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Gli anni 1390-1416 introdussero nella storia del
feudalesimo una rottura evidente: le grandi signorie
sono domate
e solo due conti, Ventimiglia e Centelle di Collesano e Cabrera di Modica
tennero testa alla monarchia. Il sogno feudale finisce: non si ha notizia, dopo
il 1400, che di rare donazioni che i signori della terra fanno ai loro fedeli. [1]
Il sistema feudale si semplifica; una sorveglianza efficace e puntigliosa
sanziona ormai l’infrazione della legge sul feudo, affidata ad una burocrazia largamente
espanizzata. La medesima disciplina regola i rapporti fra l’aristocrazia
feudale, città demaniali e chiesa; la
Monarchia controlla l’espansione dei patrimoni nobiliari; essa permette o
proibisce a seconda dei sui interessi strategici e, in ogni caso, fa pagare
cara la sua concessione. Essa si assume ancora il controllo dei matrimoni. [2]
La nobiltà feudale, largamente rinnovata, e catalanizzata dai Martino si trova
sempre di fronte l’avversa congiuntura che caratterizza la fine del XIV secolo:
una rendita in calo che non compensa più le usurpazioni facili le rendite del
Patrimonio reale ora difese da un’amministrazione castigliana strettamente
legata alla casa d’Oltremare: un indebitamento cronico accresciuto
dall’ammontare delle spese di prestigio per doti esagerate. Nel servizio reale
la concorrenza dei giuristi e dei tecnici dell’amministrazione limita i
profitti ed i posti di prestigio riservati all’aristocrazia regnicola. Essa
difenderà duramente i suoi privilegi e lotterà qualche volta ad armi eguali,
fornendo a sua volta chierici e letterati – conforme al modello ispanico [3]
Questi
ostacoli, la rivalità di una giovane nobiltà burocratica, l’impoverimento dei
baroni, l’emergere di una classe di coqs del villaggio, determinano un
ripiegamento sui valori sicuri, sulla terra e sul potere signorile.
Una buona
gestione patrimoniale, il consenso generale d’una opinione e d’una monarchia
che vogliono nella classe feudale l’asse insostituibile della società e dello
Stato, l’espansione, così, in Terraferma, ripresa dopo una pausa di più di 50
anni,[4]
permettono alla feudalesimo siciliano di attendere senza troppo danno il punto
di ritorno della congiuntura. Il prestigio è salvo – e questo è l’essenziale;
la ripresa delle rendite, che segna subito la ripresa demografica ed il grande
movimento commerciale, all’inizio irregolare, poi regolare, restaura , nel
1450, definitivamente la povertà economica della nobiltà fondiaria e del clero,
lungamente scalfita. I primi indici di questo raddrizzamento si percepiscono
nei feudi vicino Palermo, dove l’aumento delle rendite dell’erbaggio è
sensibile dal 1420, ma lento e contrastato. Poi s’estende ai feudi
dell’interno. [5] Nel
1513, Giovan Luva Barberi farà una descrizione dettagliata d’una Sicilia
feudale che ha ritrovato e superato largamente le rendite descritte nel Rollo
del 1336: in media, per 36 feudi non abitati nelle due fonti che precisano
la rendita – sulla quale poggia
l’imposta de sang -, l’aumento sarà del 113% : esso si alzerà al 190% nel Val
Demone e al 193,8% in Val di Noto, infine esso sarà minore in Val di Mazara,
dove il campione comprende senza dubbio dei feudi minori e smembrati nel corso
di questi due secoli; e queste percentuali sono confermate e messe in risalto
nella tavola n° 195, ciò frattanto sicuro: le modifiche sella geografia feudale
sono, in effetti, numerose.
L’acuta
sensibilità dell’aristocrazia feudale e
delle famiglie della nobiltà urbana verso la
congiuntura delle rendite terriere non spiega solo le strategie
d’acquisizione dei “latifondi” che si prolunga, dopo la fase di abbandono delle
terre (tra il 1350 ed il 1390, si aveva conoscenza di una dozzina di donazioni
di feudi ai monasteri), l’antico costume della rifeudalizzazione dei beni
ecclesiastici e dei patrimoni municipali. Feudatari e nobili di estrazione
modesta e recente rivaleggiano per ottenere delle chiese e dei bagli perpetui
bloccando – in perpetuo – un affitto con minaccia di aumento,
Molto consapevoli dell’evoluzione della
domanda essi spogliano coscienziosamente vescovadi e monasteri del sovrappiù
futuro della rendita e si dimostrano
generosi pur di sciogliere il contratto.[6]
Più
approfonditamente, la fiducia ritrovata li incita ad incrementare il loro
vantaggio, a tentare di assicurare alla loro classe il possesso del suolo, e a
rinforzare la loro proprietà per la generalizzazione dello stato feudale della
terra..
Parallelamente,
dopo una dura battaglia contro i loro vassalli, vera “reazione feudataria” che
ispirano le difficoltà economiche molto reali, i baroni titolari di “terre”
abitate assicurano una amministrazione efficace dei loro diritti sugli uomini.
Usciti generalmente vittoriosi da questi conflitti, essi estendono il potere
feudale su numerose “università” demaniali: gabelle, diritti di giustizia,
bannalità, tutto un patrimonio strappato alla corte reale, in favore della
lunga e costosa impresa napoletana, e che permette di colmare gli effetti
ritardi della crisi delle rendite terriere. Un altro disegno si fa gradualmente
chiaro nella prassi della nobiltà siciliana, quello di ripopolare delle terre.
Là ancora, essi rinnovano, dopo la parentesi della catastrofe demografica, con
la loro tradizione della difesa dell’abitato rurale - un
migliore sfruttamento della terra, la rendita delle gabelle, e della giustizia
e l'autorità politica vale bene il sacrificio di qualche salma di terra,
destinata a giardino ed a beni comuni
per i nuovi abitanti.
Questa
nobiltà che accetta la pace reale, lascia frattanto le armi. Essa non rinuncia
né al prestigio della cavalleria né al gusto della violenza. Se, nella mischia
feudale, le strategie familiari si cozzano, la nobiltà terriera veglia
gelosamente sul suo stile di vita, sulla sua autorità, sugli uomini, con
un’alta coscienza della sua specificità. Ma senza “serrata”: questa
aristocrazia resta aperta all’ascesa dei nobili municipali e dei
mercanti-banchieri. Piuttosto: autorità, stile, prestigio attirano,
affascinano. E il rinnovamento delle famiglie, permette la mobilità del
capitale feudale, disinnescano gli scontri frontali tra le oligarchie
municipali e l’aristocrazia fondiaria.
[1] ) Nel
1455 quella del feudo Paterna da Gilberto La Grua Talamanca a suo fratello
Guglielmo (ASP Cancelleria 104, f.179; 21.6.1455) che è stata approvata dal re,
e, verso il 1459, quella del feudo Taya
ad Angelo Imbriagua fatta dal conte di Caltabellotta (Barberi, 3,407).
[2] )
Oltre le autorizzazioni richieste dal diritto feudale (per i matrimoni
dell’erede unico del feudo), Alfonso dal 1419 al 1454, spinge in modo pesante a
concludere dei matrimoni, pagati dai candidati facoltosi 100 onze promesse la
re per Giovanni Torrella, per la mano della figlia di Giovanni De Caro, di
Trapani, il 10.5.1443; ACA, Canc. 2843, f. 131 vo). quelli
sollecitato, su 50 candidati, 32 catalani, 5 napoletani, per 12 siciliani
solamente (più un rabbino siciliano); quasi tutti sono nobili, o per lo meno
fanno una carriere militare o di corte. Le giovani date in isposa sono 28 (di
cui 15 nobili), ma le vedove sono 16 (di cui 9 nobili, e 6 ricche vedove di
patrizi). Lettere contraddittorie sono inviate, qualche volta successivamente,
qualche volta lo stesso giorno, in favore di diversi concorrenti: il 13.9.1451,
il re approva contemporaneamente il matrimonio di Disiata, vedova del marchese
Giovanni Scorna, con Roberto Abbatellis, Placido Gaetano, Galeazzo Caracciolo e
Giovanni Peris di Amantea!; ACA Canc. 2868, f. 55 vo - 56 vo.
[3] ) I
dottori in legge provengo già di sovente, nel XIV secolo, dal meglio dei
cavalieri urbanizzati (Senatore di Mayda, Orlando di Graffeo, Manfredo di
Milite); il movimento continua nel XV secolo, a Messina (Matteo di Bonifacio,
Antonio Abrignali, Gregorio e Paolo di Bufalo), a Catania (Antonio del
Castello, Gualterio e Benedetto Paternò, Goffredo e Giovanni Rizari, Francesco
Aricio), a Sciacca (Iacopo Perollo) e a Palermo (Nicola e Simone Bologna,
Enrico Crispo). La nobiltà baronale rimane estranea agli studi universitari.
[4] )
Molte famiglie aristocratiche sicule-aragonesi tentano una sistemazione in
Terraferma: i Centelles-Ventimiglia a Crotone, per una’lleanza matrimoniale con
il marchese Russo, I Cardona di Collesano a Reggio, i Siscar ad Aiello. La
conquista ha così permesso di ridurre in Sicilia la concorrenza; all’inizio
molto forte, tra l’aristocrazia immigrata e le vecchie famiglie; cf. E.
Pontieri, Alfonso il Magnanimo, re di Napoli (1435-1458). Napoli, 1975, p. 87.
[5] ) Nel 1446 la locazione
del feudo Giracello, a Piazza, passa da 22 onze a 27; ASP ND N. Aprea 826,
17.12.1446, Notiamo che, nel 1431, l’affitto non era che di 17 once: 58%
d’aumento in 5 anni.
[6] )
Così per ottenere dall’arcivescovo di Palermo l’enfiteusi perpetua di Brucato,
i fratelli Rigio banchieri ed imprenditori, offrono, nel 1465, un po’ di più
del canone abituale (70 once e 140 salme di grano, in luogo di 40 once e di 150
salme): incassarono così la differenza tra la rendita in aumento ed il canone
bloccato ASP, Archivio Notarbartolo 227, f. 40 sq.
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