Introduzione
Forse
risponde al vero che un tale Antonino del Carretto, un avventuriero ligure,
ebbe a circuire la giovane Costanza Chiaramonte e farsi da questa sposare - lui
vecchio e prossimo a morire - spendendo l’altisonante titolo di marchese di
Finale e di Savona al sorgere del turbolento secolo XIII. Forse davvero
Costanza Chiaramonte, figlia primogenita dell’arrampante cadetto Federico II
Chiaramonte, era bella, anzi bellissima - secondo quel che la pretesca fantasia
del pruriginoso Inveges ci ha propinato nella sua Cartagine Siciliana. Forse davvero il matrimonio fu fecondato dalla
nascita di un ennesimo Antonino del Carretto. Forse è attendibile che - non
tanto la baronia di Racalmuto, di sicuro inesistente a quel tempo - ma almeno
fertili lembi di terra alla Menta, a Garamoli, al Roveto furono dati in dote
come beni “burgensatici” da Federico II Chiaramonte a codesto nipotino, mezzo
siculo e mezzo ligure. Il solito Inveges
lo attesta: ma era un falsario come il grande storico Illuminato Peri
ampiamente dimostra.
Di
questi oscuri esordi della signoria dei del Carretto su Racalmuto, quel che di
certo abbiamo è un processo d’investitura - la cui datazione sicura deve farsi
risalire al 1400 - che il prof. Giuseppe Nalbone, solo negli anni ’Novanta di
questo secolo ha avuto il destro di riesumare dai polverosi archivi di Stato di
Palermo.
Scopo, intento, occorrenza ed altro di quel
processo d’investitura sono talmente trasparenti e svelano in modo così
esplicito la voglia di accreditare titoli nobiliari dinanzi gli Aragonesi che
resta particolarmente ostico travalicare
i limiti di una fioca credibilità verso quel vantare ascendenze
altisonanti da parte di Giovanni, figlio del cadetto Matteo del Carretto.
Matteo del Carretto era un rapace esattore delle imposte dei Martino e costoro
erano i noti avventurieri dell’ “avara povertà di Catalogna” che piombarono
sull’imbelle Sicilia allo spirare del XIII secolo.
A
noi - racalmutesi - quegli intrighi matrimoniali esattoriali predatori e via
discorrendo interessano perché sono la nostra storia, quella vera e non quella
oleografica che dal Tinebra Martorana ai vari storici locali, non escluso
Leonardo Sciascia, sembra deliziare i nostri compaesani e deliziarli tanto
maggiormente quanto più cervellotico è il costrutto fantasioso.
Giuseppe
Nalbone ha speso tempo e denaro per raccogliere presso gli archivi di Palermo
la documentazione veridica sui del Carretto. Quella documentazione più vetusta
ed originale - la documentazione dei processi d’investitura - viene qui
riprodotta, sia pure nell’interno dell’accluso cd-rom. Carta canta e villan
dorme: non si può fantasticare quando ostici diplomi vengono - ed è arduo -
disvelati. Addio del Carretto alle prese con vergini violate prima di passare a
giuste nozze per un inesistente ius
primae noctis; addio servi fedifraghi strumenti di uxoricidi a comando di
principesche padrone dalle propensioni all’adulterio irridente con i propri
giovani stallieri; addio frati omicidi; addio preti in “alumbramiento”; addio terraggi e terraggioli vessatori; addio secrete ove innumeri villici sparivano
e morivano come cani. Addio storielle che Tinebra e Messana ci hanno fatto
credere come verità inoppugnabili. Addio moralismo sciasciano.
Un
quadro - ora inquietante, ora banalmente normale, ora esplicativo, ora
feudalmente complesso - affiora con tasselli variamente policromi a
testimoniare una vita a Racalmuto sotto il dominio dei baroni del Carretto che
verso la fine del Cinquecento dopo un paio di secoli di egemonia (a dire il
vero spesso illuminata) hanno voglia di farsi attribuire un’arma ancor più
prestigiosa, di farsi nominare conti di Racalmuto, mancando però l’obiettivo di
aver riconosciuto titolo di marchesato. E proprio codesto titolo avevano
fasullamente in esordio contrabbandato.
Certo
se Eugenio Napoleone Messana aveva in qualcuno fatto sorgere un familiare
orgoglio per un nobile matrimonio tra Scipione Savatteri ed un’improbabile
figlia dei del Carretto, la documentazione che andiamo a pubblicare spazza via
ogni briciola di credibilità di una tale ingenua farneticazione.
E quel che si scrive su data e struttura del
Castello chiaramontano svanisce miseramente, come diviene commiserevole ogni
sicumera sulla storia del Castelluccio.
Già,
carta canta e villan dorme!
PERCHE' UNA
STORIA SUI DEL CARRETTO
Astrette in
un paio di pagine sono godibili le riflessioni terminali (1984) di Leonardo
Sciascia ([1]) su tutta la storia racalmutese. Desolato il quadro: per lo scrittore è
flebile l'eco dell’antica 'dimora vitale', che si amplifica forse una sola
volta quando Racalmuto «piccolo paese, 'lontano e solo', come sperduto nel Val
di Mazara, diocesi di Girgenti , ... dall'oscurità di secoli emerge, nella
prima metà del XVII, a una vita che Américo Castro direbbe 'narrabile' ....
grazie alla simultanea presenza di un prete che vuole una chiesa 'bella' e vi
profonde il suo denaro, di un pittore, di un medico, di un teologo; e di un
eretico.» Di solito, invece, «per secoli, vita appena 'descrivibile',
nell'avvicendarsi di feudatari che, come in ogni altra parte della Sicilia,
venivano dal nord predace o dalla non meno predace 'avara povertà di
Catalogna'; col carico di speranze deluse e delle rinnovate e a volte
accresciute angherie che ogni nuova angheria apportava.»
Sull'altipiano solfifero ebbe quindi a trascorrere
un’oscura, millenaria vicenda umana; ma era una 'vita pur sempre tenace e
rigogliosa che si abbarbicava al dolore ed alla fame come erba alle rocce'.
Promana quasi un monito a non indugiare sulle
araldiche traversie dei signori di Racalmuto. Eppure noi si accingiamo
ugualmente a scrivere sui del Carretto ed altri feudatari locali. Abbiamo
rovistato a lungo negli archivi (dalla locale matrice al lontano archivio
segreto del Vaticano; da Agrigento ai ponderosi fondi di Palermo); abbiamo
rinvenuto carte, documenti, diplomi, testamenti, codicilli che una qualche luce
nuova la proiettano sul vivere feudale dei racalmutesi. Tanto ci pare
sufficiente a superare remore e riserbi.
L'avvicendarsi dei feudatari è stato sinora narrato
dagli eruditi locali con topiche, errori, guazzabugli: correggerli alla luce
dei documenti d'archivio un qualche valore dovrebbe pure rivestirlo.
Incapperemo sicuramente anche noi in sviste ed abbagli: consentiremo, così, ad
altri il gusto di rettificarci. Niente è più proficuo dell'errore, quando
provoca ulteriori ricerche. Il silenzio equivale al nulla: è sintomo d'accidia,
uno dei sette peccati capitali, almeno per i cattolici.
* * *
Sui del Carretto
di Racalmuto è reperibile una folta letteratura, specie fra storici ed eruditi
del Seicento; ma solo Sciascia (vedansi Le
parrocchie di Regalpetra e Morte
dell'inquisitore), scavalcando il vacuo curiosare araldico, scandaglia gli
amari gravami di quella signoria feudale. Peccato che il grande scrittore si
sia voluto attenere, sino alla fine dei suoi giorni, ai dati cronachistici
dell'acerbo Tinebra Martorana. Finisce, così, col dare fuorviante credibilità a
vicende inventate o pasticciate.
PARTE PRIMA
RAPIDA
STORIA RACALMUTESE FINO ALL’ASSUNZIONE DEL TITOLO DI CONTE DA PARTE DEI DEL
CARRETTO
Dalle
brume dell’archeologia locale affiora, flebile ma con contorni alquanto netti,
l’insediamento sicano di quattromila anni fa lungo l’intero arco collinare sud
est e sud ovest racalmutese.
Verso
il 13° secolo a.C., quella civiltà sembra eclissarsi, forse per l’esodo, dovuto
a paura dei naviganti micenei, verso le più protettive montagne di Milena,
Bompensiere e Montedoro.
Arrivano
quindi i greci, ma Racalmuto è ancora deserta ed impervia per attirare i coloni
agragantini. Solo attorno al VII secolo la moneta con il granchio di Agragas
sembra far capolino nelle fertili plaghe del nostro altipiano. Poi, si diventa
meri subalterni della potente polis, così come per tutta l’epoca romana.
Tra
il II ed il IV secolo d.C., da Commodo in poi, le risorse solfifere vengono
apprezzate e sfruttate, come stanno a documentare le tegulae o tabulae
sulfuris, che l’avv. Giuseppe Picone ebbe la ventura di scoprire per primo allo
spirare del secolo scorso.
Ai
tempi del declino dell’Impero romano, la feracità del suolo racalmutese pare
avere attirato sia pure fugacemente le brame espoliatrici di Genserico e dei
suoi Vandali; ma tocca ai Bizantini stabilire insediamenti significativi in
località Grotticelle e dintorni. Monete di Tiberio II e di Heracleone saranno
poi rinvenute, nel 1940, in contrada Montagna, ma per caso ed in luogo che
all’epoca era sicuramente disabitato: un nascondiglio, dunque, sicuro e lontano
da occhi indiscreti.
Giungono
gli Arabi: sono guerrieri, disdegnosi di sede fissa, violenti e ladroni. A
Racalmuto trovano ben poco e subito si dileguano. Subentrano i Berberi,
contadini e pacifici: ebbero forse a convivere con i mansueti bizantini del
luogo.
I
Normanni del Conte Ruggero - 600 cavalleggeri, pare - depredarono il territorio
dell’altipiano ove si presume sorgesse un imprecisato Racel... a dire del Malaterra. Nell’XI secolo, il gaito saraceno
Chamuth, signore della vicina Naro, potrebbe avere avuto il dominio del nostro
Altipiano e forse vi eresse un fortilizio, un Rahal: da qui il toponimo Rahal
Chamuth, a seguire l’acuta congettura del Garufi.
I
Saraceni furono, specie sotto Federico II, ribelli e violenti: imprigionarono
persino il vescovo agrigentino Ursone. Federico II non fu tenero nei loro
confronti, deportò a Lucera i caporioni; gli altri - i più pavidi ed i meno
appariscenti - si dispersero assumendo nomi latineggianti o fingendo antica
professione di fede cattolica.
Per
uno o due decenni Racalmuto rimase comunque deserta. Un tale della famiglia
Musca - dicono Federico Musca - poté appropriarsi del territorio, portarvi
fuggiaschi, verosimilmente ex saraceni, dotarli di terra e mezzi di lavoro e
far sorgere un nuovo casale. Il suddetto Federico Musca finì però con
l’osteggiare il vincitore Carlo d’Angiò e costui lo spogliò del casale
assegnandolo nel 1271 a tal Pietro Negrello di Belmonte: un diploma degli
archivi angioini ne specificava - prima
di esser distrutto dai nazisti nel 1943 - termini, modalità e dettagli.
Finiva,
per altro verso, quella che possiamo considerare la preistoria racalmutese: un
periodo buio ed incerto che ebbe a protrarsi per 3271 anni. Quel che per tal
periodo si è scritto - ed è tanto ed anche dalla penna più illustre del luogo -
è solo cervellotica congettura. Possiamo solo credere a quei radi reperti
archeologici di cui si ha conoscenza ed a quel poco, spesso nulla, che riescono
a svelarci di tanto defluire umano degli antichi racalmutesi.
Con
il Vespro Siciliano, il casale di Racalmuto acquisisce importanza e ruolo
perché può fornire tasse e balzelli alla famelica pirateria di un Pietro
d’Aragona. Il centro abitato non contava più di 75 fuochi (circa 265 abitanti).
Nel 1376 i fuochi erano aumentati a 136 (circa 480 abitanti). Frattanto,
Racalmuto - a dire del Fazello - era stato requisito da Federico di Chiaramonte
che pare vi abbia costruito le torri del castello nella prima decade del 1300.
Si sa che Costanza Chiaramonte, unica figlia di Federico, fu l’erede
universale. Che abbia sposato prima il girovago ligure Antonio del Carretto e
poi, divenuta vedova, l’avventuriero Brancaleone Doria - forse quello dannato
all’inferno da Dante - si dice e qualche documento degli archivi di Stato palermitani
sembra confermarlo. Resta comunque certo che sino al 1396 Racalmuto è dominio
dei Chiaramonte, in particolare del celebre figlio illegittimo Manfredi
Chiaramonte - lo attestano le carte dell’Archivio Segreto Vaticano.
Tocca
a Matteo del Carretto rimpossessarsi del feudo, farne una baronia e farsene
riconoscere titolare dal re Martino, naturalmente previo esborso di sonanti
once. Il figlio Giovanni primo del Carretto è ancor più rapace del padre.
Nel
1404, Racalmuto è ancora fermo a 150 fuochi (540 abitanti). Un secolo dopo nel
1505, al tempo della “venuta” della Madonna del Monte, la sua popolazione sale
a 473 fuochi (1670 abitanti). Ora domina il barone di Racalmuto Ercole del
Carretto. Il figlio Giovanni II esordisce con un delitto: commissiona a tal
Giacchetto di Naro la strage dei Barresi di Castronuovo per vendicare
l’uccisione del fratello Paolo, antenato di Vincenzo di Giovanni che nei primi
decenni del 1600 scriverà una complessa trattazione su Palermo Restaurato, ove rammenterà quei truci e letali eventi.
Dopo, rimorsi e crisi religiose spingeranno quel del Carretto a costruire
chiese e conventi ed a chiamare a Racalmuto carmelitani e francescani per una
redenzione spirituale sua e del suo popolo. Certo, mero e misto imperio,
terraggio e terraggiolo ed una pletora d’imposte e tasse feudali fioccarono sui
racalmutesi. Un notaio venne chiamato da Agrigento per i tanti atti del barone
(e dei suoi vassalli): era quel tale Jacopo Damiano che alla morte di Giovanni
II del Carretto finì sotto l’Inquisizione.
A
metà del secolo, nel 1548, la popolazione sale a n.° 896 fuochi (3163
abitanti), segno che la politica del barone non era poi così devastante come
sembra voler far credere Leonardo Sciascia.
Quello
che non fa il barone, lo fa invece la peste del 1576: la popolazione
racalmutese viene decimata. Se crediamo ad un documento del fondo Palagonia,
dai 5279 abitanti del 1570 si sarebbe passati ad appena n.° 2400 abitanti nel
1577. Ciò non è credibile e si deve alla voglia tutta fiscale di impietosire il
viceré per una contrazione delle “tande” in mora e di quelle in atto. Di
sfuggita, va detto che la tentata evasione fiscale del 1577 non ebbe effetto.
Le “tande” si basavano sulla tassa del macinato: la drastica contrazione della
popolazione non consentiva un gettito bastevole a fronteggiare la soffocante
tassazione del governo spagnolo. Questo non ebbe pietà e la Universitas fu costretta ad indebitarsi
con gli stessi esattori, al contempo strozzini.
Sia
come sia, nel 1593 Racalmuto sembra risorta: gli abitanti ora sono in numero di
4448: ovviamente molti fuggiaschi erano rientrati e, soprattutto, si doveva
trovare conveniente emigrare dai centri viciniori per sistemarsi nella
neo-contea di Racalmuto, le cui condizioni sociali, economiche e giuridiche in
definitiva tornavano appetibili.
Dalle
brume degli esordi racalmutesi della schiatta dei del Carretto affiora qualche
piccola scisti: chi fosse davvero quell’Antonio I del Carretto che da Savona
giunge ad Agrigento per sposare Costanza, quest’unica figlia del cadetto
Federico Chiaramonte, non sappiamo. Possiamo escludere ogni effettiva egemonia
sul feudo di Racalmuto. Non sappiamo neppure se il figlio Antonio II del
Carretto sia stato davvero investito della baronia o se, alla morte di Matteo
Doria, il titolo sia pervenuto ai carretteschi. E ad investigare sugli intrecci
nobiliari di quel tempo, ci perderemmo in congetture di nessuna fondatezza
storica. Il padre Caruselli, Tinebra Martorana, Eugenio Napoleone Messana,
questo l’hanno già fatto e chi prova diletto nelle fantasiose enfiature
araldiche può farvi ricorso.
Di
certo sappiamo che esistette un Antonio I del Carretto - andato sposo a
Costanza Chiaramonte - e che la coppia ebbe un figlio, Antonio II del Carretto.
Vi è una sola fonte e sono le carte dell’investitura di Matteo del Carretto,
che, tutte vere o totalmente o parzialmente falsificate che siano, risalgono
allo spirare del quattordicesimo secolo, circa 100 anni dopo il succedersi
degli eventi.
Quelle
carte le abbiamo già citate e vi torneremo in seguito per le nostre esigenze
narrative: qui ci basta richiamare l’attenzione sulla circostanza di un Antonio II del Carretto trasmigrato a Genova
(e non a Savona) e lì vi ha fatto fortuna in compagnie di navigazioni. Strano
che costui non ritenga di rivendicare la sua quota del marchesato di Finale e
Savona e non dare fastidio - neppure con la sua presenza fisica - agli altri
coeredi della sua stessa famiglia che continua nell’egemonia di quei luoghi
liguri senza neppure un coinvolgimento formale di codesto figlio di un
sedicente legittimo titolare.
Non
v’è ombra di dubbio che i del Carretto provengano dal marchesato di Finale e
Savona: i tre fratelli Corrado, Enrico ed Antonio sembra che si siano divisi
quel marchesato in tre parti; a Corrado andò Millesimo, ad Enrico Novello e ad
Antonio Finale. Ciò secondo un atto che sarebbe stato stipulato dal notaio
Aicardi nel 1268. I tre “terzieri” succedevano, pro quota, al padre Giacomo del
Carretto, marchese di Savona e signore di Finale, che è presente dal 1239 al
1263. Sposato con tale C... contessa di Savona, morì nel 1263. [2]
Su
Antonio del Carretto, il Silla fornisce questi ragguagli: «marchese di Savona e
signore di Finale, conferma il decreto del padre emesso nel 1258 circa
l’abitato in Ripa-Maris; fiorì nel 1263; nel 1292 stipula ancora le famose
convenzioni con Genova. Da Agnese ebbe Enrico, che sposa Catterina dei M.si di
Clavesana; Antonio che sposa Costanza di Chiaramonte.» Se bene intendiamo
quell’autore, Antonio Senior del Carretto avrebbe generato anche Giorgio che
diviene marchese di Savona e signore di Finale. E’ presente nel 1337, anno in
cui gli uomini di Calizzato gli prestarono giuramento di fedeltà. Ottenne
l’investitura dei feudi nel 1355. Da Venezia del Carretto ebbe quattro figli
dei quali costei appare tutrice nel 1361. Gli succede il figlio Lazzarino I. E’
quindi la volta del nipote Lazzarino II operante alla fine del secolo, come da
atto del 1397.
A
seguire questa ricostruzione araldica, ben tre Antonio del Carretto si
succedono dal 1258 al 1390 c.a. Quello che abbiamo indicato come Antonio del
Carretto I - e cioè colui che sarebbe andato sposo a Costanza Chiaramonte -
sarebbe in effetti il secondo di tal nome; poi Antonio II, cui si accredita la prima baronia di
Racalmuto.
Ma
tornando al nostro Antonio II del Carretto, questi nasce qualche anno dopo il
1307, se crediamo all’Inveges. Diviene orfano di padre molto giovane (poco
tempo prima del 1320?). Avrebbe ereditato dalla madre Racalmuto nel 1344 per
atto del Notar Rogieri d'Anselmo in
Finari à 30 d'Agosto 12. Ind. 1344, stando, sempre, alle notizie
dell’Inveges.
L’atto
di permuta tra i fratelli Gerardo e Matteo del Carretto vuole codesto Antonio
del Carretto emigrato ad un certo punto a Genova, come detto. Là si sarebbe
arricchito con partecipazioni in compagnie navali ed altro e là sarebbe morto
(forse attorno al 1370).
La svolta del 1374
Si
accredita autorevolmente la tesi di un Manfredi Chiaramonte, bastardo, nelle
cui mani «per via di fortunate combinazioni, si veniva a riunire .. l’ingente
patrimonio della casa.» [3] Si afferma
che «al 1374 in fatti egli [Manfredi Chiaramonte] ereditava dal cugino Giovanni
il contado di Chiaramonte e Caccamo; dal cugino Matteo, al ’77, il contado di
Modica; inoltre le terre e i feudi di Naro, Delia, Sutera, Mussomeli, Manfreda,
Gibellina, Favara, Muxari, Guastanella, Misilmeri; in fine campi, giardini,
palazzi, tenute in Palermo, Girgenti, Messina ...». Racalmuto non viene nominato,
ma si dà il caso che in documenti coevi che si custodiscono nell’Archivio
Vaticano Segreto anche il nostro paese appare sotto la totale giurisdizione del
potente Manfredi.
Nel
1355 dilagò in Sicilia una peste che, «se non fu con certezza peste bubbonica o
pneumonica, fu pestilentia nel senso
allora corrente di gravissima epidemia». [4] Già vi era
stata un’invasione di locuste che provocò forti danni nell’Isola. Racalmuto ne
fu certamente colpita, ma pare non in modo grave. Maggiori danni si ebbero per un
ritorno dei focolai epidemici, una ventina d’anni dopo. Operava frattanto la
scomunica per i riverberi del Vespro. Preti, monaci e bigotte seminavano il
panico facendo collegamenti tra le ire dei papi che in quel tempo erano
emigrati ad Avignone e la vindice crudeltà della natura: era facile additare
una vendetta divina, ed anche il potente Manfredi Chiaramonte era propenso a
credervi.
I
nostri storici locali raccolgono gli echi di quei tragici eventi ed
imbastiscono trambusti demografici per Racalmuto: nulla di tutto questo è però
provabile. Un fatto eclatante viene inventato di sana pianta: un massiccio
trasferimento, da Casalvecchio all’attuale sito, della residua, falcidiata
popolazione.
I
traumi che la Sicilia soffrì tra il 1361 ed il 1375 ebbero indubbiamente a
coinvolgere Racalmuto, ma in che modo non è possibile documentare su basi
certe. Gli scontri tra le parzialità - solo vagamente definibili latine e
catalane - continuano a scoppiare nel 1360. L’anno successivo giunge in Sicilia
Costanza d’Aragona per sposare Federico I, il quale, sfuggendo a Francesco
Ventimiglia che lo teneva sotto sequestro, può solo nell’aprile convolare a
nozze in quel di Catania. Manfredi Chiaramonte con 9 galee attacca nel maggio
la piccola flotta catalana (6 galee) che aveva scortato Costanza e ne cattura
una parte presso Siracusa. Nel 1362 Federico IV si dà da fare per rappacificare
e rappacificarsi con i potentati del momento: nell’ottobre ratifica la pace di
Piazza fra Artale d’Alagona ed i suoi seguaci da una parte e Francesco
Ventimiglia e Federico Chiaramonte (che sono a capo di nutrite fazioni)
dall’altra. Nel biennio 1262-1363 si registra una recrudescenza della peste.
Nel 1363 muore la regina Costanza. Nel 1364 si riesce a recuperare il piano di
Milazzo e di Messina e finalmente nel 1372 si può parlare di pace con gli
Angioini di Napoli.
Quando
agli inizi del 1373 Palermo e Napoli ebbero per certe le condizioni di pace,
divenne più agevole definire il concordato con il papato che manteneva sulla
Sicilia il suo irriducibile interdetto.
E
qui la minuscola vicenda racalmutese si aggancia ai grandi eventi della storia
medievale di quel torno di tempo. Affiora, ad esempio, un nesso tra papa
Gregorio XI e la reggenza di Racalmuto nel 1374. Gregorio XII era in effetti Pietro
Roger de Beaufort nato a Limoges
nel 1329; morirà a Roma nel 1378. Eletto
papa nel 1371, ristabilì a Roma la residenza pontificia ponendo fine alla
cosiddetta "cattività avignonese".
E
così da Avignone il papa dovette tornarsene a Roma. E’ questo un momento
culminante di una gravissima crisi. Ed in questa congiuntura, cade appunto la
remissività papale verso la Sicilia. In cambio di un obolo supplementare si può
procedere alla revoca di un interdetto, frutto di potenza, arroganza ed al
contempo di remissività verso la Francia.
La
meridiana della storia passa allora anche per il modesto, gramo paesotto di
Racalmuto. Altro che isola nell’isola, scrivemmo una volta in pieno disaccordo
con Sciascia.
Le decime del 1375
Nel
contesto della politica fiscale di papa Gregorio XI un personaggio acquisisce
contorni di rilievo e diviene memorabile nell’ambito nostro, cioè della
microstoria racalmutese del XIV secolo: Bertrand du Mazel. Il suo destino si lega a quello della Sicilia
ed investe Racalmuto ove si recò il 29 marzo del 1375. La sua carriera in
Sicilia si dispiega lungo gli anni dal 1373 al 1375. Svolge diligentemente i
suoi compiti e fra l’altro redige come collettore apostolico carte e registri
contabili che, conservati negli Archivi del Vaticano, sono giunti sino a noi.
Vi troviamo Racalmuto.
La
visita in Sicilia (e a Racalmuto) di du Mazel si colloca nel quadro di grandi
eventi storici. In particolare occorre
tener presente che all’inizio del 1373, dopo laboriosi negoziati, il re
Federico IV di Sicilia e la Regina Giovanna di Napoli concludevano la pace
sotto l’egida del papato. Riconosciuto come sovrano legittimo della Trinacria,
Federico IV accettava la signoria di Giovanna I, e quella di Gregorio XI. Egli
si impegnava a pagare un censo di 3.000 once alla regina che doveva trasmettere
alla Santa Sede questo canone. I siciliani erano chiamati a giurare la pace e
prestare giuramento di fedeltà al re. La Chiesa riacquistava tutti i diritti e
privilegi che godeva prima del Vespro del 1282. Il papa prometteva di levare
l’interdetto che gravava nell’isola da lunghi anni.
In
Sicilia la percezione di tale sussidio fu decisa prima della ratifica della
pace, nel dicembre del 1372; la promessa di abolire l’interdetto è uno
strumento di pressione fiscale. Vengono chiamati anche i laici a contribuire.
Si decidono modalità di esazione contemplanti censure ecclesiastiche per gli
evasori o per i riottosi. Le bolle del dicembre
1372, chiedendo un aiuto per la
lotta contro i nemici della Chiesa in Italia, imponevano che questo venisse
dato “prima dell’abolizione dell’interdetto”. Evidente l’intento dissuasivo. In
virtù di una clausola apparentemente anodina, i delegati pontifici potevano
esigere da chi si voleva liberare dall’interdetto, non solamente il giuramento
di rispettare la pace e d’essere fedele al re, secondo i termini del trattato,
ma anche un aiuto pecuniario alla Chiesa. Il sussidio “caritativo” e volontario
si trasformava in imposta pura e semplice. Bertrand du Mazel non esita a
parlare della tassa riscossa “ratione amotionis interdicti”, come nel caso di
Racalmuto, ove invero si accenna ancora più esplicitamente ad un
“subsidio auctoritate apostolica imposito”. E ci siamo dilungati proprio perché in definitiva ciò ci
illumina sulla storia “narrabile” del nostro paese.
Il
sussidio fu ripartito in ciascun abitato per case, in rapporto alla condizioni
economiche: 1 tarì per le famiglie povere, 2 per le “mediocri”, 3 per le agiate
(“qualsiasi fuoco di ricchi abbondanti in facoltà”). Si computarono in ciascuna
località metà delle famiglie nella categoria inferiore, ¼ nella mediana, ¼ tra
le benestanti: se le condizioni economiche fossero omogenee, sarebbe stata
distribuzione equa. Furono esentati i preti, i giudei e i tatari “che sono
nell’isola infiniti” e le “miserabili persone” che non era prefigurato quali
fossero. [5]
Intensa
è la fase preparatoria del sussidio. Il papa scrive a destra e a manca per
spingere i notabili siciliani ad accedere alle nuove istanze impositive della
Santa Sede. Da Avignone invita, nel 1372, giurati ed università a recarsi
presso “Federico d’Aragona” - non lo chiama re - perché lo convincano a fare
pace con “la regina di Sicilia”, cioè Giovanna di Napoli. Gli inviti sono
mandati a Calascibetta, Licata, Agrigento e Sciacca (Reg. Vat. 268, f. 295-297).
Il
9 febbraio 1375, da Caccamo, Manfredi Chiaramonte, nella sua qualità anche di
ammiraglio di Sicilia ordina ai suoi ufficiali di percepire nelle sue terre il
denaro del sussidio dovuto alla Chiesa e di consegnare il frutto della loro
raccolta al collettore apostolico che subito toglierà l’interdetto. Il
precedente 18 novembre 1374, Manfredi è a Mussomeli nel suo castello che ora si
denomina dal suo nome “Manfreda”: là si redige un processo verbale ove si
attesta che egli, ammiraglio del regno di Trinacria, presentandosi davanti al
re Federico III, gli ha prestato fedeltà e devoto omaggio. Il ribellismo del
conte, di illegittimi natali, era dunque rientrato. Al vescovo di Sarlat,
nunzio apostolico, che accompagnava il re, Manfredi ha solennemente promesso
sul Vangelo di osservare il trattato di pace, come è stato steso nelle lettere
reali sigillate con una bolla d’oro e finché il re l’osserva lui stesso. Egli
ha promesso di fare versare il sussidio dovuto alla Chiesa dagli abitanti delle
su terre di Spaccaforno, Scicli, Modica, Ragusa, Chiaramonte, Comiso, Dirillo,
Naro, Delia, Montechiaro, Favara, Racalmuto, Guastanella, Muxaro, Sutera,
Gibellina, Castronuovo, Mussomeli, Camastra, Bivona, Prizzi, S. Stefano,
Caccamo, Misilmeri, Cefalà, Palazzo Adriano, Calatrasi, Cazonum (?), Camarina,
la torre di Capobianco, Pietra Rossa e Misilendino. Osserva il Glénisson: «si è
potuto dire delle proprietà dei Chiaramonti che esse formavano un piccolo regno
nel grande. Le proprietà di Manfredi Chiaramonte colpiscono veramente per la
loro estensione. Esse sono distribuite in quattro gruppi principali: 1) Esse
comprendono buona parte dell’attuale provincia di Ragusa, con Ragusa stessa,
Modica, Spaccaforno, Scicli, Comiso, Camariano, Dirillo; 2) Nella regione di
Agrigento e di Caltanissetta, Manfredi possiede Mascaro, Racalmuto,
Montechiaro, Camastra, Naro, Delia, Favara, Sutera. 3) Le località del centro:
Mussomeli, S. Stefano, Castronuovo, Prizzi, Cefalà, Palazzo Adriano ... 4) Le
proprietà della regione di Palermo: Misilmeri, Caccamo ...» [6]
Dalla
lettera circolare che Manfredi Chiaramonte dirama da Caccamo il 9 febbraio 1375
riusciamo a cogliere alcuni tratti della veridica storia di Racalmuto: esclusa
ogni effettiva ingerenza dei del Carretto, il casale è evidentemente
assoggettato al Chiaramonte, nell’occasione conte di Chiaramonte, signore e
ammiraglio del regno di Trinacria. L’Universitas
ha un suo governo locale che fa capo ad un capitano, ad un baiulo, a dei
giudici, a degli ufficiali subalterni ed ha una popolazione che costituisce un
soggetto giuridico (universi homines).
Rientra tra le terrae nostrae, cioè
di Manfredi. Se dovessimo credere agli araldisti (ed agli storici locali),
Racalmuto sarebbe dovuta essere terra di Antonio II del Carretto; ma così non
è.
Le
singole università devono nominare tre probiviri (tri boni homini) cui si demanda il poco gradito compito di spillare
denari a tutti gli abitanti (nelle diverse misure che prima abbiamo detto). Non
sappiamo chi siano stati i prescelti di Racalmuto: ma sappiamo che vi furono e
svolsero a puntino la ficcante tassazione.
L’elenco
delle università ha una sua logica: Racalmuto si trova in mezzo ad un
itinerario che, partendo da Gela (Terranova) punta su Naro, da qui a Delia e da
lì si torna a Favara (ammesso che si tratti dell’attuale Favara e non di un
centro nel nisseno); da Favara a Palma di Montechiaro, quindi a Licata per
convergere sul nostro Racalmuto. Da qui a Guastanella (una rocca sul monte
omonimo a poco più di 2 km. A Nord di Raffadali), per toccare S. Angelo Muxaro.
Da qui per una località vicina: Gibillini (Glubellini)
che non può essere Gibellina (come si ostinano a dire anche storici di alto
livello) ma che potrebbe essere davvero il nostro Castelluccio, al tempo
chiamato Gibillini. Se è così, la storia del paese si arricchisce di un altro
importante tassello. Da Gibillini si va a Sutera e quindi a Mussomeli. Si passa
a Camastra. Ma subito dopo tocca a Castronuovo e quindi a Bivona, Santo
Stefano, Prizzi, Palazzo Adriano. E’ allora la volta di Caccamo e di altri
centri, ma a questo punto il nostro interesse per la dislocazione trecentesca
dei paesi si eclissa.
Fin
qui si è trattato di maneggi burocratici: ora è il tempo delle tasse vere.
L’arcidiacono du Mazel decide di tassare l’agrigentino a partire dai primi di
marzo del 1375. Inizia da Palma di Montechiaro (6 marzo); il 18 dello stesso mese può togliere
l’interdetto a Bivona; il 19 a Santo Stefano; il 20 a Pietra d’Amico; il 21 a
S. Angelo Muxaro; il 29 a Guastanella.
Lo
stesso giorno è la volta di Racalmuto.
Dal nostro paese si passa a Castronuovo (8 aprile 1375). La raccolta del
sussidio s’interrompe e verrà ripresa l’8 giugno con la rimozione
dell’interdetto che incombeva su Castellammare del Golfo: altra regione,
lontana da Agrigento. Per noi ha particolare rilievo ovviamente Racalmuto.
Disponiamo
di un paio di annotazioni che riguardano il nostro paese e che naturalmente
svelano tratti storici diversamente ignoti. Il Reg. Coll. N. 222 dell’Archivio
Segreto Vaticano ci degna della sua attenzione al foglio 249 con questa nota:
«Item eadem die fuit amotum interdictum in
casali Rahalmuti dicte Diocesis in quo fuerunt domus coperte palearum CXXXVI
que ascendunt et quas habui VII uncias XXVII tarinos.» Traducendo: «Del
pari lo stesso giorno (29 marzo 1375) fu rimosso l’interdetto nel casale di
Racalmuto della predetta diocesi, nel quale furono rinvenute 136 case coperte
di paglia; queste hanno reso una tassa da me percetta che ascende ad onze 7 e
27 tarì.» Essa andava così ripartita:
|
|
quota individuale
|
totale in tarì
|
pari ad onze
|
e tarì
|
numero fuochi
|
136
|
|
238
|
onze 7
|
tarì 28
|
ceto medio (1/4)
|
34
|
2 tarì
|
68
|
|
|
benestanti (1/4)
|
34
|
3 tarì
|
102
|
|
|
poveri (1/2)
|
68
|
1 tarì
|
68
|
|
|
Con i suoi 136 fuochi Racalmuto aveva dunque
una popolazione abbiente di circa 544 (in media 4 componenti per ogni nucleo
familiare): ma bisogna considerare i non abbienti (i miserabili), i preti
(tassati a parte), gli ebrei, gli immancabili evasori e quelli che dispersi per
le campagne non era possibile includerli nel censimento; un venti per cento,
come abbiamo calcolato per l’analoga tassazione del Vespro. Nel 1375 Racalmuto
contava dunque circa 650 abitanti.
Come
si è visto le case erano di paglia: segno di grande indigenza. Eppure i
racalmutesi o per solerzia degli scherani pontifici o per vero timore di Dio (e
della peste) furono solerti e puntuali nel dare il sussidio caritativo al papa.
Non così in altre zone della Sicilia, come ebbe a lamentarsi quello straniero
di Francia, Bertrando du Mazel.
Le
carte del du Mazel non vanno minimamente confuse con rilievi censuari. Abbiamo
solo numeri simboli da cui possiamo dedurre solo qualche ipotesi di lavoro di
carattere demografico. Non è dato asserire che nel 1375 a Racalmuto vi erano
davvero 136 case con tetto a paglia; che 34 di queste (1/4) erano abitate da
benestanti in grado di corrispondere la tassa pontificia in misura massima (3
tarì a fuoco); che altre 34 appartenevano a ceti medi (tassati per 2 tarì a
famiglia); la metà (n.° 68) ospitava famiglie di dignitosi coltivatori e
mastri, in grado solo di corrispondere il minimo (1 tarì per ogni nucleo).
Evidente è la tecnica della tassazione induttiva, per stima aprioristica.
Certamente in misura più limitata dovette essere la densità delle famiglie
veramente facoltose. Più estesa quella del ceto medio; ancor più vasta quella
della classe che oggi chiameremmo operaia. E poi i tanti religiosi (tassati a
parte, come rivelano le stesse carte del du Mazel), i “miserabili”
(nullatenenti e non imponibili per legge o per dato di fatto), gli
irrecuperabili che si occultavano nelle vicine zone inaccessibili o nei
contigui boschi all’epoca molto folti, coloro che con gli armenti vivevano in
stato di relativo benessere ma al di fuori di ogni reperibilità impositiva.
Possiamo, però, dire che almeno 136 fuochi c’erano davvero a Racalmuto nel
1375, che il centro (snodantesi negli scoscesi avvallamenti sotto le grotte
dell’odierno Calvario Vecchio) raccoglieva non meno di 600 abitanti; che tutto
considerato non si può andare oltre il numero di mille abitanti (ricchi e
poveri, tassati ed esenti, stanziali e saltuari, preti e “miserabili”): una
popolazione già falcidiata dalle tante ondate della ricorrente peste
trecentesca ed ancora non incisa dagli sconvolgimenti che con l’avvento dalla
Catalogna del duca di Montblanc ebbero a verificarsi, come vedremo.
Racalmuto alla fine del Trecento
L’ultimo
quarto di secolo coinvolge la Sicilia in un groviglio di eventi più narrati che
spiegati. Sono mutamenti genetici dell’intero tessuto sociale e politico
siciliano: sono sconvolgimenti del periferico fluire della vita paesana
racalmutese. Storia del paese e storia di Sicilia hanno ora un tale contiguità
da rasentare la coincidenza. Non è questa la sede per affrontare l’intero
ordito storico siciliano di quel torno di tempo, ma un qualche aggancio si
rende indispensabile.
Il
27 luglio 1377, a 36 anni, moriva Federico IV, quello della diplomatistica
avignonese coinvolgente la tassazione papale di Racalmuto. Secondo gli storici,
quella morte avveniva tra l’indifferenza del ceto nobile.
Il
regno passa alla figlia Maria - troppo giovane e troppo inesperta per essere
regina sul serio - ma solo pro forma
visto che è Artale I Alagona a succedere nella gestione del potere regio come
Vicario. Ciò è per volontà testamentaria del defunto re. L’Alagona non si
reputa sicuro e chiede subito l’appoggio, in un convegno a Caltanissetta, degli
altri maggiori baroni Manfredi III Chiaramonte, Francesco II Ventimiglia e
Guglielmo Peralta.
La
vita riprendeva apparentemente normale, ma trattavasi di fittizia regolarità.
In effetti si aveva una equiparazione dei poteri fra costoro e cioè fra i
cosiddetti quattro Vicari: il governo del regno isolano era in mano loro. Per
Racalmuto non cambiava alcunché dato che da tempo era assoggettato a Manfredi
Chiaramonte. Pensare ad una qualche influenza dei del Carretto, oltreché
storicamente non documentabile, sembra esulare da ogni logica: tutto lascia
trasparire che costoro se ne stessero ancora a Genova a curare i nuovi loro affari
in seno a compagnie marittime.
Racalmuto
scade però in una vera e propria terra feudale «ove tutto era il signore: la
legge e la giustizia, l’economia e la vita sociale.» [7] Solo che
il signore era Manfredi Chiaramonte e non certo i del Carretto.
La
tregua cessa con l’insorgere di un nuovo personaggio: il conte di Augusta
Guglielmo III Moncada: riesce costui a strappare dalla sorveglianza degli
alagonesi, dal castello Ursino di Catania, la regina Maria. Il conte ha
l’appoggio di Manfredi III Chiaramonte. La regina viene mercanteggiata come un
oggetto da baratto. Le trattative sono con Pietro IV d’Aragona, il quale viene
messo alle strette, non lasciandogli altra via che quella di una spedizione in
Sicilia per riannetterla alla monarchia iberica.
Rientrava
in scena la chiesa di Roma: Urbano VI (1378-1389), attraverso gli arcivescovi
di Messina e Monreale e il vescovo di Catania, sobillava i nobili siciliani in
contrapposizione agli intenti della corte aragonese.
Ribolliva
l’intrico di corte spagnola con il dissidio fra re Pietro ed il primogenito
Giovanni che ricusava le nozze con la regina Maria per amore di Violante di
Bar. Il re Pietro finiva allora col pensare all’Infante Martino per dar corpo
alle pretese sulla Sicilia: un matrimonio fra l’omonimo figlio dell’Infante
Martino con la regina Maria avrebbe consentito una sostanziale riappropriazione
della Sicilia, anche se formalmente sarebbero rimaste distinzioni ed autonomie.
In tale quadro, toccava al vecchio Martino curare gli affari di Sicilia della
corte aragonese. Fervono quindi i preparativi per una spedizione militare.
Tanti sono i maneggi tra i nobili e Martino il Vecchio. Nel 1382 Filippo Dalmao
di Rocaberti riesce senza ostacoli a liberare dall’assedio Maria e portarla in Sardegna, pronta per le
nozze con il figlio di Martino.
Nel
1389 moriva Artale I Alagona, considerato il capo della “parzialità” catalana.
Per l’Infante Martino quella morte suonava di buon auspicio. Fin qui i rapporti
tra l’emissario spagnolo e Manfredi Chiaramonte possono dirsi del tutto
amichevoli e consociativi.
Morto
anche Pietro IV (gennaio 1387), succedeva Giovanni con il quale si iniziava un
periodo di scabrosi movimenti in seno al regno: tra l’altro veniva riconosciuto
l’antipapa Clemente VII (1378-1394) e di conseguenza scoccavano la scomunica e
l’opposizione della Chiesa di Roma e del papa legittimo Urbano VI. L’Infante
Martino era però ora tutto dalla parte del fratello asceso al trono.
Nel
1389, allo scoppio di tumulti in Sardegna, il vecchio Martino, nuovo duca di
Montblanc, si adoperò subito per il trasferimento della regina Maria in
Aragona. Cresceva frattanto la posizione egemone di Manfredi Chiaramonte. Il
duca di Montblanc, anche se scemavano le difficoltà d’Aragona, non trascurava
di apprestare un’armata che egli concepiva comunque necessaria all’insediamento
del figlio sul trono di Sicilia. Ma le forze della Corona aragonese non
sembravano atte a finanziare quel progetto. Nel 1390, ad ogni modo, si potevano
celebrare a Barcellona le nozze tra il giovane Martino e Maria, evento nodale
della storia di Sicilia.
Si
giunge così al 1391 quando nel marzo viene a morire Manfredi III di
Chiaramonte, personaggio di grossa statura politica e gran signore di
Racalmuto. Sul suo successore e su altri nobili di Sicilia, punta il nuovo
pontefice romano Bonifacio IX (1389-1404): si rassoda un movimento isolano
tendente a contrastare gli scismatici aragonesi. Le vicende della Chiesa romana
si riflettono dunque anche sulla periferica terra di Racalmuto. In quell’anno
si dava incarico al giurisperito Nicolò Sommariva di Lodi «per frenare le
bramosie dei magnati e coagulare attorno agli arcivescovi di Palermo e Monreale
un fronte d’opposizione ai Martini.» [8]
Nel
frattempo Martino raccolse un esercito promettendo feudi e vitalizi in Sicilia
a spagnoli impoveriti e scontenti. Barcellona e Valenza aderiscono con
generosità ed entusiasmo al progetto martiniano. Una famiglia avrà poi fortuna
a Racalmuto: la denomineranno “Catalano”, in evidente collegamento a quel
lontano approdo dalla Catalogna. Ai nostri giorni, gli ultimi eredi diverranno
personaggi di inobliabile folklore. Chi non ricorda Tanu Bamminu? Pochi rammentano che il cognome era appunto
“Catalano”. Ai tempi in cui il padre di Marco Antonio Alaimo era apprezzato
medico racalmutese (fine del ‘500) i Catalano, ottimati rispettati, abitavano
proprio all’incrocio tra l’attuale corso Garibaldi e la strada intestata al celebre medico
racalmutese.
Nel
1392 gli spagnoli sbarcarono finalmente in Sicilia, guidati dal loro generale
Bernardo Cabrera. Due dei quattro vicari passarono subito dalla parte dei
conquistatori: anche in Sicilia ed anche a quel tempo il vizietto tutto italico
di correre in soccorso dei vincitori - avrebbe detto Flaiano - era piuttosto
diffuso. Ma Andrea Chiaramonte - succeduto a Manfredi Chiaramonte - continuò a
credere nel Papa e nella possibilità di resistere ai catalani. Asserragliatosi
a Palermo, resistette per un mese agli attacchi spagnoli. Racalmuto venne
coinvolto nelle azioni di guerriglia con distruzioni, fughe in massa,
ribellismi, violenze, grassazioni, furti e ladroneschi. Palermo finì con
l’arrendersi ed Andrea Chiaramonte fu decapitato. Le sue vaste proprietà furono
arraffate da nuovi nobili. E qui rispunta finalmente la famiglia del Carretto
che, prima a fianco dei Chiaramonte e subito dopo a sostegno del vittorioso
Martino, si riappropria (o si annette?) Racalmuto e dà inizio al lungo periodo della sua baronia
storicamente documentata.
Si
dissolveva così il quadro politico che si era riusciti a stabilire il 10 luglio
1391 quando si era celebrato il convegno di Castronuovo in cui si era giurata
fedeltà alla regina Maria ma in opposizione al giovane Martino non riconosciuto
né legittimo sovrano né legittimo marito. Allora i vicari, fautore il Chiaramonte,
erano ancora uniti. Ma non passò neppure lo spazio di un mattino ed ecco alcuni
convenuti iniziare intese occulte con il duca di Montblanc, «del quale,
evidentemente, si volevano forzare progetti e profferte; e più di prima
isolatamente procedevano tali patteggiamenti che rinnegavano i giuramenti. Era
del 29 luglio la risposta [stracolma di suasive profferte] ad Antonio
Ventimiglia ed a Bartolomeo Aragona che avevano mandato un’ambasceria.» [9] Bartolomeo Aragona di lì a poco riappare
nella diplomatistica dei del Carretto come colui che riesce a riaccreditare
presso i Martino il neo barone di Racalmuto Matteo del Carretto: è pronto a
giurare che il del Carretto si era lasciato lusingare dai soccombenti nemici
dei catalani invasori, per “necessità”; finge di credergli la nuova triade
regale di Palermo.
Ancora
nell’ottobre del 1391 Manfredi e Andrea II Chiaramonte ritenevano opportuno di
mandare propri inviati a Barcellona. Il duca di Montblanc poteva fondatamente
ritenere che i nobili di Sicilia erano dopo tutto non alieni dall’accogliere la
spedizione militare aragonese.
Gli
eventi precipitano: il 22 marzo 1392 approdava la spedizione all’isola della
Favignana presso Trapani. Il duca, a nome dei sovrani, ingiungeva ai baroni di
portarsi entro sei giorni a Mazara per il dovuto omaggio. I due vicari Antonio
Ventimiglia e Guglielmo Peralta ed altri nobili quali Enrico I Rosso non mancavano di prestare giuramento e dare
l’omaggio ai nuovi sovrani il giorno stesso del loro arrivo. Tripudiava la
popolazione di Trapani al passaggio dei giovani regali. Sembrava andare tutto
liscio, sennonché la notoria instabilità sicula torna a dilagare: Andrea II
Chiaramonte mutava atteggiamento. Dopo essersi rivolto favorevolmente a Guerau
Queralt, rappresentante della corona, era indi passato ad un attendismo ed a
moti di diffidente attesa verso il Montblanc ed il figlio Martino il giovane.
Il duca si irritava. Il 3 aprile 1392 l’altezzoso e crudele duca di Montblanc
dichiarava ribelli il Chiaramonte e con lui Manfredi e Artale II Alagona.
Venivano confiscati ed ascritti alla Curia tutti i loro beni che passavano di
mano venendo assegnati a Guglielmo Raimondo III Moncada. Vi rientrò Racalmuto?
Chiaramonte
si asserragliava, come detto, a Palermo. Il 17 maggio 1392 si induceva a
prestare omaggio ai sovrani. Il giorno successivo Andrea Chiaramonte, insieme
all’arcivescovo di Palermo, l’agrigentino Ludovico Bonit (eletto dal Capitolo
palermitano per volontà degli stessi Chiaramonte), chiedeva di conferire con i
sovrani per trattare dei suoi beni. Ma Martino il vecchio non indugiava: li
faceva prontamente imprigionare. La sorte di Andrea Chiaramonte si concludeva il primo giugno 1392, quando
viene decapitato nel piano antistante il suo stesso palazzo di Palermo, il
celebre Steri. Il Chiaramonte si sarebbe sporcato anche di una delazione ed
avrebbe incolpato, per cercare di avere salva la vita, quel Manfredi Alagona
delle passate vicende. Il 1° giugno 1392, con quella decapitazione, Racalmuto
cessava definitivamente di essere un feudo chiaramontano.
* * *
I
Martino e la regina Maria riescono a divenire gli incontrastati padroni della
Sicilia. Ma c’erano da fronteggiare decenni di anarchia. Restaurare la legge e
le prerogative regali era impresa ardua ma non impossibile. I registri erano
stati smarriti o distrutti e le antiche tradizioni e consuetudini obliate.
Martino, con l’aiuto di talune città, può armare un esercito regolare che lo
affranca dai nobili. Per le peculiarità siciliane, era indispensabile un
registro feudale: la corte si adoperò per una riedizione critica. Vedremo come
i del Carretto devono fornire carte e prove per far valere la loro titolarità
del feudo di Racalmuto ... e sobbarcarsi a pesantissimi oneri finanziari. Per
di più Martino dichiarò abrogate le clausole del trattato del 1372 e si
dichiarò Rex Siciliae. Approfittando di uno scisma del papato,
ripudiò la signoria feudale del papa e ribadì il proprio diritto al titolo di
legato apostolico, che comportava la potestà di nominare vescovi e di
sovrintendere alla chiesa siciliana.
Il
re convocò due parlamenti a Catania nel 1397 e a Siracusa nel 1398: riprendeva
la peculiare tradizione parlamentare di Sicilia che si era interrotta nel 1350.
Le assemblee convocate da Martino testimoniavano che era ritornata un’autorità
centrale. Il parlamento presentò una petizione al re perché nominasse meno
catalani in posti nevralgici e perché applicasse leggi siciliane e non quelle
aliene di Catalogna.
Martino
I rimase fortemente sotto l’influenza di suo padre anche quando quest’ultimo
divenne re d’Aragona. Martino il vecchio continuava a sorvegliare
l’amministrazione della Sicilia fin nei più minuti aspetti. Questa sudditanza
attira ancora l’attenzione degli storici che ne danno spiegazioni persino di
sapore psicanalitico. Scrive Denis Mack Smith «Martino, perciò, rimase più un
infante d’Aragona che un re di Sicilia, e fu in qualità di generale spagnolo
che, nel 1409, guidò una spedizione a spese siciliane per domare una
insurrezione in Sardegna.» [10] Martino il
giovane trovò la morte proprio in Sardegna e la Sicilia finisce in successione
insieme ad ogni altra proprietà personale al vecchio Martino: le corone di
Aragona e di Sicilia perdono ora ogni distinzione, si ritrovano così nuovamente
riunificate. Ancora lo Smith: «Non si verificarono nuovi Vespri per dimostrare
che questo era sgradito, né vi furono molti segni di malcontento, sia pure di
minore rilievo, poiché una parte sufficiente della classe dirigente era ormai o
di origine spagnola o legata da interessi materiali alla dinastia aragonese.
Durante l’unico anno in cui Martino II regnò, la Sicilia fu perciò governata
direttamente dalla Spagna.» [11]
[1])
Leonardo Sciascia: Un pittore del profondo sud, in Leonardo Sciascia e Malgrado
Tutto - Editoriale «Malgrado Tutto» - Racalmuto 1991, pag. 21 e segg.
[2]
) G. A. Silla - Finale dalle sue origini all’inizio della dominazione spagnola
- Cenni e Memorie - Finalborgo 1922, pag. 93.
[3]
) G. Pipitone-Federico - I Chiaramonti di Sicilia - Appunti e documenti -
Palermo 1891, pag. 14.
[4]
) Illuminato Peri, La Sicilia dopo il Vespro, op. cit., pag. 176.
[5]
) I. Peri - La Sicilia dopo il Vespro, .. op. cit. pag. 235.
[6]
) J. Glénisson: Documenti dell’Archivio Vaticano relativi alla collettoria di
Sicilia (1372-1375) in Rivista di Storia della Chiesa in Italia II - Roma 1948, p. 246 e ss.
[7])
Vincenzo D’Alessandro - Politica e società nella Sicilia aragonese - U.
Manfredi Editore - Palermo 1963, pag. 108.
[8]
) Vincenzo D’Alessandro - Politica e società nella Sicilia aragonese - U.
Manfredi Editore - Palermo 1963, pag. 120.
[9]
) Vincenzo D’Alessandro - Politica e società nella Sicilia aragonese - U.
Manfredi Editore - Palermo 1963, pag. 121.
[10]
) Denis Mack Smith - Storia della Sicilia medievale e moderna - Bari 1972, vol.
I pag. 115.
[11]
) Denis Mack Smith - Storia della Sicilia medievale e moderna - Bari 1972, vol.
I pag. 116.
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