domenica 22 febbraio 2015

ritorno a mons. Traina contro il re di Girgenti dell'incolto Camilleri

giovedì 13 giugno 2013

Mons. Trajna il terribile vescovo di Giorgenti


Un vescovo discusso: il Trahina del ‘600

 

 

Mi impongo uno stile moderato che invero non mi appartiene. Spuntati gli aculei della polemica o di quella che di solito reputo tale , vorrei tratteggiare la figuro del discusso vescovo agrigentino Traina, con moderazione. Soggiungo che ciò non sarà facile: è personaggio squallido, persino sordido e volere occultare il vero comporta stridori e velami espressivi subito percepiti e quindi rifiutati.

 

Su questo vescovo – catapultato ad Agrigento dal re di Spagna Filippo IV il 2 marzo 1627 per starvi sino alla morte avvenuta il 4 ottobre 1651– non si è mancato di scrivere, ed in toni denigratori, già lui vivo e poi, a parte una lugubre tavola bronzea appena rischiarata in una cappella della cattedrale agrigentina, sino ai nostri giorni. Già, perché ci ha pensato Andrea Camilleri ad infilzarlo in termini di esecrazione e di condanna senza appello, nel “re di Girgenti”. Il Camilleri – che testa di storico a suo stesso dire non è – trasla dal 1648 al 1713 il presule ma le vicende episcopali narrate e in modo perspicuo descritte e valutate sono proprio le dissavventure del vescovo Trahina.

 


Denis Mack Smith ha modo di citarlo due volte nella Storia della Sicilia medievale e moderna – gradita a Sciascia ma vituperata da Santi Correnti – e cioè a pag.260 (dell’edizione economica in nostro possesso) per descrivercelo ricco e vorace: «Il vescovo di Girgenti spese fino a 156.000 scudi per comprare il dominio feudale sulle città di Girgenti e Licata» ed a pag. 270 (ibidem) allorché ne sintetizza le traversie durante la rivoluzione (Camilleri è invece prodigo di dettagli e note di costume): «a Girgenti il vescovo si barricò nel palazzo episcopale per evitare di dover cedere le sue riserve alimentari, ma la folla irruppe nelle sue prigioni e lo terrorizzò finché si arrese; egli rivelò persino il luogo in cui, nel giardino, teneva sotterrato il suo denaro.»

 

Abbiamo sotto mano i «diari della città di Palermo dal secolo XVI al XIX, pubblicati sui manoscritti della Biblioteca Comunale» a cura di Gioacchino Di Marzo, vol. IV, Palermo 1869. Scorriamo la prefazione e leggiamo (pag. VII): «Francesco Traina vescovo di Girgenti, avendo frumento in gran copia fino a due mila salme, promette in prima di venderlo al popolo e si accorda sul prezzo; ma di lì a poco avvertito che il grano rincarasse, si asserraglia nel suo palazzo con guarnigione armata di suoi canonici e preti, e ritrae la promessa: onde correndo le genti affamate all’assalto, pongono ivi ogni cosa a saccheggio, trovan fra nascondigli non men che quaranta mila scudi in contante, uccidono il nipote del vescovo e parecchi famigli, e lasciano appena a lui scampo di riparar nella terra di Naro. [Pirri, Annales Panormi etc. nel presente volume, pag. 157 e seg.].» La sintesi è esaustiva: Camilleri l’avrà mai consultata?

 

Il Pirri, in effetti, ci ha lasciato gli «annales Panormi sub annis d. Ferdinandi de Andrada archiepiscopi panormitani» auctore Abbate D. Roccho Pirro, siculo, netino, ab anno 1646, in bel latino. Ma noi ci avvaliamo della traduzione – vetusta ma singolare – del Di Marzo.«Ma in Girgenti, - stralciamo da pag. 88 – a’ 9 del mese stesso [maggio] (giorno per quella città solennissimo, che anche si festeggia con corse), destossi a gran tumulto la plebe, bruciando le scritture dell’archivio civile e criminale e liberando i carcerati dalle prigioni. Perloché volentieri quell’arcivescovo scarcerò quelli che erano nelle sue carceri, per tema di non tirarsi addosso il furore de’ plebei. E intanto cercavano costoro arder la casa del giurato La Sita assente in Palermo, ma ne venivano impediti, esposto colà il Sacramento. Riuscivan però a bruciar quella di don Giuseppe De Ugo, dottore in ambo i dritti, consultor dei giurati e sindaco della città: ond’egli in prima se ne fuggì in una torre alla spiaggia, e poi fu costretto esulare alla distanza di cento miglia. Fu proclamata inoltre l’esenzion delle imposte.»

«Ma inoltre que’ di Girgenti, - il Pirri dopo racconti e racconti a pag. 157, ripiglia la vicenda agrigentina – non ancora dimentichi del passato tumulto, bruciaron la casa del giurato Baldassare Giardina, e quasi a mezzo anche quella di Corrado Montaperto pretore della città. E il lunedì a’ 9 di settembre, vedendo il paese in grandissima carestia di annona e di legna, radunarono il popolo, ed espostagli una sì grave sventura, dichiararono sovrastare immenso pericolo, se non si provvedesse la città di frumento, e che unico scampo ci fosse nel loro vescovo , s’ei volesse dar grano a prezzo di sei once la salma, siccome quegli che ricchissimo era, e fino a due mila salme ne avea. Costui di fatti benignamente promise il grano desiderato, per provvedere a’ bisogni del popolo. Ma udito poi crescere il prezzo, indugiava ad adempir la promessa, sperando venderlo a condizioni migliori, ed ordinava al suo clero che consegnasse il frumento, di che si era provvisto. Chiamando intanto alcuni canonici e preti, e tenendoli pronti alle armi con le sue genti di famiglia, stava egli sulle difese nel suo palazzo, chiuse e fortificate le porte di esso, per resistere agl’impeti feroci del popolo. Perloché i popolani, vedendosi già ingannati dalle parole di lui, creando alcuni lor capi, corsero tutti in arme con gran tumulto al palazzo, per darlo in preda al sacco e alle fiamme. Ma i preti e i famigliari di dentro ucciser tosto ad archibusate due di quei furibondi. Al che quelle genti fecer grandissimo impeto contro il palazzo; ed entrandovi, penetraron fin dentro alla stanza del vescovo, dove il trovaron, insieme con suo fratello il sacerdote Giuseppe, inginocchiato dinanzi al Crocifisso. Alcuni de’ più accaniti sul primo entrare aveano ucciso a colpi di spada e di archibusi il nipote del vescovo, il canonico Antonino Tomasino, il secretario ed altri sette domestici, e gridavano volere uccidere il vescovo stesso. Altri chiedevano soltanto il promesso frumento. Altri, appuntando i pugnali sul petto de’ famigliari più intimi, chiedevano ove fosse il tesoro del vescovo e tutto il denaro. Laonde atterriti costoro dal timore della morte, indicaron ch’era nascosto in tre luoghi, cioè nel giardino, nella stanza da dormire del vescovo, e dietro una parete. Frugatosi colà in fatti, fu trovata entro a forzieri una somma di quarantamila scudi, che tosto di là fu tolta e portata in deposito appo alcune fidate persone e nel palazzo della città. Ritennero indi il lor pastore in casa del canonico D. Filippo Bucelli, menando al pubblico castello il sacerdote Francesco Traina suo germano, insieme co’ suoi. Per la qual cosa il vescovo fè intendere a tutti, che se gli avesser permesso di andare al duomo, ei li avrebbe assoluti dalle censure, accordando inoltre il frumento (che indi gli tolsero a forza) alla ragione di tarì 3.10 ogni tumolo, e dando dodicimila scudi d’oro del danaro rapitogli, ed altre somme pe’ debiti del paese. Ma poi sen fuggì nascostamente la notte, andando alla vicina città di Naro, nella sua stessa diocesi. E allora i Girgentini destinarono di quel danaro dodici mila scudi a provveder di grano la città per un anno, chiedendo al vicerè che si dovesse fare il rimanente. Laonde il vescovo, trovandosi in tanto pericolo, ed anche vituperato qual uom di somma avarizia, fece donazione del tarì per salma del valore di cinquanta scudi; al che si decise, piuttosto malvolentieri, per racchetare la plebe e poter egli recuperare il danaro suddetto. Ma poiché neanche ciò valse a ricondurre ne’ sollevati la calma, il vescovo medesimo con molta diligenza riuscì a far prendere di nascosto alcuni capi del tumulto, che furon portati alle carceri della Vicaria di Palermo; ed implorò inoltre l’aiuto di D. Cesare del Bosco capitano de’ cavalleggieri. Osando perciò costui entrare con la sua forza in Girgenti, venne da que’ cittadini respinto e preso. Onde essi, carceratolo in casa di Stefano Monreale, e postavi una squadra di guardia, scrissero al vicerè lettere rispettosissime, significando con tutta sommessione, che sarebbero pronti a liberare il Del Bosco, ov’ei volesse levar di carcere i loro compagni, e dare indulto pel cimenlese  e per tutto ciò, ch’essi e non altro scopo avean fatto che il pubblico bene. Il vicerè, costretto a cedere a’ tempi, e dissimulando con apparente gioia l’interno rammarico, consentì alla proposta con suo bando in data de’18, confermato indi a 28’ del mese stesso, come più innanzi diremo.

«Frattanto egli, prestando fede alle lettere de’ Girgentini, avea coà mandato il capitano di campagna co’ suoi a ricevere il danaro del vescovo. Ma quelli, mutando avviso, ricusaronsi a darlo. Avvenne però in que’ giorni, che una nave francese con dieci uomini di quella nazione, navigando alla volta di Tunisi a comprare vettovaglie per la flotta di Francia, sorpresa da venti contrari e dalla tempesta, ruppe nel lido di Girgenti. Quei Francesi, essendo sospetti di peste, furon messi in prigione per quaranta giorni. Ma ritrovata inoltre una somma di duemila e cinquecent’once di oro, il mentovato capitano la portò dentro a cassette al vicerè, che ordinò si dividesse in sussidio a’ soldati spagnuoli.»

Pare sentire, se non la prosa, il racconto di Camilleri, fini nei minuti particolare, a parte s’intende l’arbitraria traslazione degli eventi dal 1647 al 1713. A noi, pare poi, che il Pirri non sia troppo dolce di lingua nei confronti del vescovo Trahina. Quella taccia di somma avarizia, sibila come una scudisciata. (Episcopus vero  … summae avaritiae nomine dedecoratus, e per chi ama il latino è frase scultorea che il Di Marzo non rende adeguatamente). Nella “Sicilia Sacra” il Netino sovrabbonda di elogi, almeno nella dedica, al vescovo di Girgenti: «tuo nobilitatis genere, … tuis virtutum laudibus, .. Praesul Illustrissime» , ti piaccia patrocinare la nostra opera, aveva deferentemente chiesto il Pirri nell’agosto del 1640.  Dopo vi fu un ripensamento? Influirono le vicende del 1647? Saremmo tentati di rispondere di sì.

 

Oggi non sono tanti gli estimatori del Trahina. Ma è certo che il presule un formidabile difensore ce l’ha ancora tra l’attuale clero agrigentino: monsignor Domenico De Gregorio, suo compaesano, almeno a guardare agli antenati del presule. Saremmo ingenerosi verso la cristallina onestà mentale del nostro stimato monsignore (è stato anche nostro maestro di greco e di latino) se pensassimo o dicessimo che nell’eccesso di stima gli può far velo l’afflato campanilistico.

Altro difensore ci risulta essere padre Biagio Alessi: accenna spesso ad un suo lavoro di riabilitazione del vescovo. Noi, però, non siamo riusciti neppure a sbirciarlo per dirne qualcosa. Fu comunque il Mongitore a trascrivere l’elogiativo epitaffio della Cattedrale ed a tramandare , almeno negli ambienti ecclesiastici, un giudizio non sfavorevole sul vescovo a suo tempo sospetto di “somma avarizia”.

 

Per quel che concerne i racalmutesi, ci corre l’obbligo di dire che il celebrato medico della peste Marco Antonio Alaimo fu deferente verso il vescovo Trahina. Gli dedicò anche una sua opera medica. Quando si dice la piaggeria verso i potenti!

 

Il vescovo Trahina, ad ogni modo, uscì piuttosto bene da quella procella; + lo stesso Pirri che a pag. 223 ci informa che “vacando l’arcivescovado di Palermo … [furono] proposti tre ad occuparlo, cioè Vincenzo Napoli vescovo di Patti, Diego Requesenz vescovo di Mazzara, e Francesco Trahina vescovo di Girgenti». «Fu eletto fra essi il Napoli, che era il più vecchio»

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