lunedì 14 marzo 2016


Calogero Taverna

 

 

La signoria racalmutese dei Del Carretto

 
 
Editore: INFOTAR s.r.l. Racalmuto 1999


Introduzione


 

 

Forse risponde al vero che un tale Antonino del Carretto, un avventuriero ligure, ebbe a circuire la giovane Costanza Chiaramonte e farsi da questa sposare - lui vecchio e prossimo a morire - spendendo l’altisonante titolo di marchese di Finale e di Savona al sorgere del turbolento secolo XIII. Forse davvero Costanza Chiaramonte, figlia primogenita dell’arrampante cadetto Federico II Chiaramonte, era bella, anzi bellissima - secondo quel che la pretesca fantasia del pruriginoso Inveges ci ha propinato nella sua Cartagine Siciliana. Forse davvero il matrimonio fu fecondato dalla nascita di un ennesimo Antonino del Carretto. Forse è attendibile che - non tanto la baronia di Racalmuto, di sicuro inesistente a quel tempo - ma almeno fertili lembi di terra alla Menta, a Garamoli, al Roveto furono dati in dote come beni “burgensatici” da Federico II Chiaramonte a codesto nipotino, mezzo siculo  e mezzo ligure. Il solito Inveges lo attesta: ma era un falsario come il grande storico Illuminato Peri ampiamente dimostra.

Di questi oscuri esordi della signoria dei del Carretto su Racalmuto, quel che di certo abbiamo è un processo d’investitura - la cui datazione sicura deve farsi risalire al 1400 - che il prof. Giuseppe Nalbone, solo negli anni ’Novanta di questo secolo ha avuto il destro di riesumare dai polverosi archivi di Stato di Palermo.

 Scopo, intento, occorrenza ed altro di quel processo d’investitura sono talmente trasparenti e svelano in modo così esplicito la voglia di accreditare titoli nobiliari dinanzi gli Aragonesi che resta particolarmente ostico travalicare  i limiti di una fioca credibilità verso quel vantare ascendenze altisonanti da parte di Giovanni, figlio del cadetto Matteo del Carretto. Matteo del Carretto era un rapace esattore delle imposte dei Martino e costoro erano i noti avventurieri dell’ “avara povertà di Catalogna” che piombarono sull’imbelle Sicilia allo spirare del XIII secolo.

A noi - racalmutesi - quegli intrighi matrimoniali esattoriali predatori e via discorrendo interessano perché sono la nostra storia, quella vera e non quella oleografica che dal Tinebra Martorana ai vari storici locali, non escluso Leonardo Sciascia, sembra deliziare i nostri compaesani e deliziarli tanto maggiormente quanto più cervellotico è il costrutto fantasioso.

Giuseppe Nalbone ha speso tempo e denaro per raccogliere presso gli archivi di Palermo la documentazione veridica sui del Carretto. Quella documentazione più vetusta ed originale - la documentazione dei processi d’investitura - viene qui riprodotta, sia pure nell’interno dell’accluso cd-rom. Carta canta e villan dorme: non si può fantasticare quando ostici diplomi vengono - ed è arduo - disvelati. Addio del Carretto alle prese con vergini violate prima di passare a giuste nozze per un inesistente ius primae noctis; addio servi fedifraghi strumenti di uxoricidi a comando di principesche padrone dalle propensioni all’adulterio irridente con i propri giovani stallieri; addio frati omicidi; addio preti in “alumbramiento”; addio terraggi e terraggioli vessatori; addio secrete ove innumeri villici sparivano e morivano come cani. Addio storielle che Tinebra e Messana ci hanno fatto credere come verità inoppugnabili. Addio moralismo sciasciano.

Un quadro - ora inquietante, ora banalmente normale, ora esplicativo, ora feudalmente complesso - affiora con tasselli variamente policromi a testimoniare una vita a Racalmuto sotto il dominio dei baroni del Carretto che verso la fine del Cinquecento dopo un paio di secoli di egemonia (a dire il vero spesso illuminata) hanno voglia di farsi attribuire un’arma ancor più prestigiosa, di farsi nominare conti di Racalmuto, mancando però l’obiettivo di aver riconosciuto titolo di marchesato. E proprio codesto titolo avevano fasullamente in esordio contrabbandato. 

Certo se Eugenio Napoleone Messana aveva in qualcuno fatto sorgere un familiare orgoglio per un nobile matrimonio tra Scipione Savatteri ed un’improbabile figlia dei del Carretto, la documentazione che andiamo a pubblicare spazza via ogni briciola di credibilità di una tale ingenua farneticazione.

 E quel che si scrive su data e struttura del Castello chiaramontano svanisce miseramente, come diviene commiserevole ogni sicumera sulla storia del Castelluccio.

Già, carta canta e villan dorme!

 


 


PERCHE' UNA STORIA SUI DEL CARRETTO


 

 

Astrette in un paio di pagine sono godibili le riflessioni terminali (1984) di Leonardo Sciascia ([1]) su tutta la storia racalmutese.  Desolato il quadro: per lo scrittore è flebile l'eco dell’antica 'dimora vitale', che si amplifica forse una sola volta quando Racalmuto «piccolo paese, 'lontano e solo', come sperduto nel Val di Mazara, diocesi di Girgenti , ... dall'oscurità di secoli emerge, nella prima metà del XVII, a una vita che Américo Castro direbbe 'narrabile' .... grazie alla simultanea presenza di un prete che vuole una chiesa 'bella' e vi profonde il suo denaro, di un pittore, di un medico, di un teologo; e di un eretico.» Di solito, invece, «per secoli, vita appena 'descrivibile', nell'avvicendarsi di feudatari che, come in ogni altra parte della Sicilia, venivano dal nord predace o dalla non meno predace 'avara povertà di Catalogna'; col carico di speranze deluse e delle rinnovate e a volte accresciute angherie che ogni nuova angheria apportava.»

Sull'altipiano solfifero ebbe quindi a trascorrere un’oscura, millenaria vicenda umana; ma era una 'vita pur sempre tenace e rigogliosa che si abbarbicava al dolore ed alla fame come erba alle rocce'.

Promana quasi un monito a non indugiare sulle araldiche traversie dei signori di Racalmuto. Eppure noi si accingiamo ugualmente a scrivere sui del Carretto ed altri feudatari locali. Abbiamo rovistato a lungo negli archivi (dalla locale matrice al lontano archivio segreto del Vaticano; da Agrigento ai ponderosi fondi di Palermo); abbiamo rinvenuto carte, documenti, diplomi, testamenti, codicilli che una qualche luce nuova la proiettano sul vivere feudale dei racalmutesi. Tanto ci pare sufficiente a superare remore e riserbi.

L'avvicendarsi dei feudatari è stato sinora narrato dagli eruditi locali con topiche, errori, guazzabugli: correggerli alla luce dei documenti d'archivio un qualche valore dovrebbe pure rivestirlo. Incapperemo sicuramente anche noi in sviste ed abbagli: consentiremo, così, ad altri il gusto di rettificarci. Niente è più proficuo dell'errore, quando provoca ulteriori ricerche. Il silenzio equivale al nulla: è sintomo d'accidia, uno dei sette peccati capitali, almeno per i cattolici.

 

*   *   *

 

Sui del Carretto di Racalmuto è reperibile una folta letteratura, specie fra storici ed eruditi del Seicento; ma solo Sciascia (vedansi Le parrocchie di Regalpetra e Morte dell'inquisitore), scavalcando il vacuo curiosare araldico, scandaglia gli amari gravami di quella signoria feudale. Peccato che il grande scrittore si sia voluto attenere, sino alla fine dei suoi giorni, ai dati cronachistici dell'acerbo Tinebra Martorana. Finisce, così, col dare fuorviante credibilità a vicende inventate o pasticciate.


PARTE PRIMA


 


RAPIDA STORIA RACALMUTESE FINO ALL’ASSUNZIONE DEL TITOLO DI CONTE DA PARTE DEI DEL CARRETTO


 


 

Dalle brume dell’archeologia locale affiora, flebile ma con contorni alquanto netti, l’insediamento sicano di quattromila anni fa lungo l’intero arco collinare sud est e sud ovest racalmutese.

Verso il 13° secolo a.C., quella civiltà sembra eclissarsi, forse per l’esodo, dovuto a paura dei naviganti micenei, verso le più protettive montagne di Milena, Bompensiere e Montedoro.

Arrivano quindi i greci, ma Racalmuto è ancora deserta ed impervia per attirare i coloni agragantini. Solo attorno al VII secolo la moneta con il granchio di Agragas sembra far capolino nelle fertili plaghe del nostro altipiano. Poi, si diventa meri subalterni della potente polis, così come per tutta l’epoca romana.

Tra il II ed il IV secolo d.C., da Commodo in poi, le risorse solfifere vengono apprezzate e sfruttate, come stanno a documentare le tegulae o tabulae sulfuris, che l’avv. Giuseppe Picone ebbe la ventura di scoprire per primo allo spirare del secolo scorso.

Ai tempi del declino dell’Impero romano, la feracità del suolo racalmutese pare avere attirato sia pure fugacemente le brame espoliatrici di Genserico e dei suoi Vandali; ma tocca ai Bizantini stabilire insediamenti significativi in località Grotticelle e dintorni. Monete di Tiberio II e di Heracleone saranno poi rinvenute, nel 1940, in contrada Montagna, ma per caso ed in luogo che all’epoca era sicuramente disabitato: un nascondiglio, dunque, sicuro e lontano da occhi indiscreti.

Giungono gli Arabi: sono guerrieri, disdegnosi di sede fissa, violenti e ladroni. A Racalmuto trovano ben poco e subito si dileguano. Subentrano i Berberi, contadini e pacifici: ebbero forse a convivere con i mansueti bizantini del luogo.

I Normanni del Conte Ruggero - 600 cavalleggeri, pare - depredarono il territorio dell’altipiano ove si presume sorgesse un imprecisato Racel... a dire del Malaterra. Nell’XI secolo, il gaito saraceno Chamuth, signore della vicina Naro, potrebbe avere avuto il dominio del nostro Altipiano e forse vi eresse un fortilizio, un Rahal: da qui il toponimo Rahal Chamuth, a seguire l’acuta congettura del Garufi.

I Saraceni furono, specie sotto Federico II, ribelli e violenti: imprigionarono persino il vescovo agrigentino Ursone. Federico II non fu tenero nei loro confronti, deportò a Lucera i caporioni; gli altri - i più pavidi ed i meno appariscenti - si dispersero assumendo nomi latineggianti o fingendo antica professione di fede cattolica.

Per uno o due decenni Racalmuto rimase comunque deserta. Un tale della famiglia Musca - dicono Federico Musca - poté appropriarsi del territorio, portarvi fuggiaschi, verosimilmente ex saraceni, dotarli di terra e mezzi di lavoro e far sorgere un nuovo casale. Il suddetto Federico Musca finì però con l’osteggiare il vincitore Carlo d’Angiò e costui lo spogliò del casale assegnandolo nel 1271 a tal Pietro Negrello di Belmonte: un diploma degli archivi angioini  ne specificava - prima di esser distrutto dai nazisti nel 1943 - termini, modalità e dettagli.

Finiva, per altro verso, quella che possiamo considerare la preistoria racalmutese: un periodo buio ed incerto che ebbe a protrarsi per 3271 anni. Quel che per tal periodo si è scritto - ed è tanto ed anche dalla penna più illustre del luogo - è solo cervellotica congettura. Possiamo solo credere a quei radi reperti archeologici di cui si ha conoscenza ed a quel poco, spesso nulla, che riescono a svelarci di tanto defluire umano degli antichi racalmutesi.

Con il Vespro Siciliano, il casale di Racalmuto acquisisce importanza e ruolo perché può fornire tasse e balzelli alla famelica pirateria di un Pietro d’Aragona. Il centro abitato non contava più di 75 fuochi (circa 265 abitanti). Nel 1376 i fuochi erano aumentati a 136 (circa 480 abitanti). Frattanto, Racalmuto - a dire del Fazello - era stato requisito da Federico di Chiaramonte che pare vi abbia costruito le torri del castello nella prima decade del 1300. Si sa che Costanza Chiaramonte, unica figlia di Federico, fu l’erede universale. Che abbia sposato prima il girovago ligure Antonio del Carretto e poi, divenuta vedova, l’avventuriero Brancaleone Doria - forse quello dannato all’inferno da Dante - si dice e qualche documento degli archivi di Stato palermitani sembra confermarlo. Resta comunque certo che sino al 1396 Racalmuto è dominio dei Chiaramonte, in particolare del celebre figlio illegittimo Manfredi Chiaramonte - lo attestano le carte dell’Archivio Segreto Vaticano.

Tocca a Matteo del Carretto rimpossessarsi del feudo, farne una baronia e farsene riconoscere titolare dal re Martino, naturalmente previo esborso di sonanti once. Il figlio Giovanni primo del Carretto è ancor più rapace del padre.

Nel 1404, Racalmuto è ancora fermo a 150 fuochi (540 abitanti). Un secolo dopo nel 1505, al tempo della “venuta” della Madonna del Monte, la sua popolazione sale a 473 fuochi (1670 abitanti). Ora domina il barone di Racalmuto Ercole del Carretto. Il figlio Giovanni II esordisce con un delitto: commissiona a tal Giacchetto di Naro la strage dei Barresi di Castronuovo per vendicare l’uccisione del fratello Paolo, antenato di Vincenzo di Giovanni che nei primi decenni del 1600 scriverà una complessa trattazione su Palermo Restaurato, ove rammenterà quei truci e letali eventi. Dopo, rimorsi e crisi religiose spingeranno quel del Carretto a costruire chiese e conventi ed a chiamare a Racalmuto carmelitani e francescani per una redenzione spirituale sua e del suo popolo. Certo, mero e misto imperio, terraggio e terraggiolo ed una pletora d’imposte e tasse feudali fioccarono sui racalmutesi. Un notaio venne chiamato da Agrigento per i tanti atti del barone (e dei suoi vassalli): era quel tale Jacopo Damiano che alla morte di Giovanni II del Carretto finì sotto l’Inquisizione.

A metà del secolo, nel 1548, la popolazione sale a n.° 896 fuochi (3163 abitanti), segno che la politica del barone non era poi così devastante come sembra voler far credere Leonardo Sciascia.

Quello che non fa il barone, lo fa invece la peste del 1576: la popolazione racalmutese viene decimata. Se crediamo ad un documento del fondo Palagonia, dai 5279 abitanti del 1570 si sarebbe passati ad appena n.° 2400 abitanti nel 1577. Ciò non è credibile e si deve alla voglia tutta fiscale di impietosire il viceré per una contrazione delle “tande” in mora e di quelle in atto. Di sfuggita, va detto che la tentata evasione fiscale del 1577 non ebbe effetto. Le “tande” si basavano sulla tassa del macinato: la drastica contrazione della popolazione non consentiva un gettito bastevole a fronteggiare la soffocante tassazione del governo spagnolo. Questo non ebbe pietà e la Universitas fu costretta ad indebitarsi con gli stessi esattori, al contempo strozzini.

Sia come sia, nel 1593 Racalmuto sembra risorta: gli abitanti ora sono in numero di 4448: ovviamente molti fuggiaschi erano rientrati e, soprattutto, si doveva trovare conveniente emigrare dai centri viciniori per sistemarsi nella neo-contea di Racalmuto, le cui condizioni sociali, economiche e giuridiche in definitiva tornavano appetibili.

 

 

 


 

 

 

Dalle brume degli esordi racalmutesi della schiatta dei del Carretto affiora qualche piccola scisti: chi fosse davvero quell’Antonio I del Carretto che da Savona giunge ad Agrigento per sposare Costanza, quest’unica figlia del cadetto Federico Chiaramonte, non sappiamo. Possiamo escludere ogni effettiva egemonia sul feudo di Racalmuto. Non sappiamo neppure se il figlio Antonio II del Carretto sia stato davvero investito della baronia o se, alla morte di Matteo Doria, il titolo sia pervenuto ai carretteschi. E ad investigare sugli intrecci nobiliari di quel tempo, ci perderemmo in congetture di nessuna fondatezza storica. Il padre Caruselli, Tinebra Martorana, Eugenio Napoleone Messana, questo l’hanno già fatto e chi prova diletto nelle fantasiose enfiature araldiche può farvi ricorso.

Di certo sappiamo che esistette un Antonio I del Carretto - andato sposo a Costanza Chiaramonte - e che la coppia ebbe un figlio, Antonio II del Carretto. Vi è una sola fonte e sono le carte dell’investitura di Matteo del Carretto, che, tutte vere o totalmente o parzialmente falsificate che siano, risalgono allo spirare del quattordicesimo secolo, circa 100 anni dopo il succedersi degli eventi.

Quelle carte le abbiamo già citate e vi torneremo in seguito per le nostre esigenze narrative: qui ci basta richiamare l’attenzione sulla circostanza di un  Antonio II del Carretto trasmigrato a Genova (e non a Savona) e lì vi ha fatto fortuna in compagnie di navigazioni. Strano che costui non ritenga di rivendicare la sua quota del marchesato di Finale e Savona e non dare fastidio - neppure con la sua presenza fisica - agli altri coeredi della sua stessa famiglia che continua nell’egemonia di quei luoghi liguri senza neppure un coinvolgimento formale di codesto figlio di un sedicente legittimo titolare.

Non v’è ombra di dubbio che i del Carretto provengano dal marchesato di Finale e Savona: i tre fratelli Corrado, Enrico ed Antonio sembra che si siano divisi quel marchesato in tre parti; a Corrado andò Millesimo, ad Enrico Novello e ad Antonio Finale. Ciò secondo un atto che sarebbe stato stipulato dal notaio Aicardi nel 1268. I tre “terzieri” succedevano, pro quota, al padre Giacomo del Carretto, marchese di Savona e signore di Finale, che è presente dal 1239 al 1263. Sposato con tale C... contessa di Savona, morì nel 1263. [2]

Su Antonio del Carretto, il Silla fornisce questi ragguagli: «marchese di Savona e signore di Finale, conferma il decreto del padre emesso nel 1258 circa l’abitato in Ripa-Maris; fiorì nel 1263; nel 1292 stipula ancora le famose convenzioni con Genova. Da Agnese ebbe Enrico, che sposa Catterina dei M.si di Clavesana; Antonio che sposa Costanza di Chiaramonte.» Se bene intendiamo quell’autore, Antonio Senior del Carretto avrebbe generato anche Giorgio che diviene marchese di Savona e signore di Finale. E’ presente nel 1337, anno in cui gli uomini di Calizzato gli prestarono giuramento di fedeltà. Ottenne l’investitura dei feudi nel 1355. Da Venezia del Carretto ebbe quattro figli dei quali costei appare tutrice nel 1361. Gli succede il figlio Lazzarino I. E’ quindi la volta del nipote Lazzarino II operante alla fine del secolo, come da atto del 1397.

A seguire questa ricostruzione araldica, ben tre Antonio del Carretto si succedono dal 1258 al 1390 c.a. Quello che abbiamo indicato come Antonio del Carretto I - e cioè colui che sarebbe andato sposo a Costanza Chiaramonte - sarebbe in effetti il secondo di tal nome; poi Antonio II,  cui si accredita la prima baronia di Racalmuto.

Ma tornando al nostro Antonio II del Carretto, questi nasce qualche anno dopo il 1307, se crediamo all’Inveges. Diviene orfano di padre molto giovane (poco tempo prima del 1320?). Avrebbe ereditato dalla madre Racalmuto nel 1344 per atto del Notar Rogieri d'Anselmo in Finari à 30 d'Agosto 12. Ind. 1344, stando, sempre, alle notizie dell’Inveges.

L’atto di permuta tra i fratelli Gerardo e Matteo del Carretto vuole codesto Antonio del Carretto emigrato ad un certo punto a Genova, come detto. Là si sarebbe arricchito con partecipazioni in compagnie navali ed altro e là sarebbe morto (forse attorno al 1370).

La svolta del 1374


 

Si accredita autorevolmente la tesi di un Manfredi Chiaramonte, bastardo, nelle cui mani «per via di fortunate combinazioni, si veniva a riunire .. l’ingente patrimonio della casa.» [3] Si afferma che «al 1374 in fatti egli [Manfredi Chiaramonte] ereditava dal cugino Giovanni il contado di Chiaramonte e Caccamo; dal cugino Matteo, al ’77, il contado di Modica; inoltre le terre e i feudi di Naro, Delia, Sutera, Mussomeli, Manfreda, Gibellina, Favara, Muxari, Guastanella, Misilmeri; in fine campi, giardini, palazzi, tenute in Palermo, Girgenti, Messina ...». Racalmuto non viene nominato, ma si dà il caso che in documenti coevi che si custodiscono nell’Archivio Vaticano Segreto anche il nostro paese appare sotto la totale giurisdizione del potente Manfredi.

Nel 1355 dilagò in Sicilia una peste che, «se non fu con certezza peste bubbonica o pneumonica, fu pestilentia nel senso allora corrente di gravissima epidemia». [4] Già vi era stata un’invasione di locuste che provocò forti danni nell’Isola. Racalmuto ne fu certamente colpita, ma pare non in modo grave. Maggiori danni si ebbero per un ritorno dei focolai epidemici, una ventina d’anni dopo. Operava frattanto la scomunica per i riverberi del Vespro. Preti, monaci e bigotte seminavano il panico facendo collegamenti tra le ire dei papi che in quel tempo erano emigrati ad Avignone e la vindice crudeltà della natura: era facile additare una vendetta divina, ed anche il potente Manfredi Chiaramonte era propenso a credervi.

I nostri storici locali raccolgono gli echi di quei tragici eventi ed imbastiscono trambusti demografici per Racalmuto: nulla di tutto questo è però provabile. Un fatto eclatante viene inventato di sana pianta: un massiccio trasferimento, da Casalvecchio all’attuale sito, della residua, falcidiata popolazione.

I traumi che la Sicilia soffrì tra il 1361 ed il 1375 ebbero indubbiamente a coinvolgere Racalmuto, ma in che modo non è possibile documentare su basi certe. Gli scontri tra le parzialità - solo vagamente definibili latine e catalane - continuano a scoppiare nel 1360. L’anno successivo giunge in Sicilia Costanza d’Aragona per sposare Federico I, il quale, sfuggendo a Francesco Ventimiglia che lo teneva sotto sequestro, può solo nell’aprile convolare a nozze in quel di Catania. Manfredi Chiaramonte con 9 galee attacca nel maggio la piccola flotta catalana (6 galee) che aveva scortato Costanza e ne cattura una parte presso Siracusa. Nel 1362 Federico IV si dà da fare per rappacificare e rappacificarsi con i potentati del momento: nell’ottobre ratifica la pace di Piazza fra Artale d’Alagona ed i suoi seguaci da una parte e Francesco Ventimiglia e Federico Chiaramonte (che sono a capo di nutrite fazioni) dall’altra. Nel biennio 1262-1363 si registra una recrudescenza della peste. Nel 1363 muore la regina Costanza. Nel 1364 si riesce a recuperare il piano di Milazzo e di Messina e finalmente nel 1372 si può parlare di pace con gli Angioini di Napoli.

Quando agli inizi del 1373 Palermo e Napoli ebbero per certe le condizioni di pace, divenne più agevole definire il concordato con il papato che manteneva sulla Sicilia il suo irriducibile interdetto.

E qui la minuscola vicenda racalmutese si aggancia ai grandi eventi della storia medievale di quel torno di tempo. Affiora, ad esempio, un nesso tra papa Gregorio XI e la reggenza di Racalmuto nel 1374. Gregorio XII era in effetti Pietro Roger de Beaufort nato a  Limoges nel  1329; morirà a Roma nel 1378. Eletto papa nel 1371, ristabilì a Roma la residenza pontificia ponendo fine alla cosiddetta "cattività avignonese".

E così da Avignone il papa dovette tornarsene a Roma. E’ questo un momento culminante di una gravissima crisi. Ed in questa congiuntura, cade appunto la remissività papale verso la Sicilia. In cambio di un obolo supplementare si può procedere alla revoca di un interdetto, frutto di potenza, arroganza ed al contempo di remissività verso la Francia.

La meridiana della storia passa allora anche per il modesto, gramo paesotto di Racalmuto. Altro che isola nell’isola, scrivemmo una volta in pieno disaccordo con Sciascia.  

Le decime del 1375


 

 

Nel contesto della politica fiscale di papa Gregorio XI un personaggio acquisisce contorni di rilievo e diviene memorabile nell’ambito nostro, cioè della microstoria racalmutese del XIV secolo: Bertrand du Mazel.  Il suo destino si lega a quello della Sicilia ed investe Racalmuto ove si recò il 29 marzo del 1375. La sua carriera in Sicilia si dispiega lungo gli anni dal 1373 al 1375. Svolge diligentemente i suoi compiti e fra l’altro redige come collettore apostolico carte e registri contabili che, conservati negli Archivi del Vaticano, sono giunti sino a noi. Vi troviamo Racalmuto.

La visita in Sicilia (e a Racalmuto) di du Mazel si colloca nel quadro di grandi eventi storici.  In particolare occorre tener presente che all’inizio del 1373, dopo laboriosi negoziati, il re Federico IV di Sicilia e la Regina Giovanna di Napoli concludevano la pace sotto l’egida del papato. Riconosciuto come sovrano legittimo della Trinacria, Federico IV accettava la signoria di Giovanna I, e quella di Gregorio XI. Egli si impegnava a pagare un censo di 3.000 once alla regina che doveva trasmettere alla Santa Sede questo canone. I siciliani erano chiamati a giurare la pace e prestare giuramento di fedeltà al re. La Chiesa riacquistava tutti i diritti e privilegi che godeva prima del Vespro del 1282. Il papa prometteva di levare l’interdetto che gravava nell’isola da lunghi anni.

In Sicilia la percezione di tale sussidio fu decisa prima della ratifica della pace, nel dicembre del 1372; la promessa di abolire l’interdetto è uno strumento di pressione fiscale. Vengono chiamati anche i laici a contribuire. Si decidono modalità di esazione contemplanti censure ecclesiastiche per gli evasori o per i riottosi. Le bolle del dicembre  1372,  chiedendo un aiuto per la lotta contro i nemici della Chiesa in Italia, imponevano che questo venisse dato “prima dell’abolizione dell’interdetto”. Evidente l’intento dissuasivo. In virtù di una clausola apparentemente anodina, i delegati pontifici potevano esigere da chi si voleva liberare dall’interdetto, non solamente il giuramento di rispettare la pace e d’essere fedele al re, secondo i termini del trattato, ma anche un aiuto pecuniario alla Chiesa. Il sussidio “caritativo” e volontario si trasformava in imposta pura e semplice. Bertrand du Mazel non esita a parlare della tassa riscossa “ratione amotionis interdicti”, come nel caso di Racalmuto, ove invero si accenna ancora più esplicitamente ad un  “subsidio auctoritate apostolica imposito. E ci siamo dilungati proprio perché in definitiva ciò ci illumina sulla storia “narrabile” del nostro paese.

Il sussidio fu ripartito in ciascun abitato per case, in rapporto alla condizioni economiche: 1 tarì per le famiglie povere, 2 per le “mediocri”, 3 per le agiate (“qualsiasi fuoco di ricchi abbondanti in facoltà”). Si computarono in ciascuna località metà delle famiglie nella categoria inferiore, ¼ nella mediana, ¼ tra le benestanti: se le condizioni economiche fossero omogenee, sarebbe stata distribuzione equa. Furono esentati i preti, i giudei e i tatari “che sono nell’isola infiniti” e le “miserabili persone” che non era prefigurato quali fossero. [5]

Intensa è la fase preparatoria del sussidio. Il papa scrive a destra e a manca per spingere i notabili siciliani ad accedere alle nuove istanze impositive della Santa Sede. Da Avignone invita, nel 1372, giurati ed università a recarsi presso “Federico d’Aragona” - non lo chiama re - perché lo convincano a fare pace con “la regina di Sicilia”, cioè Giovanna di Napoli. Gli inviti sono mandati a Calascibetta, Licata, Agrigento e Sciacca  (Reg. Vat. 268, f. 295-297).

Il 9 febbraio 1375, da Caccamo, Manfredi Chiaramonte, nella sua qualità anche di ammiraglio di Sicilia ordina ai suoi ufficiali di percepire nelle sue terre il denaro del sussidio dovuto alla Chiesa e di consegnare il frutto della loro raccolta al collettore apostolico che subito toglierà l’interdetto. Il precedente 18 novembre 1374, Manfredi è a Mussomeli nel suo castello che ora si denomina dal suo nome “Manfreda”: là si redige un processo verbale ove si attesta che egli, ammiraglio del regno di Trinacria, presentandosi davanti al re Federico III, gli ha prestato fedeltà e devoto omaggio. Il ribellismo del conte, di illegittimi natali, era dunque rientrato. Al vescovo di Sarlat, nunzio apostolico, che accompagnava il re, Manfredi ha solennemente promesso sul Vangelo di osservare il trattato di pace, come è stato steso nelle lettere reali sigillate con una bolla d’oro e finché il re l’osserva lui stesso. Egli ha promesso di fare versare il sussidio dovuto alla Chiesa dagli abitanti delle su terre di Spaccaforno, Scicli, Modica, Ragusa, Chiaramonte, Comiso, Dirillo, Naro, Delia, Montechiaro, Favara, Racalmuto, Guastanella, Muxaro, Sutera, Gibellina, Castronuovo, Mussomeli, Camastra, Bivona, Prizzi, S. Stefano, Caccamo, Misilmeri, Cefalà, Palazzo Adriano, Calatrasi, Cazonum (?), Camarina, la torre di Capobianco, Pietra Rossa e Misilendino. Osserva il Glénisson: «si è potuto dire delle proprietà dei Chiaramonti che esse formavano un piccolo regno nel grande. Le proprietà di Manfredi Chiaramonte colpiscono veramente per la loro estensione. Esse sono distribuite in quattro gruppi principali: 1) Esse comprendono buona parte dell’attuale provincia di Ragusa, con Ragusa stessa, Modica, Spaccaforno, Scicli, Comiso, Camariano, Dirillo; 2) Nella regione di Agrigento e di Caltanissetta, Manfredi possiede Mascaro, Racalmuto, Montechiaro, Camastra, Naro, Delia, Favara, Sutera. 3) Le località del centro: Mussomeli, S. Stefano, Castronuovo, Prizzi, Cefalà, Palazzo Adriano ... 4) Le proprietà della regione di Palermo: Misilmeri, Caccamo ...» [6]

Dalla lettera circolare che Manfredi Chiaramonte dirama da Caccamo il 9 febbraio 1375 riusciamo a cogliere alcuni tratti della veridica storia di Racalmuto: esclusa ogni effettiva ingerenza dei del Carretto, il casale è evidentemente assoggettato al Chiaramonte, nell’occasione conte di Chiaramonte, signore e ammiraglio del regno di Trinacria. L’Universitas ha un suo governo locale che fa capo ad un capitano, ad un baiulo, a dei giudici, a degli ufficiali subalterni ed ha una popolazione che costituisce un soggetto giuridico (universi homines). Rientra tra le terrae nostrae, cioè di Manfredi. Se dovessimo credere agli araldisti (ed agli storici locali), Racalmuto sarebbe dovuta essere terra di Antonio II del Carretto; ma così non è.

 

Le singole università devono nominare tre probiviri (tri boni homini) cui si demanda il poco gradito compito di spillare denari a tutti gli abitanti (nelle diverse misure che prima abbiamo detto). Non sappiamo chi siano stati i prescelti di Racalmuto: ma sappiamo che vi furono e svolsero a puntino la ficcante tassazione.

L’elenco delle università ha una sua logica: Racalmuto si trova in mezzo ad un itinerario che, partendo da Gela (Terranova) punta su Naro, da qui a Delia e da lì si torna a Favara (ammesso che si tratti dell’attuale Favara e non di un centro nel nisseno); da Favara a Palma di Montechiaro, quindi a Licata per convergere sul nostro Racalmuto. Da qui a Guastanella (una rocca sul monte omonimo a poco più di 2 km. A Nord di Raffadali), per toccare S. Angelo Muxaro. Da qui per una località vicina: Gibillini (Glubellini) che non può essere Gibellina (come si ostinano a dire anche storici di alto livello) ma che potrebbe essere davvero il nostro Castelluccio, al tempo chiamato Gibillini. Se è così, la storia del paese si arricchisce di un altro importante tassello. Da Gibillini si va a Sutera e quindi a Mussomeli. Si passa a Camastra. Ma subito dopo tocca a Castronuovo e quindi a Bivona, Santo Stefano, Prizzi, Palazzo Adriano. E’ allora la volta di Caccamo e di altri centri, ma a questo punto il nostro interesse per la dislocazione trecentesca dei paesi si eclissa.

Fin qui si è trattato di maneggi burocratici: ora è il tempo delle tasse vere. L’arcidiacono du Mazel decide di tassare l’agrigentino a partire dai primi di marzo del 1375. Inizia da Palma di Montechiaro (6 marzo);  il 18 dello stesso mese può togliere l’interdetto a Bivona; il 19 a Santo Stefano; il 20 a Pietra d’Amico; il 21 a S. Angelo Muxaro; il 29 a Guastanella.

Lo stesso giorno è la volta di Racalmuto.  Dal nostro paese si passa a Castronuovo (8 aprile 1375). La raccolta del sussidio s’interrompe e verrà ripresa l’8 giugno con la rimozione dell’interdetto che incombeva su Castellammare del Golfo: altra regione, lontana da Agrigento. Per noi ha particolare rilievo ovviamente Racalmuto.

Disponiamo di un paio di annotazioni che riguardano il nostro paese e che naturalmente svelano tratti storici diversamente ignoti. Il Reg. Coll. N. 222 dell’Archivio Segreto Vaticano ci degna della sua attenzione al foglio 249 con questa nota:

«Item eadem die fuit amotum interdictum in casali Rahalmuti dicte Diocesis in quo fuerunt domus coperte palearum CXXXVI que ascendunt et quas habui VII uncias XXVII tarinos.» Traducendo: «Del pari lo stesso giorno (29 marzo 1375) fu rimosso l’interdetto nel casale di Racalmuto della predetta diocesi, nel quale furono rinvenute 136 case coperte di paglia; queste hanno reso una tassa da me percetta che ascende ad onze 7 e 27 tarì.» Essa andava così ripartita:

 
 
quota individuale
totale in tarì
pari ad onze
e tarì
numero fuochi
136
 
238
onze 7
tarì 28   
ceto medio (1/4)
34
2 tarì
68
 
 
benestanti (1/4)
34
3 tarì
102
 
 
poveri (1/2)
68
1 tarì
68
 
 

 

 Con i suoi 136 fuochi Racalmuto aveva dunque una popolazione abbiente di circa 544 (in media 4 componenti per ogni nucleo familiare): ma bisogna considerare i non abbienti (i miserabili), i preti (tassati a parte), gli ebrei, gli immancabili evasori e quelli che dispersi per le campagne non era possibile includerli nel censimento; un venti per cento, come abbiamo calcolato per l’analoga tassazione del Vespro. Nel 1375 Racalmuto contava dunque circa 650 abitanti.

Come si è visto le case erano di paglia: segno di grande indigenza. Eppure i racalmutesi o per solerzia degli scherani pontifici o per vero timore di Dio (e della peste) furono solerti e puntuali nel dare il sussidio caritativo al papa. Non così in altre zone della Sicilia, come ebbe a lamentarsi quello straniero di Francia, Bertrando du Mazel.

Le carte del du Mazel non vanno minimamente confuse con rilievi censuari. Abbiamo solo numeri simboli da cui possiamo dedurre solo qualche ipotesi di lavoro di carattere demografico. Non è dato asserire che nel 1375 a Racalmuto vi erano davvero 136 case con tetto a paglia; che 34 di queste (1/4) erano abitate da benestanti in grado di corrispondere la tassa pontificia in misura massima (3 tarì a fuoco); che altre 34 appartenevano a ceti medi (tassati per 2 tarì a famiglia); la metà (n.° 68) ospitava famiglie di dignitosi coltivatori e mastri, in grado solo di corrispondere il minimo (1 tarì per ogni nucleo). Evidente è la tecnica della tassazione induttiva, per stima aprioristica. Certamente in misura più limitata dovette essere la densità delle famiglie veramente facoltose. Più estesa quella del ceto medio; ancor più vasta quella della classe che oggi chiameremmo operaia. E poi i tanti religiosi (tassati a parte, come rivelano le stesse carte del du Mazel), i “miserabili” (nullatenenti e non imponibili per legge o per dato di fatto), gli irrecuperabili che si occultavano nelle vicine zone inaccessibili o nei contigui boschi all’epoca molto folti, coloro che con gli armenti vivevano in stato di relativo benessere ma al di fuori di ogni reperibilità impositiva. Possiamo, però, dire che almeno 136 fuochi c’erano davvero a Racalmuto nel 1375, che il centro (snodantesi negli scoscesi avvallamenti sotto le grotte dell’odierno Calvario Vecchio) raccoglieva non meno di 600 abitanti; che tutto considerato non si può andare oltre il numero di mille abitanti (ricchi e poveri, tassati ed esenti, stanziali e saltuari, preti e “miserabili”): una popolazione già falcidiata dalle tante ondate della ricorrente peste trecentesca ed ancora non incisa dagli sconvolgimenti che con l’avvento dalla Catalogna del duca di Montblanc ebbero a verificarsi, come vedremo.

Racalmuto alla fine del Trecento


 

 

L’ultimo quarto di secolo coinvolge la Sicilia in un groviglio di eventi più narrati che spiegati. Sono mutamenti genetici dell’intero tessuto sociale e politico siciliano: sono sconvolgimenti del periferico fluire della vita paesana racalmutese. Storia del paese e storia di Sicilia hanno ora un tale contiguità da rasentare la coincidenza. Non è questa la sede per affrontare l’intero ordito storico siciliano di quel torno di tempo, ma un qualche aggancio si rende indispensabile.

Il 27 luglio 1377, a 36 anni, moriva Federico IV, quello della diplomatistica avignonese coinvolgente la tassazione papale di Racalmuto. Secondo gli storici, quella morte avveniva tra l’indifferenza del ceto nobile.

Il regno passa alla figlia Maria - troppo giovane e troppo inesperta per essere regina sul serio - ma solo pro forma visto che è Artale I Alagona a succedere nella gestione del potere regio come Vicario. Ciò è per volontà testamentaria del defunto re. L’Alagona non si reputa sicuro e chiede subito l’appoggio, in un convegno a Caltanissetta, degli altri maggiori baroni Manfredi III Chiaramonte, Francesco II Ventimiglia e Guglielmo Peralta.

La vita riprendeva apparentemente normale, ma trattavasi di fittizia regolarità. In effetti si aveva una equiparazione dei poteri fra costoro e cioè fra i cosiddetti quattro Vicari: il governo del regno isolano era in mano loro. Per Racalmuto non cambiava alcunché dato che da tempo era assoggettato a Manfredi Chiaramonte. Pensare ad una qualche influenza dei del Carretto, oltreché storicamente non documentabile, sembra esulare da ogni logica: tutto lascia trasparire che costoro se ne stessero ancora a Genova a curare i nuovi loro affari in seno a compagnie marittime.

Racalmuto scade però in una vera e propria terra feudale «ove tutto era il signore: la legge e la giustizia, l’economia e la vita sociale.» [7] Solo che il signore era Manfredi Chiaramonte e non certo i del Carretto.

La tregua cessa con l’insorgere di un nuovo personaggio: il conte di Augusta Guglielmo III Moncada: riesce costui a strappare dalla sorveglianza degli alagonesi, dal castello Ursino di Catania, la regina Maria. Il conte ha l’appoggio di Manfredi III Chiaramonte. La regina viene mercanteggiata come un oggetto da baratto. Le trattative sono con Pietro IV d’Aragona, il quale viene messo alle strette, non lasciandogli altra via che quella di una spedizione in Sicilia per riannetterla alla monarchia iberica.

Rientrava in scena la chiesa di Roma: Urbano VI (1378-1389), attraverso gli arcivescovi di Messina e Monreale e il vescovo di Catania, sobillava i nobili siciliani in contrapposizione agli intenti della corte aragonese.

Ribolliva l’intrico di corte spagnola con il dissidio fra re Pietro ed il primogenito Giovanni che ricusava le nozze con la regina Maria per amore di Violante di Bar. Il re Pietro finiva allora col pensare all’Infante Martino per dar corpo alle pretese sulla Sicilia: un matrimonio fra l’omonimo figlio dell’Infante Martino con la regina Maria avrebbe consentito una sostanziale riappropriazione della Sicilia, anche se formalmente sarebbero rimaste distinzioni ed autonomie. In tale quadro, toccava al vecchio Martino curare gli affari di Sicilia della corte aragonese. Fervono quindi i preparativi per una spedizione militare. Tanti sono i maneggi tra i nobili e Martino il Vecchio. Nel 1382 Filippo Dalmao di Rocaberti riesce senza ostacoli a liberare dall’assedio  Maria e portarla in Sardegna, pronta per le nozze con il figlio di Martino.

Nel 1389 moriva Artale I Alagona, considerato il capo della “parzialità” catalana. Per l’Infante Martino quella morte suonava di buon auspicio. Fin qui i rapporti tra l’emissario spagnolo e Manfredi Chiaramonte possono dirsi del tutto amichevoli e consociativi.

Morto anche Pietro IV (gennaio 1387), succedeva Giovanni con il quale si iniziava un periodo di scabrosi movimenti in seno al regno: tra l’altro veniva riconosciuto l’antipapa Clemente VII (1378-1394) e di conseguenza scoccavano la scomunica e l’opposizione della Chiesa di Roma e del papa legittimo Urbano VI. L’Infante Martino era però ora tutto dalla parte del fratello asceso al trono.

Nel 1389, allo scoppio di tumulti in Sardegna, il vecchio Martino, nuovo duca di Montblanc, si adoperò subito per il trasferimento della regina Maria in Aragona. Cresceva frattanto la posizione egemone di Manfredi Chiaramonte. Il duca di Montblanc, anche se scemavano le difficoltà d’Aragona, non trascurava di apprestare un’armata che egli concepiva comunque necessaria all’insediamento del figlio sul trono di Sicilia. Ma le forze della Corona aragonese non sembravano atte a finanziare quel progetto. Nel 1390, ad ogni modo, si potevano celebrare a Barcellona le nozze tra il giovane Martino e Maria, evento nodale della storia di Sicilia.

Si giunge così al 1391 quando nel marzo viene a morire Manfredi III di Chiaramonte, personaggio di grossa statura politica e gran signore di Racalmuto. Sul suo successore e su altri nobili di Sicilia, punta il nuovo pontefice romano Bonifacio IX (1389-1404): si rassoda un movimento isolano tendente a contrastare gli scismatici aragonesi. Le vicende della Chiesa romana si riflettono dunque anche sulla periferica terra di Racalmuto. In quell’anno si dava incarico al giurisperito Nicolò Sommariva di Lodi «per frenare le bramosie dei magnati e coagulare attorno agli arcivescovi di Palermo e Monreale un fronte d’opposizione ai Martini.» [8]

Nel frattempo Martino raccolse un esercito promettendo feudi e vitalizi in Sicilia a spagnoli impoveriti e scontenti. Barcellona e Valenza aderiscono con generosità ed entusiasmo al progetto martiniano. Una famiglia avrà poi fortuna a Racalmuto: la denomineranno “Catalano”, in evidente collegamento a quel lontano approdo dalla Catalogna. Ai nostri giorni, gli ultimi eredi diverranno personaggi di inobliabile folklore. Chi non ricorda Tanu Bamminu? Pochi rammentano che il cognome era appunto “Catalano”. Ai tempi in cui il padre di Marco Antonio Alaimo era apprezzato medico racalmutese (fine del ‘500) i Catalano, ottimati rispettati, abitavano proprio all’incrocio tra l’attuale corso Garibaldi  e la strada intestata al celebre medico racalmutese.

Nel 1392 gli spagnoli sbarcarono finalmente in Sicilia, guidati dal loro generale Bernardo Cabrera. Due dei quattro vicari passarono subito dalla parte dei conquistatori: anche in Sicilia ed anche a quel tempo il vizietto tutto italico di correre in soccorso dei vincitori - avrebbe detto Flaiano - era piuttosto diffuso. Ma Andrea Chiaramonte - succeduto a Manfredi Chiaramonte - continuò a credere nel Papa e nella possibilità di resistere ai catalani. Asserragliatosi a Palermo, resistette per un mese agli attacchi spagnoli. Racalmuto venne coinvolto nelle azioni di guerriglia con distruzioni, fughe in massa, ribellismi, violenze, grassazioni, furti e ladroneschi. Palermo finì con l’arrendersi ed Andrea Chiaramonte fu decapitato. Le sue vaste proprietà furono arraffate da nuovi nobili. E qui rispunta finalmente la famiglia del Carretto che, prima a fianco dei Chiaramonte e subito dopo a sostegno del vittorioso Martino, si riappropria (o si annette?) Racalmuto e dà  inizio al lungo periodo della sua baronia storicamente documentata.

Si dissolveva così il quadro politico che si era riusciti a stabilire il 10 luglio 1391 quando si era celebrato il convegno di Castronuovo in cui si era giurata fedeltà alla regina Maria ma in opposizione al giovane Martino non riconosciuto né legittimo sovrano né legittimo marito. Allora i vicari, fautore il Chiaramonte, erano ancora uniti. Ma non passò neppure lo spazio di un mattino ed ecco alcuni convenuti iniziare intese occulte con il duca di Montblanc, «del quale, evidentemente, si volevano forzare progetti e profferte; e più di prima isolatamente procedevano tali patteggiamenti che rinnegavano i giuramenti. Era del 29 luglio la risposta [stracolma di suasive profferte] ad Antonio Ventimiglia ed a Bartolomeo Aragona che avevano mandato un’ambasceria.»  [9]  Bartolomeo Aragona di lì a poco riappare nella diplomatistica dei del Carretto come colui che riesce a riaccreditare presso i Martino il neo barone di Racalmuto Matteo del Carretto: è pronto a giurare che il del Carretto si era lasciato lusingare dai soccombenti nemici dei catalani invasori, per “necessità”; finge di credergli la nuova triade regale di Palermo.

Ancora nell’ottobre del 1391 Manfredi e Andrea II Chiaramonte ritenevano opportuno di mandare propri inviati a Barcellona. Il duca di Montblanc poteva fondatamente ritenere che i nobili di Sicilia erano dopo tutto non alieni dall’accogliere la spedizione militare aragonese.

Gli eventi precipitano: il 22 marzo 1392 approdava la spedizione all’isola della Favignana presso Trapani. Il duca, a nome dei sovrani, ingiungeva ai baroni di portarsi entro sei giorni a Mazara per il dovuto omaggio. I due vicari Antonio Ventimiglia e Guglielmo Peralta ed altri nobili quali Enrico I Rosso  non mancavano di prestare giuramento e dare l’omaggio ai nuovi sovrani il giorno stesso del loro arrivo. Tripudiava la popolazione di Trapani al passaggio dei giovani regali. Sembrava andare tutto liscio, sennonché la notoria instabilità sicula torna a dilagare: Andrea II Chiaramonte mutava atteggiamento. Dopo essersi rivolto favorevolmente a Guerau Queralt, rappresentante della corona, era indi passato ad un attendismo ed a moti di diffidente attesa verso il Montblanc ed il figlio Martino il giovane. Il duca si irritava. Il 3 aprile 1392 l’altezzoso e crudele duca di Montblanc dichiarava ribelli il Chiaramonte e con lui Manfredi e Artale II Alagona. Venivano confiscati ed ascritti alla Curia tutti i loro beni che passavano di mano venendo assegnati a Guglielmo Raimondo III Moncada. Vi rientrò Racalmuto?

Chiaramonte si asserragliava, come detto, a Palermo. Il 17 maggio 1392 si induceva a prestare omaggio ai sovrani. Il giorno successivo Andrea Chiaramonte, insieme all’arcivescovo di Palermo, l’agrigentino Ludovico Bonit (eletto dal Capitolo palermitano per volontà degli stessi Chiaramonte), chiedeva di conferire con i sovrani per trattare dei suoi beni. Ma Martino il vecchio non indugiava: li faceva prontamente imprigionare. La sorte di Andrea Chiaramonte  si concludeva il primo giugno 1392, quando viene decapitato nel piano antistante il suo stesso palazzo di Palermo, il celebre Steri. Il Chiaramonte si sarebbe sporcato anche di una delazione ed avrebbe incolpato, per cercare di avere salva la vita, quel Manfredi Alagona delle passate vicende. Il 1° giugno 1392, con quella decapitazione, Racalmuto cessava definitivamente di essere un feudo chiaramontano.

 

*   *   *

 

I Martino e la regina Maria riescono a divenire gli incontrastati padroni della Sicilia. Ma c’erano da fronteggiare decenni di anarchia. Restaurare la legge e le prerogative regali era impresa ardua ma non impossibile. I registri erano stati smarriti o distrutti e le antiche tradizioni e consuetudini obliate. Martino, con l’aiuto di talune città, può armare un esercito regolare che lo affranca dai nobili. Per le peculiarità siciliane, era indispensabile un registro feudale: la corte si adoperò per una riedizione critica. Vedremo come i del Carretto devono fornire carte e prove per far valere la loro titolarità del feudo di Racalmuto ... e sobbarcarsi a pesantissimi oneri finanziari. Per di più Martino dichiarò abrogate le clausole del trattato del 1372 e si dichiarò Rex Siciliae.  Approfittando di uno scisma del papato, ripudiò la signoria feudale del papa e ribadì il proprio diritto al titolo di legato apostolico, che comportava la potestà di nominare vescovi e di sovrintendere alla chiesa siciliana.

Il re convocò due parlamenti a Catania nel 1397 e a Siracusa nel 1398: riprendeva la peculiare tradizione parlamentare di Sicilia che si era interrotta nel 1350. Le assemblee convocate da Martino testimoniavano che era ritornata un’autorità centrale. Il parlamento presentò una petizione al re perché nominasse meno catalani in posti nevralgici e perché applicasse leggi siciliane e non quelle aliene di Catalogna.

Martino I rimase fortemente sotto l’influenza di suo padre anche quando quest’ultimo divenne re d’Aragona. Martino il vecchio continuava a sorvegliare l’amministrazione della Sicilia fin nei più minuti aspetti. Questa sudditanza attira ancora l’attenzione degli storici che ne danno spiegazioni persino di sapore psicanalitico. Scrive Denis Mack Smith «Martino, perciò, rimase più un infante d’Aragona che un re di Sicilia, e fu in qualità di generale spagnolo che, nel 1409, guidò una spedizione a spese siciliane per domare una insurrezione in Sardegna.» [10] Martino il giovane trovò la morte proprio in Sardegna e la Sicilia finisce in successione insieme ad ogni altra proprietà personale al vecchio Martino: le corone di Aragona e di Sicilia perdono ora ogni distinzione, si ritrovano così nuovamente riunificate. Ancora lo Smith: «Non si verificarono nuovi Vespri per dimostrare che questo era sgradito, né vi furono molti segni di malcontento, sia pure di minore rilievo, poiché una parte sufficiente della classe dirigente era ormai o di origine spagnola o legata da interessi materiali alla dinastia aragonese. Durante l’unico anno in cui Martino II regnò, la Sicilia fu perciò governata direttamente dalla Spagna.» [11]

 

 




[1]) Leonardo Sciascia: Un pittore del profondo sud, in Leonardo Sciascia e Malgrado Tutto - Editoriale «Malgrado Tutto» - Racalmuto 1991, pag. 21 e segg.
[2] ) G. A. Silla - Finale dalle sue origini all’inizio della dominazione spagnola - Cenni e Memorie - Finalborgo 1922, pag. 93.
[3] ) G. Pipitone-Federico - I Chiaramonti di Sicilia - Appunti e documenti - Palermo 1891, pag. 14.
[4] ) Illuminato Peri, La Sicilia dopo il Vespro, op. cit., pag. 176.
[5] ) I. Peri - La Sicilia dopo il Vespro, .. op. cit. pag. 235.
[6] ) J. Glénisson: Documenti dell’Archivio Vaticano relativi alla collettoria di Sicilia (1372-1375) in Rivista di Storia della Chiesa in Italia II -  Roma 1948, p. 246 e ss.
[7]) Vincenzo D’Alessandro - Politica e società nella Sicilia aragonese - U. Manfredi Editore - Palermo 1963, pag. 108.
 
[8] ) Vincenzo D’Alessandro - Politica e società nella Sicilia aragonese - U. Manfredi Editore - Palermo 1963, pag. 120.
 
[9] ) Vincenzo D’Alessandro - Politica e società nella Sicilia aragonese - U. Manfredi Editore - Palermo 1963, pag. 121.
[10] ) Denis Mack Smith - Storia della Sicilia medievale e moderna - Bari 1972, vol. I pag. 115.
[11] ) Denis Mack Smith - Storia della Sicilia medievale e moderna - Bari 1972, vol. I pag. 116.

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