durante la guerra, a Girgenti. Capo della massoneria paesana e gran fratello di quella provinciale. Attualmente, si dice, è dormiente. Venne incluso nella lista Nazionale con questa esilarante menzogna: “PER ESSERSI COSTANTEMENTE OCCUPATO DEI PROBLEMI DELL’AGRICOLTURA” = mentre qui è notorio che egli di agricoltura non conosce neppure l’ortica. Tipo vano e vuoto ma ambiziosissimo sarebbe capace, pur di conservare la medaglietta, di accodarsi anche a Don Sturzo, com’ebbe un giorno cinicamente a dichiarare nella farmacia Bellomo: per sincerarsi chiedere informazioni a costui e ad un reverendo Polizzi, se questi due individui sono disposti a servire la verità. Espertissimo nell’intrigo e nelle pastette sa conciliare le opposte tendenze e le sfrenate ingordigie di parenti, di amici e di protetti, da sette anni tutti patriotticamente a posto con stipendi da generalissimi chi in Naro chi nel Capoluogo.

 

«Nel breve giro di tre anni fece regalare a questo povero Municipio la bellezza di VENTIDUE Commissari.

 

«Nel 1919, 20 e 21, imperversando il terrore rosso non mise mai il naso fuori né permise che l’avessero messo fuori i trenta satelliti della sua fortuna, lietissimi di poterlo imitare in questa bisogna col medesimo entusiasmo col quale lo avevano imitato e talvolta superato in viltà durante la guerra.

 

«Nel 1922 tradì e strozzo l’amministrazione comunale dei combattenti dei quali, fin dal 1925, perseguita con ogni mezzo, compresa la maldicenza in pubblico, la locale sezione.

 

«Dal 1925 sino al dicembre 1930 assassinò politicamente, moralmente, finanziariamente il Podestà Cammilleri Sillitti prima e costrinse dopo a dimettersi da Commissario Prefettizio, successo ad un povero Re Travicello, il proprio cugino Comm. Totò Riolo Tomasi, reo dinanzi al pubblico d’essere un povero idiota, sebbene onesto e fattivo come il Cammilleri Sillitti. Lui che sa appena leggere e scrivere, ha anche l’incarico di Sovrintendente ai Monumenti di Naro, ma i rari illustri visitatori che capitano qui sono costretti a chiedersi esterrefatti  se Naro è in Italia o non, tali e tante sono le prove materiali delle rapine, delle manomissioni, della incuria che hanno sofferto e continuano a soffrire tutti i monumenti e le reliquie del nostro splendore antico.

 

«E fianlmente, tanto per conchiudere alla svelta si fa noto che non sapendo fare altro, da sette anni ha sfruttato tutto il suo genio nel far conferire croci e commende ad individui i quali rappresentano in Naro o fuori il fiore della feccia, della incapacità, dell’strionismo, dell’antipatriottismo e segnatamente dell’ANTIFASCISMO, come si verrà mano a mano dimostrando. [Si butta quindi fango sulle seguenti persone: Avv. Ignazio Riolo, classe 1887; avv. Giuseppe Riolo, classe 189; avv. Carlo Riolo, classe 1892; Comm. Salvatore Riolo Tomasi; Girolamo Rinaldi, classe 1889; Ciro Rinaldi, classe 1887; Luigi Rinaldi, classe 1885; Rosario Specchi-Rinaldi; Cav. Uff. Antonio Castelli, classe 1874; Cav. Antonio Castelli; Antonio Gueli Alletti, classe 1873; Alfonso Borsellino, classe 1884; Antonino Costa di anni 37;  Cav. Onofrio Nicolaci, commissario di P.S.- Il corrosivo astio e la vigliaccheria dell’anonimato rendono quelle note ributtanti e - ai nostri fini - per nulla significative. Ci asteniamo pertanto dal riportarle, n.d.r.]  [...]

 

« Eccellenza  - Sono due anni giusti che noi meditiamo se valeva proprio la pena di stendere le paginette di questa deplorevole storia locale, tutt’altro che completa specialemnte nei riguardi dei maggiori esponenti del P.N.F. di qui i quali, se hanno la tessera e tutti gli onori del Partito, assolutamente non ne possiedono lo spirito e meno ne incarnano il dovere e la pericolosa e miracolosa missione.

 

«A Naro, Eccellenza, il Fascismo è un mito e il feudo è tutto. La conseguenza, disastrosa, è la seguente:

contro una banda di senzapatria, composta tra ladroni e lacchè, da un centinaio d’individui c’è tutta intera una cittadinanza la quale vuole da sette anni e spera indarno che la luce di verità, la febbre di bene, la protezione augusta del regime, divengano una realtà viva e feconda anche per essa; oggi, nel momento in cui scriviamo, è il collasso generale con brevissime parentesi d’insurrezione spirituale sorda e furiosa, di cui qualche cosa devono pur sapere nel capoluogo. Arriveranno queste povere pagine fino al Tribunale dell’E.V.? E se arriveranno avrete Voi il tempo e la bontà di degnarle di uno sguardo?

 

«Ecco degli interrogativi che spezzano l’anima e, perché no?, anche l’entusiasmo.

 

«Ma se Voi non potete e non volete leggere la storia del falso Fascismo riolano di naro, degnateVi almeno dedicare cinque soli minuti a queste ultime pagine il cui contenuto dedichiamo alla Vostra serena Giustizia.

1

«A Naro esiste una banca dal pomposo titolo “BANCA COMMERCIALE INDUSTRIALE AGRICOLA”. Ne è Presidente il Comm. Benedetto Gaetani, COGNATO DELL’ON. RIOLO, ex massone, falso fascista anch’egli, falso patriotta e nullità assoluta sotto qualsiasi punto di vista. Gran parte dei debitori di quella Banca sono tutti della banda Riolo parecchi dei quali sono anche debitori morosi da anni. Da circa 20 anni questa Banca non fa bilancio e non dà conto a nessuno dei suoi numerosi azionisti.

 

«Di questi non parla e non ricorre nessuno perché sta sempre pronta per chi osa la  minaccia delle manette e del confino.

2

 

«A Naro esiste una Congregazione della Carità. Anche questo Istituto, per quanto concerne la sua attività, sino al 30 maggio 1928, è un groviglio di infamie irregolarità e di ladrerie. L’ex cassiere, un certo Costa Gaetano, padre del perito Comunale Antonino Costa (del quale ci occuperemo all’ultimo) deve dare una grossa somma CIRCA LIRE SEDICIMILA e non vuole sentirne. Per informazioni sottoporre ad inchiesta l’attuale Presidente dott. Salvatore Aronica e se questi non vuole parlare metterlo a confronto per esempio con qualche magistrato locale, con un Sac, Polizzi, con un farmacista Ferracani ecc.

3

 

«A Camastra (ora frazione di Naro) tre anni addietro veniva costruita la strada interna principale. Questa è costata centinaia di migliaia di lire ma è divenuta praticamente impraticabile come la famosa pedonale di Naro. C’è stata in questi ultimi tempi e proprio per la strada una sollevazione dei cittadini di quella sventuratissima borgata, ben presto domata con minacce di deportazione e di altro contro i più cospicui capi di quel movimento, volutamente presentato come antifascista (il solito argomento dei tirannelli che vogliono godere in pace il frutto delle pubbliche rapine).

 

«Autore e direttore tecnico di quell’opera è stato precisamente il perito comunale di Naro ing. Antonino Costa, Il collaudo è avvenuto di sera e dopo il ritorno qui del deputato Riolo, tra motti e sarcasmi del pubblico che assisteva, Quest’anno le autorità provinciali tanto per offrire una offa di soddisfazione alla opinione pubblica nervosissima, hanno fatto eseguire sul posto una inchiesta la quale ha avuto la fine di tutte le inchieste della provincia feudo dei deputati Abisso, Riolo e Con osservanza.

 

«Il pubblico di Naro e di Camastra non ha più fiducia né ad uomini né a promesse. E questo è forse il suo torto e il suo debole, del quale profittano sfacciatamente gli altri, i cosidetti padroni per continuare ...

4

 

«Il deputato Riolo dice di avere la protezione di eminenti Gerarchi del Partito, vanta l’appoggio incondizionato del sig. Prefetto Miglio, si dichiara invulnerabile da parte del Segretario Provinciale Cav. Morello. TUTTO CIO’ IN PUBBLICO E SENZA RETICENZE.

5

 

«A Naro il gagliardetto è nome e cosa sconosciutissima. Non si vede in nessuna ricorrenza. Così per volere espresso di questo Segretario Politico il quale si scusa dicendo che non ha fascisti ai quali affidarlo.

6

 

«A Naro il cav. Borsellino Alfonso, individuo privo sin’anche di licenza elementare, veniva proposto  ripetute volte alle Gerarchie  provinciali, sino a 15 giorni addietro, come podestà di Naro dal Deputato Riolo.

 

«Ultima fresca, gloriosa azione di lui è stato lo stupro d’una povera servetta, costretta dalla miseria a lasciarsi tacitare con poche centinaia di lire. La servetta è minorenne.

 

«Il pubblico sa e  pensa, mastica e dice innominabili cose contro l’eroe e i compagni che lo salvarono. Chi ci guadagna non è certo il Fascismo.

7

 

«A Naro, dopo l’ecatombe di podestà e di commissari voluta dal deputato Riolo, nel corso di quest’anno è venuto con funzioni di Commissario Prefettizio il Cav. Steno Pelatti di Bologna, austera figura di fascista e di amministratore. Così, per lui da quel mese abbiamo finalmente visto, conosciuto e toccato la febbre, la forza, l’idea del regime. Ma abbiamo ragione di ritenere che il Commissario Prefettizio non sia stato mai e oggi meno di prima di gradimento dell’onesto deputato, che egli cominci ad essere stufo e nauseato della persecuzione lenta, tenace, ipocrita di questo becchino di Funzionari patriotti e puliti e che quanto prima se va via lui (Pelatti) si debba annegare nella solita fradicia baraonda tanto cara a fruttifera alla truppa del nostro illuminato onorevole.

 

«Soggiungeremo che il Pelatti in pochi mesi di permanenza al Municipio è riuscito a cattivarsi talmente la stima e la simpatia del pubblico (riuscendo così anche a mettere nella voluta luce il viso legale e romano del Fascismo) che un grosso milionario, famoso per la sua tirchieria, gli ha spontaneamente messo a disposizione una forte somma acciocché ne faccia uso a suo gradimento senza darne conto a chicchessia!

8

 

«Da anni era stata raccolta una ingentissima somma in America e qui per la erezione di un Monumento ai Caduti.

 

«La funzione di cassiere venne assunta, manco a dirlo, dal solito

Cav. Dott. Antonio Gueli Alletti - V. Segretario Politico.

 

«Il Monumento è lì che aspetta d’essere inaugurato, tanta è stata la patriottica sollecitudine in merito del generalissimo Riolo e consorti, Mai denari, nelle mani nette e pure di questo caro oculista di vili, si sono come sempre patriotticamente squagliati e non è possibile ottenere i conti. Lo stesso generalissimo Riolo convenne talvolta in pubblico dicendo che effettivamente il costo di quell’opera e delle altre sussidiarie risulta enorme. Noi diciamo che per molto meno parecchia gente  di qui e di altrove è andata a gustare la muffa e l’onta delle patrie galere.

 

«Pertanto denunziamo il cav. Antonio Gueli Alletti, cugino del deputato Riolo, per furto continuato di fondi pubblici in danno del Comitato Pro-Monumento e forse per disubbidienza agli ordini superiori di presentare conti di gestione puliti e leggibili. Così facendo riteniamo di aver messo  posto la nostra coscienza di cittadini e di fascisti, e sentiamo di avere servito la giusta esigenza di un pubblico che ha dato quasi 200 mila lire e da anni non può sapere come queste siano andate a finire.

 

«Soggiungiamo che su questo terreno non scenderà mai il desideratissimo oblìo, unico scampo liberatore cui crede di affidare la propria vita e l’nore questo fortunato frutto di carabiniere.

 

«Quindicimila cittadini vaglieranno sempre sino a tanto che il ladro camuffato fascista renda ai nostri morti l’oro versato con sangue e lacrime di tutti. Insistiamo: tutto qui sarà possibile, ma giammai permetteremo che vampiri sfrontati come il Gueli Alletti e C/i, attacchino le loro immondissime labbra anche sui ricordi dei nostri DUECENTOQUARANTA EROI CADUTI PER LA PATRIA.

9

 

«Il 13 Settembre u.s. Domenica, in seguito ad accordi presi tra tutte le Autorità a proposito della Festa dell’Uva, tutta la cittadinanza volle manifestare apertamente la sua simpatia e la gioia verso il regime incarnato nel Cav. Pelatti (Commissario Prefettizio) distribuendo ed affissando manifesti di colore inneggianti al Duce al Prefetto, al Cav. Morello, al Commissario Pelatti, al Fascismo. Per questa manifestazione, descritta come un delitto presso la Prefettura di Agrigento, parecchi fascisti della prima ora, rei di avervi preso parte col solito entusiasmo, furono diffidati dalla Questura di Agrigento. Vi preghiamo in modo specialissimo di fare indagare su questo fatto.

 

«Naro, 15 Settembre dell’anno IX° E.F.

I Cittadini»

 

 

*  *  *

 

L’agone elettorale agrigentino aveva visto come protagononisti i seguenti deputati:

Elezioni del 16 novembre 1919:

 Partito liberale democratico:

Abisso Angelo      (voti di lista 23.516) voti personali 8.825 +  65;

Guarino Giovanni (                    )                 14.267 +  62;

Pancamo Antonino   (                    )                  6.109 + 153.

(Non eletti: Brucculeri Giuseppe, La Lumia Ignazio e Scaduto Francesco)

Partito Popolare Italiano

Fronda Eugenio  (voti di lista 12.206) voti personali 5.115 +  72.

(Non eletti: Arone Pietro, Micciché Giovanni, Montalbano Domenico, Messina Giuseppe, Parlapiano Vella Antonino)

 

Partito Democratico

 

La Loggia Enrico      (voti di lista 19.383) voti personali  5.925 +  0;

Vecchio Verderame Gaetano Arturo.

(Non eletti: Vaccaro Michelangelo, Caramazza Ignazio, Picone Gaspare Ambrogio).

 

Partito Socialista Ufficiale

Voti 6.813: nessun eletto.

(Non eletti: Arancio Antonino, Cammarata Giuseppe,  Friscia Michele, Giuliana Francesco, Sessa Cesare (voti n.° 2.554), Vernocchi Olindo).

 

elezioni del 25 maggio 1921

Partito Democratico Liberale

Verderame Gaetano arturo (voti 12.402)

Alleanza Democratica Sociale

Pasqualino Vassallo Rosario (voti 112.623)

Colajanni Napoleone

Lo Piano Agostino

Abisso Angelo (voti 95.146)

Camerata Salvatore

Guarino Amella Giovanni (voti 93.247)

Sorge Francesco.

(Non eletti Pancamo Antonino e Adonnino G. Battista).

Partito Democratico Riformista

La Loggia Enrico (voti 31.114)

(Non eletto: Ambrosini Gaspare con voti 22.032)

Partito Comunista Italiano

Voti di lista 8.071. Non eletto Sessa Cesare con voti 4.367.

Partito Popolare Italiano

Vassallo Ernesto (voti 46.922)

Cascino Calogero

Aldisio Salvatore.

Partito Socialista Ufficiale

Costa Mariano

Cigna Salvatore Domenico.

Le elezioni del 6 aprile del 1924 si svolsero - come noto - con un listone nazionale cui andava il premio di maggioranza in base alla legge Acerbo. Per la Sicilia, tale premio si risolse  invece in un danno, facendo perdere alla lista nazionale d’ispirazione fascista due deputati. Annota il Renda  ([55]): «Il risultato elettorale, nella sua essenza, fu il risultato di un ampio e indiscutibile consenso politico. Il previsto premio di maggioranza si risolse in danno anziché in vantaggio del listone. In base ai voti ottenuti, infatti, i deputati eletti avrebbero dovuto essere 40, cioè due in più dei 2/3 (38) consentiti dalla legge. Non era dunque retorico parlare di trionfo.»

Elezioni del 16 aprile 1924

Venivano eletti nel

Partito della Democrazia Sociale

Colonna di Cesaro’ Giovanni (voti  25.307);

Guarino Amella Giovanni (voti 9.455);

Lo Monte Giovanni (voti 12.537);

Fulci Luigi (voti 7.779);

Restivo Empedocle.

(Non veniva eletto Giulio Bonfiglio: voti 5.715).

Partito dell’Opposizione Democratica

La Loggia Enrico (voti 5.259).

Partito Comunista

Lo Sardo Francesco (voti 5.057).

Partito Socialista Massimalista

Vella Arturo (voti 2.581)

   Il listone nazionale ebbe, come si è detto, il pieno: i deputati che in qualche modo avessero attinenza con Agrigento furono:

Lista Nazionale (n.° 21)

Cucco Alfredo (voti 52.973)

Abisso Angelo (voti 32.184)

Pasqualino Vassallo Rosario (voti 22.348)

Vassallo Ernesto (voti 21.017)

Palmisano Paolo (voti 18.408)

Riolo Salvatore (voti 21.017)

Gangitano Luigi (voti 5.718).

In quella tornata elettorale i trombati di lusso della provincia di Agrigento furono: Giulio BONFIGLIO (voti 5.715) della Democrazia Sociale del duca di Cesarò e Cesare Sessa (voti 3.004 del Partito Comunista). Riesce a farsi, invece eleggere, sia pure con pochi voti, il Gangitano, una figura di ex conbattente e quindi di fascista di vecchia data (lo troviamo attivo a Racalmuto nel lontano 1919).

 

I successivi plebisciti del 1929 e del 1934 hanno tutt’altra fisionomia e le elezioni al parlamento sono automatiche: basta avere avuto il consenso a Roma, presso le corporazioni, a venire inseriti nel listone, da approvare o respingere in toto con un sì o con un no.

Per quel che qui occorre basta rammentare che nel 1929, il 24 marzo, vanno Montecitario, dalla provincia di Agrigento: Luigi Gangitano, Salvatore Riolo, Vito Palermo e Paolo Palmisano. Luigi Gangitano e Vito Palermo.  Angelo Abisso fu invece mandato al Senato. Nel 1934, nel plebiscito del 25 marzo, salgono al Parlamento Luigi Gangitano, Vito Palermo;  Paolo Palmisano e Salvatore Riolo si perdono per strada.

Per la Sicilia, le statistiche ufficiali parlano di un inarrestabile trionfo del Fascio Littorio:

Proporzioni dei voti ottenuti dalle

liste del Fascio Littorio in rapporto a 100

 

Anno
1924
1929
1934
Percentuale
69,8%
99,9%
100%

([56])

 

*   *  *

Si è già visto quale ruolo ebbe a svolgere il prefetto Reale nella penetrazione del primo fascismo nella provincia di Agrigento. Era da tempo, specie sotto Crispi e Giolitti, che l’istituto prefettizio aveva un peso determinante nell’evoluzione politica nella zona d’influenza. Era un gioco occulto ma penetrantissimo e di risolutiva importanza. Solo lo studio delle carte d’archivio - mirabilmente custodite nell’Archivio Centrale di Stato - consentono di squarciare questi misteri della gestione del potere nell’Italia post-unitaria, almeno sino all’avvento della democrazia di popolo con la riforma ed il ridimensionamento dei prefetti.


Un elenco dei prefetti di Agrigento (limitatamente al primo periodo fascista)  non è quindi qui ozioso:

 
Cognome e nome
 
titoli
 
dati anagrafici
 
data di nomina
data di fine
 
 incarico
nuova destinazione
Pugliese Samuele
Dott. - prefetto a disposizione
n. a  Perano (Chieti) 6.9.1872 + Roma, 14.8.1939
15 febbraio 1922
5 aprile 1922
prefetto di Foggia
Rocco Raffaele
Dott. Prefetto di Grosseto
n. a Napoli il 2.12.1864
18 giugno 1922
16 giugno 1923
collocato a disposizione
Reale Ernesto
Dott. Vice prefetto
n. a Sassari il 30.6.1875 + Roma il 30.12.1947
16 marzo 1923
22 ottobre 1924
prefetto di Potenza
merizzi giovanni antonio
Dott. Prefetto di Lecce
Sondrio 11.7.1861
22 ottobre 1924
10 gennaio 1925
prefetto di Macerata
Rivelli Giovanni Battista
Dott. Vice prefetto
Campagna (Salerno) 24.6.1870 + Roma 10.9.1967
10 gennaio 1925
12 febbraio 1926
Prefetto di Aquila
Salvetti Giacomo
Vice prefetto
Pallanza (Novara) 7.3.1877 + Torino 1°.10.1953
12 febbraio 1926
16 ottobre 1926
Prefetto di  Grosseto
Maggiotto Giovanni
Dott. Prefetto di Grosseto
Venezia 18.2.1857 + Roma 18.12.1938
16 ottobre 1926
16 novembre 1927
collocato a disposizione
Sacchetti Sebastiano
Dott. Vice Prefetto
Teramo 15.8.1880 + Roma 13.2.1952
1° dicembre 1927
16 dicembre 1929
collocato a disposizione
Miglio Federico
Dott. Prefetto a disposizione
Castrovillari (Cosenza) 4.8.1883 + Firenze 27.4.1956
16 dicembre 1929
16 aprile 1932
collocato a disposizione

 

 

 

 

*  *  *

 

 

L’anno della grande turbolenza in seno alla Federazione fascista di Agrigento è il 1925 e ciò ben si spiega se si ha presente il quadro politico nazionale. Tutto cambiava in Italia; tutto doveva cambiare ad Agrigento. Come? Si ha voglia di affermare, a posteriore, alla siciliana maniera, gattopardescamente. In definitiva, cambiava tutto per non mutare nulla.

 Ritroviamo, come al solito, la cronaca fedele nelle carte prefettizie che si custodiscono a Roma ([57]). Il quadro è decisamente esaustivo per non doverlo qui riportare piuttosto integralmente.

Un telegramma cifrato parte dalla prefettura di Girgenti il 29.1.1925 alle ore 22 della sera. «Incidenti - recita - verificatisi occasione rinnovazione Direttorio questa Federazione provinciale fascista e di cui informai codesto On. Ministero con espresso 19 corrente n.°  31 Gab. Hanno avuto il seguito che si prevedeva.» Il Ministero annota a matita “non è pervenuto a noi”.

«I quattro deputati fascisti - scende nel dettaglio il telegramma cifrato - della provincia Onorevoli Abisso, Riolo, Palmisano e Gangitano hanno concordemente aperta una decisa campagna contro il segretario provinciale Cav. Galatioto considerato che dopo atteggiamento da lui assunto di aperto antagonismo in loro confronto confermato dalla condotta tenuta nella predetta circostanza non possa egli rimanere nella carica che ricopre, tanto più che recente rielezione del Galatioto sarebbe illegale, perché riunione non fu preceduta da regolare convocazione. Constami che predetti Deputati ed altri esponenti Direttorio provinciale abbiano chiesto al Direttorio Nazionale provvedimenti a carico del Galatioto e che sarebbe per venire qui On. Starace per compire inchiesta. E’ opinione generale condivisa anche da persone rispettabili al di fuori partiti locali che permanenza Galatioto al posto di segretario provinciale può danneggiare anziché giovare al fascismo della provincia, dato suo temperamento impulsivo, violento, inconciliabile che gli ha procurato larghissime antipatie.

«Per questi motivi ritengo bene un eventuale suo allontanamento dalla carica di segretario provinciale ed un probabile conseguente suo dissidentismo non potrebbe pregiudicare molto situazione fascismo locale  tenuto anche conto che suo ascendente si limita a pochi elementi più SCALMANATI e irriflessivi. Tutte queste circostanze mi hanno sconsigliato di tentare un amichevole componimento della vertenza ed il Galatioto che prevede quasi certa perdita carica cerca correre ripari. Sembra che egli intenda recarsi costà domani per portare nelle alte sfere sue proteste ed ottenere anche udienza da S.E. il Presidente del Consiglio dei Ministri. Prefetto RIVELLI».

Il lavorio sotterraneo diviene febbrile. Contro Galatioto opera, subdolamente il prefetto Rivelli, che frattanto ottiene che venga nominato un Commissario. Si tratta del prof. Paladino che sappiamo essere  un siciliano di Floridia, a suo tempo socialista rivoluzionario e quindi interventista e  nazionalista, iscrittosi al Fascio nel 1920. Il prefetto si premura di catechizzarlo. Vedremo: senza troppo successo. Il collegamento prefettizio con Roma è puntuale. In data 5 aprile 1925 parte un telegramma cifrato (alle ore 21) dalla prefettura di Girgenti per il Ministero Interno - Gabinetto. Vi si legge: «La crisi che in gennaio erasi aperta in seno Direttorio questa Federazione provinciale fascista e di cui riferii a codesto On. Ministero con espresso 19 detto n.° 31 Gab. E con telegramma successivo giorno 29, ha avuto ora suo epilogo con la nomina da parte della Direzione del Partito fascista di un Commissario nella persona del Prof. Paladino, redattore del giornale “Il Popolo d’Italia” edizione romana, il quale è giunto qui ieri sera con incarico preparare e presiedere Congresso provinciale dei Fasci per nomina nuovo Direttorio Federazione provinciale fascista.

«Situazione assume speciale importanza pel fatto che tutti e 4 i deputati fascisti della provincia solidamente e di pieno accordo muovono guerra per ragioni di indole morale al segretario federazione fascista Cav. Galatioto cui figura fu già da me rappresentata nei succitati dispacci. Commissario Prof. Paladino ha oggi avuto meco un colloquio nel quale gli ho fatto comprendere che il dissenso è insanabile e che nell’interesse del fascismo sarebbe bene escludere  il Galatioto dalle future combinazioni del Direttorio provinciale.»

 

La fazione di Galatioto è in subbuglio. E’ molto forte nella parte orientale dell’agrigentino. Racalmutesi emergenti ne fanno parte: Puma e Burruano. Un personaggio che diverrà fin troppo celebre nel dopoguerra: Calogero Vizzini, è della congrega. Il prefetto Rivelli è vigile ed ostile. Telegrafa a Roma il 15 maggio 1926 (ore 20,35) in questi termini: «Viene oggi spedito da qui a V.E. nonché a S.E. il Presidente Consiglio e segretario generale Partito a firma Commissari Prefettizi Canicattì, Racalmuto e Grotte e Sindaco Ravanusa [Calogero Vizzini, n.d.r.] telegramma protesta voluta mia azione ostile fascismo. Con espresso odierno onoromi dare dettagliati chiarimenti in merito tale infondata protesta ispirata e promossa da noto esaltato Gerolamo Galatioto già segretario federazione fascista scopo sfogare suo livore per vedersi oramai spogliato ogni autorità e prestigio seguito sua azione deleteria in seno Partito e in conseguenza suo atteggiamento di aperta avversione ai quattro deputati fascisti della provincia per fini personali elettorali. PREFETTO RIVELLI»

Il telegramma accusatorio era partito solo poche ore prima (16,20) da Girgenti e ovviamente lo spionaggio prefettizio era vigile e solerte. Era stato indirizzato a S.E. Mussolini; a S.E. Federzoni e a S.E. Suardo; testualmente affermava: «Sottoscritti commissari prefettizi Canicattì, Racalmuto, Grotte e sindaco Racavanusa protestano vivamente contro operato questo Prefetto che calpestando pure idealità fasciste tende  sfacciatamente agevolare elementi democratici sociali e principalmente Guarino Amella nel suo vecchio collegio composto nostri paesi. Denunciano costante inspiegabile sabotaggio amministrativo scopo favorire elementi antifascisti che notoriamente invita suoi ricevimenti. Denunciano sue basse persecuzioni contro puri fascisti rei solo di non sottomettersi sue intenzioni ricorrendo anche fornire informazioni false. Denunciano recrudescenza abigeati. Denunciano sua mancanza impegno onore imponendo dimissioni chieste da notissimi democratici sociali. Comunicano loro dimissioni da commissari e sindaco e chiedono energico intervento Governo Partito con rigorosa inchiesta. Sottoscritti segretari politici fasci Grotte, Canicattì, Racalmuto, Ravanusa, fermi loro posto responsabilità perché ripongono fiducia piena commissario straordinario federazione fascista e organi Partito, affermano loro piena solidarietà commissari sindaco ai quali dànno pubblico atto per magnifica opera fascista svolta nonostante palese ostruzionismo Prefetto.

«Puma avv. Agostino - Commissario prefettizio Canicattì;

«Vassallo Ernesto - Commissario prefettizio Grotte;

«Burruano avv. Salvatore - Commissario prefettizio Racalmuto;

«Vizzini Calogero - Sindaco Ravanusa;

«Caramazza Gaetano - Segretario politico Fascio Canicattì;

«Montagna Nino - Segretario politico Fascio Grotte:

«Burruano Salvatore - Segretario politico Fascio Racalmuto;

«Vizzini Calogero - Segretario politico Fascio Ravanusa.»

 

Il corso degli eventi elettorali del primo fascismo post-aventiniano per le cariche del direttorio provinciale sembra che si sia risolto, in un primo momento, in modo avverso al prefetto. Un altro dei soliti telegrammo cifrati, partito da Agrigento il 10 giugno 1925, informa il Ministero che «per Domenica prossima 14 corrente è indetto congresso fasci questa provincia per elezioni Federazione provinciale fascista. Frattanto da Commissario straordinario Prof. Paladino con mal dissimulato accordo con ex segretario provinciale Cav. Galatioto, di cui è nota precedente deprecata azione, sono stati sciolti e ricostituiti vari altri fasci oltre quelli segnalati mio rapporto 23 maggio scorso 344 Gab., parimenti con intonazione contraria ai 4 deputati fascisti, onde prevedesi probabilità che dette elezioni diano vita ad una situazione poco favorevole ai veri interessi del Fascismo ed avente precipuo scopo capovolgere situazioni municipali ai fini esclusivamente particolaristici e personali e preparare ... per combattere nelle prossime elezioni politiche attuali deputati fascisti. Compio dovere informare V. Ecc. In relazione surriferito mio rapporto per eventuali passi presso Direzione del Partito Fascista e convenienti direttive al Prof. Paladino. Ossequi. Prefetto Rivelli».

Il 14 giugno al prefetto non restò altro che confermare seccamente di avere previsto lo sgradito risultato elettorale. «Oggi - telegrafa - ha avuto qui luogo elezione direttorio provinciale fascista. Risultò eletta lista presentata da commissario straordinario prof. Paladino. Opposizione si astenne votazione; ordine pubblico tranquillo. Riservomi più dettagliate informazioni. Prefetto Rivelli.»

Il giorno dopo (15 giugno 1926, ore 10,50) un altro cifrato redatto nei seguenti termini: «Seguito telegramma ieri, significo che iersera in seno Direttorio Provinciale Fascista, eletti prof. Paladino Raffaele a segretario politico e Cav. Galatioto Girolamo a segretario politico aggiunto.»

Il rapporto prefettizio sugli eventi è contenuto in un espresso inviato da Girgenti il 15 giugno 1925 - Div. Gab. N.° 886. «Di seguito ai miei telegrammi di ieri e di oggi pari numero - relaziona il prefetto Giovan Battista Rivelli - pregiomi significare a codesto On. Ministero che ieri, alle ore 10,30 sotto la presidenza dell’On. Cucco, arrivato espressamente da Palermo ebbe luogo, nei locali di questo Municipio, il Congresso per l’elezione del Direttorio della Federazione Provinciale Fascista.

«Intervennero tutti i Segretari politici delle Sezioni Fasciste della Provincia, nonché gli On.li Palmisano, Gangitano e Riolo.

«La discussione fu lunga ed in qualche punto anche movimentata, avendo gli Onorevoli presenti attaccato di poco lealismo il Commissario Straordinario per la Federazione Prof. Paladino, specie per quanto si riferisce al tesseramento dei nuovi soci delle recenti ricostituite Sezioni Fasciste, mentre questi ed i suoi amici  accusavano di poca sincerità fascista i Deputati della Provincia, presenti ed assenti.

«Verso le ore 14,30, chiusa la discussione gli Onorevoli presenti con i segretari fascisti loro amici, abbandonavano il Congresso, e procedutosi alla votazione risultavano eletti i Signori:

«Pladino Prof. Raffaele - Galatioto Cav. Girolamo - Martorana Avv. Salvatore - Mangiavillani Avv. Nitto - Damiani Crispo Avv. Salvatore - Burruano Avv. Salvatore - Puma Avv. Agostino - Baiamonte Dott. Giacomo - Pontillo Cav. Avv. Giuseppe - Sferlazzas Ing. Giovanni - Chiarenza Emilio.

«Iersera poi nei locali della Federazione Provinciale, in seno al Direttorio, vennero eletti il Prof. Blandini Segretario politico e Cav. Galatioto Segretario politico aggiunto.

«Tutta la giornata ieri trascorse senza alcun incidente per le rigorose misure di ordine pubblico adottate. L’On. Cucco ieri stesso partì per Palermo - Prefetto (Giov. Battista Rivelli).»

 

Con un successivo espresso (Div. Gab. N.° 886  del 19.6.1925) il prefetto tiene informato il Ministero sugli sviluppi elettorali. «Per doverosa notizia - scrive - pregiomi comunicare a codesto On. Ministero che 14 andante, all’arrivo dell’autobus postale a Raffadali, che portava una ventina di fascisti, reduci da Girgenti, pel Congresso Provinciale fascista, avvenne uno scambio di invettive tra i fascisti di cui sopra e quelli che si trovavano in paese, e che attendevano l’esito del Congresso, gli uni e gli altri, facenti capo rispettivamente alle due tendenze in lotta al Congresso Provinciale stesso. Non si ebbero a deplorare incidenti, degni di nota, anche per il pronto intervento dell’Arma.

«Alle ore 20 dello stesso giorno il Corpo musicale di Raffadali, dopo aver terminato pubblico concerto in quell’abitato, richiesto di suonare l’inno “Giovinezza” non vi aderì, adducendo che dato quanto era avvenuto qualche ora prima, tra le due fazioni fasciste, temeva potessero verificarsi serii incidenti. Promise però che giorno dopo avrebbe aderito a quanto si richiedeva. Nessun incidente. Ordine pubblico normale.

«Anche a Racalmuto la stessa sera conosciutosi esito Federazione Provinciale Fascista, s’improvvisò manifestazione giubilo, cui presero parte fascisti e circa 300 simpatizzanti, che preceduti musica, percosse via principale suono inni patriottici e al grido Viva Casa Savoia, S.E. Mussolini, Galatioto e Burruano. Dopo poche parole occasione dette Avvocato Burruano Carmelo dimostrazione si sciolse senza incidenti. Ordine pubblico tranquillo. P/Prefetto: Giordano.»

 

Un biglietto urgente del solito Giordano del 22 giugno 1925 informa: «Per doverosa notizia pregiomi comunicare a codesto On.le Ministero che alle ore 19 del 15 andante circa 150 fascisti in Ravanusa con bandiere e banda musicale si recarono allo sbocco dello stradale di Riesi per fare incontro al Segretario Provinciale Politico Aggiunto Cav. Galatioto Girolamo. Alle ore 19,30 egli vi giunse e venne accompagnato alla sede del Fascio ove furono tenuti brevi discorsi di occasione. Alle ore 20,10 la cerimonia ebbe termine senza alcun incidente. Ordine pubblico tranquillo.»

Il successivo 16 agosto siamo ancora su questa lunghezza d’onda. «Per doverosa notizia - ed ora è il prefetto Rivelli a firmare di suo pugno - pregiomi comunicare a codesto On. Ministero che ieri nel Teatro Nazionale di Canicattì si riunì l’assemblea di quella Sezione Fascista cui intervennero circa 250 fascisti per decidere due questioni importanti: 1°) Elezioni Amministrative. 2°) Appalto del Dazio. L’assemblea approvò ad unanimità, la relazione letta da Caramazza Imperia Giuseppe componente il Direttorio ed inviata alla Autorità Superiore per indire al più presto le elezioni per la costituzione del nuovo Consiglio Comunale. Alla quasi unanimità approvò l’ordine del giorno presentato da Narbone Salvatore componente del Direttorio per rimandare la discussione e la decisione  dell’appalto del Dazio alla nuova Amministrazione Comunale. Nessun incidente.»

Il contrasto deputati fascisti-federazione provinciale esplodeva in piena estate. Veniva da Roma per una composizione il segretario nazionale Farinacci. Le note prefettizie ci ragguagliano mano mano sugli avvenimenti.

20 agosto 1925

«Ieri questo segretario federale fascista Prof. Paladino telegrafava Segretario Generale Partito on. Farinacci essersi raggiunto accordo fra deputati e federazione provinciale fascista. Rammento che on. Farinacci venuto qui scorso luglio esaminare crisi fascismo provincia incaricava prof. Paladino e on. Palmisano rivedere situazione alcuni fasci per quali erasi determinato dissidio fra deputati fascisti da un lato e federazione provinciale fascista  e sottoporre conclusioni a qust’ultima.

«Dopo lunga assenza da qui prof. Paladino durante la quale lavoro revisione appena iniziato era rimasto sospeso riunivansi ieri mio gabinetto deputati on. Palmisano Gangitano e Riolo con prof. Paladino e segretario fed. Fascista Umberto Galatioto per accordo preventivo circa proposte da presentare giorno stesso federazione prov. Fascista. Mancava on. Abisso che trovasi Trentino. Si stabilì soprassedere per fascio Licata non sembrando prudente momento attuale emettere qualsiasi decisione data condizione spirito pubblico locale pei recenti sanguinosi incidenti; rinviare per ulteriore esame situazione Canicattì e Cammarata; ratificare elezioni nuovo direttorio  Ribera e Siculiana; ratificare costituzione nuovo fascio Campobello riammettendovi però cessato segretario politico fascio e cessato segretario sindacati che ne erano stati esplulsi; sciogliere fasci Cattolica Eraclea e Cianciana rimandandone ricostituzione ad epoca da stabilire; affidare reggenza triumvirale fascio S. Stefano Quisquina.

«Portate subito tali proposte assemblea federale furono approvate. Dopo ciò Prof. Paladino e direttorio provinciale hanno avuto premura spargere subito voce essersi raggiunto accordo con deputati ritenendo che da decisioni prese sia uscita rafforzata la posizione in confronto di questi ultimi. Deputati d’altra parte non intendono affatto che provvedimenti concordati e deliberati possano risolversi diminuzione loro autorità e influenza. Ho impressione perciò che accordo sia più che altro apparente e comunque abbia abbia basi assai deboli e precarie. Basta infatti considerare anzitutto mancato intervento on. Abisso il più autorevole dei deputati interessati che non avendo conferito alcun mandato colleghi può aver voluto con sua assenza riservarsi libertà d’azione. Occorre inoltre notare che per alcune situazioni più importanti e delicate come Licata e Canicattì essendosi rinviate decisioni rimane sempre aperta via a più o meno prossime contese. A rafforzare miei dubbi sulla sincerità e solidità acordi sia poi il fatto che comunicazione telegrafica ad On. Farinacci del raggiunto accordo è stata fatta a firma soltanto Prog. Paladino e non pure on. Palmisano mentre ad entrambi on. Farinacci aveva conferito incarico riesame situazioni. Seguo corso avvenimenti per informare ulteriormente Vostra Eccellenza. Prefetto Rivelli».

 Il 4 settembre partiva dal Ministero per il Vice Prefetto di Girgenti questo dispaccio telegrafico: «Pregasi comunicare codesto viceprefetto seguente dispaccio del prefetto titolare comm. Rivelli. Stop. “Ieri deciso scioglimento Direttorio Federale et invio commissario straordinario alla Federazione Fascista. Stop. Nella eventualità provvedimento possa fornire occasione agitazioni, manifestazioni, concentramenti squadre, violenze contro persone e beni, occorre prendere d’urgenza tutte necessarie misure perché ciò sia assolutamente impedito agendo energicamente contro chiunque tentasse farlo senza distinzione persone et partito. Stop. Occorre anche vigilare severamente et impedire che persone specie le più turbolente vadano armate senza licenza o che continuino a godere di questa qualora diventate indegne e costituiscano pericolo ordine pubblico. Stop. Vigilanza autorotà P.S. deve principalmente e più efficacemente svolgersi dove più forti e più acri si agitano contese fasciste e dove maggiore influenza esercitano i capi dissidenti. Stop. Prego perciò V.S. prendere subito accordi con Questore e con comandanti divisioni arma anche prima mio ritorno costà predisponendo opportuno piano vigilanza. Stop. All’uopo Ministero su mia richiesta ha disposto invio costà altri cento carabinieri. Stop. Domani Sabato giungeranno Girgenti onorevoli Riolo e Palmisano. Prego disporre servizio vigilanza tutela”.»

 

Una lunga relazione dei carabinieri di Campobello di Licata, che il vice prefetto Giordano manda in copia l’11 settembre 1925, chiarisce il clima turbolento che si era determinato tra le fazioni fasciste agrigentine.

«Con riferimento alla nota sopraindicata pregiomi trascrivere qui di seguito quanto mi comunica la locale divisione interna de CC.RR.:

 

«Con riferimento al foglio controdistinto si partecipa che da verifiche praticate in Campobello di Licata dal Capitano Coppaloni Sig. Pietro Comandante la locale Compagnia Esterna è risultato quanto segue:

 

«L’attuale Direttorio fascista di Campobello di Licata si compone di individui taluni dei quali sino al 21 giugno 1924 non erano inscritti al partito fascista, e altri, pur essendo ex combattenti, costituirono e diressero la Società “Per la Patria e per il Re” emanazione legittima dell’ “Italia Libera” che fu sciolta per decreto Prefettizio del 6 gennaio 1925 perché formata da elementi sovvertitori dell’ordine pubblico e di idee strettamente antifasciste.

 

«Il Direttorio stesso è stato creato dal Professore Paladini in seguito allo scioglimento di altro Direttorio contro il volere concorde dei quattro Deputati della Provincia.

 

«Alcuni dei componenti il Direttorio predetto fra cui il segretario politico Dott. Cammarata Costantino perché ritenuti professanti idee antinazionali, e designati dalla voce pubblica quali detentori abusivi di armi da fuoco, subirono il sei gennaio del corrente anno, perquisizioni domiciliari eseguite dai militari dell’Arma e dal Funzionario di P.S.; come risulta dal verbale n.° 3 in data 6 gennaio 1925 della Stazione di Campobello.

 

«Lo stesso Direttorio del Fascio che conta circa 120 nuovi iscritti su una popolazione di oltre 18.000 abitanti cerca con ogni mezzo di potere aumentare il proprio prestigio e la propria autorità e vorrebbe per raggiungere tale scopo, avere dall’Arma locale incondizionato appoggio e completa dedizione mentre al contrario l’Arma di Campobello e per essa il Maresciallo d’Alloggio Maggiore Burati Crescenzo si mantiene molto indipendente ed obiettivo e gode la piena fiducia dei deputati fascisti della Provincia.

 

«Il Burati per la sua opera prestata in Campobello fu encomiato dal Comando Generale dell’Arma. Al Maresciallo Burati si fanno i seguenti addebiti:

1°) Di amicizia intima con l’ex segretario politico al quale il Burati avrebbe fatto apertamente dichiarazione di devozione incondizionata e promesse di ausilio.

 

«Il Maresciallo Burati giunse a Campobello di Licata nel novembre 1924. Reggeva in quell’epoca il fascio il Comm. Dott. Curatolo Medico Condotto uomo superiore ad ogni sospetto. [...]

 

«2°) Di esersi opposto in ogni occasione che i fascisti cantassero inni fascisti e per sino di aver vietato che la musica suonasse detti inni. [...]

 

«I fascisti dissidenti di campobello, secondo dichiarazione del predetto Direttorio, sono due: il Dott. Curatolo suddetto e suo nipote Sammarco, entrambi fatti espellere dal partito per opera dell’attuale Direttorio.

 

«Dopo la loro esplulsione si astennero dal prendere parte attiva alla vita pubblica del paese. Non si comprende quindi in che consista l’atteggiamento tollerante dell’Arma [...] Ma per meglio prospettare il caos che regna nel Direttorio di Campobello, si fa presente che il suddetto Rag. Sammarco sebbene espulso dal partito, è tuttora capo manipolo della M.V.S.N.

 

«3°) Di acquiescenza per fatti verificatisi in Campobello il 23 giugno 1925.

 

«Il 23 giugno 1925 ebbero luogo in Campobello di Licata le elezioni del nuovo Direttorio. L’avvocato Galatioto fratello di un membro dell’attuale Direttorio, simpatizzante fascista  designato dal dott. Cammarata come colui il quale avrebbe potuto obiettivamente sul comportamento del Maresciallo Burati così ha raccontato i fatti:

 

«””Il Maresciallo Burati [..] comprese con rara avvedutezza la vera situazione dell’ordine pubblico in Campobello. [..]Verso sera di detto giorno man mano che si veniva a conoscenza dell’esito delle elezioni, gli animi degli appartenenti alle due tendenze in lotta andavano eccitandosi. Ad un certo punto, quattro o cinque individui usciti dalla casa del rag. Sammarco situata nei pressi della sala della votazione, attreversarono in atto spavaldo e di sfida quella piazza XX Settembre gremita di gente [..]””

 

«Per gli spari avvenuti il giorno seguente il Burati non era presente perché ammalato in Caserma; ma l’autore di tali spari identificato per certo Carneci Carmelo fascista, venne arrestato come risulta dal verbale n.° 71 del 25 giugno della Stazione di Campobello.

 

«Per gli spari verificatisi i giorni successivi (si sparò solo il giorno 28) l’autore, identificato per certo Cassaro Carmelo, datosi alla latitanza, venne denunciato all’Autorità Giudiziaria come risulta dal verbale n.° 72 del 29 giugno della Stazione di Campobello.

 

«4°) Arresto del Maresciallo dei CC.RR. in pensione Sansone Giovanni in seguito ai disordini avvenuti il 6 luglio.

 

« .. verso le ore 21 del 6 luglio  […] nella piazza XX Settembre e precisamente davanti la Sezione Fascista si era inscenata una dimostrazione ostile contro quel Commissario Prefettizio, Cav. Crisafulli [..] Certo Sansose Giovanni fu Giuseppe di anni 55 Maresciallo dell’Arma in congedo, con le mani in alto e gesticolando in atto minaccioso [si rivolse in malo modo] al maresciallo Burati ... Ad assembramento sciolto .. Il Sansoni .. venne invitato .. in casermadove fu dichiarato in arresto. [..] Durante la stessa notte l’arrestato venne tradotto al  carcere mandamentale di Ravanusa, per evitare che l’indomani si tentasse, come era stato progettato qualche atto incolsulto da parte dei fascisti per liberare il Sansone. [..]

 

«5°) di avere elevato contravvenzione ai fascisti il 4 agosto 1925. 

 

«[..] il 4 agosto u.s. verso le ore 24 circa una quarantina di individui con canti e schiamazzi, suonando anche chitarre e mandolini disturbavano in quella Via V. Emanuele la quiete pubblica. [...] Il maresciallo [..] riusci a fermarne sette ed a perquisirli: uno di questi certo Alaimo Cristoforo fascista tesserato, venne trovaro in possesso di una rivoltella senza licenza, per cui fu arrestato [..]»

 

I fatti non sono lievi ma non tali da spiegare il pandemonio che determinarono. C’era, certo, alla base, una strumentalizzazione politica. I deputati facevano fronte comune. Il Paladino è figura opaca per contrastare l’abilità di un Abisso. Il Galatioto non dovette rifulgere per acume tattico. Avere contro il prefetto si dimostrò, per lui e la sua congrega, esiziale. In ogni caso, il fascismo cominciava davvero a mostrare il suo volto duro. E l’ordine pubblico cominciava a guadagnarci. Comunque la si pensi.

Il 16 settembre il prefetto Rivelli aveva partita vinta. Era arrivato ad Agrigento nientemeno che Achille Starace. «On. Starace - informa - giunto qui il 13 corrente quale inviato straordinario della Direzione del Partito Fascista presso questa disciolta Federazione provinciale fascista, dopo esaminata situazione, ha, con determinazione odierna, stabilito sciogliere tutti i fasci della provincia, riservandosi incaricare appositi fiduciari ricomposizione a suo tempo fasci medesimi.

«Provvedimento improntato opportunissimo senso serenità obiettività ha riscosso applauso generale ed è stato accolto assai favorevolmente da popolazione che da esso trae motivo ritorno desiderata tranquillità intera provincia e nobile sprone rafforzamento locali energie fasciste in guisa da assicurare al Governo Nazionale il più largo consenso e la più incondizionata e disciplinata devozione.»

E l’on. Starace è proprio un duro. Gongola il prefetto telegrafando il 18 seguente: «On. Starace commissario straordinario questa federazione provinciale fascista con provvedimento  ieri ha sciolto tutti fasci questa provincia ordinando segretari politici sezioni portare presso sede federazione stessa chiavi dei locali. Provveduto tutela ordine pubblico esecuzione ordine suddetto commissario.»

Dobbiamo sempre al Rivelli la cronistoria del frenetico operare di Starace ad Agrigento. Il 13 novembre 1925 il prefetto così ragguaglia il ministero: «On. Starace Commissario straordinario questa federazione fascista, ha radunato qui dieci corrente fiduciari da lui nominati per ricostituzione fasci provincia, impartendo loro precise nobilissime istruzioni per tale lavoro destinato ridare lustro decoro e solidità al fascismo provincia  che opera insana disciolto direttorio aveva traviato con meschine interessate competizioni. Erano presenti anche 4 deputati fascisti provincia On. Abisso, Gangitano, Palmisano e Riolo.

«Iscrizioni nuovi fasci incominciano oggi e termineranno 20 corrente. Congresso Federale per nomina Direttorio provinciale prevedesi possa avere luogo entro primi mesi dicembre.

«Avviata così a felice brillante sistemazione mercè opera impareggiabile ferma ed accorta On. Starace politica fascista provinciale si è riconosciuta d’accordo con me possibilità addivenire a breve scadenza ed a gradi, ricostruzione Amm.ni Comunali rette da commissari attualmente in n.° 23 cominciando da questa città e altri centri importanti su cui riservomi a parte relative specifiche proposte.»

Il prefetto di Agrigento, a fine novembre 1925 (Telegramma del 29/11/1925) opera ormai in piena sintonia col regime: sono le vicende delle sezioni fasciste ad interessarlo e sono queste ad interessare il Ministero degli Interni. «Oggi hanno avuto luogo - telegrafa il Rivelli -  elezioni direttori sezioni fasciste in tutta provincia. Da notizie finora pervenute da parecchi comuni ovunque è riuscita lista propugnata da fiduciari del commissario straordinario federazione provinciale On. Starace.»

Il 2 dicembre successivo, il prefetto ritorna sull’argomento con una relazione alquanto più dettagliata. Vi fa capolino anche l’on. La Loggia. Il suo destino politico viene qui marcato come l’ultimo atto. La fine dell’importante uomo politico di Agrigento è inappellabilmente segnata.

«Ieri segretari politici dei 42 fasci provincia, riuniti sede Federazione Provinciale Fascista hanno telegrafato On. Farinacci formulando unanime voto  sia ritardata convocazione congresso Provinciale per lasciare direzione Fascismo Provincia On.le Starace, fino esaurimento elezioni ricostituzione Consigli Comunali e Provinciali ed esprimendo unanime plauso per rifiuto opposto da Direzione Partito ingresso On.le La Loggia stop Entrambe manifestazioni  rispondono alto criterio interesse politico provincia e incontrano perciò mio pieno consenso. Ricostituzione normale rappresentanza provincia e rimanente diciotto comuni retti da Commissari potrebbe infatti aver luogo entro gennaio e febbraio prossimi essendosi oramai mercé validissimo contributo On.le Starace sistemata e chiarita situazione politica provincia ed è quindi opportuno che anche nel periodo conclusivo della situazione amministrativa non manchi prezioso concorso opera sua stop Ostilità poi così vibratamente espressa da tutti Segretari Politici dei Fasci riguardo On.le La Loggia avvalorano segnalazioni fatte a Vostra Eccellenza miei telegrammi 12 e 22 novembre n. 916 e 935 circa discredito  cui detto Deputato è caduto questa provincia e conseguenze .... che deriverebbero da eventuale convalidazione sua elezione. Ossequi, prefetto Rivelli.»

Il Galatioto che aveva retto il fascismo provinciale per vario tempo è orami alle corde. Ha un sapore patetico questa corrispondenza che il prefetto Rivelli ha col Ministero sulla definitiva scomparsa dalla scena politica del fascista della prima ora di Ravanusa.

«Per doverosa notizia - esordisce un telegramma prefettizio del 17 novembre 1925 - pregiomi significare a codesto on. Ministero che ore 21,10 corrente in Ravanusa allo arrivo dell’Avv. Sillitti Alfredo e Cav. Gallo Vito quali designati per la reggenza di quel fascio, venne improvvisata imponente manifestazione da parte dei nuovi fascisti al grido di viva S.E. Mussolini. Il corteo si diresse sede fascio inneggiando agli ospiti suddetti, a S.E. Mussolini, all’on. Gangitano ed a tutti i deputati fascisti. Nella sede pronunciarono brevi discorsi occasione Avv. Stillitti, Cav. Gallo ed il Dott. Attanasio Salvatore, ringraziando i convenuti e innegiando alle glorie del fascismo e del suo Duce. Poco dopo corteo si sciolse senza nessun incidente.»

Qualche giorno dopo, il 23 novembre, il prefetto s’interessa per l’ultima volta del Galatioto. «Ore 15,30 ieri - telegrafa - in Ravanusa Galatioto Girolamo ex segretario politico federazione provinciale fascista, Sindaco Vizzini ed altri deridevano aversari. Intervento funzionario sicurezza ivi in missione arma e militi nazionali furono allontanati. Contegno medesimi provocò risentimento popolazione e per subitanea reazione formossi imponente manifestazione che percorse vie principali inneggiando Re e Duce. Dopo brevi parole maggiori esponenti fascismo quel comune, dimostranti si diressero verso Municipio con intendimenti ostili quella amministrazione comunale; per opera però del funzionario sicurezza e della commissione reggenza nuovo fascio, manifestazione si sciolse senza incidenti. Per evitare turbamento ordine pubblico ho inviato colà 20 carabinieri rinforzo, giusta richiesta quel funzionario al quale ho rinnovato tassative energiche disposizioni procedere senza riguardo carico perturbatori ordine pubblico. Giacché poi permanenza a atteggiamento provocatori amministrazione comunale causa principale dell’agitazione che minaccia turbamento ordine pubblico e amministrazione stessa, è oramai divenuta invisa maggioranza popolazione, con decreto odierno ho sospeso per urgenti  motivi di ordine pubblico consiglio inviando qual commissario prefettizio il commissario di P.S. Dr. Montalbano Edvige e riservomi proposta scioglimento.»

 

La svolta del 1925

 

Il 1925 segna senza dubbio una svolta nel modo di essere del fascismo. Dopo il discorso del 3 gennaio cambia Mussolini, cambia il suo modo di vedere il parlamento, cambia il suo atteggiamento nei confronti delle istituzioni tradizionali. E l’Italia si avvia verso un regime indubitabilmente dittaroriale.

Il Ragionieri spiega, a nostro avviso, piuttosto puntualmente la vicenda del  1925 ([58]).

 «Il 3 gennaio 1925, con in tasca un decreto di scioglimento della Camera firmato in bianco dal re, dopo una resistenza neppure troppo convinta, Mussolini si presentò in Parlamento e assunse per sé e per il suo movimento ogni responsabilità di quanto era avvenuto. Non si trattò dello spartiacque fra due epoche, ma del momento della scelta esplicita e irreversibile  della soluzione di forza: “Quando due elementi sono in lotta e sono irriducibili - dichiarò Mussolini - la soluzione è la forza”. Gli strumenti adottati furono ancora una volta offerti dall’autoritarismo delle leggi vigenti e della pratica repressiva e centralizzatrice dello Stato, nonché delle nuove restrizioni introdotte dallo stesso fascismo in questi anni. La notte del 3 gennaio Federzoni telegrafò ai prefetti ordinando loro l’applicazione più rigorosa delle norme vigenti che già limitavano drasticamente ogni libertà d’associazione e di movimentoe prescrivendo la soppressione dei gruppi di “Italia libera”, organizzazioni di ex combattenti, e retate di comunisti. Venivano così colpiti ad un tempo, con una tecnica caratteristica del fascismo che si apprestava a divenire regime totalitario, gli oppositori storicamente più vicini e più lontani, cioè gli elementi più capaci di operare una disgregazione all’interno della base sociale del fascismo o di organizzare la resistenza più intransigente e più combattiva alla costruzione del regime.»

 

Per una valutazione meno ostile, valgano le note del Nolte ([59]): «Mussolini non cadde perché lo appoggiavano il re e il papa, il senato e l’industria, timorosi di potersi trovare di nuovo di fronte ai socialisti e ai comunisti. Ma si perdette irrimediabilmente una delle possibilità di evoluzione di Mussolini, soprattutto quella che non dipendeva tanto dalla sua “fede” e dal suo temperamento quanto dalla sua visione politica: di essere il capo, e non il dittatore, di una democrazia sociale. Eppure ancora nel famoso discorso del 3 gennaio 1925, che “chiarì la situazione” e significò l’accettazionedefinitiva del totalitarismo fascista, è possibile avvertire una vena di tristezza se non di disperazione, e  in pari tempo - per quanto la cosa possa sembri paradossale - un più forte vincolo con la monarchia e con le forze conservatrici.»

 

«L’avvenimento più importante di questa epoca, - scrive sempre il Nolte a pag. 317 e segg. - che per lumghezza e prosperità viene seconda nell’esistenza politica di Mussolini, fu la creazione di ciò che si suole chiamare dominio totalitario.

 

«Dopo il 3 gennaio Mussolini non si oppone più alla “ripresa totale, integrale” dell’azione fascista, che da tempo i suoi estremisti esigevano. Lo squadrismo, di nuovo potente, leva ancora la testa e porta contro i suoi avversari gli argomenti che gli sono tipici. Farinacci, nuovo segretario generale, si applica con tutta l’energia del suo fanatismo al compito di “smatteottizzare”, esalta l’ “intransigenza rivoluzionaria ” del fascismo, minaccia gli avversari di una “terza ondata”, e nega Nè più né meno che gli antifascisti possano essere considerati italiani. Ben presto l’opposizione non ha più nessuna possibilità di muoversi liberamente. Se in un primo tempo ci si accontenta di sequestrare senza ritegno i suoi giornali, dopo l’attentato di Bologna tutti i giornali ostili al regime vengono proibiti, viene istituito un tribunale speciale supremo, la punizione del “confino” diventa una misura preventiva lasciata all’arbitrio dei prefetti senza praticamente alcuna possibilità di protesta o di controllo. Dove mai avrebbero potuto vivere gli avversari anche solo potenziali del fascismo se non su isole rocciose, ora che la “feroce volontà totalitaria” di Mussolini aveva da un pezzo negato a tutti i partiti ogni diritto all’esistenza e voleva fare della nazione un “blocco granitico” o “monolitico”? Aveva già dimenticato che appena due anni prima un’Italia senza opposizione e senza contrasti di forze sociali gli era parsa “insopportabile”? Ora si diceva che in un regime totalitario come quello fascista l’opposizione era stolta e superflua, dal momento che il regime trovava nel proprio petto e nella resistenza delle cose l’indispensabile opposizione.

 

«Come, l’opposizione, anche lo Stato è in lui stesso. La citatissima formula “tutto nello Stato, niente al di fuori dello Stato, nulla contro lo Stato” non va affatto intesa, statalisticamente, come una contrapposizione  tra Stato e una particolarità di tipo individuale o collettivo. Questo Stato è caratterizzato piuttosto dal fatto che esso non può essere rigorosamente separato dal partito o contrapposto a questo: l’apparato dello Stato e quello del partito sono strumenti di dominio in mano a Mussolini, e anzi il partito - grazie alla sua maggiore modernità o anche per la sua dignità ideologica - diventa più importante ogni anno che passa.

 

«L’opera legislativa che fissò la “mussolinizzazione” dello Stato fu costituita dalle così dette “leggi fascistissime”, non a caso create da Alfredo Rocco.» ([60])

 

 

 

Un quadro abbastanza veridico - anche se non privo di preconcetti ideologici - di quello che ebbe a verificarsi in quest’anno di svolta nell’intera Sicilia ci viene fornito dal Renda ([61]).

 

«I fascisti non vollero lasciare dubbi che i veri padroni della situazione fossero loro - stralciamo dal testo del Renda - e soltanto loro. La riprova di quella verità, del resto, venne poco dopo, allorché nell’agosto 1925, si procedette alla elezione del consiglio comunale di Palermo. In tale occasione, il fronte delle opposizioni, ammaestrato dagli avvenimenti nel frattempo verificatisi nel paese, si presentò compatto nella lista Unione per la libertà, chiusa solo ai comunisti, i quali formarono lista propria. [..] In modo aperto, e senza giro di parole, lo scontro venne affrontato fra la libertà e la dittatura. Sul momento vinse quest’ultima. I voti della lista fascista furono 26.249; i voti della lista di concentrazione liberale, 16.616; i voti della lista comunista, 211. [...] Non diedero quel segnale di rivolta politica e morale che l’Italia antifascista dalla Sicilia si aspettava. La classe dirigente dell’isola rimase ferma nella scelta già fatta in favore del fascismo.

 

«Le elezioni amministrative di Palermo furono l’ultimo guizzo di resistenza legale al fascismo. Vittorio Emanuele Orlando ne trasse la conclusione che “nell’attuale vita politica italiana non vi è posto per un uomo del mio passato e della mia fede”; e si dimise da deputato per protesta [..] A chi non seguì il suo gesto, non fu riservata sorte migliore. Subito dopo, infatti, varate le leggi eccezionali, altri 13 deputati di opposizione (fra i quali Colonna di Cesarò, Giuffrida, Guarino Amella) furono dimissionati dal parlamento con atto d’imperio. Francesco Lo Sardo, addirittura, oltre che privato del mandato parlamentare, fu anche arrestato. Contemporaneamente si procedette allo scioglimento formale dei partiti politici (di fatto erano già paralizzati da tempo); furono soppressi i sindacati; fu abolita la libertà di stampa e proibita ogni forma di vita politica a chi non accettasse di sottostare al regime. Ne seguì legalmente la fine del regime liberale e l’instaurazione della dittatura. A non perdere la fede nella libertà e a non ammainare la bandiera furono solo piccoli gruppi o singole personalità; ea distinguersi nella volontà e nel proposito di non cedere fu, in particolare, il piccolo partito comunista, fatto di alcune centinaia o di alcune migliaia di militanti, che, per sfuggire alla spietata caccia della polizia, cercò riparo nella più rigorosa clandestinità.

 

«Instaurato il regime del partito unico, la storia politica isolana, al pari di quella nazionale, sembrò identificarsi, e non pochi pretesero che si identificasse, col fascismo. [..]

 

«Il passaggio dal regime liberale al regime fascista, pur carattterizzato da un largo consenso poi in parte rimesso in discussione, non fu indolore, e non si limitò alla distruzione di qualche camera del lavoro, di qualche cooperativa, di qualche sezione comunista o socialista e neppure alla somministrazione di una certa quantità di olio di ricino accompagnata da dosi più o meno maccicce di manganellate. La transizione dalla libertà alla dittatura, oltre che un processo politico, fu anche un rivolgimento sociale. Alla vecchia classe dirigente di ispirazione democratico-liberale se ne sostituì una nuova, la cui formazione politica fu diversa, e la cui composizione non si identificò tutta nel fascismo, ma in parte trovò la propria ragione d’essere fuori del fascismo e in parte anche nello stesso antifascismo. La nuova classe dirigente si defferenziò dalla vecchia, anche per il fatto che la sua matrice sociale non fu necessariamente legata, come nel passato, alla grande proprietà terriera, e più ancora alla campagna, ma divenne espressione del ruolo emergente assunto nella società dai ceti medi e in particolare dai ceti impiegatizi dello Stato e degli enti pubblici parastatali. In questo senso, la scelta filofascista dei grandi proprietari terrieri, operata fra il 1922 e il 1924, e poi consolidata negli anni successivi, più che un errore, fu il segno dell’esaurirsi della loro capacità di egemonia sul resto della società.

 

«[..] negli equilibri di potere interni al regime, la nuova classe dirigente siciliana, formatasi durante il ventennio, sia per qualità che per capacità di rappresentanza, non fu più capace di esercitare un qualche peso di rilievo nazionale [...].

 

«Quella situazione al livello della rappresentanza parlamentare si riflesse con maggiore evidenza nelle istituzioni locali, nei comuni, nelle istanze del partito, nei sindacati. Non fu più come ai tempi della Sinistra storica, quando gran parte del personale politico periferico era costituito direttamente da medi e grandi proprietari terrieri. Segretari federali fascisti, essi stessi possessori di latifondi o rampolli del vecchio baronaggio, come il conte Gaetani di Naro, durante il ventennio, si contano sulla punta delle dita. La quasi totalità dei gerarchi appartiene, invece, ai ceri di media e di piccola borghesia così urbana come anche rurale. Naturalmente, pure in regime liberale non erano pochi i rappresentanti politici e parlamentari di origine piccolo borghese; ma la loro funzione era quella di agenti fiduciari delle classi dominanti proprietarie. In regime fascista, tale stretto legame di dipendenza non esiste più, non essendo più la stessa di un tempo la fonte di legittimazione del potere. Per altro, come segno di un mutamento istituzionale, tende a diffondersi e  generalizzarsi la figura del funzionario di partito, che non esercita la politica come servizio occasionale e temporaneo, bensì come professione organica e permanente, le cui fortune si identificano con la ragion d’essere del regime. Da questo punto di vista, il fascismo, generalizzando un fenomeno già presente nelle organizzazioni politiche e sindacali della Sinistra socialista, e anche fra le organizzazioni cattoliche, rappresenta un fenomeno sociale e politico da non sottovalutare nella prospettiva di lungo periodo. In effetti, è la prima volta che, in forma vistosa e quasi plateale, la grande proprietà terriera siciliana viene staccata drasticamente dal potere, sebbene il potere manifesta il proprio ossequio verso la proprietà medesima.

 

«Durante il ventennio, senza dubbio, i grandi signori del latifondo siciliano conservano la terra, mantengono o restaurano la loro influenza sociale, ricevono anche vantaggi economici sostanziali (la battaglia del grano e la bonifica(; ma non hanno più voce diretta e vincolante negli affari del governo nazionale e nel controllo delle amministrazioni locali. Significativamente, il primo podestà fascista di Palermo è un docente universitario, che prende il posto di un qualificato esponente della vecchia aristocrazia. [..]

 

«Insieme alla forzata separazione della grande proprietà terriera dalla diretta gestione del potere, altra importante novità del fascismo è il suo essere un regime di massa, che porta al reclutamento obbligatorio di tutti gli strati sociali della popolazione nel partito, nel sindacato, nei circoli dopolavoristici, in altre associazioni sportive e culturali varie.»

 

 

 

Nel giornale L’Impero del 24 marzo 1929 il 1925 viene definito l’anno della “seconda ondata”. Gli iscritti al fascio non erano poi molti: solo 599.988. Il fascismo provinciale di Agrigento si dibatte nelle beghe interne per la conquista del potere. Galatioto, sincero fascista, si scontra con i deputati tradizionali ed in ispecie con il trasformista on. Abisso e, come abbiamo visto, soccombe miseramente. Galatioto non capì, peraltro, il ruolo del prefetto nella strategia del nuovo regime. Si credette al di sopra del prefetto Rivelli e questi lo giubilò. Ancora non si era nel pieno regime totalitario. Si pensi che vecchi esponenti dei clerico-moderati potevano avere possibilità nell’agrigentino di restare a galla. E’ il caso dell’ex deputato dei  Popolari on..le avv. Eugenio Fronda. L’on.le La Loggia alla fine del 1925 non avrà però possibilità alcuna di salvarsi politicamente ed il prefetto che forse in cuor suo avrebbe voluto recuperarlo deve sprezzantemente silurarlo, come si è detto sopra. Nel settembre del 1925 la situazione provinciale si coglie significativamente da questi scorci di corrispondenza del solito prefetto Rivelli con il Ministero degli Interni. ([62]) Riemerge la solita faccenda della estromissione di Galatioto. «La recente riunione al Viminale - scrive il prefetto Rivelli in data 24 settembre 1925 - del direttorio di questa federazione provinciale fascista, sotto la presidenza della E. V. E con l’intervento dell’on. Farinacci e dello scrivente avvenuta ai primi del corrente mese, e il conseguente provvedimento dello scioglimento della federazione stessa, con la nomina del commissario straordinario in persona dell’on. Starace, mentre son valsi a chiarire la situazione politica del fascismo in questa provincia, rafforzando il prestigio e la posizione dei quattro deputati fascisti, contro i quali ingiustamente si appuntavano le ostilità del direttorio provinciale, hanno per conseguenza determinato un più ragionevole, più serio e più esplicito indirizzo della politica fascista provinciale.» In tale quadro non c’è più posto per un personaggio come Galatioto che, peraltro, rivestiva ancora una carica presso la provincia. Ed allora, essendo stato “il cav. Girolamo Galatioto ([63]) .. il condottiero della campagna ostile ai deputati”, questi andava escluso “per incompatibilità politica” che risultava evidente “data la nuova situazione politica della provincia.” Per converso, poteva farsi ancora affidamento per la carica provinciale sull’on. Fronda. Ci si può fidare dell’ «on. Avv. Eugenio Fronda - può permettersi di affermare il prefetto del tempo -, leader del locale gruppo cattolico, perché,  sebbene capo della locale sezione del Centro cattolico, ha dato già prova nelle elezioni generali politiche del 6 aprile 1924 di essere un fedele sostenitore del governo nazionale, e perché nelle prossime elezioni amministrative di questo capoluogo il suo gruppo potrà dare un efficace ed influente aiuto all’esiguo fascio locale per combattere il partito demo-sociale, che è forte ed agguerrito.»

Il passo del prefetto rappresenta una testimonianza della provincia di Agrigento di eccezionale valore. Dunque, sino al settembre del 1925 si pensava ancora in termini elettorali, come se fosse d’attualità il pluralismo politico e partitico. Cattolici e demosociali vengono additati dal prefetto come forze egemoni nell’agrigentino contro un “fascio debole”. La logica delle alleanze perdura in periferia o in quella estrema periferia come quella marginale provincia siciliana. Certo, non si era avuto il risultato amministrativo di Palermo. Ma la chiave di lettura dell’evoluzione politica delle realtà periferiche o di quelle agrigentine resta, a livello ufficiale, quella del prefetto Rivelli. E a dire il vero non pare molto simmetrica alla storiografia imperante.

Ciò, invero, non significa che i giudizi in fondo burocratici dei prefetti cogliessero proprio nel segno. La convinzione del funzionario periferico poteva essere fallace ed al centro non si voleva o non si aveva interesse a correggerla.

Non va dimenticato che nel 1925 ministro degli interni era Federzoni, figura di fascista particolare, vicino al re e sicuramente legalista. Le circolari cui accenna il Ragionieri saranno state di taglio dittatoriale; resta al contempo incontrovertibile che proprio sotto Federzoni - e finché restò ministro degli interni - inizia un processo di raddrizzamento della Milizia. Il prefetto Ravelli - l’abbiamo già citato - non mostra tenerezza verso quel corpo separato militare.

Sino al 10 gennaio 1925 prefetto di Agrigento fu Giovanni Antonio Merizzi, di nomina preaventina. A lui vengono indirizzate le famose circolari Federzoni ed è lui che così ragguaglia il ministero in data 7 gennaio 1925 ([64]): « .. presso alcuni comunisti di questo capoluogo sono state sequestrate circolari e stampe di propaganda sovversiva, parecchi bollettini del Comitato esecutivo comunista, elenchi di componenti le cellule ed altro. Sono stati perciò tratti in arresto sei comunisti mentre altri si sono resi irreperibili ...»

Il successivo giorno 10, il prefetto torna a fornire ulteriori ragguagli: « ... Presso avv. Molinari capo del partito popolare di Sciacca è stata sequestrata corrispondenza con deputato on. Aldisio, nella quale contengonsi notizie relative movimento e intendimenti Comitato Centrale opposizione. Sono stati chiusi i seguenti circoli sospetti in linea politica: sezione socialista di Palma di Montechiaro e quella di Licata; sezione “Italia libera” di Campobello di Licata. Sono stati pure chiusi esercizi pubblici che erano ritrovi di sovversivi.» 

Ed il 14 gennaio: «.. sono state eseguite altre numerose perquisizioni e sono state in vari comuni revocate licenze di esercizi pubblici che erano ritrovi di persone politicamente sospette. Sono state chiuse le seguenti altre associazioni: a Sciacca il circolo popolare e quello socialista; a Campobello il sodalizio dei sensali; ad Aragona il circolo agrario ed il circolo democratico “Duca di Cesarò”; a Naro l’associazione combattenti e smobilitati  ed il circolo manovali; a Palma Montechiaro la sezione socialista unitaria; a Canicattì il circolo operaio e la sezione democratica sociale; a Ravanusa il circolo operaio, il circolo operaio sensali, il circolo giovanile cattolico ed il circolo sportivo [..] Proseguono operazioni per chiudere altri sodalizi politicamente sospetti, perquisizioni domiciliari per rastrellamento armi e munizioni non denunziate e revoche licenze esercizi pubblici.»

 Nel febbraio 1925 è già operante in Agrigento il prefetto Rivelli di cui si è avuto modo di citare svariate volte. Il 4 febbraio 1925, questi, sulla scia del suo predecessore, informa il ministero di altri provvedimenti restrittivi. «Pregio assicuare - scrive - la chiusura delle sezioni democratiche sociali di Girgenti, Canicattì ed Aragona e della società agraria di produzione e lavoro di S. Angelo Muxaro ... per ragioni d’ordine pubblico. I relativi locali erano divenuti ritrovi di elementi turbolenti e capaci di sovvertire i poteri dello Stato e perché ivi veniva fatta la più pericolosa propaganda antinazionale ed antifascista”. Il linguaggio del nuovo prefetto è trasparentemente più allineato ideologicamente al nuovo corso della politica nazionale. Il 17 marzo del 1925 è in grado di rassicuare il ministro che l’impopolare provvedimento di scioglimento di “Italia libera” è stato adottato anche in quel di Agrigento. Sezioni di ”Italia libera” «risultavano costituite solamente in Licata e Campobello di Licata”. Esse erano “state sciolte nel gennaio scorso”.

Il 5 marzo 1925, dopo appena un mese di permanenza in Agrigento,  il prefetto Rivelli è - o si mostra - conoscitore della  psicologia delle masse agrigentine.  «Provvedimento sospensione funzioni organi centrali amministrativi dell’Associazione Nazionale Combattenti, - telegrafa ([65]) - è stato in questa Provincia favorevolmente accolto  meno in qualche centro. Data però apatia queste popolazioni provvedimento non è stato eccessivamente commentato ..»

 

Fra le carte ministeriali troviamo alcuni accenni alla situazione politica e sociale dell’agrigentino, contenuti nelle relazioni del 1925 della M.V.S.N. di Palermo ([66]). La prima relazione risale al 28 febbraio 1925, ed a proposito di Girgenti si allude al contrasto «sorto in seno alla Federazione provinciale» ed ai «motivi che l’avevano determinato». «La situazione - si assicura - però ora è stata così ricomposta. La Federazione Provinciale è stata  dal Direttorio Nazionale sciolta e ne affidò la reggenza ai 4 deputati fascisti della provincia on.li Abisso, Palmisano, Riolo e Gangitano ed al cessato Segretario Cav. Galatioto. A quest’ultimo il Direttorio Nazionale ha conferito i poteri di Segretario della reggenza.»

Più esplicito il successivo rapporto del 5 maggio 1925. Quanto a Girgenti «l’andamento della politica provinciale, in seguito allo scioglimento della reggenza e nomina del Commissario Straordinario alla Federazione del P.N.F. nella presona del sig. Prof. Paladino Raffaele, ha subito un ristagno venendo tutto ad innestare sulla dibattuta e nota questione, onde fu necessario il provvedimento della Direzione del P.N.F. La situazione economica della provincia va sempre più migliorando con l’inoltrarsi della stagione. Il malumore del passato, dovuto al rincaro dei viveri, è un po’ attutito per il buon raccolto che si prepara nell’anno agricolo in corso. Il costo dei generi alimentari, però, si mantiene tuttavia relativamente caro: il lieve ribasso di prezzo apportato dalle Commissioni economiche non è stato bene accolto dalle popolazioni, giacché esso, in relazione al diminuito costo del grano è veramente irrisorio. Nel corso del mese è stato in parte superato il grave dissidio economico-sociale fra i zolfatai. I padroni e proprietari di miniere non volevano concedere l’aumento del 15% stabilito sulle paghe giornaliere come da concordato posto dalle organizzazioni sindacali. Venne minacciato uno sciopero generale, che però non si effettuò, in parte dovuto alle tristi condizioni economiche dei lavoratori. Non si deplorano incidenti di sorta. Una certa preoccupazione desta in tutti una certa recrudescenza manifestatasi in questi giorni di delitti vari. Sono in corso misure che sta adottando la P.S.»

Il 1925 si chiude in Agrigento con qualche turbolenza politica, sia pure tutta racchiusa al’interno del movimento fascista.

Un certo Guzzo Giovanni protesta il 13 dicembre da Licata ([67]) contro una lunga sequela di violenze che furono denunziate alla Procura generale di Palermo a carico di un funzionario di P.S. che avrebbe impedito di presentare un’altra lista facente capo ai cittadini di Licata di “pura fede fascista”. Parla di un “facinoroso bloccamento”. In particolare sarebbe stata omessa la distribuzione di certificati elettorali.

Il 14 dicembre il prefetto scrive a Roma che l’on. Starace  si era interessato di Licata. “Nella sua opera di epurazione aveva espulso dal partito ex fascisti per gravi atti di indisciplina.”

Nel complesso l’anno si conclude all’insegna del vittorioso raffermarsi del fascismo. La solita documentazione ministeriale contiene ora il linguaggio trionfalistico del nuovo regime. «Imponente, delirante dimostrazione per proclamazione eletti lista» telegrafa da Agrigento il 18 dicembre 1925 il prefetto. Il successivo giorno, la relazione prefettizia accenna ad una manifestazione in teoatro dello stesso prefetto, dell’on. Starace, dei deputati fascisti ed altre presonalità politiche “per elezioni amministrative questo capoluogo indette per domani”. Ovviamente, tutto è superlativo: “efficace” è il discorso del comm. Altieri, candidato sindaco; ma “robusto, brillantissimo” è il discorso dell’on. Starace “che ha riscosso continui deliranti applausi”.

A Grotte si hanno le elezioni in quello stesso giorno (20.12.1925). Su 4281 elettori sono presenti 3711. Votano la lista fascista in 2186. Il fascismo guadagna maggioranza e minoranza. L’avv. Seminerio subentra al commissario prefettizio cav. Fede. La prefettura ragguaglia il ministero anche su tali, minime vicende dello scenario politico agrigentino.

 

Racalmuto verso il regime fascista.

 

Racalmuto passò, pressoché inavvertitamente, dal regime della democrazia sociale del duca Colonna di Cesarò a quello fascista. Fu decisione presa dall’alto, subita, ma accettata di buon grado, senza alcuna opposizione. Fu il prefetto a determinare la svolta con lo scioglimento d’imperio dell’amministrazione demo-sociale. Quel che sorprende è il fatto che il regio decreto (23 marzo 1924) con il quale veniva sciolto il consiglio comunale matura in tempi in cui il duca di Cesarò era alleto nel listone nazionale con Mussolini. Gli amministratori locali erano di fede demo-sociale: ciò nonostante vennero travolti da un’inchiesta amministrativa, quanto veritiera ed obiettiva non si riesce bene a valutare. E’ da supporre una frattura tra i politici locali ed i vertici della democrazia sociale. I personaggi che dominavano sulla scena amministrativa racalmutese non sono da giudicare, del resto, campioni di fedeltà politica. Un rinnegamento dall’alto non è da escludere, ma non figura in alcun modo provato.Sindaco in carica risultava un medico: il dottor Nicolò Scimé; il vero dominatore erà, però, un personaggio della nuova borghesia agraria: il commentatore Giuseppe Bartolotta, non proprio un capo mafia, seppure molto temuto dalla locale cosca mafiosa.

E.N. Messana così ci racconta l’ascesa al comune dei due personaggi ([68]):

«A guerra finita gli schieramenti politici del paese sopravvissuti erano il gruppo dei fautori di Marchesano, capeggiato dal Comm. Giuseppe Bartolotta e dal dott. Nicolò Scimé ed il gruppo dei fautori di Gangitano rappresentato dal Comm. Angelo Nalbone e dal dott. Salvatore Busuito. Il primo aveva avuto una specie di scissione. Bartolotta e Scimé erano passati con Guarino Amella, il dott. Enrico Macaluso invece con Abisso. I socialisti antichi, quelli alla De Felice, nell’avv. Calogero Picone Chiodo avevano trovato un degnissimo rappresentante, della stessa levatura di Vincenzo Vella. I due avvocati socialisti non riuscirono in pese a creare una forza elettorale di sinistra vera e propria, perché per la purezza delle loro anime, recependo la concezione marxista, non erano riusciti a liberarsi dell’estremismo ed erano rimasti ancorati ad una forma infantile di intransigenza, affascinante, interessante ma incapace a maturare le coscienze delle masse. E dire che Calogero Picone Chiodo svolse un’attività politica che trascese la limitatezza paesana.

 

«Egli, figlio del popolo, appena laureato in legge si dedicò all’insegnamento nelle scuole elementari. Poi si dimise dal posto di maestro ed intraprese una densa attività giornalistica. Protestò ed insultò Mussolini per il tradimento della classe operaia, ordito e consumato nel 1919. Fu un oratore felice, trascinatore di folle e contribuì ad avvicinare al socialismo e la gioventù del paese. Lui, col classico cappellolargo dei socialisti dell’epoca, organizzava scioperi e proteste, teneva conferenze, in paese e fuori, tanto da rendersi famoso e notabile nel circondario. Allorché il fascismo soppresse la libertà ed instaurò la dittatura, Calogero Picone Chiodo dovette fuggire da Racalmuto per non incappare in qualche processo davanti il tribunale speciale istituito da Mussolini contro l’opposizione di ogni colore. Peregrinò per l’Italia perseguitato ad ogni istante. Si ridusse a fare il venditore ambulante. Appena avvistato doveva fuggire per non essere arrestato. Dopo tanto girare riparò a Bolzano in casa di Ettore Messana, suo amico d’infanzia ed ex compagno, già vice questore in quella città. I due erano tanto intimi che si chiamavano compari. Ettore Messana intanto una mattina arrivando in questura trovò un telegramma firmato dal Ministro dell’Interno così concepito: “Dicesi ricercato antifascista Calogero Picone Chiodo aggirasi pressi cotesta città, pregasi disporre accurati servizi onde assicurarlo giustizia prima che valichi frontiere.”

 

«Il ministro dell’interno nel ventennio fascista fu quasi sempre lo stesso capo del governo Benito Mussolini. Il telegramma perciò valeva un ordine di Mussolini. Il ricercato era l’ospite suo compare e suo paesano. Tornatosene a casa, aspettò che finisse il pranzo, poi si chiamò in disparte il compare e glielo esibì. Il povero Liddu Chiodo non seppe che dire, Ettore Messana gli assicurò che lo avrebbe messo in salvo lui oltre il confine. Verso sera gli procurò un passaporto con false generalità e lo fece scortare fino ad Insbruk da due agenti. Calogero Picone Chiodo in Austria si affermò, prese moglie e vi rimase fino all’occupazione tedesca, poi passò in Svizzera ed il 25 luglio 1943 in Italia, morì a Milano. Fu anche un medium fortissimo. Scrisse sullo spiritismo parecchie opere, si ricordano “la verità sullo spiritismo” e “L’Immortalità dell’anima”, scrisse ancora “il bolscevismo”, dove criticò aspramente il leninismo. Calogero Picone Chiodo fu, infine, l’unico fuoriuscito racalmutese del periodo fascista. [Se prestiamo fede, però, al fascicolo del Casellario Politico Centrale - busta n.° 3951, il personaggio ne esce malconcio e molto meno nobile di quello che il Messana tenta, con la sua incespicante sintassi, di accreditarci. Ma di ciò in seguito, n.d.r.]

 

«Nel 1919 vi fu una nuova epidemia, il vaiuolo, con le sue vittime e i superstiti sgrefiati dalle cicatrici del terribile male. La sofferenza degli .....sino a pag. 366]

 

Riportiamo una relazione della Prefettura di Agrigento, datata  16 dicembre 1919, sulle condizioni  dell'ordine pubblico e della  sicurezza nella Provincia (cfr. Archivio Centrale dello Stato  - Ministero Interno - Ps - 1919, b. 121).

 

«Da qualche tempo ad  opera di aderenti al partito socialista ufficiale, per sfruttare l'attuale momento critico di disagio generale, viene preso pretesto da qualsiasi argomento per creare agitazioni  più o meno "ingiustificate". Si cerca così di tener compatte le masse per le prossime lotte elettorali amministrative e di fare opera  proficua di propaganda per rafforzare il partito stesso in provincia, che finora ha potuto fare solamente assegnamento su nuclei di scarsa importanza.

 

 «Primo pretesto per il R. Decreto 2 settembre scorso, recante provvedimenti per l'occupazione delle terre incolte. Le associazioni agricole della Provincia, istigati da agitatori  messi in giro dalla locale Camera del Lavoro, iniziarono subito una campagna per ottenere dalla Prefettura l'applicazione del decreto suddetto; e tale movimento, iniziato apparentemente con carattere di legalità, degenerò  subito in vera e propria agitazione, tendente ad impedire ai  proprietari di terre l'aumento dei canoni annui di fitto e la modifica dei patti di mezzadria e si ricorse persino ad intimidazioni su fittavoli e mezzadri per indurli ad abbandonare le terre e renderle incolte, onde facilitare l'occupazione.

 

«Quest'Ufficio contrappose subito l'opera propria e dei dipendenti funzionari perché‚ l'agitazione non sortisse pratici risultati ed ottenere che i minacciati disordini abortissero ovunque, sia assecondando le trattative di componimenti colà dove i proprietari di terre si erano dimostrati proclivi ad intavolarle, sia provvedendo con i mezzi a disposizione, a tutelare l’ordine pubblico e a fare opera di propaganda per impedire l'abbandono delle terre e la sospensione delle culture intraprese.

 

 «Finita tale agitazione, i socialisti ne inscenarono un’altra  ancora. Forti del lodo arbitrale del collegio dei probiviri di Caltanissetta sulle pretese di aumento dei salari avanzate dagli operai di quel bacino minerario, inducono la numerosa classe zolfifera della Provincia ad invocare l'applicazione  anche in questa giurisdizione: Aragana, Favara, Cianciana, Racalmuto, Grotte, Comitini abboccano all'amo. 

 

«I proprietari delle miniere però resistono: gli operai di  rimando proclamano lo sciopero.

 

«Quest'Ufficio, nell’interesse dell’ordine pubblico, interviene nella vertenza e dopo pratiche loboriosissime ottenne ovunque la ripresa del lavoro, riuscendo a persuadere le organizzazioni zolfifere che non poteva il lodo accennato applicarsi alle industrie del genere di questa provincia, nella quale la vertenza sorgeva ex novo e che, in ogni caso,  dovevansi attendere le deliberazioni della commissione di  appello in Roma, cui era stata deferito su ricorso degli industriali la soluzione della controversia. Ottennero però nell’occasione gli zolfatari quasi ovunque aumenti di salario, con pagamento di arretrati da parte degli esercenti, che  accogliendo in parte le pretese dei propri lavotarori, volontariamente vi si sobbarcarono. 

 

«Visto abortire anche tale pretesto, i mestatori, che erano ricorsi per mantenere desta l’agitazione anche coll’ausilio di compagni, all’uopo qui venuti da fuori provincia, prova  cotesta che le fila del movimento vengono mosse dall’alto, si danno ad aizzare ancora le masse per pretese irregolarità nella distribuzione degli sfarinati nei vari comuni, per la  cattiva qualità della farina fornita e per invocare la distribuzione del grano in sostituzione della farina stessa, alla popolazione che ne avesse diritto.

 

«E così, a Favara si cerca di scimmiottare i Soviet pretendendo che una commissione di operai regoli la distribuzione degli sfarinati; a S. Giovanni, S. Biagio Platani, Cammarata ed altrove si minacciano torbidi e si  pretende l'aumento del contingentamento; a S. Stefano Quisquina, rocca del socialismo in Provincia, si crea una vivissima agitazione per ottenere grano invece di farina, pur  non disponendosi di mezzi idonei alla macinazione, prendendo a pretesto la cattiva qualità della farina, che, al contrario, è ottima perché‚ fornita da stabilimenti che approvvigionano altri Comuni, nei quali mai sono stati lamentati inconvenienti del genere. In quest'ultimo Comune, ove sorge a tale scopo  un comitato permanente di agitazione, si pretende persino impedire alla Commissione Militare di Requisizione il trasporto del frumento requisito e depositato in quei  magazzini statali. 

 

«A questo movimento, per ovvie ragioni di tornaconto e di  speculazione, è stata trascinata tutta la cittadinanza, e ciò ha costretto quest’Ufficio a dislocare colà  un forte nucleo di truppa allo scopo di assicurare il regolare funzionamento delle operazioni di requisizione e il conseguente regolare approvvigionamento della Provincia; d'altra parte si è interessato il Consorzio per addivenire a qualche aumento nell'assegnazione degli sfarinati  effettivamente non corrispondenti al bisogno e tali provvedimenti sono valsi ad  infrenare i più violenti e a tranquillizzare i più timidi,  esasperati al punto da indurre il Sindaco a telegrafare a diversi deputati della Provincia, sia pure di tendenze opposte, perché‚ patrocinassero presso il competente Ministero l'accoglimento dei desiderata della popolazione, anche a costo di dare soddisfazione ai socialisti, avversari irriducibili  con l'amministrazione al potere. 

 

«Anche tale agitazione è stata così ridotta in modesti confini. L’ordine pubblico anche in S. Stefano Quisquina tende a   ritornare normale. 

 

«E' naturale e logico che il succedersi ininterrotto di tutte queste agitazioni che io riferisco a codesto Ministero perché‚ si renda conto della difficoltà che quest’Ufficio attraversa quotidianamente per far fronte alle esigenze dell’ordine  pubblico e per evitare fatti che potrebbero avere su di esso grave ripercussione, ciò implichi lo spostamento continuo dei  mezzi limitati di cui dispone, e la peregrinazione continua dall’uno all’altro Comune della Provincia dei nuclei di agenti della Forza Pubblica che sono quindi distratti dai servizi di Istituto e di quelli di Polizia Giudiziaria, nelle campagne in  ispecie.

 

«Tali fatti influiscono evidentemente sulla recrudescenza dei  reati e conseguente allarme nella popolazione rurale che non  può accudire, con tranquillità, al lavoro dei campi.

 

«Si aggiunga a tali circostanze la soppressione della locale Tenenza Guardie Città, che contribuisce ad assottigliare il  numero degli Agenti disponibili, per quanto sostituiti dai soldati sui quali pochissimo assegnamento può farsi per i servizi di prevenzione e anche di repressione dei reati. 

 

«Anche ciò credo di portare a conoscenza di codesto On.le Ministero perché‚ si compiaccia esaminare benevolmente la possibilità di mettere quest’Ufficio in grado di ovviare agli  inconvenienti prospettati, aumentando convenientemente il numero dei carabinieri in Provincia, per potere, sia rafforzando le stazioni, sia costituendo nuclei speciali, porre almeno un argine al dilagare della delinquenza e della propaganda sovversiva che intenderebbe farsi a base di  intimidazioni, di sopraffazioni e di violenze.

 

 «IL PREFETTO:  Nannetti».

 

 

Un quadro di grave turbolenza sociale nella Racalmuto dell’agosto del 1920 emerge dai rapporti di polizia e dai ragguagli della prefettura al Ministero degli Interni ( [69]) Le avvisaglie della rivolta d'estate della popolazione racalmutese si erano avuti l’anno prima per il diffuso malcontento in seno agli zolfatai.

Un telegramma prefettizio (n. 4113 dell'8 luglio 1919) aveva informato il Ministero dell'Interno che «in Racalmuto centro minerario tutti zolfatai scioperarono scopo protesta contro caro-viveri ed iniziarono dimostrazione tosto sedata pronto intervento quel funzionario. Seguito promessa attuazione nuovo calmiere scioperanti si sciolsero.»

 

Nella successiva estate la faccenda si complica. Per tre giorni (dal 14 al 17 luglio 1920) si hanno -   precisa un telegramma della solita prefettura agrigentina:

 

 «dimostrazioni ostili amministrazione comunale Racalmuto, togliendosi a pretesto insufficienza e cattiva distribuzione sfarinati. Pro sindaco e giunta comunale cedendo intimazione folla tumultuante ha rassegnato dimissioni. Nomina R. Commissario imponesi perciò anche come mezzo calmare gli animi. Non avendo assolutamente come provvedere ho delegato  funzioni commissario prefettizio al V. Commissario di P.S.  Allisio Carlo già mandato in luogo finché‚ non sia possibile sostituirlo. Pregasi ratificare. Prefetto Nannetti.»

 

 Segue  un altro dispaccio al Ministero per segnalare che proprio quel diciassette luglio del 1920 una «colonna di circa tremila dimostranti tentò di saccheggiare e incendiare magazzino fave comm. Narbone (sic) un maggiorente dell'amministrazione comunale.»  Il prefetto Nannetti soggiunge        di avere chiesto al «Comm. Mori [che] sia colà [cioè a  Racalmuto] inviato oggi stesso parte nucleo carabinieri servizio rinforzo». La faccenda ha un corso che indispettisce l'on. Abisso[che] sia colà [cioè a Racalmuto] inviato oggi stesso parte nucleo carabinieri  servizio rinforzo». La faccenda ha un corso che indispettisce l’on. Abisso. Il Ministero chiede una prima delucidazione al  prefetto di Girgenti che tra l'amaro ed il velenoso così  replica il 19 luglio:

«on. Abisso che prima era un mio non desiderato laudatore sotto tutti i rapporti, oggi, per suo tornaconto politico, pare abbia cambiato giudizio [..] [E  tanto perché a Racalmuto] procedono accertamenti con arresto responsabili, ciò che non si vorrebbe dai partigiani on. Abisso, militanti partito avverso amministrazione comunale, contro cui disordini furono promossi sotto pretesto deficienza servizi approvvigionamento per i quali purtroppo si attraversa  un periodo di difficoltà non avendosi rifornimento stabile e  non riuscendo che, a stento, con grano requisito di produzione locale, soddisfare giornalmente bisogni popolazione.»           

 

I partigiani dell’on. Abisso, avversari del Nalbone ed altri componenti dell'amministrazione comunale, erano personaggi eccellenti della scena politica e sociale di Racalmuto. L'on. Abisso, per difenderli, lancia un'interrogazione parlamentare, a risposta scritta, il 7 agosto del 1920. Il prefetto è  costretto a difendersi. L'iniziale sicumera scema ed ora  chiarisce che

«V. Commissario Micucci fu da me fatto  sostituire con Allisio e Mazzora perché‚ Pro-Sindaco Racalmuto era fisso nell'idea che funzionario fosse stato influenzato dai suoi avversari, circostanza questa che dimostra infondatezza accusa on. Abisso. Quanto al tenente presidente gruppo requisizione, egli ha affermato non aver mai detto le  parole  attribuitegli da commissione zolfatai presentatasi 15 dic. mese a quell'ufficio p.s.- Ha pure affermato non avere mai ricevuto denunzie per vendite clandestine di grano a prezzi  superiori ai prescritti.»

 

 

Certo, l'on. Abisso era stato perentorio e sferzante nella sua interrogazione parlamentare. L'onorevole voleva sapere, senza mezzi termini, quali  provvedimenti intendeva prendere il Ministero «contro quei funzionari che nel loro impudente partigiano contegno  [avevano] provocato gravi tumulti nel comune di Racalmuto». La cronistoria di quei gravi tumulti la troviamo negli stessi documenti ministeriali.  

 «Telegramma 10417 da Girgenti 5.8.920: partenza ore 21.45  arrivo 6 1,30 - Min. Interni:

 

 «Dal prefetto di Catania è stato trasmesso telegramma ieri di codesto Ministero 17583 relativo interrogazione On. Abisso contro contegno  funzionari ai quali imputa tumulti verificatisi Racalmuto dal 14 al 16 decorso luglio. - Premesso che disordini Racalmuto ebbero inizio improvvisamente e che  malcontento per deficienza approvvigionamento servì per pretesto avversari amministrazione comunale per abbatterla costringendo pro-sindaco dott. ALAIMO a dimettersi, escludo  che unico funzionario in luogo Domenico Micucci all'inizio dei disordini e gli altri V. Commissario Allisio Carlo e dott. Marzani Francesco, colà andati giorno 15 per sostituirlo         perché‚ pro-sindaco ne dimostrò convenienza, abbiano provocato  essi i tumulti. Devesianzi ai funzionari P.S. se i disordini furono arginati e vinti senza conseguenze per le persone.»

 

   Segue 'dettagliata' del 23.

 

    «Aggiungo per quel conto che dovesse farsene e allo scopo di essere il più possibilmente preciso su ogni circostanza che il 15 luglio Commissione zolfatari, contadini ed operai presentossi ufficio P.S. Racalmuto reclamando sostituzione tenente quel gruppo requisizione cereali che dicevano non aver dato corso denuncia avuta vendita grano prezzo lire 170 al quintale e che alle rimostranze popolazione avrebbe risposto  "mangiate patate". In proposito riferii subito presidente Commissione Provinciale requisizione per provvedimenti caso.

 

«Presidente dispose inchiesta ma ancora non conoscesi risultato che perciò riservomi comunicare avendo fatto speciale  sollecitazione. - Prefetto Nannetti -.» 

                      

 In contemporanea, la Prefettura di Girgenti  ragguagliava il Ministero su quelli che definiva ‘i disordini di Racalmuto' nei seguenti termini:

  «Trascrivo - esordisce il prefetto Nannetti - il rapporto  presentatomi da quel V. Commissario di P.S.  - "Con riferimento a  precedente corrispondenza telegrafica, pregiomi riferire alla S.V. Ill.ma che in questo Comune serpeggiava un forte  malcontento per la deficienza degli sfarinati.                  

       

«"La mattina del 14 corrente un gruppo di circa 300 persone, all'arrivo di due autocarri carichi di pasta, li circondavano per impedire che la pasta venisse depositata nel magazzino        consorziale per tema di possibili sottrazioni. Intervenuto il V. Commissario sig. Domenico Micucci, detta pasta venne depositata in questo ufficio di P.S.  

                         

«"Nel frattempo si raccolsero circa 200 persone, che, precedute dalla bandiera nazionale, si avviarono presso l'abitazione del pro-sindaco con grida di abbasso, reclamando le di lui dimissioni.

 

«"Contro l'abitazione del pro-sindaco vennero lanciati sassi che frantumarono i vetri di tutte le invetriate.

 

«"Però, per l'intervento del V. Commissario Sig. Micucci, la  folla desistette da altre violenze e si diresse verso la casa  comunale con minaccia di saccheggiarla se il pro-sindaco non si fosse dimesso.

 

«"Poco dopo il dott. Alaimo fece sapere che egli aveva già presentate le proprie dimissioni e la folla ritornò in piazza continuando a protestare per la scarsa distribuzione degli sfarinati. Indi, mercé‚ l'esortazione del predetto funzionario, i dimostranti si sciolsero. Il quindici successivo, si ebbe altro tentativo di  dimostrazione, che, senza incidenti, venne sciolta.

 

 «"La sera del 16, alle ore 20 e 15, essendosi ad arte propalata la notizia che l'ill.mo signor Prefetto non aveva accettate le dimissioni del pro-sindaco e trattenuto a Girgenti, in segno di punizione, il V. Commissario sig. Micucci, in Piazza Umberto 1ø s’improvvisò una dimostrazione con grida 'Abbasso l'amministrazione comunale', e per l'abolizione del tesseramento al mulino per la macinazione del  grano. I dimostranti percorsero la Via Garibaldi, frantumando molti vetri delle abitazioni private, non esclusi quelli di quell'Ufficio di P.S.; e mentre lo scrivente parlamentava con il Presidente del gruppo della requisizione grano, sig. Tenente Veniero Giuseppe, per un componimento conforme ai desiderata della popolazione, parte dei dimostranti si avviò alla casa del comm. sig. Angelo NALBONE e, quivi, dopo avergli frantumato tutti i vetri, scassinarono la porta di un magazzino sottostante all'abitazione dello stesso e vi appiccarono incendio, per cui, il comm. Nalbone, per richiamare l'attenzione della forza, cominciò a sparare colpi d'arma da fuoco.

 

«"Recatomi sul posto con i pochi militari dell'arma presenti, dopo aver subito fugati i dimostranti, mi diedi con l'ausilio anche dei vicini di casa Nalbone, a fare opera di spegnimento. Durante le quali operazioni i dimostranti si riversarono verso l'abitazione del pro-sindaco, ove, oltre di avergli frantumato altri pochi vetri rimasti intatti il giorno avanti, gli devastarono la villetta prospiciente all'abitazione, gli abbatterono parte della ringhiera di ferro che cingeva la villetta dalla parte della strada e tutta quella laterale che divide la villetta dal cortile d'ingresso. Tentarono pure di forzare il portone di entrata, di scassinare la porta del magazzino con cereali e quella della cantina, che resistettero, rubandogli due paia di colombi, cagionandogli un danno complessivo di L. 2.000.-

 

«"Durante tale vandalismo il Prosindaco cominciò a sparare colpi d'arma da fuoco per fare ivi accorrere la forza in di lui  soccorso, ed in seguito ai quali colpi mi recai subito in luogo con i militari dell'arma, ma il furore popolare aveva già compiuto la sua opera, e, dopo non pochi superati stenti si riuscì a fare gradatamente allontanare la folla.

 

«"Dalle indagini successivamente svolte si è potuto stabilire che la causale dei disordini non è stato solamente il  malcontento per la deficienza degli sfarinati ma l'influenza politico-amministrativa locale dei maggiorenti del partito contrario, per rovesciare l'amministrazione comunale.

 

«"Accertata la responsabilità degli esecutori dei lamentati danneggiamenti, si è proceduto all'arresto di Macaluso Leonardo di Calogero, di Rizzo Eduardo fu Vincenzo, di Rizzo       Francesca di Pietro, di Ippolito Stefana di Gaetano, di Scibetta Luigia fu Luigi e Ansaldo Giovanna fu Mariano. E denunciati, per la loro irreperibilità, i nominati Grego Giuseppe di Vincenzo, Cacciato Pietro d'Ignoti, Chiodo Giuseppe fu Calogero, Campanella Salvatore fu Antonio, Cino Francesco fu Calogero, fratelli Giuseppe e Luigi Lo Bue e Giuseppe Castelli d'Ignoti, siccome tutti esecutori materiali;  e denunciati inoltre per istigazione il comm. Giuseppe Bartolotta fu Luigi, l'avv. Emanuele Cavallaro fu Felice, Luigi Messana di Emilio, Alfonso Vinci di Giuseppe, Nicolò  Sferrazza di Carmelo, Nestore Falletto fu Luigi, Francesco Caratozzolo fu Felice e l'avv. Calogero Picone Chiodo fu Giuseppe”. Il Prefetto Nannetti.»

 

                            

Quelle suffragette in formato paesano e racalmutese trascondono la nota di colore. Alla testa di quel codazzo manzoniano, tutto preso  dal pane e dalla farina in termini di un più o meno convinto populismo, erano donne fiere, irrituali, imperiose, ardenti e passionarie. Ombre fluttuanti nelle memorie dei racalmutesi. Annidda la Pisciara o Carmela l'Acqualora erano come loro se non loro. In una Racalmuto maschilista, prevenuta contro le donne, un po’  codina, quegli esempi di         ribellismo femminile sono eccezioni, ma pur sempre casi di rimarchevole ribellismo.

 

erché facevi all'amore con me.



[1]) Luigi Pirandello - I vecchi e i giovani - Oscar Mondadori 1973 - pag. 142-143
[2]) Nino Savarese - La Sicilia nei suoi aspetti poco noti od ignoti - in Delle cose di Sicilia - vol. IV - Sellerio editore Palermo 1986, pag. 254 e segg.
[3]) Cfr. Atti della Giunta per l’Inchiesa Agraria sulle condizioni della classe agricola, vol. XIII, tomo I, fasc. III, Relazione generale, Roma 1885, pp.  661-662.
[4]) Cfr. L. Hamilton Caico, Vicende e costumi siciliani, Epos, Palermo 1983, pp. 118-121.
[5]) Archivio Centrale dello Stato - Ministero Interno - Pubblica Sicurezza - 1930, busta 310 fasc. C1 - Relazione del prefetto Miglio del 16 luglio 1931.
[6]) Cit. in  S. Bosco, Il proletariato a Favara. Lotte scioperi ed altre manifestazioni dal 1860 al 1960, Sicilia Punto L Edizioni, Ragusa. S.d., p. 75.
[7]) Archivio Centrale dello Stato - Giunta per l’inchiesta sulla Sicilia - Fascicolo 66.
[8]) Elaborazione dai dati riportati dallo studio di Mario Cassetti - Fascismo e crollo operaio. I villaggi minerari (1937-1942) in Economia e società nell’area dello zolfo - secoli XIX-XX  - Sciascia Caltanissetta editore 1989 - pag. 456.
[9]) Eugenio Napoleone Messana - Racalmuto nella storia della Sicilia - Canicattì 1969 - pag. 443.
[10]) Calogero Taverna - conferenza tenuta nella Fondazione Sciascia il 18 giugno 1995 - ds. pag. 14.
[11]) Leonardo Sciascia - del dormire con un solo occhio - nota alle Opere 1932-1946 di Vitaliano Brancati - Bompiani, Milano 1987, pagg. XIII e XIV.
[12]) Christopher Duggan - La mafia durante il fascismo - editore Soveria Mannelli, 1987. Sciascia definisce l’autore «giovane ricercatore dell’Università di Oxford ed allievo di Denis Mack Smith»
[13]) Leonardo Sciascia - a futura memoria (se la memoria ha un futuro) - Bompiani, Milano 1989, pagg. 126-128.
[14]) crediamo che si riferisca al racconto il ladro dottore de i fascisti invecchiano in opere cit. pagg. 1118 e segg. Tra l’antifiscismo di Sciascia e quello di Brancati vi sono assonaneze impressionanti, persino sotto il profilo stilistico. Non è questa la sede per approfondimenti. Del resto - si sa - che ad avviare all’ “antifascismo” Sciascia, fu proprio Brancati al tempo in cui era il suo insegnante di italiano all’istituto magistrale di Caltanissetta. I due “antifascimi”, tanto affini da confondersi, appaiono, però, meri atteggiamenti cerebrali, in negativo. Sono due atteggiamenti “contro”. Per converso, entrambi gli scrittori non sanno, non vogliono prendere partito in positivo. La politica come “non valore” riaffiora immancabilmente nei loro scritti. Non per nulla Sciascia si presentò e fu eletto nelle liste di Pannella.
[15]) Leonardo Sciascia - a futura memoria (se la memoria ha un futuro) - Bompiani, Milano 1989, pagg. 138-139.
[16]) Leonardo Sciascia - Una Kermesse - in  Malgrado tutto - periodico cittadino di Racalmuto - settembre 1993 Anno XII n.° 4, pagg. 4-5.
[17]) Archivio Centrale dello  Stato - Casellario Politico Centrale - busta n.° 5344 - fascicolo n.°  16434.
[18]) Ernst Nolte - I tre volti del fascismo - Oscar Mondadori 1978 - pp. 252-254.
[19]) Tra i tanti includiamo l’opera del Ragionieri che abbiamo già citata.
[20]) Valga per tutti il lavoro prima richiamato di Francesco Ercole.
[21]) Eugenio Napoleone Messana - Racalmuto nella storia della Sicilia - Canicattì 1969 - pp. 344-5.
[22]) ibidem, pag. 345.
[23]) Malgrado tutto - periodico cittadino di Racalmuto - maggio 1993 Anno XII n.°2, pag. 3.
[24]) Archivio Centrale dello Stato - Casellario Politico Centrale (C.P.C.) - Busta n.° 5342 - fasc. N.° 4621 intestato a Vella Dante fu Giuseppe e fu Concetta Pedalino, nato a Racalmuto il 24.3.1908.
[25]) Francesco Ercole - La Rivoluzione Fascista - Ciuni Editore Palermo 1936, pag. 82
[26]) ibidem pag. 83 e pag. 84.
[27]) E. Nolte, op. cit., pag. 266.
[28]) Paradigmatiche ci appaiono in tal senso le pagine del Nolte: pagg. 266-302.
[29]) op. cit., passim, ma in particolare pag. 2111 e ss.
[30]) Luigi Einaudi - Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925)  - VI (1921-1922) - Giulio Einaudi Editore  1963 - pag. 14. (Articolo sul Corriere della Sera del 25 gennaio 1921).
[31]) Per la cronaca puntuale dei fatti, valgano le pagine, magari giornalistiche, di Antonio Spinosa - Vittorio Emanuele III, l’astuzia di un re - Milano 1990
[32]) Illuminante al riguardo la polemica dell’Einaudi  con il siciliano ing. Raverta sul Corriere della Sera in data 13 ottobre 1922 op. cit. pagg. 881-888, a seguito dell’articolo del 10 settembre (op. cit.  pag. 824 e segg.)
[33]) cit. in ERCOLE, op. cit. pag. 206 e segg.
[34]) Cfr. Nota n.° 7.
[35]) Francesco Ercole - La Rivoluzione Fascista - Ciuni Editore Palermo 1936, pag. 234 e segg.
[36]) 2000 pagine di Gramsci, vol. II: Lettere edite e inedite 1912-1937, a cura di G. Ferrara e N. Gallo, Milano 1964, p. 45.
[37]) Salvatore Lupo, La crisi del monopolio naturale. Dal Consorzio obbligatorio all’Ente Zolfi, in Economia e società nell’area dello zolfo - secoli XIX-XX - Salvatore Sciascia editore, Caltanissetta-Roma, 1989, pag.  354.
[38]) Lettera ad A. Di Nola  in Archivio Carnazza, fasc. 28, III 37, busta “C” ; Industria zolfifera e legge mineraria. Cit. in Lupo, op. cit. pag. 354.
[39]) Eugenio Napoleone Messana - Racalmuto nella storia della Sicilia - Canicattì 1969 - p. 234.
[40]) Editoriale “Il delitto Matteotti” di Storia e Civiltà - gennaio-giugno 1994 - Edizione del Lavoro - Roma - a. X, n. 1-2 - a firma P.F.P. (Pier Fausto Palumbo, direttore responsabile), pag. 7-9.
[41]) Salvatore Leone - Per una storia delle strutture culturali: le Società di storia patria - in Storia d’Italia - Le Regioni: dall’Unità ad oggi - la Sicilia - Einaudi editore 1987 - pagg. 876-877.
[42]) Francesco Renda - Storia della Sicilia - dal 1860 al 1970 - Vol. II - Sellerio Editore Palermo, 1985, pag. 365.
[43]) ibidem pag. 354.
[44]) Vincenzo Agozzino - Cronache della Vigilia rivoluzionaria fascista nella provincia di Agrigento - in Panorami di realizzazioni del Fascismo - Il movimento delle squadre nell’Italia meridionale e insulare - Vol. VI -  Roma, 1942 , pag. 167 e segg.
[45]) Archivio Centrale dello Stato - M.I. - P.S. - 1925 - busta 115 G1
[46]) Archivio Centrale dello Stato - Gabinetto Finzi - 1922-24 - busta 6 fascicolo 53. Anche i successivi passi virgolettati che si riferiscono al prefetto Reale sono tratti dal predetto fascicolo dell’ACS di Roma.
[47]) Mario Missori - Gerarchie e statuti del P.N.F. - Roma 1986 - pag. 91.
[48]) Dalla copertina di Starace - l’uomo che inventò lo stile fascista  di Antonio Spinosa BUR Milano 1988.
[49]) Antonio Spinosa - l’uomo che inventò lo stile fascista  di Antonio Spinosa - BUR Milano 1988, pagg.8-9.
[50]) Archivio Centrale dello Stato - Segreteria particolare del Duce “Carteggio riservato 1922-1943” - buste nn.° 36; 49 e 94.
[51]) Archivio Centrale dello Stato - Segreteria particolare del Duce “Carteggio riservato 1922-1943” - busta n.°  94.
[52]) Archivio Centrale dello Stato - Segreteria particolare del Duce “Carteggio riservato 1922-1943” - busta n.°  78.
[53]) Archivio Centrale dello Stato - M.I. - P.S. - 1926 - busta 88 - C1.
[54]) Archivio Centrale dello Stato - M.I. - P.S. - 1931 - busta 310 - C1.
[55]) Francesco Renda - Storia della Sicilia - dal 1860 al 1970 - Vol. II - Sellerio Editore Palermo, 1985, pag. 372.
[56]) Per i dati statistici cfr.: ISTAT Statistiche Elezioni Politiche - XXV Legislatura, elezioni del 16 novembre 1919 (Roma 1920) - XXVI Legislatura, elezioni del 25 maggio 1921, Collegio di Girgenti pag. 78 - XXVII Legislatura, elezioni del 6 aprile 1924, passim - XXVIII Legislatura, elezioni del 24 marzo 1929 (Roma 1930), passim - XXIX Legislatura, elezioni del  25 marzo 1934, passim (ma in particolare pagg. 39 e 51).
[57]) Archivio Centrale di Stato - M.I. - P.S. 1925 - Busta n.° 121.)
[58]) Storia d’Italia -  Einaudi Torino 1976 - volume quarto - dall’Unità ad oggi - pag. 2145.
[59]) Ernst Nolte - I tre volti del fascismo - Oscar Mondadori 1978 - p. 316.
[60]) Si sogliono chiamare leggi fascistissime i tre seguenti gruppi di legge: a) «le leggi di difesa»; b) «le leggi di riforma costituzionale» e c)  «le leggi di riforma sociale». Con le prime leggi s’introducono i tribunali speciali; con le leggi di riforma il capo del governo è anche capo dei ministri ed il parlamento si trasforma in un’assemblea di partito; con le leggi di riforma sociale si istituisce lo “stato corporativo”. 
[61]) Francesco Renda - Storia della Sicilia dal 1860 al 1970 - vol. II - Palermo 1990, pag. 372 e segg.
[62]) Archivio Centrale dello Stato - Ministero degli Interni - Comuni - busta n.° 2069.  
[63]) Dalle citate carte dell’Archivio Centrale dello Stato emerge che il Galatioto fu poi cacciato dal Partito Fascista. Galatioto era accusato - a dire del solito prefetto Rivelli - di ostacolare “l’opera di risanamento  intrapresa dall’on. Starace”. Il 10 dicembre 1925  il prefetto telegrafa che «Tale atteggiamento indusse questi [Starace] a decretare l’espulsione dal partito, per gravi atti di indisciplina, del predetto segretario provinciale  cav. Galatioto, e del sindaco di Ravanusa signor Calogero Vizzini.»
[64]) Archivio Centrale dello Stato - Ministero degli Interni - P.S. 1925 - busta n.° 110.
[65]) Archivio Centrale dello Stato - Ministero degli Interni - P. S. 1925 - busta n.° 107.
[66]) Archivio Centrale dello Stato - Ministero degli Interni - P.S. 1925 - busta n.° 113.
[67]) Archivio Centrale dello Stato - Ministero degli Interni - P.S. 1925 - busta n.° 103.
[68]) Eugenio Napoleone Messana - Racalmuto nella storia della Sicilia - Canicattì 1969 - pag.358 e segg.
[69]) Archivio Centrale dello Stato - Ministero degli Interni - P.S. 1920 - busta n.° 89.


 [AM1]d

Nessun commento: