Sebastiano Vassalli, Il cigno, Torino, Einaudi, 1993.
Il libro ricostruisce il caso dell'omicidio Notarbartolo, forse il primo "omicidio eccellente" della storia della mafia, avvenuto nel 1893. Si tratta di un libro coraggioso, se non altro perche' scritto da un autore piemontese, alla ricerca - secondo quanto piu' volte ha dichiarato - delle origini storiche del carattere degli italiani.
Sul piano letterario, probabilmente non è tra le prove migliori di Vassalli (è un romanzo solo bello, mentre altri suoi sono straordinari), ma sul piano della ricostruzione della storia politica e sociale siciliana e' molto convincente, mostrando come il problema dei rapporti tra mafia e politica abbia radici molto antiche.
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(30/7/03 13:42)
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Su Andreotti che silenzio assordante
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Su Andreotti che silenzio assordante
di Francesco Fusco
L'Italia governata dalla mafia per 30 anni? La Storia dovrà giudicare senza strabismi Anche quell'inchiesta del '60 con sorpresa finale
Quando Calogero Volpe coinvolse Pci e Psi
Qualcuno sicuramente ci dirà che in questi giorni il mondo politico era troppo occupato a “fare la pelle” al ministro Castelli per poter esprimere anche una parola di commento alle 1500 pagine in tre volumi della motivazione della sentenza che ha parzialmente assolto il senatore Andreotti, comminandogli assieme alla prescrizione una condanna politica e morale che, diversamente dalla prima assoluzione, lo affida al giudizio della Storia.
Abbiamo atteso diversi giorni per ascoltare o leggere le reazioni del mondo politico a una motivazione che supera d’un sol colpo l’aspetto giurisdizionale, dando alla Corte d’Appello di Palermo un ruolo che più politico non si può. Invece lo stesso mondo politico, che aveva commentato a caldo la notizia della sentenza, chi con giubilo chi con riserva in attesa del documento partorito pochi giorni addietro, di fronte a queste motivazioni che hanno un aspetto a dir poco inquietante, ha taciuto. Il silenzio, per usare una metafora, è stato assordante. Unici commenti l’ “Amen” del divo Giulio, che più che esprimere rassegnazione fa intravedere la speranza della fine di una parte del calvario giudiziario, e quello strappato da La Licata ad Emanuele Macaluso in un’intervista nella quale l’esponente di quello che fu il Pci, e membro della Commissione parlamentare antimafia degli anni 60, afferma che i presunti rapporti di Andreotti con la Mafia per i quali vale la prescrizione, il sette volte presidente del Consiglio li aveva ereditati dalla segreteria Fanfani. Un giudizio questo che, sommato a quello della Corte d’Appello, rende possibile una domanda a chi di quegli anni non possiede ricordi o conoscenza diretta, come chi scrive. La domanda è la seguente: se le cose stanno come afferma la sentenza e come insinua Macaluso, allora l’Italia è stata governata da una Dc legata alla Mafia? Per dare una risposta non avventata bisogna fare un passo indietro. Era l’anno 1960, allorché collaborai con il compianto Pippo Fava a quell’inchiesta, la prima seria e approfondita, sul fenomeno mafioso, apparsa poi su Tempo Illustrato , il settimanale diretto da Tofanelli, e che costituì uno degli spunti da cui prese avvio nel 1962 la prima Commissione Parlamentare. L’inchiesta metteva a nudo i legami dell’onorata società con il mondo degli affari locali, della politica locale, e soprattutto il ruolo di Genco Russo, l’erede di quel Calogero Vizzini reso famoso da un mancato comizio del Pci. La commissione diede luogo a una battaglia sui media, la maggior parte orientata in un’unica direzione, la Dc. Frattanto chi scrive si era spostato a Palermo, dove con la strage di Ciaculli si era toccato il culmine delle sanguinose faide. In un’inchiesta fatta per “Rotosei” contai 134 omicidi nel giro di pochi mesi. Eravamo in tre per organi di stampa diversi a occuparci del fenomeno: il povero Mauro De Mauro, Roberto Ciuni, e il sottoscritto. Malgrado la competizione fra i tre quotidiani palermitani di allora eravamo amici, ci scambiavamo impressioni, notizie supposizioni. Il processo alla mafia era diventato il processo alla Dc, che allora in Sicilia era fanfaniana. Proconsole di Fanfani era Graziano Verzotto, segretario regionale, uomo di Enrico Mattei, oltre che presidente dell’Ente Minerario Siciliano, il quale proprio in quei giorni ci condusse, De Mauro e me, a Mussomeli, a ritirare la tessera del partito al famigerato Genco Russo. Di fronte a quest’offensiva, che preludeva all’arresto del “capo dei capi” Genco Russo e alla sua condanna al confino a Lovere, la Dc non volle rimanere con le mani in mano. L’onorevole Calogero Volpe mi invitò a trovarlo a casa sua, dove giaceva in un lettino a causa di una fastidiosa influenza. Con la sua caratteristica voce roca, mi disse che “era ora di finirla di identificare lo scudo crociato con Cosa Nostra ”. E mi consegnò un voluminoso documento, fitto di nomi e cognomi, con le rispettive cariche politiche e amministrative locali, e soprattutto i carichi pendenti o le condanne subite per abigeato, violenza privata, tentato omicidio, truffa e malversazione, porto d’armi abusivo, tutti reati che accomunavano il tessuto mafioso. Erano tutti pubblici amministratori, ma del Pci e del Psi. Un documento che Calogero Volpe desiderava rendessi di pubblico dominio. Ma che per il quale mi occorrevano naturalmente riscontri obbiettivi, e soprattutto capire perché nessuno fino a quel momento avesse denunciato l’esistenza di quella commistione fra politica e onorata società, concentrando gli strali della pubblica opinione sulla Dc. L’occasione per la verifica arrivò per caso, allorché seguendo le perquisizioni di massa compiute dai carabinieri Mussomeli (un intero paese circondato e svegliato nel cuore della notte, passando al setaccio casa per casa, perfino la canonica del parroco), ebbi modo di chiedere notizie a un alto ufficiale dell’Arma, su alcuni nomi del dossier. Dapprima cinque, poi sette, poi dieci, ricevendo ogni volta risposte negative circa la conoscenza di tali attività. Fino a quando, di fronte ad un’altra sfilza di nomi, il mio interlocutore non ce la fece più a trattenere la sua curiosità. “Ma come fa ad avere un documento riservato della Presidenza del Consiglio?” mi chiese. Non gli volli dire la provenienza, risposi a mia volta con un’altra domanda: “Come mai non avete fatto niente nei confronti di queste persone? Come mai tutto rimane segreto?". La risposta allora mi stupì. “Ordini del Governo”. Forse quella risposta, quella copertura, fornisce una spiegazione nel silenzio di oggi dinanzi alle motivazioni della sentenza. Il silenzio di chi non vuole appesantire il giudizio morale e politico di questa sentenza, per non rivangare un passato, quello degli anni che vanno dal 1960 al 1980 (quando Andreotti si sarebbe reso conto del pericolo mafioso?), e che vedeva tutto il mondo politico, con l’eccezione di pochi distinguo, contiguo, se non espressione di un fenomeno che attraversava la società siciliana senza distinzioni. La Storia, quella citata dalla Corte d’Appello di Palermo, quando verrà scritta, sarà tanto onesta da guardare con occhi meno strabici di quelli della politica?
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Turiddu il postelegrafonico
(1943-1945)
TURIDDU gioca il tutto per tutto. Con un colpo secco del palmo della mano manda la canna del fucile a sbattere contro la faccia del giovane carabiniere che lo tiene sotto tiro. Il carabiniere, prima ancora che dolorante, ne rimane stordito. Turiddu scappa abbandonando il mulo e centoventi chili di frumento. Il boschetto di vimini é lì a poche decine di metri, se lo raggiunge é salvo. I suoi scarponi alzano una striscia di polvere nel tramonto accaldato di inizio settembre. Ode voci concitate che s'avvicinano, che lo minacciano, che gli intimano di fermarsi, ma non si ferma: ha davanti la libertà. Dieci metri dai primi arbusti, cinque metri...Ce l'ha quasi fatta... Invece una palla di fuoco - a lui almeno tale pare - gli fa bruciare il fianco. Turiddu barcolla, cade, cerca un riparo, trova terra brulla e fili d'erba seccati dalla lunga estate. La mano destra sfiora la ferita, scende lungo il fianco, raggiunge la caviglia, palpa il revolver calibro 9 che porta sotto la calza, dentro lo scarpone. L'ha avuto da un ex prigioniero iugoslavo, assieme a cinque pezzi di tela grezza, in cambio di un fiasco di vino. Turiddu aveva immaginato che quel revolver gli sarebbe servito, ma non contro gli uomini della legge. Lo punta inquadrando il ragazzo in divisa al quale é sfuggito e che lo ha appena ferito, preme il grilletto: un colpo dritto al cuore. Sono le 17.17 del 2 settembre 1943. Così muore un carabiniere e nasce un bandito. Così cambia la storia della mafia e dell'Italia.
Il carabiniere si chiama Antonio Mancino e ha 24 anni; il bandito si chiama Salvatore Giuliano e compirà 21 anni il 20 novembre. Quel pezzo di terra brulla tra il boschetto di vimini e il rigagnolo essiccato é Quarto Mulino, frazione di San Giuseppe Jato, un paesone destinato a entrare nella cronaca dei decenni successivi. L'uccisione di Mancino impaurisce l'appuntato Renato Rocchi e le due guardie campestri, Giuseppe Barone e Vincenzo Manciaracina, che hanno approntato il posto di blocco in cui é incappato Giuliano. I tre sparano qualche colpo a casaccio verso la macchia in cui é acquattato Turiddu, ma hanno perso la baldanza d'essere armati: anche l'altro lo é e ha mostrato una mira di tutto rispetto. Quanto alla divisa che portano, l'appuntato e le guardie campestri sanno che non conta - le divise in Sicilia non hanno mai contato molto -, anzi, li espone a qualche rischio in più. Giuliano aspetta il buio prima di lasciare il boschetto di vimini. Trova una casa amica e un medico compiacente a Borgetto, alle porte di Palermo. In cinque giorni smaltisce le conseguenze della ferita, però il suo destino è segnato: nelle mani dell'appuntato Rocchi è rimasta la sua carta d'identità. La notte in cui il fratello Giuseppe e alcuni parenti vengono a riprendere Turiddu lo portano direttamente in un rifugio a Calcerame, la collina che domina Montelepre da oriente. La madre, che con quel figlio, l'ultimo di quattro, ha un rapporto fortissimo, dai dichiarati tratti edipici, gli ha approntato un nascondiglio dentro una grotta. Giuliano trascorre lì la convalescenza. Una volta guarito, comincia a guardarsi intorno con il binocolo tedesco recapitatogli assieme a un mitragliatore e a una rivoltella. La borsa nera, il contrabbando del grano sono ormai alle spalle. L'attende un'esistenza nuova. Gli inizi sono da bandito di strada quali la Sicilia ha prodotto a centinaia. Protetto e aiutato da una diffusa omertà che dalla famiglia d'origine si estende all'intera Montelepre, dapprima da solo, poi attorniato da cugini, zii e da un numero crescente di simpatizzanti, Giuliano rapina e taglieggia, sequestra e uccide. Il suo obiettivo prediletto sono carabinieri e militari del regio esercito, che conducono una vita stentata, da ospiti mal sopportati per non dire di peggio. Giuliano agisce in una Sicilia arida, tra montagne che induriscono il paesaggio e il cuore, una terra che ha poco da offrire alle bestie che vi pascolano, figuriamoci agli uomini. E' una Sicilia irredimibile già nel passato, secondo la celebre definizione di Tomasi di Lampedusa, immobile nei secoli, insensibile alle lusinghe di Garibaldi e ai cannoni di Cesare Mori, il famoso "prefetto di ferro" inviato da Mussolini negli anni Venti per sradicare la mafia. In poco tempo le imprese del picciotto, capace, la notte del Natale '43, di assaltare da solo un autocarro pieno di carabinieri, raggiungono orecchie interessate. Nel febbraio successivo Vito Genovese, "don Vitone", futuro capo dei capi di Cosa Nostra negli Stati Uniti, decide che la conoscenza di Turiddu vale uno scomodo viaggio da Palermo. L'incontro è immortalato da una foto. Giuliano dimostra molto più dei 21 anni che ha e appare serio, frastornato. Genovese invece sorride e s'atteggia a compagnone; si è messo in posa con gli occhiali da sole tipici dei soldati americani. Infatti ne indossa la divisa: fa l'interprete alle dipendenze del colonnello Charles Poletti, ex vicegovernatore dello stato di New York e responsabile degli affari civili nella Sicilia da poco occupata. E dire che Genovese è ricercato negli States per omicidio: è fuggito nel '37 per evitare un processo che l'avrebbe potuto condurre alla sedia elettrica. Riparato in Italia, "don Vitone" ha compiuto atto d'ossequio al fascismo e si è piazzato buono buono in un cantuccio, pronto a rendere qualche favore ai nuovi protettori. Dopo lo sbarco, è regolarmente arruolato dagli americani, benchè penda su di lui un nuovo procedimento penale aperto dalla procura di New York. Viene sospettato di essere il mandante della brutale eliminazione del giornalista anarchico Carlo Tresca, ucciso a pistolettate nel gennaio del '43, tra la Fifth Avenue e la Quindicesima Strada, da Carmine Galante, altro futuro boss allora agli esordi. Genovese non si limita però a fare l'interprete: nei ritagli di tempo depreda l'esercito americano e con la refurtiva - pane, olio, zucchero, caffè, vestiti - organizza un lucroso mercato nero. Non è il solo. A Max Mugnani, il più noto trafficante di stupefacenti, è affidato il deposito dei prodotti farmaceutici, e la morfina va letteralmente a ruba. Genovese e Mugnani non si muovono da isolati: li spalleggia la mafia, rappresentata da personaggi come Calogero Vizzini, Giuseppe Genco Russo e Vanni Sacco, i principali alleati dei nuovi padroni.
La mafia studia Giuliano a distanza. Ne prende le misure. Lo tiene d'occhio per un eventuale utillizzo. Buscetta, il primo dei grandi collaboratori di giustizia dirà che Giuliano era un uomo d'onore della "famiglia" di Montelepre, sotto la giurisdizione di Salvatore Celeste, capobastone di San Cipirello. Sarà vero? Turiddu già in quei primi mesi del '44 è troppo esposto -addirittura bruciato- perchè i boss lo possano accogliere tra le proprie file. E' un assassino di carabinieri e per quanto gli equilibri politici siano in bilico tra monarchia e separatismo, con quest'ultimo diviso tra l'ala filo-britannica e l'ala filo-americana, la prudenza invita a giocarlo, non a farlo partecipare al gioco. Giuliano però annusa l'aria, capisce che qualcosa si agita. I siciliani hanno trasformato la millenaria rabbia antigovernativa in un confuso desiderio di far da soli, Turiddu cerca una strada che gli consenta di lasciare le grotte e dormire tranquillo nel letto di casa. Sa a malapena leggere e scrivere, non ha interessi che vadano al di là di una miseria meno nera per sè e per la famiglia, però è dotato di un formidabile istinto militare e di un intuito galoppante. I manifesti che nel novembre '44 fa affiggere sui muri di Montelepre e dei paesi vicini, fino alle prime case di Palermo, testimoniano la svolta. Vi sono disegnati il continente americano e l'Italia con una catena che dagli Stati Uniti giunge fino alla Sicilia, passando per Roma. La catena è spezzata nel mar Jonio da un omino che impugna uno spadone e porta un singolare copricapo, simile a quello indossato dai giocatori di polo: ha infatti in testa il suo berretto con visiera e filo rosso da fattorino postelegrafonico, un lavoro che svolgeva saltuariamente, stendendo i fili nelle campagne. Il manifesto contiene un'indicazione esplicita: "A morte i sbirri succhiatori del poplo siciliano e perchè sono i principali radici fascisti, viva il separatismo della libertà". A parte l'italiano e l'ortografia, a parte la rancorosa avversione per i carabinieri, colpevoli ai suoi occhi di sequestrare le merci del contrabbando ("succhiatori del popolo siciliano"), Giuliano si schiera con il separatismo prima ancora di capire bene che cosa sia e che cosa possa dargli in cambio dei suoi servigi. La "butta in politica", insomma. E' il primo. Molti altri nei cinquant'aani successivi seguiranno la stessa via.
Quando Giuliano va a ingrossare le sue file, il separatismo sta per raggiungere il vertice della parabola. Tra la rivolta di Catania del dicembre '44 e la proclamazione della libera Repubblica di Comiso del gennaio '45, la Sicilia vive una fase prerivoluzionaria. A Catania, migliaia di giovani, guidati da Antonio Canepa, docente universitario comunista e separatista, rispondono ai bandi di leva per la ricostituzione del regio esercito bruciando il municipio, il distertto militare, l'esattoria, l'intendenza di finanza. A Comiso, carabinieri e soldati cacciati dal paese per più di una settimana si rivelano incapaci di riprenderlo: alla fine devono scendere a patti.Atti continui di guerriglia, soprattutto nella zona orientale dell'isola, costringono i militi ad asserragliarsi nelle caserme dal tramonto all'alba. Per fortuna il vertice del movimento è politicamente spaccato e umanamente diviso da quegli odi fraterni che i siciliani coltivano da insuperati maestri. L'elemento di maggior spicco è Andrea Finicchiaro Aprile, fiorentino d'origine, figlio di un onorevole e insigne giurista, Camillo, garibaldino a 16 anni. Finocchiaro Aprile, che per quel eterno amore del paradosso, così radicato in Sicilia, risulta iscritto a una loggia massonica antiregionalista, è stato sottosegretario con Nitti e con Giolitti, poi l'insensibilità di Mussolini alle sue suppliche e ai suoi proclami di fedeltà l'ha obbligato a tenersi in disparte. Di conseguenza passa per antifascista. Una simile credenziale gli è servita nel gennaio del '43 per inviare agli ambasciatori presso la Santa Sede un memorandum in cui il popolo siciliano chiedeva il riconoscimento della propria sovranità nazionale. Naturalmente il popolo siciliano non soltanto non chiedeva alcunchè, ma ignorava persino che tale richiesta fosse stata avanzata a suo nome dal CIS (Comitato per l'Indipendenza Siciliana), padre del futuro MIS (Movimento per l'Indipendenza Siciliana), che da quei giorni è il partito ufficiale dell'utopia. Attorno a Finocchiaro Aprile si coagulano i settori più retrivi e più preoccupati della nobiltà e della borghesia, accomunati da un identico interesse: la difesa del latifondo. Per gli esponenti dell'antico patriziato, distintosi nei secoli in tutte le battaglie di retroguardia, la caduta del fascismo deve coincidere con la loro presa del potere. Sono per l'abbattimento del tiranno purchè non siano toccati i confini dei propri possedimenti. Questa è l'autentica natura dei padri fondatori del MIS e, per assecondarla, il barone Lucio Tasca (nominato nell'ottobre del '43 sindaco di Palermo), i duchi di Carcaci, gli avvocati Attilio Castrogiovanni e Sirio Rossi, i baroni Stefano La Motta e Nino Cammarata, il proprietario terriero Concetto Gallo pencolano a ogni colpo di vento. Alcuni sognano la trasformazione della Sicilia in una seconda Malta sotto il protettorato inglese; altri che essa diventi la qurantanovesima stella della bandiera americana. Non li unisce neppure la comune appartenenza alla massoneria e alla mafia: secondo Buscetta, lo stesso Finocchiaro Aprile (del quale è sempre stata esclusa l'appartenenza alla mafia, nonostante i suoi stretti legami con innumerevoli mammasantissima) sarebbe stato un affiliato alla "famiglia" palermitana di Porta Nuova. Congiure, tradimenti, accordi sottobanco sono, nel 1944, gli ingredienti di una realtà indigesta per tutti tranne che per la mafia. Dopo uno sbandamento iniziale, la mafia abbandona il separatismo a favore di un'autonomia in cui intuisce che mangerà a sbafo. La scelta non è dettata da semplice lungimiranza; si avverte la chiara influenza dei cugini americani di Cosa Nostra, fedeli portaparola del governo statunitense e dei suoi disegni per il dopoguerra. Nel breve volgere di poche stagioni, il separatismo si affloscia. Gli ideali d'indipendenza, di autodeterminazione, di riscatto millenario che hanno incendiato cuori e muri risultano estranei proprio a chi li ha proclamati. L'unico interesse da cui sono animati è la difesa di privilegi secolari. Ecco il motivo che impedisce di sfruttare la situazione favorevolissima dell'inverno 1945: il vertice separatista ha paura di non controllare la piazza e le sue spinte di democrazia avanzata. Di conseguenza viene emarginata l'ala sinistra del movimento, incarnata dall'avvocato Antonino Varvaro e da quel professor Canepa che spera di trapiantare i valori del comunismo nella "Sicilia nazione". Non casualmente i suoi giorni di aspirante rivoluzionario finiscono in un agguato dei carabinieri poco dopo aver proclamato: "Allorchè faremo la Repubblica Sociale in Sicilia, i feudatari ci dovranno dare le loro terre, se non vorranno darci le loro teste". Quando, una notte del giugno 1945, Canepa viene ucciso assieme a due compagni, il separatismo è ormai in fase calante, anche se ha creato il suo apparato militare, l'EVIS (Esercito Volontario per l'Indipendenza Siciliana) e stabilito un contatto con Giuliano. A quella data, infatti, siamo già all'accademia; la partita vera si è conclusa con il cambio di casacca della mafia traslocata dal MIS alla nascente DC. Esistono due precisi riferimenti cronologici. Nel febbraio del '44 Giuseppe Alessi, che incarna l'anima intransigente della Democrazia Cristiana, si oppone vanamente all'ingresso nel partito degli ex separatisti del Vallone - un insieme di paesi in provincia di Caltanissetta - la cui mente politica è Calogero Volpe, futuro deputato e sottosegretario alle Poste, e il cui braccio armato sono Giuseppe Genco Russo, Calogero Vizzini e Vanni Sacco: la sacra Trimurti dell' "alta mafia". Nel gennaio del '45 Bernardo Mattarella, l'esponente più rampante della Democrazia Cristiana, benedice con un articolo sul Popolo l'ingresso nel partito dei villalbesi di don Calò Vizzini. Il 10 aprile 1945, a sedici giorni dall'apertura della conferenza di San Francisco (dove sarà battezzata l'ONU), l'OSS (Office of Strategic Service), il servizio d'intelligence che si può considerare la mamma della CIA, informa il governo di Washington che la mafia ha convinto Finocchiaro Aprile ad accontentarsi dell'autonomia anzichè prendere l'indipendenza. L'integrità dello Stato italiano, secondo i desiderata degli Stati Uniti più che della Gran Bretagna, è ormai intangibile. I colpi di coda di Finocchiaro Aprile, i contatti sotterranei con Vittorio Emanuele Orlando -altro massone e grande amico di mafiosi, come Vanni Sacco, se non mafioso lui medesimo-, le folcloristiche trattative con Umberto di Savoia per un eventuale Regno di Sicilia da fondare in caso di vittoria della Repubblica, non mutano il quadro generale e non avrebbero potuto mutarlo. Tuttavia, essendo grande la confusione sotto il cielo di Sicilia, capita che i catanesi del MIS, Gallo e il duca di Carcaci, cerchino ed ottengano un contatto con Giuliano. Gallo e Carcaci rappresentano l'ala oltranzista. Hanno arruolato un centinaio di studenti di buona famiglia, hanno dato loro una divisa e una bandiera dove compaiono i colori del duca, li hanno convinti che sono l'avanguardia armata cui presto seguiranno le falangi del popolo per l'immancabile rivincita attesa dal giorno dei Vespri. Il fumo è tanto, l'arrosto manca. Per trovarlo Gallo e Carcaci si arrampicano fino alla fattoria dei fratelli Genovese e Bellolampo, distante poche centinaia di metri dalla caserma dei carabinieri. Giuliano è ben felice di accoglierli. Per lui separarsi dall'Italia significa cancellare le pendenze con i giudici e gli sbirri. Promette perciò di aprire un secondo fronte e di infliggere il colpo di grazia all'esercito italiano messo sotto pressione dalla rivoluzione nella Sicilia orientale, che Gallo e Carcaci gli danno per imminente. Ma chi ha condotto i due separatisti da Giuliano? Il duca di Carcaci nelle sue memorie ricorda che il primo contatto l'ebbe l'avvocato Castrogiovanni attraverso i buoni uffici di Tasca. E questi poteva contare sulla conoscenza tra il barone La Motta e Pietro Franzone, fratello del sindaco di Borgetto, che si era prodigato nella protezione di Turiddu ferito a Quarto Mulino. La mafia, tuttavia, resta in agguato. Vizzini in persona sovrintende alla riunione in cui lo stato maggiore del MIS deve decidere se arruolare o no Giuliano. Sono tutti convinti, l'unico dubbioso in nome dell'ideale è Varvaro e allora don Calò dà la spinta finale spiegando che per il giovanotto garantisce lui perchè lui ne ha il pieno controllo. Giuliano incontra per la seconda volta gli improvvisati compagni di viaggio: riceve i gradi di colonnello dell'EVIS e l'assicurazione che in caso di vittoria la sua fedina penale tornerà immacolata. Turiddu propone di formare un quadrato armato tra Partinico- Montelepre- Borgetto- San Giuseppe Jato per bloccare il maggior numero di battaglioni e colpire poi con la tecnica del mordi e fuggi, che egli attua da venti mesi. La proposta non è accolta. I capi del MIS si congedano con la promessa di far arrivare a Giuliano un milione. Non s'incontreranno più: entro pochi mesi la truppa di Gallo e di Carcaci sarà sgominata, Giuliano cercherà altri garanti della propria salvezza; la mafia dapprima ne ingigantirà la pericolosità, poi lo venderà. Ricordate la frase attribuita nel '92 a Riina: "Bisogna prima fare la guerra per poi fare la pace"? Anche con Giuliano viene messa in atto un'operazione identica. Occorre far sì che l'ex fattorino postelegrafonico di Montelepre diventi il pericolo pubblico numero uno per strappare le migliori condizioni al momento della consegna. Inutile aggiungere che in questi casi un morto vale molto più di un vivo. Nella fase iniziale il burattinaio è Vizzini. Un semianalfabeta, più largo che lungo, giunto in prossimità sei settant'anni, ma così lucido da trattare contemporaneamente con l'OSS, con Poletti, con Girolamo Li Causi (responsabile del PCI regionale), con Genovese, con Giuliano, con i separatisti, con i democristiani. Vizzini ha i tentacoli di una piovra. D'altronde viene da lontano, sa come gira il mondo e sa che in Sicilia può girare più piano o più veloce a seconda del comodo di alcuni. La sua intera vita ne è un' esemplare dimostrazione.Vizzini appartiene al ramo campagnolo di una famiglia zeppa di preti e avvocati. Il paese natìo, Villalba è nel profondo dell'isola. A cavallo del secolo è stato feudo incontrastato dei Pantaleone, il casato dell'indomito nemico di don Calò: il ragionier Michele autore del "Sasso in bocca" e di tanti altri libri che hanno avuto il merito di porre il problema mafioso quando pochi ne parlavano. I primi passi di Vizzini, nato nel 1877, sono avventurosi. Le denunce della forza pubblica e le carte dei processi ce lo descrivono quale giovane aiutante del brigante Varsalona, che non farà una bella fine al pari di quasi tutti i suoi simili. A uscirne indenne è il giovane Calogero, tant'è vero che nel 1908 si può proporre quale mediatore tra il duca Francesco Thomas de Barberin e la Cassa rurale cattolica -presieduta da un suo zio, il sacerdote Sgarlata- per l'affitto del feudo Belici. La transazione va in porto, i contadini fedeli alla Chiesa ottengono le terre da coltivare e Vizzini ne guadagna il prestigio personale ed economico, dato che a lui sono affidati ben duecentonovanta ettari. E' la svolta. Appoggiato da un cugino avvocato, Vizzini allarga il raggio della propria azione, investe nelle miniere di zolfo. Allo scoppio della prima guerra mondiale costituisce una società per l'approvvigionamento di muli, cavalli e asini all'esrcito. Lo fa alla sua maniera: lucrando sul prezzo e sul numero delle bestie, vendendo animali rubati o facendoli rubare dopo averli venduti. I conti risultano così esosi che alla fine delle ostilità il ministero invia un generale per capirci qualcosa. Ne deriva un processo nel quale sono condannati soltanto gli ufficiali. Vizzini non soltanto la scampa, ma si gode i benefici delle proprie ruberie. Nel 1916, in un'asta pubblica truccata, ha acquistato per 60.000 lire 501 ettari del feudo Marchesa che nel '19 rivende per 1550 lire a ettaro. Con questi proventi incamera tutte le miniere di zolfo della zona e in più una piccola tenuta nei pressi di Chianciano, che poi cede per una somma che provvede subito a versare nelle casse del fascismo. L'obolo gli serve per bilanciare le simpatie manifestate nei confronti dei popolari, ormai il partito di famiglia, considerato che all'alto numero di parenti con la tonaca si sono aggiunti due fratelli di don Calò: Giovanni, futuro monsignore della chiesa Matrice e Totò che avrà la parrocchia dell'Immacolata. Vizzini è ricco e temuto, i suoi nuovi amici si chiamano Lucio Tasca e Andrea Finocchiaro Aprile ed è probabile che Tasca, singolare cantore del latifondo siciliano, lo trascini in una loggia massonica alla quale sono iscritti i principali agrari dell'isola. Ai suoi tanti riconoscimenti don Calò ne aggiunge uno internazionale: nel '22 partecipa alla riunione di Londra per la creazione di un cartello mondiale dello zolfo. Una sede dove l'ometto di Villalba si trova a rappresentare l'Italia gomito a gomito con personaggi del calibro di Guido Donegani fondatore della Montecatini, e di Guido Jung, ministro del tesoro durante il regime fascista. Diventa così comprensibile perchè Vizzini superi quasi indenne le crociate di Mori. Nella sua unica intervista (concessa nel '54 a Montanelli sul "Corriere della Sera" per interessamento di Tasca) lamenterà di aver sofferto cinque anni di carcere da innocente. Non ne abbiamo trovato traccia. Lo stesso anno di confino, nel '28, da trascorrere a Tricarico, in Basilicata, è molto all'acqua di rose giacchè don Calò si può muovere, può viaggiare, viene spesso visto a Caltanissetta e a Villalba. Sono i prodromi della clamorosa assoluzione nei processi in cui è imputato di sovrintendere alla "mafia delle miniere" e di far parte della "mafia del latifondo". Le sentenze sanciscono l'intoccabilità di Vizzini, lui però non perdonerà mai al fascismo l'affronto di averlo condotto in giudizio. Il suo potere travalica ormai i confini della provincia di Caltanissetta. Don Calò fa parte a pieno titolo dell' "alta mafia", quella che si occupa dei campi di grano e da pascolo, degli uliveti, dei limonceti, degli aranceti, delle immense fortune che da essi promanano. Vizzini assume la dimensione di colui che può mediare sia gli affari sia gli sgarbi: viene ritenuto indispensabile proprio da quelle famiglie che spesso sono chiamate a soddisfare i suoi robusti appetiti. Le mediazioni, infatti, costano in ogni senso. A renderle uniche è l'alone che le circonda. Vizzini è considerato il più classico "amico degli amici". I suoi compari stanno a Mussomeli (Genco Russo) e a Camporeale (Vanni Sacco), ma stanno pure a Philadelphia dove il boss è Angelo Bruno, che da bambino a Villalba si chiamava Angelo Annaloro. E se arriva uno zio d'America che ignora il suo rango, come nel caso di Vito Genovese, Vizzini fa di tutto per incontrarlo a Napoli e piacergli. Insomma, quando gli Alleati sbarcano nel luglio del '43 sanno bene a chi rivolgersi. E' probabile anche che a Vizzini si siano già rivolti gli emissari della "Sezione Italia" dell'OSS. L'ha formata Earl Brennan, diplomatico di carriera, appartenente a quell'alta borghesia WASP che interpreta lo spionaggio come un eccitante gioco di società. Il giovane Brennan ha frequentato l'Italia, c'è tornato da incaricato d'affari dell'ambasciata statunitense di Roma, ha girato la penisola in lungo e in largo allacciando importanti rapporti con i massoni legati ai circoli anglosassoni. Quando il capo dell'OSS, William Donovan, un ex avvocato amicissimo di Roosevelt, che a Washington chiamano "Bill il pazzo", riceve l'incarico di preparare l'invasione della Sicilia, si affida naturalmente a Brennan. Il primo assunto della "Sezione Italia" è un avvocato del Connecticut, Vincent Scamporino, figlio di emigrati italiani. Pare che l'indicazione sia giunta dal giro di don Luigi Sturzo, il prete di Caltagirone, fondatore del Partito Popolare, esule da vent'anni negli Stati Uniti e con buone entrature al Dipartimento di Stato. Scamporino non è soltanto un oriundo, è pure il legale dei sindacati sui quali Cosa Nostra ha già steso la propria ombra. Suo vice è un altro avvocato, Victor Anfuso, che ha difeso nelle aule di giustizia tanti siciliani di Brooklyn. Il terzo in gerarchia è un ventenne con il pallino dell'agente segreto, Max Corvo. Questo 007 in erba proviene da Melilli, duemila anime in provincia di Siracusa, e i sedici membri della "Sezione Italia" saranno quasi tutti suoi compaesani. Così Melilli entra a sua insaputa nella Storia, dove invece resta poco la "Sezione Italia". Alla fine del '43 sarà sciolta e i responsabili dell'OSS cercheranno di far scendere il silenzio su di essa. Le missioni nell'isola del gruppo di Scamporino cominciano nel gennaio del '43. Gli uomini dell'OSS hanno indirizzi sicuri, godono di protezioni ferree e di "amici" in grado di indicare l'esatta dislocazione dei comandi e delle stanze in cui sono celate le casseforti più protette, quelle con le mappe dei campi minati e i codici segreti. In primavera la mafia compie la sua scelta di campo allo stesso modo della nobiltà, che nelle ville di campagna ospita i pari grado britannici arruolati dall'Intelligence Service. Secondo Michele Pantaleone, l'alto comando statunitense avrebbe addirittura inviato un caccia sopra la casa di don Calò per lanciare un plico con cui avvisarlo che, in mancanza di taxi, l'avrebbe prelevato un carro armato con l'insegna di Luciano (una grande "L" nera). Questo racconto oggi può fare sorridere, ma in Sicilia abbiamo visto troppe fantasie trasformarsi in incubi per non concedere almeno il beneficio del dubbio alla stupefacente elevazione di Vizzini nell'empireo a stelle e strisce, tanto più che il 27 luglio don Calò è nominato sindaco di Villalba dal tenente Beher del Civil Affairs, l'organizzazione di Poletti. Qualcuno maliziosamente racconta che il tenente Beher deve scandire l'atto a voce alta per venire incontro alle difficoltà del neosindaco con la lettura di vocali e consonanti. A Vizzini e ai suoi uomini è concesso il porto d'armi per difendersi dai fascisti che, poveracci, non li avevano infastiditi neppure quando detenevano il potere. L'ex aiutante del brigante Varsalona è riverniciato di tutto punto. Lui, Genco Russo, Calogero Volpe e gli altri del Vallone possono contare anche sull'appoggio del neoprefetto di Caltanissetta, l'avvocato Arcangelo Cammarata, il quale, nell'indicare agli Alleati i nuovi amici, non ha dubbi nello scegliere gli "uomini di rispetto", possibilmente con qualche consanguineo sacerdote. Poichè la mafia è stata tenuta nell'angolo durante il Ventennio, l'appartenenza ad essa diventa una nota di merito. A nessuno, meno che mai agli americani, interessa che nel curriculum di Vizzini risultino trentanove accuse di omicidio, trentasette di furto, sessantatrè di estorsione. Della mafia che l'alto comando alleato ripropone quale garante del nuovo ordine, don Calò è la punta di lancia, quello che ha più carisma, più contatti. Li usa per parare i contraccolpi del temuto cambiamento. La sua fede combacia con la "roba". Se nel '20 è stato pronto a saltabeccare dai popolari ai fascisti, nel '43 è pronto a lisciare il pelo ai separatisti, che poi, nella gran parte, sono gli stessi personaggi con i quali ha trattato e concluso accordi. Il futuro della Sicilia, il suo strombazzato riscatto lasciano indifferenti Vizzini e il resto della mafia. Il loro cuore batte per quei pezzi di latifondo che si possono ottenere a gabella. La bandiera e l'ideologia che ne consentiranno l'accaparramento saranno la loro bandiera, la loro ideologia. A partire dall'aurunno del'44 il separatismo perde questi requisiti. In agosto il nuovo Alto Commissario per la Sicilia, Salvatore Aldisio, comincia a mostrare la faccia feroce dello Stato. Aldisio è un seguace di don Luigi Sturzo, con lui ha affrontato i giorni roventi del primo dopoguerra, con lui ha fondato il Partito Popolare, di cui è stato eletto deputato. Caduto il fascismo, Aldisio è rientrato in attività. Per conto di Sturzo ha ricevuto da Badoglio, in febbraio, il ministero dell'Interno nel primo governo democratico. Pochi mesi dopo gli viene affidata la Sicilia e soprattutto la rinascita del vecchio partito che prende il nome di Democrazia Cristiana. Aldisio, intuisce che il nemico da battere è il separatismo, il quale pesca nell'elettorato che sarà poi della DC: di conseguenza, a differenza del suo predecessore, l'anziano parlamentare socialista Francesco Musotto, avversa il MIS con ogni mezzo. Al resto provvedono l'incapacità, i garbugli dei dirigenti separatisti, il grande gioco internazionale. Stati Uniti e Inghilterra sono preoccupati per l'assetto dell'Europa, cercano puntelli per la battaglia contro il comunismo. Immaginano che ne avranno un gran bisogno in un Paese di confine qual'è destinato a essere l'Italia. Probabilmente l'amministrazione americana non ha ancora deciso su chi puntare, ma la mafia, con il suo carico di potere, è già lì, sembra addirittura il perno di ogni equilibrio. Da sperimentato camaleonte, è l'instancabile don Calò a presentarsi nelle vesti di irriducibile anticomunusta, ma anche le circostanze danno una mano. E che mano! Accade che il 16 settembre 1944 arrivi a Villalba un camion carico di militanti con la bandiera rossa. Sono l'accompagnamento e la protezione del leader regionale comunista, Girolamo Li Causi, giunto da poche settimane nella terra natia dopo anni di galera fascista. Li Causi vuol tenere il primo comizio comunista a Villalba. I suoi collaboratori hanno contattato Vizzini, un cui nipote ha ereditato la carica di sindaco, e ricevuto l'assenso. C'è una sola proibizione: che Li Causi accenni alle beghe tra due cooperative di contadini per l'assegnazione del feudo Miccichè della principessa Trabia. A don Calò sembra di essere stato un campione di tolleranza, di essersi confermato uomo "al di sopra delle parti". Soprattutto non ha chiuso la porta in faccia all'esponente del partito su un cui settimanale, "La voce comunista", edito dalla federazione di Palermo, il 24 giugno è comparso un articolo avverso al latifondo e al separatismo, ma di cauta apertura nei confronti della mafia, del ruolo che potrà giocare nell'assegnazione delle terre. Quel 16 settembre Li Causi mostra di avere altre idee. Si presenta sul palco accompagnato da Michele Pantaleone, il quale non soltanto è il segretario della locale sezione del PSI da lui fondata e l'esponente di una famiglia che da mezzo secolo si guarda in cagnesco con i Vizzini, ma è anche il rappresentante della cooperativa che contende a quella di Vizzini la gabella del feudo Miccichè. Un cocktail esplosivo. Che deflagra quando le ispirate parole di Li Causi abbandonano il sole dell'avvenire e scendono sulle belle zolle del feudo conteso. A quel punto don Calò urla: "E' falso". Si scatena il finimondo: decine di colpi di pistola e lancio di cinque bombe a mano. Quattordici feriti, tra i quali Li Causi. L'indomabile "Momo" ha ricevuto le stimmate per le prossime battaglie contro la mafia. Vizzini è divenuto il campione dell'anticomunismo. La DC, che sostiene di aver bisogno di uomini di tal fatta per contrastare le violenze rosse nelle campagne, guarda a lui attraverso gli occhi disincantati di Bernardo Mattarella.
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Vecchie storie di mafia e Dc
di Andrea Camilleri (da MicroMega, novembre '99)
Quando, nella notte tra il 9 e il 10 luglio 1943, le forze alleate iniziano lo sbarco in Sicilia, a tirare un sospiro di sollievo sono in tanti: i cittadini che vedono avvicinarsi l'ora della fine degli spaventosi bombardamenti; gli antifascisti che sentono il profumo della libertà; i mafiosi i quali, avendo appoggiato lo sbarco, sanno di poter disporre adesso di uno spazio di manovra che il fascismo aveva loro negato. E a proposito dei rapporti tra fascismo e mafia, vedi Sciascia. Viene formato l'Amgot (Allied military government of occupied territory), guidato dal discusso colonnello Charles Poletti per la parte che riguarda i "civil affairs" della Sicilia. A Poletti viene quindi lasciato il compito di nominare prefetti e sindaci. E Poletti lo fa. Sir Rennel O' Rodd, che sovrintendeva a tutti i compiti dell'Amgot, si espresse in questi termini nella prefazione al libro di G.R. Gayre, Italy in transition (Londra 1946): "La maggioranza dei comuni era lacerata da gelosie personali e faide ed aveva enormi difficoltà a proporre dei nomi. Di fronte al popolo che tumultuava perché fossero rimossi i podestà fascisti, molti dei miei ufficiali caddero nella trappola di scegliere in sostituzione i primi nomi che venivano proposti oppure seguire il consiglio d'interpreti che si erano accodati loro e che avevano imparato un po' d'inglese durante qualche loro soggiorno negli Stati Uniti. I risultati non erano sempre felici, le scelte finivano per cadere in molti casi sul locale boss mafioso o su un uomo-ombra il quale in uno o due casi era cresciuto in ambienti di gangster americani. Tutto ciò che poteva essere detto di questi uomini era che essi erano tanto antifascisti quanto indesiderabili da ogni altro punto di vista". In conclusione, molti mafiosi (l'elenco dei nomi sarebbe lungo e noioso) si risvegliarono dal "sonno" e divennero sindaci, cioè a dire che la mafia passò ad amministrare direttamente, come mai prima era stato possibile, più della metà dei comuni siciliani. Gli Alleati nominarono i prefetti (tra gli altri Angelo Cammarata a Caltanissetta), i rettori e i professori universitari, i nuovi magistrati. Tutti, in comune, dovevano essere rigorosamente antiseparatisti. Già, il separatismo. Se verso il Mis (Movimento indipendenza siciliana), proclamato da Finocchiaro Aprile il 10 luglio 1943 (vale a dire contemporaneamente allo sbarco alleato in Sicilia), l'Amgot ebbe un atteggiamento ufficiale di chiusura, altrettanto non si può dire del supporto ufficioso che gli americani offrirono al movimento. Un solo esempio per tagliar corto a discorsi che potrebbero diventare noiosi: primo cittadino di Palermo venne nominato Lucio Tasca, capo storico del movimento separatista, proprietario terriero, autore del volume Elogio del latifondo siciliano (che è quanto dire) che costituisce, assieme a La Sicilia ai siciliani del catanese Antonio Canepa, uno dei due pilastri sui quali si fonda il movimento. A Tasca, soprattutto nelle province della Sicilia occidentale, si aggiunsero altri sindaci separatisti e, in parte, mafiosi. Il capitano W.E. Scotten nell'ottobre 1943, nel suo Report on the problem of mafia in Sicily scrisse che "agli occhi dei siciliani l'Amgot si è circondato di amici dei separatisti e ha designato ai pubblici uffici sia dei "separatisti dichiarati che simpatizzanti tali. (...) Almeno l'80 per cento delle designazioni fatte dall'Amgot nell'area della provincia di Palermo sono state di questo genere". È bene ricordare che il Mis aveva un braccio armato (bene armato) che lasciò una lunga scia di sangue dietro di sé (colonnello dell'Evis - Esercito volontario indipendenza siciliana - era il bandito Giuliano). Concludiamo con le parole di Sir Rennell O'Rodd, una sorta di bilancio consuntivo a poche settimane dallo sbarco alleato. "Parlando in termini generali, questi uomini (i mafiosi) per l'opinione pubblica, ma anche nel fatto, sono antifascisti; ma non sono persone alle quali si possa concedere clemenza a cuor leggero col pretesto che sono prigionieri politici che hanno sofferto nelle mani dei fascisti. Mentre la mafia è essenzialmente una organizzazione criminale per l'estorsione, la "protezione" e i furti, in passato essa ha pure giocato un ruolo politico considerevole nelle competizioni elettorali. Suppongo che la mafia sia ora sicuramente associata al movimento per l'indipendenza siciliana".(...) Era successo che nel corso del 1947 la situazione in Sicilia era politicamente mutata. L'autonomia regionale, ma non solo quella, provocò lo scioglimento effettivo del movimento indipendentista. Il Movimento aveva avuto un peso politico non indifferente. Le province più separatiste erano state Agrigento, Ragusa, Catania, Palermo e Caltanissetta. In quest'ultima provincia c'erano i comuni appartenenti al cosiddetto "Vallone" tra i quali: Villalba ufficialmente rappresentata da Calogero Vizzini e Mussomeli rappresentata da Giuseppe Genco Russo (che succederà a don Calò Vizzini quale capo supremo della mafia). In conclusione: una volta sciolto il Movimento restavano a vagare dentro i confini dell'isola più di 150 mila voti. Prendiamo ad esempio quello che capitò a Caltanissetta dove già l'Amgot, nominando prefetto l'avvocato Cammarata, aveva, secondo le parole dell'onorevole Francesco Pignatone, emesso "un segnale positivo rivolto a quel coacervo di forze che col passare dei giorni si sarebbero manifestate come forze di qualità mafiosa". Racconta l'onorevole Giuseppe Alessi, uomo di punta della sinistra democristiana in Sicilia: "Alla riunione del comitato provinciale si presentò un gruppo guidato dall'allora soltanto dottore Calogero Volpe, che accompagnava i rappresentanti dello schieramento del "Vallone", da lui capeggiato, fino allora vivacemente separatista e prosperato sotto il patronato del prefetto Cammarata; ora che prefetto era Aldisio, quello schieramento col suo capo si era deciso ad entrare nel partito della Dc. Da parte mia non espressi alcuna opposizione di carattere personale verso i singoli: ma pretesi che ognuno presentasse singolarmente la domanda nelle sezioni, già costituite nei paesi del "Vallone". Il dottor Volpe fu preciso e deciso nella replica: tutto il gruppo entrava nel suo complesso organico, senza che il partito si permettesse di esaminare la posizione di ognuno dei componenti. Obiettai che in tal caso si trattava non già della richiesta dei singoli di entrare nel nostro partito, ma di una fusione tra due partiti; aggiunsi francamente che mi opponevo alla proposta così formulata, anche perché quello schieramento aveva dei contrafforti nell'onorata società, che a Mussomeli si esprimeva nella figura di Genco Russo. Si badi, e lo sottolineo con vigore: dissi, e ancora affermo, che non intendevo esprimere giudizi di carattere morale o di carattere religioso, perché non ne avevo diritto; debbo precisare che pronunziavo un giudizio di carattere strettamente politico". Parole rivelatrici da parte di un cattolico: nessun giudizio morale o religioso, solo politico, strettissimamente politico. A soccorrere l'onorevole Alessi in quel pericoloso momento, fu un' anima santa (così viene chiamata dallo stesso Alessi). L'anima santa in questione è quella del cavaliere Benintendi, presidente della Conferenza di San Vincenzo, il quale, chiamato in disparte Alessi, testualmente gli dice: "Caro il mio giovane avvocato, qui non siamo in sede di Azione Cattolica, per formulare simili discriminazioni, siamo in piano politico. Lei sa che i comunisti usano tali violenze contro i nostri da non consentire loro nemmeno le libere manifestazioni, i cortei. Ebbene, abbiamo bisogno della protezione di persone forti per fermare le violenze dei comunisti". Non me la sto inventando io, che sono abituato a scrivere romanzi, questa frase. L'elenco dei morti che precede ampiamente dimostra come quelle "persone forti" entrarono immediatamente in azione per far sì che i democristiani potessero fare i loro cortei. Così continua il racconto della sua pena l' onorevole Alessi: "Il cav. Benintendi era persona estremamente retta ed anima candida, veramente cristiana; ma, secondo me, sbagliava. Rimasi in minoranza, il "gruppo" entrò in massa e da quel momento si appropriò del partito". Ipse dixit. Lo stesso accadde nelle altre province siciliane.
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