Brigida Schittini
Il
lungo tedioso documento vale solo per renderci edotti sul fatto che nel lontano
1709 Paola Macaluso ebbe a prestare poche onze (si parla del reddito su 32
onze) alla vedova di don Giuseppe del Carretto, donna Brigida Schettini. La
vedova lasciò insoluti i suoi debiti. Nel 1736, subito dopo l’avvento di
Carlo IV [VII] di Borbone (15 maggio
1734 - ag. 1759), Paola Macaluso, personaggio non meglio identificato,
riattizza un processo civile - insufflata evidentemente dal duca Luigi Gaetani
- pretendendo nientemeno la contea di Racalmuto a ristoro del antico modico
prestito, che però si era rigonfiato per interessi di mora e per ammennicoli.
Le sequenze processuali sono bene ricostruite in un documento del Fondo di
Palagonia: sono dettagli che possono interessare solo studiosi di diritto
civile nel Settecento siciliano.
Paola Macaluso
Paola
Macaluso la spunta sul piano processuale, ma non sa che farsene dell’assegnata
contea di Racalmuto. Allora candidamente dichiara di avere agito in nome e per
conto del duca Gaetani.
Luigi Gaetani
In
tal modo il duca Luigi Gaetani viene in possesso di Racalmuto (titolo e feudi)
in data 12 aprile 1736. Come si disse, don Luigi Gaetani non si aspettava una
situazione così deteriorata come quella che rinviene in questa sua usurpata
contea.
Cerca
innanzitutto di ripristinare il patto del 1580 sul terraggio. Siamo nel 1738 ed
una controversia lunga e defatigante.
Trova pretermessi i suoi diritti di
terraggiolo sui coltivatori racalmutesi dei feudi di Aquilìa e Cimicìa: gli
abili benedettini di San Martino delle Scale di Palermo erano risusciti a farsi
confezionare un decreto di esonero dal vescovo di Agrigento. Don Luigi Gaetani
è costretto a sollevare un costoso incidente processuale. Estrapoliamo queste
note di cronaca.
Il
duca Gaetani si vanta di essersi accontentato della metà di quanto dovuto per
terraggiolo (pro terraggiolo dimidium consuetae praestationis exegit). Ma ecco che i benedettini avanzano strane
pretese: vantano un esonero del 16 settembre del 1711. Ciò però non è accettabile
per una serie di ragioni giuridiche che gli abili legulei del duca dipanano da
pari loro. Ecco scattare un’altra occasione di lite giudiziaria. Siamo nel
1739.
Il
22 giugno 1741 i benedettini sono soccombenti. Le spese vengono compensate. Le
faccende racalmutesi, comunque, non sono
davvero prospere: il bilancio è deficitario.
Araldica
racalmutese dopo i del Carretto
Non
è agevole far collimare quello che emerge dalla documentazione Palagonia con
quanto asserisce il Villabianca (che in ogni caso appare minuziosamente
informato). Abbiamo visto che il duca Gaetani era riuscito sin dal 1736 a
divenire conte di Racalmuto. Evidentemente il marchese di Villabianca non ne
era ancora a conoscenza quando scrisse sui Ventimiglia; lo era invece allorché
pose mano al volume sui del Carretto.
* * *
Sciascia
rispolvera le sue giovanili letture del Tinebra Martorana; tiene presente anche
questa pagina araldica del S. Martino-De Spucches ed inventa un capitoletto del
suo Il Consiglio d’Egitto[1]:
«Don Gioacchino Requesens stava, tra monsignore
Airoldi e don Giuseppe Vella, ad ascoltare le mirabilie del Consiglio di
Sicilia.
«”E vi
voglio leggere” disse ad un certo punto monsignore “una cosa che vi farà
piacere… Nella vostra famiglia, se non sbaglio, avete il titolo della contea di
Racalmuto…”.
«Ci viene
dai del Carretto,” disse don Gioacchino “una del Carretto è venuta in moglie…”
«Ve la
voglio leggere,” disse monsignore “ve la voglio leggere” [e qui Sciascia
propina la pagina riportata dal Tinebra Martorana relativa alla statistica
araba della popolazione racalmutese del 24 gennaio 998: noi l’abbiamo sopra
trascritta]
«”Interessante” disse freddamente don Gioacchino. Ci
fu un momento di imbarazzato silenzio, monsignore deluso dallo strano contegno
di don Gioacchino. […] Ma don Giuseppe aveva già afferrato la situazione: don
Gioacchino, giustamente, si preoccupava di quel che sulla contea di Racalmuto
poteva venire fuori dal Consiglio d’Egitto. »
Francamente, non pensiamo che don Gioacchino Requesens
avesse di che temere dalla penna falsaria dell’abate Vella: erano i preti di
Racalmuto a molestarlo ed in modo davvero preoccupante. Finì che ci rimise i
privilegi del mero e misto imperio ed anche i lucrosi canoni del terraggio e del terraggiolo.
Terraggio e terraggiolo: atto finale
Presso la Matrice, come detto, si conserva un Liber in quo adnotata reperiuntur nomina
plurimorum Sacerdotum. Al n.° 292 (col. 16) incontriamo questa dedica a D. Nicolò Figliola: «di Grotte, domiciliato in Racalmuto, eletto
nella causa del Terragiuolo, che gli antenati inutilmente tentarono nei
tribunali contro il Signor Conte.
«Nell’anno
1783 si cominciò la causa, e nel tempo dell’agitazione il predetto Figliola due
volte si trasferì in Napoli al R. Erario e riportò dal Sovrano, che il Conte
mostrasse il titolo dell’imposizione del terragiolo, che non poté provare, per
cui sotto li 30 luglio 1787, dopo quattro anni di causa dal Tribunale si era
designato il giorno di decisione, ma il Figliola nello stesso mese, se ne morì.
«Il sudetto
nel 1786 ottenne dal Re, che questa terra di Racalmuto si reluisse il Mero e
Misto Imperio, che di più di centinaia d’anni ne godeva il Conte. Morì in corso
di causa, con pianto e dolore universale, nell’infermeria dei RR.PP. del Terz’Ordine
di S. Francesco nel convento della Misericordia, in cui sta sepolto il di lui
cadavere, in Palermo. 14 luglio 1787 d’anni 38.»
Al n.° 297 (col. 17) tocca all’altro protagonista della
vicenda: l’Arciprete D. Stefano Campanella, di cui si tesse questo encomio:
«Collegiale-Economo nel
1754-1755 in Campofranco. Successore dell’Arciprete Antonio Scaglione, fatto il
concorso nella Corte Vescovile di Girgenti nel 1756 a 19 Febbraio sotto Mons. Lucchese Palli, approvato
e raccomandato alla Santità di Papa Benedetto XIV, da cui fu eletto Arciprete
Parroco con bolla emanata da Roma 16 giugno 1756 ed in Palermo esecutoriata 8
Agosto 1756 confirmata dal Vescovo di Girgenti 14 Agosto e l’indomani, 15,
prese possesso.
«Da
principio curò il ristoramento delle Fabbriche della Chiesa. Nel 1760 fece la
presente ampia Sacristia, nel 1767 compì il cappellone grande. Nel 1776 si
perfezionò con stucchi ed oro fino, si fecero i due campanili ed arricchì la
chiesa di arredi sacri nel 1783.
«Egli con
altri primari del paese incominciarono a proprie spese la causa per il
Terragiolo nel Tribunale di Palermo e
dopo quattro anni di strepitosa lite dal Tribunale rotondamente si determinò a
28 Settembre 1787. “Jesus= Jus Terragii, et Terragiolii tam intra, quam extra
territorium declaratur non deberi.”
«Finalmente
nel 1787 in Favara fu Visitatore eletto dalla Corte Vescovile di Girgenti per
quel Collegio di Maria. Morì compianto da tutti il 26 Aprile 1789 d’anni 60,
mesi otto, giorni 2 - e di Arcipretura anni 32, mesi 8 giorni 7.
«Fu ancora
Vicario di questo Monastero, Delegato dalla Regia Monarchia etc.»
La vicenda del terraggio
e del terraggiolo è stata oggetto di
nostre apposite ricerche, che, solo di
recente per il ritrovamento di
importanti documenti da parte del prof. Giuseppe Nalbone, abbiamo potuto
approfondire: crediamo di essere riusciti almeno in parte nell’opera di
ripulitura di tante incrostazioni ideologiche degli storici nostrani.
Di rilievo, alcune carte della Real Segreteria del 1785 che
palesano una settecentesca controversia clerical-sociale nella nostra
Racalmuto.
La politica
antibaronale del Caracciolo è fin troppo nota per sorprenderci dell’andamento
della controversia feudale di Racalmuto.
Non siamo
partigiani certamente del Principe di Lampedusa, né del sacerdote locale, don
Giuseppe Savatteri, che gli teneva bordone. Ma al di là dei meriti dei
sacerdoti Figliola e Campanella, prima rievocati, fu quella del 28 settembre
1787 una sentenza politica, giuridicamente azzardata, storicamente falsa.
Era di sicuro
un grande araldista il Requesens per lasciarsi abbindolare dai legulei di
Racalmuto. Avrà esibito i bei diplomi del 500 e del 600, tutti a suo vantaggio,
ma contro il Caracciolo naufragò.
Al di là
dell’aspetto sociale, che ci vede
dall’altra parte della barricata, siamo portati, per amore della storia locale, a credere che
il burbanzoso principe di Pantelleria avesse ragione e l’illuminista Caracciolo
sbagliasse.
Resta
ancora poco chiaro come venissero corrisposti i pesi feudali ai del Carretto,
se in natura (come i termini “terraggio” e “terraggiolo” fanno pensare) o in
contanti (come tanti atti dell’epoca lasciano intendere) o in forma mista.
Abbiamo
notato sopra le varie controversie dei Gaetani sul terraggio e sul terraggiolo.
I tribunali gli avevano dato, tutto sommato, ragione, ma erano altri tempi.
Ora, alla fine del Settecento la musica è ben altra. Ne fa le spese il buon
nome del sac. Savatteri, vilipeso imperituramente da Sciascia.
Sac. Giuseppe Savatteri e Brutto (1755-1802)
Bello,
elegante, colto, raffinato, ricco, sprezzante - quanto casto non è dato sapere
- questo prete svetta sia nelle vicende della famiglia sia in quelle della
locale storia. Leonardo Sciascia, avvalendosi di dati di seconda mano, tenta di
infilzarlo, ma commette una delle sue solite manipolazioni storiche per
prevenzioni ideologiche. Il sac. Giuseppe Savatteri ha coraggio, cultura e
intraprendenza tali da osare un’impari contrapposizione con il suo potente (e
dispotico) vescovo agrigentino. Entra nell’intricata storia del beneficio del
Crocifisso.
Quando, il
Tinebra Martorana - un famiglio della discutibile consorteria dei Tulumello -
si accinge, nel 1897, a scrivere la storia del paese, non gli sembra vero di
dilatare il senso di un documento giudiziario - che invece di venire custodito
negli archivi del Comune, sta fra le carte private del barone Tulumello - per
dileggiare un Savatteri, la famiglia ostile ai suoi protettori. Quello sui cui
il Tinebra trama è il carteggio del Caracciolo su cui abbiamo già detto. Ripetiamo
quello che riguarda il nostro sacerdote:
«17. La Gran Corte dia le pronte provvidenze di
giustizia, onde li cittadini non soffrano aggravij - A febbraio p.p. in die 16
- Li naturali della terra di Racalmuto, sentendosi molto gravati di questo
esattore ed amministratore Prete d. Giuseppe Savatteri nell’esigenza del
terragiolo dentro e fuori di questo stato, quanto nell’avere agumentato la
Baglìa a tutti li poveri giornalieri, formando una Cascia o Statica come anche
esatte a forza di prepotenze pignorando sin anco gli utensili delle loro moglie
e pratticando molte estorsioni.
«Pregano l’E.V. di ordinare il conveniente per non
vedersi pur troppo soverchiati.»
Al Tinebra
Martorana mancano competenza e penna per fronteggiare la complessa vicenda
della lotta al baronaggio siciliano da parte del discutibile Caracciolo
(l’agiografica visione dei laici del Settecento e del postumo Sciascia lascia
oggi il tempo che trova). Il Tinebra, dunque, compatta scarne e disparate
“notizie storiche” in un capitoletto sul Settecento e velenosamente rubrica
(pag. 184): «1785 - Soprusi praticati dal sac. Giuseppe Savatteri, arrendatore
di Racalmuto, verso i poverelli.» Non parve vero a Leonardo Sciascia di
rigonfiare quell’appunto per una delle sue solite tiritere anticlericali.
Scrive dunque lo Sciascia [2]:
«Ecco il
rapporto di un altro funzionario al Tribunale della Real Corte sui “soprusi
praticati dal sacerdote Giuseppe Savatteri, verso i poverelli”» e giù, senza
analisi critica, il testo di un’evidente lettera anonima, che crediamo essere
dovuta alla penna del malevolo arciprete Campanella, o peggio del sac. Busuito,
contro cui il Savatteri aveva affilato le armi per l’usurpazione del beneficio
del Crocifisso.
Prosegue
Sciascia: «Il bello è che dopo questo rapporto il Tribunale della Real Corte
ordinava al giudice criminale di Regalpetra [alias Racalmuto] “di far
restituire ai borgesi tutti gli oggetti che il sacerdote Savatteri aveva ad
essi pignorati”, forse i lettori non lo crederanno ma la cosa è andata davvero
così”.» Con buona pace di Sciascia, a noi pare che le cose erano molto più
complesse e coinvolgono la politica dei re Borboni di Napoli, che è quanto
dire.
D. Giuseppe
Savatteri e Brutto morì nella peste del 1802; il Liber annota: n.° 312, c. 19,
D. Giuseppe Savatteri e Brutto, 27 februarii 1802 d’anni 47. Il vescovo non lo
aveva voluto come beneficiale della Communia. Il Savatteri faceva però parte
della neo-confraternita della Mastranza. Non pare molto diligente nell’annotare
le messe che era tenuto a celebrare per i confrati defunti: subisce delle
sanzioni. Così risulta annotato in registri della confraternita.
Tratti salienti del Settecento racalmutese
Il Settecento fu un secolo di riforme sociali e politiche per
Racalmuto: uscito dalle grinfie dei Del Carretto – ormai totalmente decaduti
per morti precoci e per debiti devastanti – il paese subiva uno dei più grossi
grovigli giuridici del tempo e cadeva nell’ipocrita rapacità dei Gaetano.
Abbiamo già detto dell’ineffabile Macaluso, una scialba signora che si presta
alle truffe feudali del duca di Naro. Patetico quel patrizio – che con
Racalmuto non aveva avuto mai nulla a che spartire – quando, con impudenza
tutta nobiliare, afferma che egli era niente meno che “mosso da pietà per i
suoi vassalli” nel reclamare le due salme di frumento per ogni salma di terra
coltivata. Siamo nel 1738 allorché sorse quella strana controversia feudale,
esemplare per la storia del nostro paese. Ci si mettono pure i monaci di
Milocca (dopo Milena): imbrogliano codesti feudatari in abito talare ed
inventano privilegi da parte del vescovo di Agrigento che, anche se con
l’avallo sacrilego della curia agrigentina, sono il segno della protervia degli
sfruttatori dei lavoratori racalmutesi con quelle aberranti pretese di
terraggio e terraggiolo. In pieno Settecento, il retaggio barbarico dello
schiavismo perdura ancora a Racalmuto. E gli ecclesiastici non ne sono certo
immuni, come dimostra una controversia tra il Convento di S. Martino delle
Scale ed il duca Gaetani.
Abbiamo prima ragguagliato sull’interdetto del 1713, ora ci
pare opportuno riportare, in calce,
alcune annotazioni disseminate nei registri parrocchiali della Matrice. [3]
LE PERSONALITA’ DI SPICCO DEL SETTECENTO RACALMUTESE
Diciamolo subito: il secolo dei lumi è poco illuminato per
intelligenze locali che in qualche modo possano rasentare il genio: le parole
del Guicciardini care a Sciascia sulla
“ricolta” di ingegni negli stessi anni suonano ora del tutto vane. Né
grandi medici, né veri pittori, e neppure – ci dispiace per Sciascia –
rimarchevoli eretici. Solo il bestemmiare del popolino che è poi atto di fede
intensa.
Per contro abbiamo un prete in fama di santità: ma era tanto
sessuofobo e sgrana tanti rosari che non pensiamo ci si possa troppo gloriarne.
Il collegio di Maria era un reclusorio per ragazze, figlie di sventurate, che
vi venivano coatte perché possibili «occasioni di peccato». Per vaccinare
contro il vaiolo, non c’erano medici adatti. Si mandò a Palermo un “cerusico”,
un barbiere, per imparare una tecnica un tantinello meno rudimentale. E m°
Giuseppe Romano fu forse meglio dei medici, ma sempre barbiere era. Siamo alla
fine del secolo – 16 giugno 1795, dicono le cronache.
I preti lasciavano i loro beni – come nel Seicento del resto
– alle chiese forse terrorizzati per l’incombente accesso agli inferi, per
pratiche usurarie. Ma le volevano ampie e nude come il loro vacuo esistere. Il
sacerdote Pietro Signorino, dopo avere smunto il suo asse ereditario con tanti
legati, «instituisce, fa crea e nomina in sua Erede universale la venerabile
chiesa di S. Maria del Monte». Correva l’anno del Signore 1737 (die decima nona
Septembris, prima indictio, millesimo septingentesimo trigesimo septimo.) Si
doveva vendere tutto – “formenti, orzi, ligumi, superlettili ed arnesi di casa
– ed il ricavato, con il denaro dell’asse, andava speso «nella fabrica della
detta ven. Chiesa di S. Maria del Monte.» Ed il pio e talare testatore
soggiunge: «li frutti annuatim si percepiranno dalli suoi terreni stabili ed
effetti ereditarii, come delle terre, vigne, case, rendite ed altri proventi si
ritroveranno doppo la di lui morte si dovessero pure erogare dall’infrascritti
suoi fidecommissarii nella fabrica di detta Chiesa di S. Maria del Monte, e
questo fintanto che sarrà la medesima chiesa perfezionata tutta solamente di
rustico». Il prete non aveva molta fiducia nelle gerarchie ecclesiastiche, e –
non nuovo a tali tipi di astiosa riserva – vuole che non vi siano intrusioni
della «S. Sede, ovvero della Generale Curia Vescovile di Girginti né d’altra
persona.» Da escludere anche «l’Officiali della Compagnia della detta Ven.
Chiesa di S. Maria del Monte». Il Signorino ha fiducia solo nel «rev.do sac. D.
Baldassare Biondi del quondam don Francesco, del rev.do sac. D. Melchiore
Grillo e del rev. D. Elia Lauricella», sempreché agiscano «coniunctim».
Ancor oggi non si sa se il Santuario sia rifacimento o
ampliamento o – molto più probabilmente – una nuova costruzione che venne
addossata alla vecchia chiesa, divenuta sacrestia. Il padre Morreale è molto
meticoloso ed ovviamente agiografico. [4]
Propende, alla luce del testo delle disposizioni testamentarie, per una «nuova
chiesa» la cui prima pietra sarebbe stata posta il 14 agosto 1736 e solo
attorno al 1746 l’antica chiesa sarebbe venuta «a trovarsi dentro la nuova.»
Molto disinvoltamente Internet ci propina questa imprecisa versione, peraltro
ingenerosa verso il pio testatore Signorino. Per quell’informatico, la chiesa
del Monte: «Sorge sul
poggio più alto dell'antico borgo medievale. La chiesa fu costruita nel 1738.
Già nel 500 esisteva la chiesetta di S. Lucia. All'interno è ubicata la
leggendaria statua in marmo bianco di Maria Vergine di fattura gaginesca. Maria
SS. del Monte è la compatrona e regina di Racalmuto ed ogni anno, nella seconda
settimana di Luglio, si celebra la festa in suo onore. Durante i tre giorni
della festa viene rievocata la vinuta di la madonna con recite, cortei
con cavalieri in abiti del 500 e prumisioni che consistono
nell'offerta del grano alla Madonna da portare a piedi o su cavalli che,
spronati dalla folla, devono salire lungo la scalinata che porta al santuario.
Altro momento esaltante della festa è la pigliata di lu ciliu (una sorta di cero alto alcuni metri) che consiste nella
conquista della bannera da parte di
giovani borgesi scapoli. La lotta per conquistare la bandiera è talvolta
violenta, con pugni e calci da parte degli avversari. Tutto si quieta quando
uno dei borgesi afferra il drappo.»
Sciascia, che ebbe ad infilzare
proprio il mansueto padre Morreale, forse perché gesuita, a proposito della
ricerca storica sulla venuta della statua della Madonna del Monte, ora finge di
non dargli peso per codeste ricerche testamentarie del sacerdote Pietro
Signorino. Al giovane Tinebra Martorana aveva accordato il peso della sua
autorevolezza e in un caso analogo, quello del testamento del sacerdote Santo
d’Agrò, non si era lasciato sfuggire il destro per sardoniche bardote sul prete in “alumbramiento”. Altrettanto
poteva fare anche in questa circostanza della Chiesa del Monte, ma se ne è
astenuto. E dire che piccante poteva risultare la ricerca del gesuita p.
Morreale sulle propensioni a beneficiare una pinzochera da parte del pio
testatore. Pudicamente il gesuita annota: «nel testamento – il padre Signorino
– determinò alcuni legati a favore della Perpetua». Invero, la preoccupazione a
beneficiare Caterina d’Alberto è pressante. «Item il sudetto testatore hà
legato – si legge nel corpo delle disposizioni testamentarie – e per ragione di
legato lega à Caterina d’Alberto sua serva una casa, prezzo e capitale di onze
10 circa, quale vuole che se li dovesse comprare dalli ssopradetti suoi
fidecommissarii» e nel codicillo, in termini ancora più chiari anche se in
latino, «item dictus codicillator ligavit et ligat sorori Mariae de Alberto
bizocchae Ordinis Sancti Dominici in saeculo vocata Catarina eius famulae ultra
illas uncias decem in dicto eius testamento legatas tre infrascripta domus de
membris et pertinentiis eius tenimenti domorum » e passando al volgare «nempe la
prima entrata, la camera ed il catoio sotto detta camera della parte di
occidente, seu della parte di San Gregorio» e tornando al latino «de quibus
quidem tribus corporibus domorum ipsa
soror Maria, habet et habere debet solum usum exercitium». Non solo, ma
«dumtaxat – cioè vita natural durante – [le si devono] tumuli otto di frumento,
un letto fornito, due tacche di tela sottile, il mondello, due sedie di corina,
la criva, la sbriga e maiella, ed alcuni arnesi di cocina.»
Almeno, quello svolazzo del codicillo, una funzione la
esplica: dà materia per un eventuale museo etnografico.
[1] ) Leonardo Sciascia, Il consiglio d’Egitto, Adelphi, Milano 1989, pp. 64-66
[2] )
Leonardo SCIASCIA, Le parrocchie di Regalpetra - ed. Laterza 1982 Bari U.L., pag.
21.
[3] )
1713 (Morti
dal 1714 al 1724)
Dopo il 28 agosto
1719:
L’interditto
fu imposto dall’Ill.mo e Rev.mo Signor D. Francesco Remirens Arc. E Vesc. di
Girgenti con il consenso della S. Sede nella Chiesa Cathedrale di Girgenti e in
tutta la Diocesi fu sciolto la domenica di Agosto al dì 27 [1719] dell’ora
vigesima seconda dal rev.mo Sig. Dr. D. Giuseppe Garucci (?) Can. Teo. E Vic.
Generale Apostolico con l’Autorità della S. Sede.
Morti 1707-1714 (Die 3 7bris 1713 VII
Ind.)
Vigilia
Sanctae Rosaliae hora vigesima fuit affixum interdictum generale locale in hac
terra Racalmuti.
Battesimi
1711-1716 - pag. 450.
Ad perpetuam
rei memoriam Die tertio septembris septimae inditionis 1713 Vigilia Sanctae
Rosaliae nostrae Patronae hora vigesima, fuit affixum interdictum in Civitate
Agrigenti et in eiusdem Dioecesi ab Ecc.mo et rev.mo D.no D. Francisco Remirens
Episcopo dictorum
Archipresbitero
D.re D. Frabritio Signorino 1713.
[4] ) Girolamo M. Morreale, S.J. – Maria SS. del Monte di Racalmuto –
Racalmuto 1986, sparsim ma in particolare p. 49 e ss.
Nessun commento:
Posta un commento