LA PARENTESI CARTAGINESE
Attorno
al 282 a.C. si affaccia sul proscenio della storia un tiranno agrigentino di un
qualche rilievo: Finzia. Fu lui a radere al suolo Gela e a trasportarne la
popolazione nell'attuale Licata: in questa località il tiranno costruì una
città di stile greco, cinta di mura e dotata di agorà e di templi. Racalmuto dovette essere terra subalterna a
Finzia e dovette contribuire quindi al sostegno finanziario delle mire
egemoniche del tiranno agrigentino. Fu però vicenda storica di breve respiro.
Sparisce ben presto Finzia e Akragas, ritornata debole e faccendiera, non sa
ostacolare l'egemonia di Siracusa.
Nel 280 a. C. Siracusa
sconfigge Akragas. Cartagine, vigile ed interessata, arma un imponente corpo di
spedizione che presto raggiunge le porte di Siracusa. Akragas ed il suo territorio - ivi compreso Racalmuto - si estraniano, come
sempre, dalla lotta armata ed assistono piuttosto indifferenti all'intrusione
di Pirro, quel re dei Molossi, passato alla storia per le sue risibili
vittorie.
Akragas e Racalmuto, quale
sua pertinenza, rientrano nella zona di influenza di Cartagine e vi restano per
quasi un ventennio fino a quando la Sicilia fenicia incappa nelle mire
espansionistiche della repubblica romana.
Nel
264 a.C. scoppia la prima guerra punica e la vicenda siciliana si avvia
melanconicamente a divenire la scansione di un'oscura appendice della lontana e
suprema Roma. La Sicilia assurge all’inglorioso ruolo di provincia che secondo
Cicerone: «prima docuit maiores nostros
quam praeclarum esset exteris gentibus imperare». Già, la Sicilia fa
gustare per prima ai Romani quanto fosse bello soggiogare popoli stranieri. E,
ancora - dopo un secolo e mezzo - Sicilia, Akragas (e ancor più Racalmuto)
saranno per i romani nient'altro che «extera
gens» [gentucola straniera] da dominare e da proteggere solo perché «ornamentum imperi».
Roma
conquistò Akragas nel 261: dopo un assedio di sei mesi, le scomposte furie dei
romani si sfogarono ignominiosamente sui poveri cittadini agrigentini. Né beni,
né donne e neppure gli stessi uomini furono risparmiati: 25.000 dei suoi
abitanti furono venduti come schiavi.
Sette anni dopo, sono i cartaginesi a rimpadronirsi della
città, dopo avere distrutto la flotta romana che ritornava dall'Africa. A farne
le spese è ancora una volta la città di Akragas: i cartaginesi bruciano ogni
cosa, abitazioni e mura.
Riteniamo
che la terra di Racalmuto dovette risultare alquanto decentrata per subire
direttamente le atrocità di quella guerra punica. Ma i riflessi dovettero
esserci, dolorosi e devastanti. Lutti per i parenti che si erano stanziati
nella vicina polis; distruzione di
beni; spoliazioni, rapine, banditismo, vandalismi ed altro.
Le antiche fonti nulla ci
dicono sui successivi due decenni: verso lo spirare del secolo, Akragas e la vicina Eraclea Minoa appaiono saldamente in mano dei cartaginesi.
Tra il 214 e il 211 a.C. un massiccio movimento di uomini armati - si parla di
40.000 militari tra i quali 6.000 cavalieri - su 200 navi parte da Cartagine
per raggiungere la Sicilia. Punto di approdo è Akragas: sulle colture raculmutesi
si abbatte il gravame di apporti alimentari a quegli eserciti tutto sommato
stranieri. Nel 212 a. C. tocca a Siracusa cadere nelle mani dei romani ed il
grande Archimede finisce ucciso per mano militare. Per i cartaginesi, nel grande
scontro con i romani, le sorti belliche volgono al peggio: i fenici ripiegano
su Agrigento, ultimo baluardo delle loro difese. Mercenari numidi consumano
l'ennesimo tradimento. Akragas cade ancora una volta in mano dei romani; ancora
una volta popolazione e beni diventano bottino di guerra per una vendita sui
mercati del mondo. Levino a Roma fa il suo trionfale rapporto. Per Racalmuto
inizia l'epoca di agro ferace per le distribuzioni di grano nella lontanissima
Roma.
IL PERIODO ROMANO
Finite
le guerre puniche, il console Levino avvia la Sicilia al suo secolare
sfruttamento agricolo da parte di Roma. Dall'originaria Siracusa i gravami
fiscali della legge Ieronica si estendono all'intera Isola, a tutto vantaggio
delle plebi dell'Urbe: quell'estensione avviene con la lex
Rupilia del 132. E così sotto il cielo di Roma una società di pubblicani
appaltava la riscossione delle tasse sul pascolo (scriptura) e sui
trasporti marittimi (portorium). Ma erano il grano, l'orzo, il vino, l'olio e i
legumi di Sicilia che, assoggettati a decima, prendevano la via del mare per
Roma.
Ma per uno dei soliti
paradossi della storia, Racalmuto in quel regime coloniale romano ebbe occasione
e modo di sviluppo economico e demografico: il suo suolo ubertoso ed anche la
sua vocazione alla viticoltura furono di sprone all'insediamento contadino.
Niente grandi opere e neppure edifici; non si ebbe manco un toponimo che
resistesse all'oblio dei tempi. Eppure, i segni di quel consorzio umano e
sociale sono giunti sino a noi: resti fittili, anfore, monete romane ed altre
testimonianze archeologiche.
Nella contrada del Loggiato
agli inizi del secolo furono rinvenute anfore in gran numero - forse proprio
quelle che servivano agli esattori romani per trasportare il grano o l'orzo a
Roma - e si dice che i proprietari dei poderi dell'epoca si affrettarono a
farle sparire nelle “gerbere” dei dintorni per il timore di espropri o
pubbliche molestie.
E'
tuttavia noto un reperto di grande interesse che fu trovato da tal Gaspare
Vaccaro nel 1782: esso ci attesta della organizzazione esattoriale delle decime
agrarie a Racalmuto da parte di Roma. Trattasi di una iscrizione latina
pubblicata nel 1784 da Gabriele Lancellotto Castello.[1]
Così, il principe archeologo c'informa che a Racalmuto fu rinvenuta una
"diota" (anfora per vino) nel cui manico [«in manubrio diotae fictilis erutae»] poteva leggersi la seguente
epigrafe:
C* PP. ILI* F* FUSCI
RMUS. FEC.
|
Il Mommsen diede credito al Torremuzza e
pubblicò tale e quale l'epigrafe nei suoi ponderosi volumi (C.I.L. X, 8051, 40, pag. 870) ma amputandola
del riferimento alla diota
ed eludendo ogni commento prosopografico.
Chiaro
appare, comunque, il richiamo ad un personaggio di nome FUSCO, del tutto ignoto alla storia di
Sicilia ma ben presente tra le grandi famiglie romane. Marziale augura al
potente Fusco che «le smisurate sue cantine diano ottimi mosti» (VII, 28);
Giovenale ironizza sui ricchi Fusco; un Fusco fu console romano con Domizio
Destro ed abbiamo anche un Cn. Pedanius Fuscus Salinator e via di seguito. Ma una famiglia di tal nome siciliana
non sembra essere esistita.
Quello del vaso fittile di
Racalmuto era dunque un romano o in ogni caso un cittadino di Roma: un
probabile esattore dunque e forse un esattore delle decime sul vino di
Racalmuto se ci fidiamo del Torremuzza quando accenna a diote fittili e cioè ad
anfore per il trasporto a Roma del vino, prelevato in natura sino a tarda età,
come si evince dalle Verrine di Cicerone.
Per quasi quattro secoli la
vita agricola e contadina trascorre nei dintorni senza lasciare traccia alcuna.
Gli studiosi ci avvertono che tutto il sottosuolo siciliano divenne proprietà
privata di Augusto, ma di miniere racalmutesi non si ha notizia per quel periodo.
Solo, sul finire del secondo secolo d.C., sotto Comodo, secondo la pur fallace
lettura del Salinas, si registra una svolta economica di grande risalto: le
miniere di zolfo, impiantate come alcuni vecchi ancor oggi ricordano, presero
piede.
MINIERE ROMANE
Per oltre un millennio non se ne seppe nulla. Nell'Ottocento,
dopo un buio millenario, si rinvennero i cocci di talune forme romane, simili
alle 'gàvite', recanti sul fondo i caratteri ribaltati dell'indicazione dello
stabilimento minerario. A parlarne per primo è il nostro Tinebra Martorana che racconta di reperti
della specie regalati dalla famiglia La Mantia
all'avv. Giuseppe Picone di Agrigento e finiti, quindi, al Museo
Archeologico di Agrigento.
Kaibel e Mommsen ne fecero
oggetto di studio nei Corpora, senza
però precisarne l'origine. All'inizio di questo secolo, il Salinas aveva modo di rinvenire
proprio a Racalmuto alcuni reperti di quelle che Mommsen impropriamente, ma con
fortuna, ebbe a chiamare «tegulae sulfuris». Al Salinas, invero, furono
vendute per il Museo di Palermo quattro lastre con
iscrizioni da un contadino nostro compaesano che le aveva rinvenute nella
costruzione di un sepolcro, presumibilmente
nei dintorni di Santa Maria.
Quell'insigne
archeologo procedeva ad un'analisi storica di grande acume che pubblicava
nel bollettino dell'Accademia dei Lincei
«Notizie degli scavi» (Anno
1900, pagg. 659-60).
Biagio Pace, con taglio più letterario
che scientifico, così sintetizza quell'attività mineraria dei tempi romani: «Si
tratta di tegole quadrate di terracotta, di circa 40 cm. di lato, che recano in
rilievo, rovesciate, delle epigrafi... Tegole evidentemente poste, come
illustrò il Salinas, nei cassoni destinati a contenere lo zolfo liquido e che dobbiamo
immaginare del tutto identici a quelli che si adoperano tuttavia sotto il nome
di gàvite, nel fondo dei quali sono
parimenti incise le lettere della miniera, che in tal modo vengono riprodotte
in quelle caratteristiche forme falcate
di zolfo, le balate, che ognuno che
abbia transitato per le stazioni zolfifere di Sicilia ha notato.» (B. Pace,
Arte e Civiltà, I pp. 393-4).
Pare, comunque, che l'attività mineraria solfifera a
Racalmuto si sia presto estinta nell'antichità. Dopo quelle testimonianze
dell'anno 180 d.C. si fa un salto di oltre quindici secoli per avere notizie
certe su una presenza mineraria a Racalmuto: risale all'inizio del ’Settecento
una nota negli archivi parrocchiali della Matrice che ha attinenza con le
miniere. Sotto la data del 22 ottobre 1706 i preti dell'epoca registrano un
infortunio sul lavoro: Giacomo Giangreco Cifirri, di 34 anni, sposato con la
sig.a Nicola, periva sotto una valanga
di salgemma, mentre scavava dentro una
miniera di sale. «In fovea salinae,
ob ruinam salis repentinam, defunctus
est», è la malinconica annotazione
in latino. Il giovane minatore veniva sepolto nella Matrice, in quelle plebee,
ma sacre, carnarie, che nel XX secolo
sacrileghe mani pretesche hanno criminalmente distrutto.
Le miniere romane racalmutesi sono fatto storico di grosso
momento e non solo per la storia locale. Va dato atto all’avv. Giuseppe Picone
di essere stato il primo ad averne avuta subito piena consapevolezza.
All’Archivio di Stato di Roma si conserva una preziosa corrispondenza tra lui,
all’epoca ispettore degli scavi e dei monumenti di Girgenti, ed il Ministero. I documenti risalgono al 3
novembre del 1877. Ed a dire il vero traspare un’appropriazione indebita da
parte del grande Mommsen ai danni del periferico avvocato con antenati racalmutesi.
[2]
Il Mommsen
fu poco grato al Picone: pubblica - unitamente al Desseau - i dati epigrafici
nei volumi del C.I.L. ([3]) ma si guarda bene dal ricompensare, neppure
con una semplice menzione, il nostro avv. Picone.
Sulle
‘gavite’ romane è ormai consistente la pubblicistica, ma in essa non si rinviene
il minimo accenno a chi per primo ebbe consapevolezza dell’importanza dei
reperti solfiferi di epoca romana, rinvenuti a Racalmuto.
All'inizio
di questo secolo, il SALINAS aveva modo di rinvenire a Racalmuto gli altri reperti
di cui abbiamo detto. Quell'insigne archeologo procedeva ad una lettura oggi
non più convincente che pubblicava sul
bollettino dell'Accademia dei Lincei. ([4])
Per lui, l’iscrizione:
EX PRAEDIS
M. AURELI
COMMODIAN
che si
poteva leggere nell’esemplare cedutogli per denaro da un contadino di
Racalmuto, comprovava la «provenienza dai predii dell’imperatore Marco Aurelio
Commodo Antonino» ed era anche atta a far desumere dalla locuzione la data
esatta; ciò «in quanto Lucius Aurelius Commodus, salendo al trono nel 180,
s’intitola Marcus Aurelius Commodus
Antoninus, per esser poi di nuovo, nel 191, Lucius (Aelius) Aurelius Commodus (Eckhel, Doctr. Num. VII, 134 segg., 102 seg. C.I.L. VI, 992).» In
definitiva, «per siffatta ragione le nostre matrici sarebbero da attribuire al
periodo tra il 180 e il 191.»
Già, il
dotto Michelangelo Petruzzella mi faceva notare che quella trasposizione di
COMMODIAN in Commodo non era molto attendibile. A conferma, il prof. Salmeri [5]
optava per la formula: ex praedis/ M.
Aureli/ Commodiani, pur non ignorando la tesi del Salinas, e continuava:
«al centro della fascia compresa tra l’ultima linea e il margine inferiore è
raffigurato, a rilievo come le lettere, un caduceo; mentre tra la prima linea e
il margine superiore compaiono – come sigma
– un ramo (di palma) e due stelle ad otto punte. Il nesso ex praedis, di uso comune nei bolli laterizi urbani, seguito dal
nome del dominus al genitivo, nel
secondo secolo d. C., sta ad indicare il “fondo” da cui viene estratta
l’argilla per la produzione di mattoni e di altri manufatti di terracotta.
Nelle lastre siciliane esso rimanda invece al “fondo” da cui provengono i
blocchi gessosi che, una volta sottoposti a fusione, daranno luogo alle forme
di zolfo. Il praedium in questione,
stando ai dati di rinvenimento delle lastre, deve avere occupato tutta o una
parte del territorio degli attuali comuni di Milena e di Racalmuto, che del
resto sono stati tra i primi nell’area nisseno-agrigentina ad essere stati
interessati, dopo una lunga interruzione, della ripresa dell’attività
estrattiva dello zolfo nel XVIII secolo [6];
suo proprietario risulta il liberto imperiale M. Aurelio Commodiano [7],
da collocare nei decenni finale del II secolo d. C. L’assenza di ulteriori
specificazioni dopo la formula ex praedis
M. Aureli Commodiani, in particolare del nome di un conduttore, induce a
ritenere che le cave di zolfo dell’area Milena/Racalmuto, nel tempo a cui
risalgono le lastre, venissero sfruttate direttamente dal proprietario. […]
Quanto alla manodopera impegnata nel praedium di Commodiano, essa sarà stata costituita da
schiavi e da liberi salariati; nel De
officio proconsulis di Ulpiano si prevede inoltre che il governatore possa
comminare quale condanna il lavoro in una sulpuraria
[8]»
L’avere
scisso l’epigrafe dall’imperatore Commodo per collegarlo al liberto Commodiano
comporta, però, il rinnegamento della ricognizione temporale del Salinas.
Continuare ad assegnare il reperto agli ultimi decenni del II secolo d. C. pare
fragile congettura, né la figura di quel liberto può venire invocata per
datazioni certe, come invece la primigenia lettura consentiva. Neppure può
affermarsi che il liberto Commodiano fosse davvero il dominus delle miniere: più probabile che fosse invece il
proprietario di un “fondo” agrigentino ove si potevano benissimo fabbricare le
“gàvite” come altri mattoni e manufatti di terracotta. Nulla proprio ci
assicura che Comodiamo sia vissuto a Racalmuto, a capo di una miniera di zolfo
che, stante il luogo del ritrovamento della “tegula” o “tabula” sulphuris, poteva essere vicina alla pirrera di la Ciaula che mastro Liddu Casuccio seppe ben coltivare
nella seconda metà del XIX secolo.
Ma, se fu
assente Commodiano, certo vissero nei dintorni di Racalmuto, tra il Castello
Chiaramontano e la Piana di la Cursa minatori romani - schiavi, salariati e di
certo damnati ad sulpurariam, come
dire una specie di galeotti – le cui condizioni di vita furono molto simili
alla ottocentesca sorte dei minatori che ci hanno descritta Franchetti e
Sonnino nella loro Inchiesta in Sicilia.
([9])
Che le
“gàvite” fossero fabbricate lungi dalla miniera, sembra comprovato dalle «tegulae» che sono state rinvenute nel
1947 in località Bonomorone di Agrigento. E qui non attestavano la presenza di
miniere di zolfo perché, come ebbe a scrivere il Prof. Pietro Griffo ([10]),
si trattava di un deposito di cocci di una figlina
(officina di vasaio): dunque il commercio avveniva ad Agrigento, ma la
produzione era altrove ed in particolare, per quel che ci riguarda, a
Racalmuto.
I TEMPI DELLA DECADENZA DELL’IMPERO (Secc. II-IV
d.c.)
Se
la tegula rinvenuta e studiata dal
Salinas e dal Salmeri si colloca negli ultimi decenni del secondo secolo d.C., quella di cui riferisce il
Picone sembra doversi datare nel IV secolo d.C. ([11]).
In epoca di totale declino dell’impero romano, andrebbe pure collocato il noto
sarcofago del Ratto di Proserpina ([12]).
Rispetto a quanto si è detto e scritto su tale testimonianza, per noi resta
ancor valido l’appunto della Guida del T.C.I. del 1968, in base al quale([13]):
«Il Castello, fondato tra il ‘200 e
il ‘300 da Federico Chiaramonte, nell’interno conserva un sarcofago romano del
sec. IV, con la raffigurazione del Ratto
di Proserpina.» La coincidenza tra la data del sarcofago e quella della tegula studiata dal Picone consente
suggestive ipotesi storiche. Le miniere di zolfo erano dunque attive dal II al
IV secolo d.C. e l‘insediamento umano è molto probabile che gravitasse attorno
alla zona in cui ora sorge il Castello. Noi abbiamo potuto appurare che sotto
la costruzione vi è materiale di risulta che pare trattarsi di reperti ceramici
databili ad epoca post-normanna. In ogni caso, nei secoli del tardo Impero,
ferveva l’attività mineraria là dove nell’Ottocento greve è stato lo
sfruttamento dello zolfo. Si attaglia molto bene anche a Racalmuto ciò che il
De Miro annota in una relazione pubblicata in Kokalos: «Accanto a famiglie di
personaggi politici di rango, la prosperità e l’ambizione di classi medie
possono essere state legate alla produzione e al commercio di zolfo per cui,
proprio dopo la metà del II secolo d.C., si rilevano segni di una attività
proficua sulla base delle non poche tegulae
sulfuris. Questo periodo di ricchezza continua anche nel III sec. d. C. con
i sarcofagi marmorei [...] La produzione era ancora attiva nei primi decenni
del IV secolo d. C.; [quindi, subentra] il silenzio dei documenti». ([14])
Sempre secondo il De Miro, la tegula
rinvenuta dal Salinas attesta la proprietà imperiale della miniera di zolfo,
data la formula Ex praedis M. AURELI
([15]).
I dati
archeologici disponibili permettono comunque di abbozzare dati descrittivi
sull’industria solfifera racalmutese ai tempi dei Romani, nonché alcune linee
evolutive di quell’antica economia mineraria. «Per quanto riguarda la
produzione - annota il De Miro ([16])
- pur essendo nulla rimasto delle antiche miniere, evidentemente obliterate da
quelle di età moderna, il processo di estrazione e di preparazione dei pani di
zolfo da commerciare già Biagio Pace aveva indicato come non dovesse
differenziarsi dai sistemi in uso ad Agrigento nel XIX secolo.»
Pare che in
un primo momento ci fosse una organizzazione specialistica che, «distinguendo
tra proprietà del fundus e attività
mineraria, affida[sse] la gestione della miniera e la produzione a “officine”..
Questa tendenza nel III sec. d.C. e oltre porta al monopolio imperiale delle
miniere di zolfo in Sicilia, con una organizzazione razionalizzata e articolata
in cui, unitamente alla proprietà imperiale emerge, in posizione evidenziata,
la figura del concessionario titolare dell’officina,
dell’attività industriale, e in posizione subordinata [..], quella del conductor della miniera.»
Successivamente appare «il manceps,
figura che assume sempre maggior rilievo, sicché in età costantiniana, sparita
l’indicazione dell’officina e del conductor,
essa è la sola registrata dopo l’indicazione dell’imperatore. [..] Il manceps tende ad assumere per appalto
l’intera amministrazione delle miniere di zolfo imperiali, con un significato
molto vicino a quello che, nello stesso periodo, indicava coloro che
attendevano all’amministrazione del cursus
publicus e delle stationes. [...]
Quale sia stato l’evolversi ulteriore della organizzazione industriale delle
miniere di zolfo in Sicilia non è dato sapere. Certo è che dopo il IV sec. d.C.
l’attività si affievolì e si spense. E ciò può essere avvenuto
contemporaneamente al passaggio della proprietà terriera assenteista imperiale
e più tardi ecclesiastica in gestione privata, nel quadro di un’economia che
ormai ignorava lo sfruttamento delle miniere. La destinazione della produzione
dovette superare l’ambito isolano, e in particolare dall’Emporium di Agrigento doveva partire il commercio diretto con
l’Africa. [..] Si ha quindi l’impressione che, caduta in disuso l’industria
dello zolfo, gli interessi economici e gli investimenti si concentrino
esclusivamente sulla campagna [..] Nel IV sec. il tessuto sociale agrigentino
si attiva, nell’ambito religioso, dell’apporto del Cristianesimo, conservando
il suo baricentro verso l’Africa: ceramica sigillata tarda africana e lucerne
sono comune corredo delle sepolture ipogeiche.» ([17])
In tale
contesto, pensiamo ad un’operosa presenza di officinae, conductores e,
quindi, di mancipes in quel di
Racalmuto, con centro abitato gravitante più verso l’area del Castello che
verso Casalvecchio. Ove ora si ergono le torri potrebbe esservi stata una
necropoli, se il noto sarcofago fosse stato utilizzato fin dal IV sec. d. C. là
dove, poi, per secoli è rimasto. I resti di tegulae,
rinvenuti presso S. Maria, rafforzano ipotesi della specie.
Dopo il IV
secolo, uno spostamento del centro abitativo in contrada Grotticelli, è per tanti versi attestato. La fine dell’industria
estrattiva e la desolazione che ebbe a determinare il terremoto che devastò
l’Isola nel 365 d. C. spinsero, probabilmente, a questo cambiamento abitativo.
Ma i resti archeologici, che ormai vanno affiorando con ritmo crescente e con
maggiore attenzione da parte delle autorità, attestano necropoli bizantine
sotto il Ferraro e soprattutto un centro abitato – che per padre Salvo è il
Gardutah dell’Edrisi – sotto la grotta di fra Diego, come già si è avuto modo
di accennare.
L’OCCUPAZIONE BARARICA
Tinebra Martorana fa un fugace accenno a Genserico ed ai
suoi Vandali ed a Totila re dei Goti solo per un richiamo storico dei più
generali eventi siciliani dell’epoca, non sapendo che altro dire per quel che
ha più stretta attinenza alle vicende locali. Di sicuro una qualche eco di
quelle dominazioni dovette esservi per i coloni abbarbicatisi ai fascinosi
costoni snodantisi tra il Caliato, Anime Sante, Grotticelle, Giudeo e
Casalvecchio. Eppure di questo sinora non abbiamo alcuna testimonianza né
scritta né archeologica. Il tempo a venire non sarà avaro di reperti
significativi, specie quando ci si deciderà a porre in atto scientifiche
campagne di scavi nella zona, invece di ricoprire frettolasamente quello che
casualmente affiora.
Nei pressi di Racalmuto sorgono le rovine di Vito Soldano:
ne hanno scritto M.R. La Lomia (1961) ed E. De Miro (1966 e 1972-73) ([18]),
ma non può dirsi che per il momento disponiamo di notizie esaurienti, specie
sotto il profilo storico. Tombe riccamente corredate sono state rinvenute in
contrada Cometi: non è da escludere che lì vi fosse una qualche necropoli
riguardante il finitimo centro di Vito Soldano. Purtroppo l’avida ingordigia
dei tombaroli ha sinora impedito serie e chiarificatrici indagini
archeologiche. Per tutto il periodo romano, e per quello successivo delle
scorrerie barbariche, sino all’avvento dei Bizantini, i vari coloni sparsi nel
territorio di Racalmuto potevano pur bene far capo all’importante insediamento
di Vito Soldano, di cui ancora si ignora il toponimo antico.
Passando alle vicende del rado colonato racalmutese del V
e VI secolo d.C., già scarse sono le conoscenze che si hanno per la più
generale storia della Sicilia; circa le nostre parti sono disponibili
scarsissimi lumi: qualche indizio e talune indicazioni di troppo generica
portata.
Se nel 439
la Sicilia fu occupata dai Vandali, a Racalmuto un qualche sentore ebbe ad
aversi. Non certo in fatto di religione, giacché l’ostilità di Genserico verso
il cattolicesimo e la sua propensione alle conversioni di massa all’arianesimo
difficilmente potevano colpire la nostra plaga, per nulla organizzata sotto il
profilo civile e, per quello che mostra l’archeologia, men che meno sotto il
profilo religioso. Ma se il vescovo cattolico agrigentino - se vi fosse, chi questi fosse e che rilievo
avesse, non si sa - ebbe a subirne una qualche conseguenza, un qualche
riverbero dovette esservi sull’eventuale comunità cristiana racalmutese. Di
certo, quando Genserico fu sconfitto ad Agrigento da Ricimero, conseguenze di
quella guerra ebbero a ricadere sull’economia agricola di Racalmuto. Se
crediamo a Sidonio Apollinare ([19]),
Ricimero con quella vittoria poté ripristinare la coltivazione dei campi, e
qui, a Racalmuto, lo sbandamento che le scorrerie di Genserico e dei suoi
Vandali ciclicamente determinavano, si diradò per qualche tempo e quindi si
ebbe prosperità con regolari raccolti granari e soddisfacenti vendemmie.
I Vandali dopo il 463 riescono, in qualche modo, a
prendere possesso della Sicilia e la soggiogano sino all’anno in cui, caduto
l’impero romano d’Occidente (476), Genserico la restituisce ad Odoacre: vicende
queste riflessesi sulla plaga racalmutese con incidenze e modalità sinora del
tutto ignote.
La Sicilia passa quindi, nel 491, ai Goti. Si è certi di
un buon governo da parte di Teodorico. Vi sono, però, persecuzioni ariane
contro i cattolici. Per i coloni di Racalmuto che cosa potesse significare
tutto ciò va affidato a congetture più o meno fantasiose, in mancanza di fonti,
non solo documentali, ma anche archeologicche.
Il rivolto storico dei Goti a Racalmuto persiste sino al
535, allorché Belisario riesce a congiungere l’isola all’Impero d’Oriente:
inizia la civiltà bizantina racalmutese che ebbe incidenze ben più rilevanti di
quelle arabe, non foss’altro perché durò di più (quasi tre secoli contro i due
e mezzo dell’insediamento berbero).
RACALMUTO BIZANTINO
Dal
VI al IX secolo Racalmuto - ci è ignoto il nome greco
del periodo - divenne palesemente bizantino. Secoli fervidi di opere e di umane
presenze che le future campagne di scavi redimeranno dall’oblio dei tempi. La
locale comunità fu di certo grecofona e, quanto al rito religioso, essa ebbe ad
optare per quello ortodosso. Infuriava ad Agrigento la lotta tra vescovo greco
e quello latino. Le vicende di tal Gregorio ci sono state tramandate ma
con tali obnubilamenti che neppure il
grandissimo mons. De Gregorio è riuscito sinora a dipanare. Misterioso dunque
l’atteggiamento della periferica chiesa racalmutese in tal frangente.
Confesso
di avere avuto un sobbalzo quando mi sono imbattuto in un passo di Biagio Pace che accenna ad un ipogeo
cristiano in «quell'abitato prearabo che fa postulare il nome di Racalmuto» ( [20]):
una presenza cristiana del quinto o sesto secolo nel nostro paese con tanto di
chiesetta cimiteriale era notizia di acuto interesse storico.
Con
una punta di disillusione ho però subito dovuto convincermi che l'eclatante
affermazione poggiava su un malcerto passo del nostro Tinebra Martorana, il seguente: «..alla
contrada Grutticeddi esiste un
poggetto di masso scavato in una grotta; da molti mi fu assicurato che in
quella grotta furono rinvenuti dei sepolcri scavati nel masso con resti di
ossa». Da qui all'ipogeo cristiano del V secolo ce ne corre. Una ipotesi
dunque, ma tutt'altro che inattendibile come i recenti ritrovamenti
archeologici nei dintorni vanno sempre meglio precisando.
Di
certo sappiamo che le Grotticelle erano una
plaga abitata anche al tempo dei bizantini. Confinavano con le
contrade di Bigini e Cometi e tutte
tre le contrade risultano feudi nei
capibrevi minori di Luca Barberi e tali appaiono nel primo abbozzo di una mappa
catastale di Racalmuto custodita presso l'Archivio di Stato di Agrigento. Per contro vi sono i feudi
maggiori di Gibellini e del castello chiaramontano di Racalmuto.
Grotticelle e dintorni poterono dunque essere fattorie o pertinenze di 'massae' soggette al papa
Gregorio nel VI secolo o alla chiesa
di Ravenna oppure costituire beni
propri della corte di Bisanzio. Sulla scia di autorevoli storici ([21])
oggi è pur congetturabile una sorta di
continuità tra l'assetto agrario
dell'epoca bizantina e quella della Sicilia post-araba. La frattura
saracena a Racalmuto, come altrove, fu
profonda ma non invalicabile.
In
tale contesto pensiamo che, se non tutti e due i nostri castelli medievali,
almeno il Castelluccio (nella vecchia contrada di
Gibellini) può sorgere su un antico nucleo bizantino: il «frourion». A
convincerci in tal senso, sono le tesi di Rodolfo Santoro sulle «fortificazioni
siciliane dall'ultima amministrazione imperiale bizantina al consolidamento del
Regno di Sicilia» ([22])
e più specificatamente sulla «architettura castellana della feudalità
siciliana» ( [23]). Secondo
Santoro, il «Frourion, parola greca che designa la fortificazione in generale,
... è riferibile al piccolo fortilizio di età bizantina dotato di una torre e
di un breve circuito murario..» ([24]).
Il Castelluccio, ingrandito e meglio fortificato in età post-normanna, ha
invero l'aria di una derivazione bizantina che precede dunque la conquista
araba.
Ma
l'ultimo atto relativo a Racalmuto pre-arabo resta per il momento la presenza
di un ripostiglio di aurei imperiali (oltre duecento) rinvenuto casualmente in
contrada Montagna. Sul ritrovamento delle
monete a Racalmuto, ho sentito varie versioni pittoresche sin dalla prima
infanzia: lavori di scasso per l'impianto di una vigna;
rinvenimento del tesoro da parte di operai, tra i quali un contadino di non
eccelse capacità intellettuali; rapacità del padrone del fondo; imprevista
denuncia del minorato; intervento dei carabinieri e sequestro delle monete
finite nel Museo di Agrigento. A quel ripostiglio si
riferisce André Guillou ( [25]). Nell'illustrare l'industria e il commercio
dei bizantini di Sicilia,
quell'autore colloca nei secoli VII-VIII
il «numero notevole di tesori di monete ... dispersi nell'isola» e mette a
capofila le monete di Racalmuto.
Secondo quel che possiamo leggere in un altro suo studio di quell'Autore ([26])
trattasi di un tesoro di «205 pezzi, riferentisi a Tiberio II - Héracleonas».
Quell'importante testimonianza di Racalmuto
bizantino è oggi nascosta in una sala sempre chiusa del Museo di Agrigento, quasi a simbolo del pubblico oscuramento
della nostra antica storia locale. Se non fosse stato per il francese Guillou, le nostre ultime vicende
sarebbero finite nell'oblio o inficiate da errori di datazione come mi è
capitato di constatare in testi per altri versi pregevoli ([27]).
PASSAGGIO SOTTO GLI ARABI
Caduta Agrigento sotto gli Arabi (829), il più o meno
fiorente villaggio bizantino di Casalvecchio fu inglobato dai berberi. Identica
sorte per l’agglomerato – se vi fu – nel ripiano di Gargilata a ridosso del
costone di fra Diego. Di congetture se
ne possono formulare tante, di verità storiche solo flebili barlumi.
Che cosa ne fu di quelle abitazioni? Le attuali conoscenze
archeologiche sono insufficienti per teorizzare alcunché. Sembra però probabile
che i coloni un tempo colà dimoranti abbiano finito con l’abbandonare le loro
case e spostarsi altrove, oppure, come a Gargilata, finire per convivere.
E che può
dirsi della religione? E’ opinione diffusa che gli Arabi fossero tolleranti, ma
noi non sappiamo né di moschee né di chiese cristiane aperte al culto in quel
tempo nella zona dell’intero altipiano. Ed in mancanza di documentazione siamo
lasciati liberi di credere in quel che vogliamo e propendere per tesi di
eclissi della religione cattolica o di sua sopravvivenza, come di un fiorire
del culto islamico tra l’Est del Castelluccio
ed i luoghi del tramonto sul crinale della Montagna,
se non addirittura a riparo delle balate di Gargilata.
Consolidatasi
la conquista araba, a Racalmuto si stabiliscono i berberi, che per la maggior
parte erano contadini venuti in cerca di terra, mentre gli invasori arabi erano
soprattutto soldati che preferivano lasciar lavorare i cristiani per loro. Si
era, dunque, superato il periodo eroico del gihàd
ed il rappresentante dell’emiro in Sicilia assunse anche le funzioni
amministrative. La sua autorità si estese su tutti gli abitanti dell’isola e
cioè su un vero e proprio mosaico di razze e di religioni. Anche i musulmani
erano di origine etnica la più disparata: arabi, berberi, spagnoli, locali
convertiti. La restante popolazione, costituita da dhimmi, ossia locali non convertitisi all’Islam i quali, in cambio
del pagamento di un tributo annuo fisso, avevano salva la vita e le proprietà, conservando libertà di
religione e di culto.
Quanti
erano i berberi e quanti i dhimmi a
Racalmuto? E’ quesito per lo stato delle conoscenze senza risposta. Gli
infedeli (i dhimmi) che per avventura
avessero deciso di restarsene nei territori conquistati dovevano corrispondere
la gizya ed il kharàj - imposta personale (o di capitazione) questa, fondiaria
quella - inizialmente non distinte; ne erano esclusi gli indigenti, gli schiavi
le donne, i vecchi ed i bambini.
Dopo neppure
un quarantennio dalla conquista, scoppiò una contestazione che sicuramente
coinvolse l’altipiano di Racalmuto. Lasciamo la parola ad un arabista del
calibro di Rizzitano ([28])
per tratteggiare questa congiuntura storica di grande risalto per le vicende arabe
racalmutesi.
«In
entrambe .. le classi sociali - in cui era divisa orizzontalmente la comunità
dei sudditi dell’emiro - erano ben presto insorti malcontenti, rivalità e
ribellioni anche violente. Le forti personalità e le doti eccezionali di
Ibrahìm ibn Allàh e di Al-Abbàs ibn al-Fadl - ma soprattutto i ricchi bottini
che questi due energici condottieri erano riusciti a conquistare - avevano
temporaneamente appagato e tenute quiete le truppe. Tuttavia, non si era ancora
concluso il quarto decennio della conquista, consolidatasi soprattutto nel
settore centro-orientale, che già i musulmani davano qualche segno di cedimento
e mostravano di sentirsi meno impegnati nell’ulteriore rafforzamento delle
posizioni conquistate e nella partecipazione all’opera di sistemazione
amministrativa del paese, più sensibili alle sollevazioni e ai disordini che
elementi sobillatori cercavano di fomentare soprattutto nell’agrigentino. Qui
prevaleva l’elemento berbero; ed è da ritenere che esso agisse in collusione
con i bizantini ai danni degli arabi, per cui si riproponeva anche in Sicilia,
e forse si esasperava quell’incompatibilità fra le due razze diverse che, in
Ifìqiya, aveva già provocato - e continuava a provocare - non pochi e cruenti
scontri. A tale proposito è da osservare che - fra i diversi gruppi etnici
venuti in Sicilia con l’esercito di occupazione - i due gruppi più consistenti
erano proprio quello arabo e quello berbero. Accomunati dalla fede, ma solo
apparentemente fruenti di uguali condizioni sociali, gli arabi si erano sempre
sentiti, in ogni circostanza, i padroni dei berberi, e sempre cedettero
all’orgoglio di averli dominati fin dall’ormai remoto secolo vii, quando l’Islàm iniziò la conquista
del Maghrib. Al tempo stesso i berberi, gente di antichissime tradizioni e ben
noti per la loro fierezza, non tolleravano condizioni di subordinazione agli
arabi, a cui fra l’altro si sentivano superiori per numero, industriosità e
capacità soprattutto nel settore agricolo.
«Per quanto
concerneva invece i dhimmi, questi
erano soprattutto notabili locali, funzionari, proprietari terrieri, contadini
commercianti. Anche fra loro il malcontento era assai vivo. Il carico fiscale
che dovevano sostenere in cambio del loro statuto era sempre più pesante;
oggetto di continue discriminazioni e vessazioni da parte dei musulmani, essi
erano esposti più che mai agli umori del momento, all’opportunismo del
principe, alle rappresaglie - spesso sanguinarie - da parte degli elementi
musulmani più violenti e turbolenti - venuti in Sicilia immaginando di
conquistarvi facili ricchezze. Ora che le campagne militari - rivelatesi più
dure di quanto forse inizialmente supposto - fruttavano bottini minori, è
chiaro che erano i dhimmi a dovere
«pagare» l’irrequietezza di questi elementi musulmani. Tale era il contesto
sociale siciliano alla morte di a-Abbàs.
«Pertanto
al nuovo governatore - Khafagia ibn Sufyàn (862-869) - che era stato preceduto
da altri due reggenti, rimasti in carica complessivamente un anno, s’impose il
compito di eliminare, per quanto possibile, ogni motivo di dissidio, onde
evitare che si trovasse pregiudicata la ripresa delle operazioni militari,
avviate presumibilmente ad un anno di distanza dall’arrivo a Palermo di quel
nuovo rappresentante dell’autorità aghlabita d’Ifrìqiya ([29])»
Non è
questa la sede per dilungarsi sulle imprese militari a Siracusa, Ragusa, Noto e
Scicli di Khafagia: ci interessa invece l’episodio narrato dall’Amari che per
tanti versi investe la storia locale racalmutese. Siamo nell’anno 867 e «par che seguendo la costiera di mezzogiono -
scrive l’Amari nella sua SMS - giugnessero i Musulmani presso Girgenti, avendo
costretto a calarsi agli accordi il popolo di Ghirân, che io credo la terra di
Grotte: e moltissime altre castella occuparono; finché il capitano infermo di
malattia sì grave, che fu mestieri portarlo a Palermo in lettiga. Ma non andò
guari che il rividero i Cristiani nel duegento cinquantatrè (10 gennaio a 30
dicembre 867) cavalcare i contadi di Siracusa e di Catania, distruggere le
méssi, guastar le ville; mentre le gualdane ch’ei spiccava dal grosso
dell’esercito depredavano ogni parte dell’isola. »
Elementi
arabi, con intenti vessatori, si spandono nell’867 nelle campagne attorno a
Grotte (investendo, quindi, anche il villaggio del nostro Casalvecchio)
distruggendo, depredando, violentando. Avranno lasciato dietro di loro morte e
desolazione. Se una qualche attendibilità - e noi la neghiamo del tutto - ha
l’antica tradizione che vuole attribuire a Racalmuto il significato di «paese
morto», questa andrebbe collegata alla vicenda dell’867 che abbiamo richiamata.
Solo se così inquadrata, può avere una qualche validità la dissertazione del
Tinebra Martorana (v. pag. 33) sul villaggio chiamato dai «Saraceni .... Rahal-Maut, villaggio morto, distrutto [...]»
Amari
ritiene che Grotte corrisponda alla fortezza di Ghîran sol perché Ghîran
in arabo significa grotta o caverna. Ed allora perché non congetturare che
possa riferirsi alla contrada di Racalmuto chiamata ancor oggi Grotticelle attorno a cui si spandeva
un apprezzabile villaggio arabo-bizantino? o alle tante grotte che erano
abitate sotto il Carmelo, nell’antico quartiere denominato in epoca post-sveva S. Margaritella? E al limite – perché
no? – al sito di Gargilata, ove affiorano ceramiche arabe, secondo quello che
il Palumbo mi mostrava nell’estate del ’99? Ma tanto solo per rendere avvertiti
della non perspicuità dell’argomento toponomastico dell’Amari.
Girgenti - dominio dei turbolenti berberi - si
sollevò, ancora una volta, nel 937 contro il delegato, accusato di soprusi, che
era stato distaccato da Sàlim in quel territorio. La comunità racalmutese
dovette essere coinvolta in quei torbidi. I ribelli marciarono su Palermo ma
furono sconfitti. Comunque i palermitani preferirono seguire le vie diplomatiche
e fecero ricorso al califfo fatimita perché destituisse il governatore. Il
nuovo governatore nel marzo del 938 riprese, però, le ostilità e mosse contro i
ribelli girgentani, ma venne sconfitto. La rivolta finì con il propagarsi in
tutto il Val di Mazara. Khalìl ibn Ishàq (937-941) - che era il nuovo reggente
- reagì nella primavera del 939 e nel novembre del 940 riconquistò Girgenti,
focolaio della sommossa, facendola capitolare per fame. Coinvolgimenti della
comunità musulmana di Racalmuto vi furono senza dubbio, ma anche qui la nostra
ignoranza dei fatti è totale.
Nell’estate
del 948 viene a Palermo l’emiro al-Hasan ibn Ali (948-953), dell’antica
dinastia del Kalbiti. Con lui ebbe
inizio in Sicilia un emirato ereditario - salve sempre le forme
dell’investitura califfale - protrattosi per circa un secolo (dal 948 sino al
1053) che sembra contraddistinto da un più elevato livello di vita. Possiamo
congetturare che anche l’insediamento musulmano racalmutese abbia beneficiato
di tale favorevole congiuntura.
Ma attorno al 1065 si
determina un momento di debolezza per gli arabi di Sicilia: sono diverse le
famiglie che cercano di stabilire emirati indipendenti a Mazara, Girgenti e
Siracusa. Finì che Ibn at-Tumnah ed altri musulmani di Siracusa e Catania
s’indussero ad appoggiare i
contrattacchi cristiani nel 1060-61. Per accordo col Guiscardo, la conquista
della Sicilia toccò soprattutto a Ruggero d’Altavilla.
Chamuth
fu l'ultimo emiro della dominazione araba del territorio tra Agrigento
ed Enna. Egli venne vinto, ma non umiliato, dal conte Ruggero il normanno nel
1087. Si può anche ipotizzare che a
Racalmuto vi fosse una fortezza, se non due, vuoi al Castelluccio, vuoi 'a lu Cannuni'. E 'Rahal' - che non vuol dire
in arabo fortezza, castello, stazione, sibbene “comminare”, “percorrere” –
poteva pur essere una fortezza sotto il dominio di Chamuth, donde l’attuale
nome.
Conosciamo le gesta di Chamuth perché
un benedettino normanno, che fu al seguito del conterraneo Ruggero, ce ne ha
tramandato la memoria. Trattasi della cronaca del secolo XI del monaco Gaufredo
Malaterra. Michele Amari non lo ebbe in grande stima, ma nel raccontare quegli
eventi nella sua Storia dei Musulmani di
Sicilia non fa altro che fargli eco. A nostra volta, trascriviamo quel passo
di sapido stile ottocentesco. E' una pagina di storia che, in ogni caso,
investe Racalmuto nel frangente della sconfitta araba ad opera dei predoni
normanni.
«Il
cauto normanno [il conte Ruggero] avea occupata Girgenti, - narra appunto
Michele Amari - mentre i marinai italiani si apparecchiavano tuttavolta
all'impresa di al-Mahdûyah. Sbrigatosi di Benavert nel 1086, radunava a dí
primo aprile del 1087 le milizie feudali, volenterose e liete per la speranza
di acquisto; e sí conduceale all'assedio di Girgenti. Ubbidiva allora Girgenti
con Castrogiovanni e con tutto il paese di mezzo, a un rampollo della sacra
schiatta di Alì, del ramo degli Idrisiti che avevano regnato un tempo
nell'Affrica occidentale, e della casa de' Bamì Hammud, la quale tenne per poco il califato di Cordova (1015- 1027)
indi i principati di Malaga e di Algeziras (1035-1057), ma cacciata dalla
Spagna, andò cercando fortuna qua e là. Par che un uomo di codesta famiglia,
passato in Sicilia, non sappiamo appunto in qual anno, abbia preso lo stato in
quelle province, tra le guerre civili che si travagliarono coi figli di Tamîm;
portato in alto non da propria virtù, ma dal nome illustre e dalle pazze
vicende dell'anarchia. Chamut il suo nome, qual si legge nel Malaterra e ben
risponde alla voce che a nostro modo si trascrive Hammûd.
«Il
quale si rannicchiò tra sue rupi inaccesse di Castrogiovanni, mentre la moglie
e i figlioli soggiornavano in Girgenti, e i Normanni circondavano la città,
batteano le mura con lor macchine; tanto che occuparonla a dì venticinque
luglio del medesimo anno. Ruggiero v'acconció fortissimo un castello, munito di
torri, bastioni e fosso; lasciovvi buon presidio, e battendo la provincia, in
breve ne ridusse undici castella: Platani, Muxaro, Guastarella, Sutera, Rahl,([30]) Bifara,
Micolufa, Naro, Caltanissetta, Licata, Ravenusa; ([31]) di
talché occupava tutto il paese dalla foce del fiume Platani a quella del Salso
ed a Caltanissetta, di che ei compose non guari dopo, con qualche aggiunta la
Diocesi di Girgenti, ed or vi risponde tutt'intera la provincia di questo nome
e parte della finitima di Caltanissetta. La moglie e i figlioli dell'Hammûdita
caduti in suo potere, tenne Ruggiero in sicura e onorata custodia: pensando,
così nota il Malaterra, che più agevolmente avrebbe tirato quel principe agli
accordi, con servare la sua famiglia illesa da tutt'oltraggio.» ([32])
E’ agevole intravedere nel racconto
dell’Amari la fonte malaterrana. Spesso la pagina del grande storico è al
riguardo una mera traduzione dal latino ([33]). Credo che Chamuth abbia avuto un
qualche peso nelle vicende di Racalmuto ed è quindi non dispersivo soffermarsi
su questo personaggio. Costui, caduto in
un tranello dell'astuto Ruggero, per salvare moglie e figli, si arrende e si fa
cristiano. «Chamut - precisa Malaterra - enim cum uxore et liberis christianus
efficitur, hoc solo conventioni interposito, quod uxor sua, quae sibi quadam
consanguinitatis linea conjungebatur, in posterum sibi non interdicetur». In altri termini, egli si fa cristiano con moglie
e figli alla sola condizione che non gli fosse tolta la moglie, alla quale
peraltro era legato da vincoli di parentela. Poi non gli resta che far fagotto
per Mileto in Calabria. Un indice di come quei rudi normanni, guerrieri e
bigotti, imponessero già la conversione agli arabi vinti. E qui siano in
presenza di quelli nobili. Quelli ignobili e contadini - come dovettero essere
i paesani dei castelli agrigentini conquistati - poterono forse risparmiarsi
l'onta di una abiura religiosa. Ma restando musulmani furono ridotti ad una
sorta di schiavitù, tartassata ed angariata. E tale sorte piansero per secoli
gli antenati nostri di Racalmuto. «dimma,
gesia [o gizia], agostale, aliama, algozirio, jocularia, angaria, cabella,
secreto, bajulo, catapano, censo, terraggio, terraggiolo etc.», sono
termini che sanno di tasse, soprusi, discriminazioni, angherie, iattanza,
arroganza del potere. Sono la lingua
degli uomini egemoni che parlano
forestiero ma si servono di disponibili figuri locali, ammessi alla loro
congrega. E vicendevolmente si fanno da padrini nei battesimi, da compari nei
matrimoni, amichevolmente ed in termini di accondiscendente familiarità, ma a
danno e scorno degli altri, degli esclusi, del popolino basso e villano. Sono i
nomi dell'impotenza, della rabbia e dello sfruttamento perduranti sino ai
giorni nostri. E l'impareggiabile Sciascia ne coglie gli umori e i malumori
quali si aggrumavano al Circolo della Concordia [rectius, Unione] negli anni
cinquanta. Sono, infatti, godibili talune magistrali pagine di 'Le Parrocchie di Regalpetra'? (v. p. 60 e 61
e per quel che riguarda l'argomento, la pag. 17).
Il tremendo passaggio
dalla libertà araba allo stato servile, alle dipendenze di vescovi esattori,
santi per i fatti loro eppure vessatori per il bene delle varie 'mense' della
chiesa e del canonicato agrigentino, lo si intuisce, lo si può ricostruire ma
non è documentabile se non con le poche righe del Malaterra.
A corto di notizie, Tinebra-Martorana
ricorre alle imposture dell'Abate Vella - e Sciascia vi indulge con un
accondiscendente sorriso - e alle
invenzioni fantastiche di un ‘galantuomo’ della fine del secolo scorso,
Serafino Messana. Nessuna verosimiglianza hanno le dicerie di un governatore di
Rahal-Almut a nome Aabd-Aluhar,
servo dell'emiro Elihir, diligente nel censimento del nostro fantomatico Racalmuto
nell'anno 998; di una popolazione di
2095 anime [si pensi che nella seconda metà del XIV il solerte arcivescovo Du
Mazel contava per la curia papale di Avignone non più di seicento anime nel
nostro paese, abitanti in gran parte in case di paglia 'palearum']; e di tutte
quelle altre patetiche elucubrazioni storiche del giovane aspirante medico
Tinebra. Non sapremo mai dove don Serafino Messana abbia tratto gli spunti per
il suo racconto fantasioso sui due giovani saraceni messisi a strenua difesa di
Racalmuto nell'aggressione del gran conte Ruggero. Nulla di storico, dunque, in
quelle pagine del Tinebra-Martorana, salvo le spigolature sulle tasse e sui
'dsimmi’, mutuate acriticamente dal libro dell'avvocato agrigentino, ma di
ascendenze racalmutesi, Giuseppe Picone.
I gravami, le violenze, le
soggezioni, la morte, il pianto, la paura, l'ignominia dell'invasione di
Racalmuto nell'XI secolo vi furono, ma solo l'immaginazione può ricostruire
quelle scene di panico e distruzione. I cronisti del tempo o ebbero il compito
di osannare il potente, come il Malaterra nei riguardi di Ruggero il Normanno,
o erano poeti arabi di altri luoghi che non ebbero occasione di tramandare
echi, rimpianti o cenni sulla devastata Racalmuto. Non abbiamo neppure il
ricordo di quel nome antico. Solo il Racel
del Malaterra, incerto e controverso.
Eppure, furono giorni
funesti: i normanni - cavalieri nordici, possenti e biondi - erano famelici di
vergini e di prede. La Racalmuto contadina poco bottino poté farsi levare; ma
le vergini o le giovani mogli furono di certo ghermite da quei predatori dagli
occhi cerulei e dai capelli chiari. Ed il misto di razze, di figli nerissimi e
saraceni e di figli longilinei e di vezzoso colore, ebbe da allora inizio per
durare fino ai nostri giorni, senza più alcun retaggio d’ignominia.
Michele Amari non
ebbe in simpatia l’emiro Chamuth - quello a cui il padre gesuita Parisi collega
il toponimo di Racalmuto - e lo descrive come fellone, vile e rinnegato. Prende
spunto dal Malaterra, ma ne stravolge senso e giudizi:
«E veramente - scrive
l'A. a pag. 178 della sua Storia dei Mussulmani - Ibn Hammud si vedea chiuso
d'ogni banda in Castrogiovanni; occupata da' Cristiani tutta l'Isola, fuorché
Noto e Butera; potersi differire, non evitar la caduta; né egli ambiva il
martirio, né i pericoli della guerra, né pure i disagi della gloriosa povertà.
Ruggiero fattosi un giorno con cento lance presso la rôcca, lo invitava ad
abboccamento; egli scendea volentieri ed ascoltava senza raccapriccio i giri di
parole che conducevano a due proposte: rendere Castrogiovanni e farsi
cristiano. Dubbiò solo intorno il modo di compiere il tradimento e l'apostasia,
senza rischio di lasciarci la pelle: alfine, trovato rimedio a questo,
accomiatossi dal Conte, il quale se ne tornava tutto lieto a Girgenti. Né andò
guari che il Normanno con fortissimo stuolo chetamente si avviava alla volta di
Castrogiovanni; nascondeasi in luogo appostato già con musulmano; e questi
fatti montar in sella i suoi cavalieri, traendosi dietro su per i muli quanta
altra gente potè, quasi a tentar impresa di gran momento, uscì di
Castrogiovanni, li menò diritto all'agguato. E que' fur tutti presi; egli
accolto a braccia aperte. Allor muovono i Cristiani alla volta della città; la
quale priva dei difensori più forti, si arrende a parte, e Ruggiero vi pone a
suo modo castello e presidio. Ibn HAMMUD poi si battezzò, impetrato da' teologi
del Conte di ritenere la moglie ch'era sua parente, né gradi permessi dal
Corano, vietati dalla disciplina cattolica. Ma non tenendosi sicuro de'
Mussulmani in Sicilia, né volendo che Ruggiero pur sospettasse di lui in caso
di cospirazioni e tumulti, il cauto e vile 'Alida chiese di soggiornare in
terra ferma; ebbe da Ruggiero certi poderi presso Mileto e quivi lungamente
visse vita irreprensibile, dice lo storiografo normanno.»
[1] ) Gabriele Lancellotto Castello, principe
di Torremuzza, "Siciliae et
adiacentium insularum veterum inscriptionum - nova collectio.."., pag. 237
[2] )
Burocraticamente l’oggetto della corrispondenza si denomina: Mattoni antichi con bolli relativi alle
miniere sulfuree. Un ottocentesco alto burocrate del Ministero della
Pubblica Istruzione di quel tempo, il dott. Donati, interpella seccamente il
Picone:
Il dr. Mommsen reduce dal suo viaggio in Sicilia mi parla della
scoperta importante da lui fatta di bolli fittili con ricordi di preposti alle
miniere sulfuree nei primi secoli dell'e.c. - Sarò grato alla S.V. se si
compiaccia dare su tale oggetto i maggiori ragguagli.
La risposta è
datata 28 dicembre 1877 (Repertorio al
protocollo 1878 n.° 16) ed in termini dimessi precisa che furono or sono pochi anni scoverti nel
bacino di Racalmuto, e a considerevole profondità taluni mattoni antichi, con
bolli, che io raccolsi, e formano parte di questo museo comunale. In essi si
vedono delle iscrizioni latine, che, per difetto d'arte, venivano rilevate al
rovescio di che siano leggibili da sopra a sinistra, come le scritture
orientali.
In uno di essi mutilato si legge (totalmente a rovescio, n.d.r.) :
MANCIPYM/
SULFURIS
SICIL
Messa questa in rapporto alle altre iscrizioni pare che vi manchi nella
prima linea
EX. OF. (ex officina)
come si rileva in talune, ove si legge Ex officina Gellii ec.
ec.
Dallo stile uniforme e dalla paleografia risulta sippure, che l'epoca
sia quella di Antonino Domiziano e di altri, come dai frammenti di altri bolli,
ove si legge il nome di quegli imperatori, sì che possa concludersi, senza tema
di errare, che in quella stagione, la industria zolfifera era fiorentissima
nella provincia Girgentina.
L'esimio Dr Mommsen, che onorò di sua presenza questo Museo, potrebbe
dare alla E.V. maggiori schiarimenti e più dotte illustrazioni che io non
saprei.
Cfr. A.C.S. di Roma - Fondo: ANTICHITA' E BELLE ARTI (AA. BB. AA.) 1°
VERSAMENTO - BUSTA N.° 21 -
Fascicolo 40.3.4 -
(annotazioni interne: 1877 - 64-1-1 - Girgenti - Mattoni antichi con bolli,
miniere solfuree).
[2]) C.I.L.
[CORPUS INSCRIPIONUM LATINARUM] a cura di Teodoro MOMMSEN - Vol. X,2 p. 857 -
TEGULAE MANCIPUM SULFURIS AGRIGENTINAE - 1883 - (nn. 8044 1-9
[3])
C.I.L. [CORPUS INSCRIPIONUM LATINARUM] a cura di Teodoro MOMMSEN - Vol. X,2 p.
857 - TEGULAE MANCIPUM SULFURIS AGRIGENTINAE - 1883 - (nn. 8044 1-9).
[4])
NOTIZIE DEGLI SCAVI - Anno 1900, pagg. 659-60.
[5] ) Giovanni Salmeri, Sicilia Romana. Storia e storiografia, G. Maimone Editore, Catania
1992, pp. 29-43.
[6] ) M. Colonna, L’industria zolfifera siciliana. Origini, sviluppo, declino.
Catania 1971, pp. 14-15.
[7] )
Così giustamente R.J.A. Wilson, Sicily under the Roman Empire,
Warminster 1990, p. 238 e p. 395 n. 8.
[8] )
Tavole di flessione: sulphuraria, sost.; sulpuraria, sost. sulphuraria, ae, f.,
solfatara, ULP. – Dig. XLVIII, 19, 8,
10; F.G.B. Millar, Condemnation to Hard Labour in the Roman
Empire, «PBSR» 39 (1984), pp. 124-147.
[9] ) Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino, Inchiesta in Sicilia, edizione
fiorentina del 1974, pp. 269-279 del II volume.
[10])
KOKALOS 1963, pp. 163-184.
[11])
L’accenno al MANCEPS conduce a quella
datazione, se si accettano le argomentazioni in proposito di E. De Miro, quali
si leggono nella sua relazione pubblicata in Kokalos XXVIII-XXIX, 1982-1982,
pag. 324.
[12])
Oggi custodito nell’androne del Comune, da tempo immemorabile giaceva prima al
Castello.
[13])
Guida d’Italia del Touring Club Italiano - Sicilia - ed. 1968, pag. 303.
[14]) Ernesto De Miro: Città e contado nella Sicilia
Centro-Meridionale, nel iii e iv sec. d.C.
- in Kokalos pag. 320. In quella relazione, spunti
riguardanti specificatamente Racalmuto si colgono nella Tav. XLIV [la Tegula di
cui alla Fig. 1d - CIL X 8044, 1 - MANCIPU[M] - [S]ULFORIS - SICILI[AE] - ST,
se non è proprio quella del Picone, è del tutto analoga.]
[15]) E. De Miro, op. cit. pag. 321.
[16]) E. De Miro, op. cit. pag. 320.
[16]) B. Pace, Arte e Civiltà della Sicilia Antica I, 1935, p. 393
ss.
[17]) E. De Miro, op. cit. passim.
[18])
M.R. LA LOMIA, in Kokalos, VII, 1961; E. DE MIRO, in Encicopledia Arte Antica,
VII, 1966, p. 276, ID, in Kokalos, XVIII-XIX, 1972-73, pp.247.
[19])
Sidonio Apollinare - Carm. II - Panegirico recitato in Roma all’imperatore
Artemio (ediz. di Parigi 1599). Di risalto i versi 362-372. Si celebra la
vittoria di Ricimero del 456 con questi encomiastici tratti:
Agrigentini recolit
dispendia campi,
Inde furit, quod se docuit satis iste nepotem
illius esse viri, quo viso,
Vandale, semper
Terga dabas, nam non siculis illustrior arvis,
Tu, Marcelle, redis per quem tellure, marique
Nostra syracusios texerunt
arma penates.
(Da G. Picone: Memorie Agrigentine, pag. 283).
[20] )
cfr. B. Pace, Arte e Civiltà, vol IV,
pag. 174
[21] )
cfr. V. D'Alessandro, per una storia delle campagne siciliane nell'Alto Medioevo, in
Archiv. Storico Siracusano, n.s. V, 1981.
[22] )
Archivio Storico Siciliano, 1976, p. 27 ss.
[23] )
Arch. Stor. Sic., 1981, p. 59 ss.
[24] )
Ibidem pag. 65.
[25] ) L'Italia bizantina dall'invasione longobarda
alla caduta di Ravenna, Vol. I, Torino 1980, pag. 316
[26] )
Arch. Stor. Sirac., n. s. IV. 1975-76, pag. 74, n. 149.
[27] ) P.
Griffo, Il Museo Archeologico Regionale di Agrigento, 1987, pag.192.
[28]) Umberto Rizzitano, Gli
Arabi di Sicilia, in Storia d’Italia diretta da G. Galasso, UTET 1983, Vol.
III, pagg. 384 e ss.
[29])
«Khafagia ibn Sufyàn era indubbiamente una personalità di primo piano; si era
già distinto in Ifrìqiya all’epoca della rivolta dei giùnd, dando prova di grande fedeltà alla dinastia aghlabita.
Quando arrivò in Sicilia non mancava quindi né di esperienza né di prestigio
personale. Il primo anno della sua permanenza a Palermo lo trascorse, secondo
Ibn al-Athìr, più che in operazioni militari proprio nel delicato compito di
ristabilire ordine e disciplina fra gli elementi musulmani, e di armonizzare
conquistatori e conquistati: condizioni indispensabili alla ripresa delle
operazioni militari. Cfr. Ibn al-Athìr,
Al-Kàmil, pag. 312. Cfr. anche SMS,
I, 482.
[30]) Su tale toponimo RAHL
abbiamo appuntato tutta la nostra attenzione ritenendo che potesse essere
quello del nostro paese. AMARI riduce in RAHL un RACEL che trovavasi nel
manoscritto malaterrano che fu trafugato dall'Italia dallo spagnolo ZURRITA e
pubblicato a Saragozza nel 1578. Quel manoscritto è andato perduto. La
pubblicazione che resta ancora l'edizione principe fu recepita nella colossale
opera di Ludovico Antonio MURATORI RERUM ITALICARUM SCRIPTORES nel vol. V con
il sintetico titolo HISTORIA SICULA, Gaufredi MALATERRAE. Il Muratori dà la
lezione RACEL e in calce annota RASEL-BISAR ad indicazione di altre lezioni da
lui tenute presenti. L'Amari non si produce in ulteriori ricerche
paleografiche: distingue RACEL da BIFAR; per lui arabista, RACEL equivale a
RAHL [casale]; si confessa incapace di individuare un RAHL nelle pertinenze
agrigentine, che ne sono piene. Il PICONE segue la pista dell'AMARI e nelle sue
MEMORIE (cfr. pag. 401) reputa incompleto il toponimo e segna RAHAL...,
distinguendolo comunque da BIFAR, una località piuttosto nota tra Campobello di
Licata e Licata. Si sa che la raccolta di 'scriptores rerum italicarum' è
stata, a cavallo di secolo, oggetto di pregevolissime riedizioni con interventi
di personalità della cultura del calibro del CARDUCCI. Il testo del monaco
benedettino dell'XI secolo ha avuto nel 1927 una diligentissima riedizione con
una illuminante introduzione da parte di Ernesto PONTIERI. Questi venne in
Sicilia; trovò altri codici (A=Cod. X. A 16 della Biblioteca Nazionale di
Palermo; B=Cod.II.F 12 della Società Siciliana per la storia patria; C=Cod. 97
della Biblioteca universitaria di Catania e D=Cod. QqE 165 della Biblioteca
comunale di Palermo) che, comunque, mutili e scorretti e pur sempre derivanti
dalla fonte dell'edizione principe del 1578, non gli furono di molto aiuto. Il
PONTIERI adottò la lezione RASELBIFAR, legando insieme Racel e Bifar, e in nota
fornì la versione della Biblioteca universitaria di Catania (C): RACEL GIFAR.
Nel 1937, Carlo Alfonso NALLINO, nel integrare le note della STORIA DEI
MUSULMANI DI SICILIA di M. AMARI controbatteva al PONTIERI e reinterpretava il
passo malaterrano con questa dissertazione [aggiunta a nota n. 1 di pag. 177
op. cit.]: «In realtà i castelli sono 10 e non 11. L'ed. princeps del Malaterra
(Saragozza 1578), e le prime cinque che la seguirono pedissequamente, hanno
'Ravel, Bifara', come se si trattasse di due luoghi diversi; ció ingannó
V.D'Amico, Diz. topogr. trad. Dimarzo (Palermo 1855-56, l'ed. latina è del
1757-1760), che nel vol. I, pag. 143-144 tratta di Bifara e nel II, p. 398 di
RACEL (dal solo Malaterra), e quindi l'Amari. Nessuno dei due pose mente
all'attenzione del Diz. stesso, I, p. 143, che Bifara 'dicesi anche RAGAL
BIFARA' (evidentemente nell'uso locale siciliano). Il traduttore Dimarzo, I p.
144, n. 1, osserva che Bifara ' è un sottocomune aggregato a Campobello di
Licata ..., in provincia di Girgenti (Agrigento) ..., circondario di Ravanusa'.
Campobello dista 50 Km. da Girgenti (Agrigento) e 9 da Ravanusa. E. Pontieri,
ultimo editore del Malaterra (1928), trovò nei mss. anche le varianti
Raselbifar e Raselgifar e scelse a torto la prima nel testo (p. 88) e
nell'indice (p. 153), mentre è certo che il primo componente e rahl (racel,
racal, ragal), come ben vide l'A.» [cfr. pag. 178 op. cit.] Quel che sorprende in entrambi quest'ultimi
due studiosi è il fatto che con la loro lezione i casali conquistati da
Ruggiero il Normanno diventano dieci in aperto contrasto con la premessa del
MALATERRA che parla di ben undici castelli agrigentini presi all'arabo
CHAMUTH: una contraddizione che andava per lo meno giustificata. Come si vede
un gran pasticcio e ci scusiamo se l'averlo qui accennato può essere apparso
pedante e tedioso. Ma è l'unico probabile appiglio ad una fonte storica delle
origini del toponimo RACALMUTO. Alla fine della fatica, vien però da domandarsi
se è proprio importante trovare un antico toponimo da assegnare alla storia
della nostra terra.
[31]) A completamento del
discorso sui toponimi svolto nella precedente nota, riportiamo il commento
dell'AMARI nella sua STORIA (pag. 177, n. 1): «I nomi delle castella prese
nella provincia di Girgenti, sono tolti dal Malaterra, correggendo alcun evidente
errore del testo. Rimane dubbio il suo Racel, che ho trascritto sicuramente in
Rahl (stazione), ma vi manca il nome che dee seguire per determinare quella
appellazione generica, il qual nome io non saprei indovinare tra i moltissimi
Rahl di quella provincia. Credo avere bene letto Ravanusa il Remise (variante
Remunisse) del testo, poiché MICOLUFA sorgea presso Ravanusa. Del resto Simone
da Lentini, autore del XIV secolo, il quale copiò Malaterra nel suo libro 'La
conquista di Sicilia' recentemente uscito alla luce (Collezione d'opere
inedite e rare, Bologna 1865, in -8), dà otto soli nomi degli undici, dicendo
non avere ritrovato gli altri ne' testi; ed un ms. della stessa opera,
appartenente alla Bibliothèque de l'Arsenal in Parigi (Ital. N. 68) ne dà sette
soltanto: Platani, Musan, Guastanella, Catalanixetta, Bosolbi, Mocofe, Ciaxo
'e li altri, aggiunge, non so chi si fusseru e non si canuxirianu, ect.).
Intorno i nomi non si trovano nella lista odierna de' Comuni di Sicilia, vi
vegga il Dizionario Topografico dell'Amico e l'Indice che io ho messo in fine
della 'Carte comparée de la Sicile, [1859], Notice'.»
[32]) Michele AMARI -
STORIA DEI MUSULMANI DI SICILIA, Catania 1937, Vol. III, parte prima, pagg.
174, ss. Nel trascrivere il CHAMUTH del MALATERRA in HAMMUD, l'AMARI annota
[nota 1 di pag. 175]: «la h, sesta lettera dell'alfabeto arabico, fu resa per
lo piú, sino ad uno o due secoli addietro, con le lettere latine ch; e il d,
ottava lettera, piú spesso con una t che con una d. L'anonimo ha HAMUS [cioè
ANONIMO, presso Caruso, Bibl. Sic. pag. 855]. Sapendosi dalla storia che
Chamuth, fatto cristiano con tutta la famiglia, rimase sotto il dominio del
conquistatore, possiamo ben identificare il casato con quello di Ruggiero
HAMUTUS, già proprietario di certi beni che Federico II concedea nel 1216 alla
chiesa di Palermo (Diploma presso Pirro, Sicilia Sacra, p. 142) e dell'Ibn
Hammud, ricchissimo signore che Ibn GUBAYR vide in Sicilia nel 1185. Questo
nobil uomo poteva essere nipote o bisnipote del regolo di Castrogiovanni.
Sapendosi ch'ei portasse il soprannome d'Abû al Qâsim, sembra anco il
Bucassimus, celebre per brighe alla corte di Palermo, ne' primordi del regno di
Guglielmo il Buono....». Ancor oggi, alcune nobili famiglie siciliane vantano
discendenze da quel ceppo Hammûdita. Trattasi dei nobili NICASIO di BURGIO.
Impietoso l'Amari contro il libello di Nicasio Burgio, conte palatino XXIII
intitolato «La discendenza di Achmet ultimo potente ammira fra i Saraceni
dominanti in Sicilia, rappresentato in questo medesimo luogo dalla chiarissima
famiglia Burgio», pubblicato a Trapani nel 1786. Indulgente il NALLINO che
nella stessa nota si dilunga accogliendo le precisazione di una nobildonna di
quella famiglia. Costei segnala che i primogeniti della casata Burgio
continuano a chiamarsi ACHMET, ( ad. es. ACHMET RUGIERO NICASIO BURGIO,
principe di Aragona e di Villafiorita, di Palermo). Per quel che ci riguarda,
un'ipotesi potrebbe avere qualche fondamento. Tra i beni del citato Ruggiero
HAMUTUS poteva esserci qualche signoria sul diruto castello di Racalmuto, un
tempo appartenuto al nonno, o bisnonno, CHAMUTO. Ma trattasi di congettura che
lascia il tempo che trova.
[33]) Trascriviamo qui per eventuali cultori delle
fonti l'intero passo latino della cronaca del Malaterra: «Comes ergo Rogerius,
omnes potentiores Siciliae a se debellatos gaudens, et nemine, excepto CHAMUTO,
seperstite, ad hoc assidua deliberatione intendit, ut ipso circumveniendo
debellato, omnem sibi de caetero Siciliam subdat. Unde, exercitu admoto, ipso
apud Castrum-Joannis immorante, uxorem eius ac liberos apud Agrigentinam urbem
obsessum vadit, anno Dominicae Incarnationis millesimo octogesimo sexto
[l'AMARI corregge in 1087], prima die Aprilis, quam undique exercitu vallans,
diutina oppressione lacessivit; studioque machinamentis ad urbem capiendam
apparatis, tandem vicesimaquinta die Julii viribus exahusta, imminentibus hostibus,
patuit: uxor Chamuthi, cum liberis, Comitis inventa est captione. Comes itaque,
pro libitu suo positus, uxorem Chamuti, omni dehonestatione prohibita, suis
custodiendam deliberata, sciens Chamutum sibi facilius reconciliari, si eam
absque dehonestatione cognoverit tractari. - Urbem itaque pro velle suo
ordinans, castello firmissimo munit, vallo girat, turribus et propugnaculis ad
defensionem aptat, finitima castra incursionibus lacessens ad deditionem cogit.
Unde et usque ad undecim aevo brevi subjugata sibi alligat, quorum ista sunt
nomina: Platonum, Missar, Guastaliella, Sutera, Rasel, Bifar, Muclofe, Naru, Calatenixet, quod, nostra lingua
interpretatum, resolvitur Castrum foeminarum, Licata, Remunisce.» [Le lezioni
dei nomi sono molte e spesso fortemente differenziate. Chi volesse averne
completa conoscenza, deve consultare
l'edizione del PONTIERI, varie volte citata, pag. 88 e ss. A parte RASEL, che ovviamente abbiamo seguito
con puntigliosa attenzione, per il resto abbiamo scelto alquanto liberamente,
intendendo privilegiare le lezioni che maggiormente si avvicinassero ai
toponimi di Platani, Muxaro, Guastanella, Sutera, Racalmuto, Bifara, Milocca (?!), Naro, Caltanissetta,
Licata e Ravanusa.
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