* * *
Nel
1576 Racalmuto assurge a conte e vi si insedia il barone
Girolamo Del Carretto, nel frattempo trasferitosi
a Palermo [1]. Con riferimento a codesto
Del Carretto, assurto
dopo tredici anni di baronato racalmutese, al prestigioso titolo di conte - ma
lui brigò per il marchesato - Sciascia vibra nelle sue Parrocchie di Regalpetra (pag. 17), le seguenti scudisciate:
«Ammazzato,
da due sicari del barone di Sommatino, morì anche il padre di Girolamo, uomo
anch’esso vendicativo ed avido. Il primo Girolamo [appunto quello di cui
parliamo] fu invece, ad opinione del Di Giovanni, uomo di grandi meriti. Per
lui Filippo II datava dall’Escuriale di San Lorenzo, il 27 giugno del 1576, un
privilegio che elevava Regalpetra a contea. Ma sui meriti di Girolamo primo non
sappiamo molto: fu pretore di Palermo, e non credo dovuta a “bizzarra opinione
seu presunzione”, come afferma il Paruta, la sollevazione dei palermitani
contro la sua autorità. Né mi pare sia da ascrivere a sua gloria il fatto che
per suo ordine, il giorno sedici del mese di marzo dell’anno milleseicento,
trentasette facchini abbiano subita la pena della frusta: notizia che senza
commento offre il già ricordato erudito racalmutese [cioè il Tinebra Martorana, n.d.r.]»
Per
amore di verità, Girolamo, primo conte di Racalmuto non poté avere dato l’ordine delle frustate ai
trenta facchini per il semplice fatto che era morto da sedici anni, essendo
deceduto nel 1583 [2]. Viveva a
Palermo nel 1600 Giovani IV del Carretto, figlio di Girolamo I. Il
pasticcio di ritenere pretore di Palermo, nel 1600, Girolamo I del Carretto che
era morto da sedici anni, lo confezionò il Villabianca, che a dire il vero,
appena se ne accorse cercò di ovviarvi. Ma lo fece in modo così maldestro che
ancora nel 1924 il San Martino de Spucches continua nell’errore
villabianchiano. Poco male se il Tinebra Martorana non se ne accorse. Forse Sciascia, poteva
essere più avveduto: ma per lui - ed è ovvio - la vicenda dei Del Carretto aveva senso solo se suggeriva metafore
letterarie.
Un
passo della Morte dell’Inquisitore ci pare invece perspicace ai fini
dell’inquadramento storico di questa congiuntura racalmutese (pag. 183): «..
dai documenti del Garufi sappiamo che a Racalmuto c’erano, nel 1575, otto familiari e un
commissario del Sant’Uffizio; e due anni dopo dieci
familiari, un commissario e un mastro notaro: su una popolazione di circa
cinquemila (il Maggiore-Perni dà 5.279 abitanti nel 1570, 3.825 nel 1583: per
quanto queste cifre siano da accettare con cautela, si può senz’altro ritenere
attendibile la flessione [3] ). Vale a
dire che il solo Sant’Uffizio aveva una forza quale oggi, con una popolazione
doppia, non tengono i carabinieri. Se poi aggiungiamo gli sbirri della corte
laicale e quelli della corte vicariale, e le spie, ad immaginare la vita di
questo nostro povero paese alla fine del secolo XVI lo sgomento ci prende. Ma
di racalmutesi caduti nelle grinfie del Sant’Uffizio, prima di fra Diego, ne
troviamo uno solo: il notaro Jacobo Damiano, imputato di opinioni
luterane ma riconciliato nell’Atto di
Fede che si celebrò in Palermo il 13 di aprile del 1563. Riconciliato : cioè, per manifesto e pubblico pentimento, assolto;
ma non senza pena ...».
Per
quello che si è visto nel corso di questo lavoro, di sacerdoti racalmutesi
addetti al Sant’Uffizio, ne abbiamo trovati
parecchi, ma solo a partire dai primi anni del ’Seicento sino ad arrivare
all’ultimo che è stato don Francesco Busuito, morto il 29 gennaio 1802 all’età
di 74 anni.
Durante
il baronato e la contea di Girolamo I Del Carretto, fu intensa la vita civica
a Racalmuto. Era da tempo che i
vassalli si erano ribellati alle imposizioni feudali, specie quelle del
cosiddetto terraggio e terraggiolo. Da ambo le parti erano state sostenute
ingenti spese. Un accordo fu trovato il 15 gennaio 1580 (9^ ind.).
E
prima, nell’ anno 1577, al suono della campane i racalmutesi si erano congregati nella chiesa dell’Annunziata
per cercare un alleggerimento di imposta da parte viceregia, dati i calamitosi
tempi seguiti alla peste di alcuni anni prima. Si era avuto il necessario
avallo di Girolamo Del Carretto.
Girolamo
I Del Carretto non solo, dunque, non fece frustare nel 1600 i
facchini di Palermo (diciamo, per precedente morte), ma appare piuttosto
benigno verso i suoi vassalli di Racalmuto.
Gli
subentrava, alla morte, il figlio primogenito Giovanni IV Del Carretto. Questi fu irrequieto e non
si astenne persino dall’omicidio. E’ lui il mandante dell’attentato al Cannita,
su cui si dilungano gli storici locali. E’ lui che finisce nel carcere di
Castellammare di Palermo, ove era detenuto anche il poeta Antonio Veneziano (perirà questi; si salverà Giovanni del
Carretto e Sciascia causticamente punzecchia). E’ lui che ha una
caterva di sorelle cui garantire il “paragio” (fra le altre la celebre donna
Aldonsa del Carretto, la fondatrice del convento di Santa Chiara a Racalmuto); un figlio spurio di nome
Vincenzo diventerà arciprete di Racalmuto nel 1608; l’altra figlia
illegittima si sposerà con Girolamo Russo, divenuto governatore del Castello racalmutese. E contro di questi
si catapulterà, con la sua pingue mole, il vescovo agrigentino, approdato dalla
Spagna, Horozco Covarruvias.
Giovanni
IV Del Carretto male visse e peggio morì: trucidato in un
attentato a Palermo, lasciò come erede
l’infelice Girolamo II Del Carretto, occisus a servo diceva una pergamena custodita entro il sarcofago
del Carmine, e suo nipote Giovanni V Del Carretto fu giustiziato a Palermo nel 1650. (Tra
quest’ultimo Giovanni e Girolamo II, storici poco accorti hanno intrufolato un
altro Giovanni o un altro Girolamo che è solo frutto di confusione e di scarsa
avvedutezza nella ricerca storica; anche Sciascia vi casca, ma - ripetesi - lo scrittore non si
ritenne mai un erudito di storia locale). L’aneddotica è ricca e non è questa
la sede per ripercorrerla. [4]
Nel
Cinquecento la storia religiosa racalmutese ha punte di rilievo: inizia nel
1554 un’attività archivistica che risulta oggi un patrimonio unico e mirabile
per chi voglia investigare sullo sviluppo demografico del paese. Sono
cappellani e preti, eruditi e diligenti che in registri annotano i fatti della
vita locale. Una cultura che ravviva la terra misera e tragica del grano e del
vino. Sono governatori e rettori delle confraternite che trascrivono nei loro rolli atti e
testamenti, disposizioni varie e consegnano alla memoria futura i momenti
operosi dei nostri antenati di quel tempo.
Racalmuto conta all’inizio del secolo appena 1670
abitanti ed a chiusura siamo attorno a 4448. Dal 1554, l’evolversi cittadino è
segnato passo passo dai tanti deprecati preti: un merito tanto grande quanto
misconosciuto. Noi abbiamo spigolato per ricordare di costoro tutto quanto ci è
stato possibile sapere.
L’efferata
esecuzione antisemita che abbiamo sopra rievocata avvenne nel 1474, quando vescovo
di Agrigento era Iohannes de Cardellis seu Cortellis, un
benedettino che era stato abbate del Monastero di S. Felice in Bruxelles e che
nel 1479 si trasferirà a Patti. Quale peso abbia avuto nel reggere la diocesi,
non è dato di sapere. In precedenza, aveva governato la chiesa agrigentina il
Beato Matteo de Gimmara, noto per il suo furore nel volere
convertire gioco forza gli ebrei agrigentini. Su quell’onda lunga, poté
maturare il misfatto contro il povero Sadia di Palermo. Gli ebrei
saranno cacciati dall’agrigentino in coincidenza con la scoperta dell’America,
nel 1492. La Racalmuto del 1500 era stata dunque ‘epurata’ dei pochi
ebrei ivi stanziatisi, forse con una conversione imposta.
Ercole
Del Carretto vuol apparire devoto alla Madonna; non avrà
voluto grane con gli ecclesiastici ed i suoi vassalli di colpo saranno divenuti
ferventi credenti, del tutto ignari di che cosa significasse la circoncisione.
Neppure si dovevano rinvenire i celebri marrani: tutti credenti, tutti ariani,
tutti cristiani di antica data. Nelle grinfie del Sant’Uffizio, il primo racalmutese - che
poi era agrigentino - è stato alla fine del secolo il notaio Jacobo Damiano, come afferma Sciascia, per di
più sospetto di essere un luterano. Sangue puro, anche lui, dunque.
Nel
1537 diviene vescovo di Agrigento il nobile Pietro de Tagliavia de Aragona. Apparteneva alla
potentissima famiglia dei Tagliavia signori di Castelvetrano. Passerà a reggere
la prestigiosissima chiesa metropolitana di Palermo. Giulio III lo eleverà alla
porpora cardinalizia.
Il
Prelato, nel 1540, manda i suoi visitatori episcopali a Racalmuto e costoro diligentemente ma in modo angusto e
burocratico redigono alcune paginette di relazione. E’ la prima descrizione
dello stato delle chiese, o meglio è un elenco delle dotazioni, dei “jocalia”
posseduti.
Tre
anni dopo, il 9 giugno del 1543, il vescovo Tagliavia si reca in pompa magna in
questa nostra terra. Sarà stato senza dubbio ospite nel Castello del nobile
Giovanni Del Carretto. Della Visita si fa un
processo verbale, ma molto stringato; comunque ne scaturisce un quadro generale
del clero e delle confraternite di Racalmuto, basilare per una
ricostruzione storica di quel tempo.
Quante
chiese fossero aperte a Racalmuto a metà del Cinquecento, come erano dotate,
quali sacerdoti avessero ruoli egemoni ed uffici di risalto, quali le rendite,
chi aveva le primizie e chi le decime, ecco un contesto che scaturisce dal
latino incerto di quel pur notevole documento.
In
precedenza nel 1520, quando vescovo di Agrigento era Iulianus Cibo, era scoppiata la grana
della successione dell’arciprete Giacomo de Salvo. Questi, morto anni prima,
aveva lasciato dei beni. Chi subentrava ne reclamava il possesso. Le
postulazioni di prelati e di legati palesano il modo scopertamente simoniaco
con il quale l’arcipretura di Racalmuto transitava da un beneficiario all’altro. E la
corte papale trovava tempo ed interesse ad assegnare quel lontanissimo e
sparuto beneficio a protetti, o raccomandati o forse semplicemente acquirenti nel
giro dell’ entourage papalino.
Il
mercimonio si ripete nel 1561 con la nomina ad arciprete di Racalmuto del sacerdote don Gerlando d’Averna, che, se
bene interpretiamo i dati d’archivio della Matrice, era un agrigentino. Prima
non abbiamo mancato di riportare ed illustrare i documenti, sinora inediti, che
ci rendono edotti di questi spunti di vita ecclesiastica racalmutese. Una
caterva di preti piomba da noi, trovando mansioni remunerative. Anche parenti
laici seguono il classico ‘zio prete’ e mettono su famiglia; nel tempo il
cognome diviene più prosaicamente Taverna. Tra il
D’Averna ed il Taverna, i registri della Matrice oscillano per un paio di secoli almeno.
Al
D’Averna subentra, nell’arcipretura, il sac. Michele Romano, che muore
il 28 luglio 1597. In vita appare un arciprete diligente ed assiduo. Propendiamo per la sua
origine racalmutese. Lascia comunque un cospicuo “spoglio”. Il solito vescovo
Horozco ne esige la consegna. Ma, più potente ed
ammanigliato, sarà il conte Giovanni Del Carretto ad avere la meglio nella vertenza giudiziaria,
potendo questi vantare i suoi diritti feudali.
Si
rifece il vescovo nominando arciprete di Racalmuto don Alessandro Capoccio - un napoletano girovago che aveva
favorevolmente testimoniato in Spagna nel processo concistoriale per la
concessione della mitra vescovile. Divenuto il Capoccio segretario del neo vescovo agrigentino, deve
trattare con la curia romana per uscire dalle pastoie delle “relationes ad
limina” che il Concilio di Trento imponeva agli ordinari con cadenza triennale.
Nelle carte dell’archivio segreto del Vaticano, lo rinveniamo varie volte
presente a Roma. Non ha quindi tempo di recarsi a Racalmuto, neppure per
prendere possesso del beneficio. Vi manda suoi delegati, dei canonici che appaiono in uno scandaloso processo per
sodomia in cui sono coinvolti ecclesiastici di Cammarata.
Mons.
De Gregorio, e dopo di lui lo storico
Manduca, tendono ad esaltare quest’ordinario spagnolo. Chissà perché i colti
sacerdoti, quando fanno storia, credono che debbano fare apologetica. Chiosare
le mende di un vescovo indegno che fece arrabbiare il papa (una annotazione
pontificia autografa degli archivi vaticani lo attesta inequivocabilmente) non è
poi atto riprovevole, se a compierlo è magari un ecclesiastico.
Tra
le carte segrete romane, un cappuccino, uomo del celebre vescovo Didacus de
Avedo (Haëdo) - il vescovo del Sant’Uffizio, ordinario prima di
Agrigento e poi di Palermo, scarnifica il pingue presule spagnolo con
staffilate feroci. Un libello mandato al papa lo vorrebbe:
Scandaloso et scommunicato; Disobediente et lascivo; Scandaloso; (coinvolto in un ) Homicidio; Disobediente
della Sede Apostolica; Concurso à laici; Contra il Motu proprio di Sisto;
Usurpatore; Subornatore; Scommunicato; Cupido;
(affetto da) Pazzia; Sordido; Cupido - Archimista.
E
per ognuno di questi epiteti, giù una sfilza di fatti, apprezzamenti,
insinuazioni, miserie umane. Non fu certo un caso che lo spagnolo Horozco Covarruvias, imposto dal re Filippo II di
Spagna, riuscì a lasciare il vescovado agrigentino per pressioni e
raccomandazioni regali e dovette accontentarsi della più angusta diocesi di
Cadice, a metà rendita.
Ebbe
la beffa di vedersi bruciato un libro, intitolato De Rebus suis, per ordine del Papa, che lo aveva messo all’indice
in quanto era un libercolo calunnioso verso la potente famiglia dei Del Porto,
ed altri notabili agrigentini. Il Pirri tramanda che il vescovo Didacus de Haedo suum trasmisit vicarium Franciscum Byssum Agrigentum;
qui convocato in aede Cathedrali populo die festo coram ipso Episcopo libros
flammis vorandis tradidit.
Il
Pirri si era prima lasciato andare ad apprezzamenti
lusinghieri sul Covarruvias,
dichiarandolo uomo di grande erudizione. Invero, il presule spagnolo si
faceva tradurre in latino da Sebastiano Bagolino i suoi claudicanti versi. In
compenso beneficiò il fratello del poeta siciliano, che era sacerdote, con i
beni di S. Agata di Racalmuto. E così i pii legati dei
fedeli del nostro paese servirono per pagare gli uzzoli letterari di uno
scervellato, che indegnamente occupava
la cattedra di S. Gerlando.
* * *
Il
Capoccio fu arciprete di Racalmuto per lo spazio di un mattino: inviati i suoi
messi don Vito Bellosguardo e don Antonino d’Amato il 16 luglio del 1598, ben
prima del marzo del 1600 deve far fagotto. Gli subentra don Andria Argumento,
che prende possesso “di la maiori ecclesia di Racalmuto” appunto il 7 marzo
XIII ind. 1600.
Il
Capoccio era oriundo napoletano. Come mai, dunque,
riesce ad accaparrarsi le pingui “primizie” gravanti sui martoriati contadini
racalmutesi? Ci viene in soccorso l’archivio segreto vaticano. Abbiamo
curiosato nel processo concistoriale per l’elevazione a vescovo di Agrigento del mezzo ebreo Horozco. Il Capoccio vi appare come un perdigiorno, un avventuriero
finito chissà perché in quel di Spagna. Si dà da fare e fornisce la sua
testimonianza nel canonico processo che si instaura per la elevazione alla
dignità episcopale del toletano. Aveva, questi, una macchia - per l’epoca - da
tenere nascosta: pena l’indegnità e la non eleggibilità. Non aveva proprio la
cosiddetta limpeza de sangre: la madre Maria Valero de Covarruvias era di
origine giudea. Il prescelto aveva conseguito appena gli ordini minori il 30
aprile 1573 ed eccolo subito canonico priore della cattedrale di Segovia, senza
essere ancora sacerdote (l’ordine maggiore lo conseguirà il 12 maggio 1573).
Regge il vescovado di Segovia durante la sede vacante e diviene quindi
arcidiacono di Cuéllar. I suoi meriti sono solo quelli della sua famiglia che
annovera importanti canonisti e umanisti come Diego e Antonino Covarruvias o
come Sebastiano che fu cappellano del Sant’Uffizio.
Un
siffatto giovanotto è destinato ad una folgorante carriera: il re di Spagna
Filippo II lo impone a Clemente VIII che non può fare a meno di elevarlo a
vescovo titolare della prestigiosa cattedra di S. Gerlando. Da un borgognone ad
un toletano!
Ma
la forma è forma: s’imbastisce il rituale processo in Spagna. Tra i testi,
riesce a intrufolarsi il napoletano Capoccio il cui unico titolo è quello della pretesa
conoscenza delle cose della Cattedrale di Agrigento presso la quale aveva anni
prima brigato. La deposizione del Capoccio è vaga, imprecisa, reticente, incompetente;
eppure è sufficiente per fugare gli ostacoli del vigente diritto canonico.
Giunto
in pompa magna ad Agrigento, il giovanotto toletano, pingue oltre ogni dire,
basito, che sa parlare solo in spagnolo e non comprende né latino, né la lingua
italiana, né, tampoco, il vernacolo siciliano, viene raggiunto dal compiacente
spergiuro d’origine napoletana.
I
Napolitani, i cui meriti tutti riconoscono ma i cui difetti non possono
ignorarsi, sono come sono: non sarà parso vero al partenopeo Capoccio di ricattare il neo-vescovo per quella
testimonianza spagnola, secretata nei suoi particolari, ma ben presente nella
memoria dell’Horozco: una resipiscenza, un pentimento del teste spergiuro ed
ecco la revoca!
Capoccio viene subito tacitato con la nomina a
segretario; gli vengono affidate locupletanti missioni nell’ostile corte
papale. Non basta: i benefici arcipretali racalmutesi sono suoi. E’ lo stesso
Horozco che nelle sue relationes ad limina a ragguagliarci della molteplicità e
cospicuità di tali gravami ecclesiastici sulla disastrata Racalmuto.
Scrivevo
un tempo (op. cit.):
Dalla
documentazione vaticana risulta che la “Ecclesia Cathedralis Agrigentina” era
in grado di “ingabellare” 9.500 onze di
rendita diocesana. In via diretta o indiretta, Racalmuto è così chiamato
in causa:
· al 15° posto risulta censita la “prebenda di Racalmuto che vale di
Mensa onze 130”;
· tra i “Beneficij semplici de Mensa”, al n.° 3 viene
rubricata “la prebenda Teologale [che] si dà al Teologo quale eligino il
Vescovo ed il Capitulo: è titulo di Sta Agata [che sappiamo di
Racalmuto, come sappiamo che talora il vescovo la utilizzava
non per remunerare teologi ma il fratello di un letterato, per come abbiamo
sopra visto, n.d.r]: [vale] onze 100[5];
· l’arcipretura di Racalmuto è segnata al n°
12 e “vale de mensa onze 250”.
Tirando le
somme, i racalmutesi a fine secolo XVI erano chiamati per decime religiose e
tasse episcopali a qualcosa come onze 480, senza naturalmente includervi tutti
gli oneri di battesimo, matrimonio morte e simili, da conteggiare a parte. Era
un gravame misurabile in tarì 3 e 5 grana annui pro-capite.
Ma, allora
- come del resto anche oggi - le pubbliche autorità, civili e religiose, non
amavano riscuotere direttamente le loro tasse: le davano in appalto (in
gabella, recita il documento) e gli aggi esattoriali Dio solo sa a quanto
ascendessero. Pensare ad un 25% d’aggravio è forse da ottimisti.
Il
Capoccio non é però uomo di valore: lo scontro con gli
eventi - che sono aspri, scorticanti, tragici - lo spoglia ed il re appare
nudo: uno spettacolo avvilente. L’Horozco lo caccia via e del napoletano non si
sa più nulla.
L’appetibile
arcipretura di Racalmuto viene affidata a tal Andria Argumento: non
racalmutese, di certo; siciliano ad ogni buon conto. Costui si insedia a
Racalmuto, come detto, il 7 marzo XIII
ind. 1600. Lo troviamo nel sinodo di Giovanni Horozco del 1600-1603: al n.° 7 dei nuovi esaminatori
sinodali viene eletto il nostro arciprete che può vantare un dottorato in entrambi i
diritti.
In
quel sinodo fa capolino don Vito Belguardo che era venuto a Racalmuto come mandatario del Capoccio: ora è
canonico con la dotazione della seconda rendita del porto. Dagli incarichi
sinodali è puntigliosamente bandito il Capoccio (morto o cacciato via da Agrigento?).
Se
Racalmuto ha mantenuto una fede profonda ed
incontaminata nonostante l’aggrovigliarsi di siffatti poco commendevoli episodi
che sanno per noi moderni di simonia, si
deve agli umili sacerdoti autoctoni che sommessamente, ubbidientemente, senza
orpelli onorifici, hanno predicato la parola del Signore ed hanno saputo inculcare
nel popolo l’insegnamento della Chiesa. A costoro va la perenne gratitudine.
Abbiamo cercato di riesumare le poche notizie che su di loro sono ancora
reperibili nei polverosi archivi (della Matrice di Racalmuto, o dell’Archivio Vescovile di
Agrigento o dell’Archivio di Stato di Agrigento). Il nostro dilungarci su tali
aspetti, dovrà essere giustificato da tale intento gratificatorio.
* * *
La
microstoria racalmutese del Secolo XVII è fitta di notizie: anche l’esigente
Sciascia ammette che ora, sia pure per una felice
congiuntura, la storia locale diviene da appena avvertibile in “narrabile”.
Nell’aprire la mostra di Pietro d’Asaro, lo scrittore racalmutese,
non mostra soverchia considerazione della tanta storia presecentesca e concede
la sua attenzione solo a quattro personaggi secenteschi: « ... ora voglio
parlare - ebbe a dire - di un piccolo paese, “lontano e solo”, come sperduto
nel val di Mazara, diocesi di Girgenti, che dall’oscurità dei
secoli emerge, nella prima metà del XVII, a una vita che Américo Castro direbbe
“narrabile”, da “descrivibile” che appena e soltanto era, grazie alla
simultanea presenza di un prete che vuole una chiesa “bella” e vi profonde il
suo denaro, di un pittore, di un medico illustre, di un teologo; e di un
eretico.»
E’
una visione troppo riduttiva, ai nostri occhi, ma è di sicuro mirabilmente
provocatoria.
Non
pensiamo che il prete Santo d’Agrò sia quello in preda a “deliri erotici”, ad “alumbramiento”; né che Pietro d’Asaro sia stato più un confidente del Sant’Uffizio che un pittore (anche se la sua arte non può
essere magnificata, come oggi è di moda); né che Marco Antonio Alaimo sia stato un grande medico (ebbe più celebrità
di quanto meritasse); né che Pietro Curto vada al di là di una qualche
infarinatura di “scienze metafisiche”; né, tanto meno, che Diego La Matina, cui va la nostra umana
pietà, sia stato un eretico di grande statura intellettuale e morale, (per
noi: modesto gaglioffo, nerboruto e
sensuale, che non sapendo assuefarsi alla rigida regola del periferico convento
di S. Giuliano - specie in materia di alimentazione
quotidiana - trasmigra a Palermo, sull’onda della rivolta di Giovanni V del Carretto, e vi trova sgherri,
carcerazione e la esiziale attenzione del Sant’Uffizio).
Povero
fraticello dell’ordine centerupino dei sedicenti riformati di S. Agostino. Ebbe la
sventura di finire in un convento che già nel 1667 ([6]) si
tentava di scardinare, almeno in quel di Racalmuto, per disposizione
vescovile. Visse da brigante ma finì sul rogo a S.Erasmo in Palermo per un atto inconsulto di rabbia
omicida. Morì con ignominia, ma da tre secoli e mezzo non trova più pace,
oggetto di letterarie e fantasmatiche mistificazioni.
Lo
si dice di Racalmuto, sol perché di sfuggita
tale lo indica il suo accusatore dell’Inquisizione. Gli si attribuisce un atto
di battesimo rinvenuto nei registri dell’Archivio della locale Matrice, ma per una imperdonabile
svista lo si fa nascere un anno dopo: nel 1622 anziché nel 1621 e, palesemente,
non si ha consuetudine con le datazioni indizionarie, ché diversamente si
sarebbe saputo che la chiara annotazione della quarta indizione corrispondeva
appunto al 1621. E dire che in tal modo tornava l’età di 35 anni assegnata al
La Matina dal Matranga per il tragico anno della fine raccapricciante
del frate, avvenuta nel 1656. Ma lungi da noi il sospetto che in tal modo
Sciascia non avrebbe potuto sproloquiare sui vezzi
astrologici del Padre Matranga ([7]).
Lo
si vuole ad ogni costo di ‘tenace concetto’ in materia di fede per farne un martire del
pensiero e si trascura quanto l’inquisitore Matranga dice circa i vagabondaggi e le ladronerie del monaco agostiniano: scrive da
cane il frate della Santa Inquisizione - si dice - ma se deve definire il
valore dell’eretico frate racalmutese “la penna gli si affina, gli si fa
precisa ed efficace”. E così a Racalmuto è ora ‘fino’ attribuire a qualcuno - a
proposito e non - quella locuzione matranghesca.
Si
deve credere all’Inquisitore quando arraspa nel retorico addebito al frate di
colpe dello spirito (bestemmiatore
ereticale, dispreggiatore delle Sagre Imagini, e de’ Sagramenti .. superstizioso ... empio ... sacrilego ..
eretico non solo, e Dommatista, ma di sfacciatissime innumerabili eresie
svirgognato, e perfido difensore). Non è invece più consentito dargli
credito quando accenna alle tendenze di fra Diego a vivere da ‘fuoriscito, e scorridore di campagna, in
abito secolaresco’ tanto da finire nella maglie della giustizia ‘laicale’. Ora il nostro grande Sciascia ama fare lo ‘sprovveduto’ e risponde di no al
quesito: «se nell’anno 1644, in Sicilia, un individuo pervenuto al secondo
degli ordini maggiori ma dedito a scorrere le campagne in abito secolaresco,
dedito cioè ai furti e alle grassazioni, potesse invocare, una volta catturato
dalla giustizia ordinaria, il foro del Sant’Uffizio; o dalla giustizia ordinaria essere rimesso al
Sant’Uffizio come a foro a lui competente; o dal Sant’Uffizio, per uguale
considerazione, essere sottratto alla giustizia ordinaria.»
Bazzicando
l’archivio segreto del Vaticano si possono acquisire notizie sul vescovo
spagnolo di Agrigento Horozco Covarruvias y Leyva, finito all’indice nel
1602 per avere scritto un’operetta in latino, ove malaccortamente il presule si era sbilanciato ai fogli dal 119
al 230 «in diverse figure et proposizioni» risultate indigeste alla potente e
prepotente famiglia dei Del Porto del capoluogo agrigentino.([8]) Da un
contesto di canonici libertini e concubini, maneggioni e corrotti,
affiora la figura di un canonico cantore e dottore, imposto dalla curia papale
per l’esercizio della giustizia della lontana diocesi di Sicilia. Non è
personaggio gradevole, ma della giustizia del suo tempo - che è poi tanto prossimo
a quello messo sotto accusa da Scaiascia - doveva pure intendersene. Dalle sue
querule relazioni alla Congregazione sopra i vescovi ci va di stralciare questo
illuminante passo: «Nella Diocese, che è
molto grande, vi sono molti chierici, e molti di essi si sono ordenati per
godere il foro ecclesiastico, già che alcuni hanno chi trenta e chi quaranta
anni e chi più, et hanno il modo ed habilità per ordenarsi, e tutta volta non
si ordinano, e quel che è peggio ogni dì ci fanno incontrare con li superiori
temporali e laici per defenderli delli errori che commettono e disordini che
fanno, vorrei sapere se conviene à costoro assegnarci un tempo conveniente
acciò si ordinino, e, non lo facendo, dechiararli non essere più del foro
ecclesiastico che sarebbe liberarsi da molti inconvenienti.» ([9]).
Alla
luce di queste considerazioni coeve, ci pare che avesse proprio ragione
Leonardo Sciascia a autodefinirsi nella « Morte dell’Inquisitore» uno ‘sprovveduto’
sull’argomento.
Un
contemporaneo ebbe, pure, ad interessarsi di fra Diego, il dottor Auria di
Palermo nei suoi notissimi diari di Palermo. Sciascia lo infilza «come uomo talmente intrigato al
Sant’Uffizio, e così ben visto dagli
inquisitori, che era riuscito a far diventare eresia l’affermazione che il
beato Agostino Novello fosse nato a Termini». L’intrigato dottore acquista,
però, tutta intera fiducia quando ci vuol far credere che il frate di Racalmuto sia finito nel 1647 (a ventisei anni) tra le
grinfie dell’Inquisizione per avergli trovato nelle “sacchette” “un libro scritto di sua mano con molti
spropositi ereticali”. Ma di un tal crimine - veramente grave per l’Inquisizione
- l’accusatore Matranga tace. Per Sciascia, l’accorto
inquisitore avrebbe taciuto «ché sarebbe apparso strano il
fatto che un “ladro di passo” avesse scritto un libro». E dire che gli sarebbe
tornato oltremodo comodo per la sua accusa, anziché abbarbicarsi a tortuosità
per conclamare la competenza del Sant’Ufficio.
Lo
scrittore di Racalmuto cercò quel libro per tutta la vita: non ebbe
fortuna. «Volentieri - scrisse con tòcco blasfemo - [si sarebbe dato] al
diavolo con una polisa, avesse potuto avere quel libro che fra Diego scrisse di sua mano con mille spropositi ereticali,
ma senza discorso e pieno di mille ignoranze». Credette che «gli atti del
processo, e il libro scritto di sua mano agli atti alligato come corpus
delicti, si consumarono tra le fiamme, nel cortile interno dello Steri, il
Venerdì 27 giugno del 1783».
Molto
più semplicemente, invece, se un libro eretico fosse stato rinvenuto, sarebbe
stato bruciato con tanto d’intervento della Sacra Congregazione dell’Indice. Ma
Diego La Matina - erculeo, sanguigno, ‘ladro di passo’, appena
ventiseienne - non pare tipo da scrivere libri. Arriva al secondo grado degli
ordini maggiori, il diaconato: è quindi ad un passo dal sacerdozio che, tra
messe e prebende, era all’epoca anche un invidiabile traguardo economico. Non
procede, però: si ferma ed a ventitré anni si dà alla macchia da ‘fuoriuscito’
e diviene ‘scorridor di campagna, in abito secolaresco’. Sembrerà un’amenità,
ma non lo è: la fuga dal convento di S. Giuliano per l’avventura palermitana sarà stata una
fuga dallo scarso cibo del convento (e dalla dura disciplina) con cui il
gigantesco giovanottone, tutto appetito (in ogni senso) e scarso cervello (non
approda al terzo ordine maggiore), non riesce a convivere. Per rendersene
conto, basta scorrere la rigida regola degli agostiniani del tempo. A quei tempi, essere sorpresi a
“scorridar campagne” non era una bazzecola. Sempre in Vaticano, tra gli atti
del processo di beatificazione del contemporaneo p. La Nuza, gesuita, si
rinviene la descrizione di un evento che si attaglia al caso nostro.
Alcuni compagni di religione del padre La Nuza, dagli altisonanti nomi
aristocratici, battevano le campagne dell’Alcantara, in Messina, per loro
cosiddette Missioni che erano poi qualcosa di molto simile alle nostre
predicazioni del mese mariano. Si imbatterono in briganti di passo, alla fin
fine benevoli con loro, a riverbero della fama di santità del celebre padre La
Nuza. Presero, sì, qualcosa, ma i padri, in cambio di una solenne promessa di
non sporgere denuncia alcuna, ebbero salva la vita. I gesuiti non mantennero la
promessa. Appena incontrati i militari di pattuglia, rivelarono la loro
avventura. La caccia all’uomo fu immediata e proficua. I ‘ladri di passo’
ebbero subito segnata la loro sorte: furono senza indugio giustiziati sul posto.
([10])
Il
latrocinio di passo era crimine da condanna a morte. E tale rimase anche ai
primi dell’ottocento, sotto i Borboni, ad Inquisizione cessata,
pur dopo lo scioglimento del Sant’Uffizio da parte del conclamato Marchese Caracciolo. Negli archivi della
Matrice di Racalmuto leggesi un atto di morte di un brigante datosi
alla macchia (così ce lo accredita Eugenio Napoleone Messana) che desta tuttora grande
raccapriccio: era il 23 novembre 1811 ed il ‘miserandus’ - un uomo di 42 anni
di nome Nalbone - «susceptis
sacramentis penitentiae et viatici, necato capite multatus a Tribunali nostrae
regiae Curiae Criminalis, animam in patibulo expiravit, in medio plateae et
resecatis capite et manibus: corpus per me D. Paulo Tirone sepultum [fuit]
in ecclesia Matricis, in fovea Communi», come a dire che il “povero disgraziato, confessato e ricevuto il
Viatico, dopo essere stato condannato alla decapitazione dal Tribunale penale
della nostra regia Curia, spirò sul patibolo in mezzo alla piazza, avendo avuto
tagliate testa e mani: il suo corpo, con l’accompagnamento di me Sac. D. Paolo
Tirone, fu seppellito in Matrice, nella fossa comune.” ([11])
Il
Matranga sostiene che il frate di Racalmuto aprì i suoi conti con la giustizia, non certo,
per questioni ideali, per eresia o per le sue idee, ma solo perché datosi al
brigantaggio in abiti secolari, pur essendo già un diacono. A prenderlo fu la
Corte Laicale che ebbe a passarlo, per lo stato religioso del monaco al
Tribunale del Santo Ufficio. Non abbiamo elementi per non credere al Matranga.
Anzi, la vicenda appare del tutto plausibile. Fu dunque una fortuna per fra
Diego La Matina potersi avvalere del Tribunale
dell’Inquisizione, diversamente i suoi giorni li avrebbe finiti subito, a 23
anni, nel 1644. I crimini commessi sono per l’accusatore P. Girolamo Matranga
fatti delittuosi ascrivibili alla ‘crudeltà’ del frate agostiniano (giudizio
che lo si rigiri come meglio aggrada,
resta sempre di censura morale) e a ’libertà di coscienza’, locuzione
oggi adoperata più per esaltare che per condannare. E Sciascia vi si appiglia per la glorificazione di quel
tipo di reo. Nel linguaggio del tempo, quel modo di dire alludeva, però, solo
alla sfrenatezza dei costumi, a non avere coscienza morale, o ad averla
sfrenata, libertina.
«Siamo
convinti, - scrive Sciascia, nella
“Morte dell’Inquisitore” op. cit. pag. 222 -
convintissimi, che nel giro di quattordici anni il Sant’Ufficio poteva ben
riuscire a fare di uomo religioso, che
dentro la religione in cui viveva mostrava qualche segno di libertà di
coscienza (l’espressione è del Matranga) un uomo assolutamente
religioso, radicalmente ateo». Lo snaturamento del pensiero del Matranga è fin
troppo scoperto. L’intento polemico e l’idea preconcetta giocano un brutto
scherzo allo scrittore, peraltro sempre molto circospetto. Il Tribunale
dell’Inquisizione non era migliore degli
altri organi di giustizia dell’epoca, ma neppure peggiore se si faceva a gara
nell’invocarne la competenza per sfuggire alle corti laicali. Si leggano le
pagine del Di Giovanni in “Palermo Restorato” così lapidarie nel
descrivere le manfrine del conte di Racalmuto Giovanni del Carretto per sottrarsi alle grinfie del Viceré, conte
d’Albadalista, e darsi in pasto
all’Inquisizione. La fece franca da un irridente assassinio. [12]
E
la misera storia di fra Diego si chiude con un omicidio: del suo aguzzino, si
dirà, ma sempre uccisione era. Una tragica legge del taglione venne applicata.
Stigmatizziamo quell’esecuzione capitale, ma, per favore, parlare di martirio,
è blasfemo.
La
mamma di fra Diego non ebbe motivo di scagliarsi contro la chiesa: terziaria
francescana, fu di tanta pietà cristiana. Morì, assistita dai frati
racalmutesi, con esemplare forza d’animo e tanto attaccamento al Cristo, senza
alcuna voglia di ribellismo eretico. Pianse, sì, il figlio, ma lo pianse come
un infelice peccatore, giammai come un eroico martire, dal “tenace concetto”.
L’archivio della Matrice è pieno di testimonianze al riguardo. Andava
opportunamente consultato. Ma era lettura ostica.
* * *
Altri,
comunque, sono per noi i protagonisti della storia (o microstoria), civile e
religiosa, della Racalmuto del Seicento: i dieci arcipreti che si sono
succeduti nel secolo; i tanti umili sacerdoti che si sono contraddistinti nelle
opere di carità in quei calamitosi tempi, divenuti memorabili (e narrabili) per
pesti, morte, miseria, sfruttamenti feudali, e talora neghittosità prelatizia;
gli artefici delle sordide pretese dei signori del Castello; ed altri.
Chi
furono di dieci arcipreti? Il seguente elenco è tratto dagli studi del Nalbone:
1600
|
ANDREA
|
D ' ARGUMENTO
|
ARCIPRETE
|
1602
|
ANDREA
|
D ' ARGUMENTO
|
ARCIPRETE
|
1608
|
VINCENZO
|
DEL CARRETTO
|
ARCIPRETE E NEL
1622 BENEFICIALE E
|
1613
|
PIETRO
|
CINQUEMANI
|
RETTORE e poi
nel 1614 ARCIPRETE
|
1615
|
FILIPPO
|
SCONDUTO
|
ARCIPRETE
"incipit januari 14 ind. 1615"
|
1616
|
FILIPPO
|
SCONDUTO
|
ARCIPRETE
|
1632
|
GIUSEPPE
|
CICIO
|
ARCIPRETE
|
1634
|
ANTONINO
|
MOLINARO
|
VICARIO -ARCIPRETE ,PRENDE POSSES-
|
1645
|
TOMMASO
|
TRAJNA
|
ARCIPRETE D.S.T.
|
1645
|
PIETRO
|
CURTO
|
ARCIPRETE DI VENTIMIGLIA (DIOCESI PA)
|
1649
|
POMPILIO
|
SAMMARITANO
|
ARCIPRETE
|
1654
|
POMPILIO
|
SAMMARITANO
|
ARCIPRETE S.T.D.
|
1654
|
GIUSEPPE
|
TRAINA
|
PRO-ARCIPRETE SETTEMBRE 1652
|
1668
|
VINCENZO
|
LO BRUTTO
|
ARCIPRETE
|
1677
|
VINCENZO
|
LO BRUTTO
|
ARCIPRETE a 41
|
1697
|
FABRIZIO
|
SIGNORINO
|
ARCIPRETE
|
Come
si vede, il sacerdote Pietro Curto vi figura come arciprete di Ventimiglia (diocesi di Palermo) e non come
colui «che si distinse - parola di Sciascia - a Palermo nelle scienze metafisiche, e che
nel 1656 pubblicò un Corso filosofico
che spiegavasi in quei tempi nel Collegio massimo dei Gesuiti, che crediamo
essere stato quello di Palermo». En
passant, il sacerdote Pietro Curto morì il 30 giugno 1647 (cfr. il vario
volte citato Liber in quo adnotata ...della
Matrice, colonna 3 n.° 52).
Racalmuto, dunque, si affaccia al
cupo XVII secolo con una popolazione di 4500 abitanti circa e ne esce con
cinquemila fedeli (parola del vescovo Francesco Ramirez, quello che travolse
Racalmuto nell’interdetto fulminato per la celebre controversia liparitana).
Una crescita limitata, forse per le angherie dei Del Carretto, come vorrebbe Sciascia, ma forse
per le due tremende pesti, quella del 1624, molto nota, e quella che dura dal
settembre del 1671 all’agosto del 1672 e che sterminò un quarto della
popolazione; i morti furono 1260 ed il povero arciprete Lo Brutto, in un momento di profondo
sconforto, annotò sul libro dei morti:
INCIPIT INDICTIO Xa
AMARISSIMA - In anno milleximo sexcentesimo spetuagesimo primo - INFAUSTISSIMO
La
Chiesa racalmutese esordiva sotto la sconcertante giurisdizione del vescovo
Horozco e finiva il secolo con una esplosione di
preti, conventi, e religiosi del Benefratelli che insediatisi per predilezione
di Girolamo III Del Carretto nell’ospedale di S. Giovanni di Dio,
scialacquavano le rendite e lasciavano i malati abbandonati a loro stessi.[13]
La
pagina del vescovo Ramirez sui preti-esattori dei baroni colpisce ancora:
vi sono rappresentate le stigmate dei mafiosi - purtroppo, quelli vecchi -
nell’esordio del loro affermarsi nelle plaghe dell’agrigentino: una
consacrazione, una profanazione del sacro ordine, un ascendente sacerdotale sul
succubo mondo contadino, un potere mutuato dalle autorità dal barone dal
politico dal banchiere, l’esercizio di un potere feudale, da un lato;
un’organizzazione criminale, un’ abitudine alle armi ed a sapersene servire per
intimidazione, assoggettamento, estorsione. Un sincretismo (blasfemo ed
agghiacciante) tra religione, crimine, affarismo e prossenetismo politico e
giudiziario. Mafia e antimafia messe assieme. Veste sacra e schioppo omicida al
servizio del feudatario per lo sfruttamento delle masse contadine. Abbiamo gli
embrioni di un’organizzazione che si equipara e sostituisce lo Stato; un
ordinamento - direbbe Sante Romano - che sa acquisire quasi l’eticità hegeliana.
L’analisi
del Ramirez - per quel che ci risulta - non è stata mai
considerata dai colti della mafia e dell’antimafia. Va segnalata.
[1]) Cfr.
questo passo del Villabianca: «Girolamo nel retaggio di questo Stato dopo la
morte di Giovanni suo genitore, lo ridusse egli all'onor di Contea per
provilegio del serenissimo Rè Filippo
Secondo, dato nell'Escuriale di S. Lorenzo a dì 27.Giugno 1576 (a) [Pirri, Sic. Sacr. Agrig. f. 758, c. 1],
esecutoriato in Palermo a 28 Giugno 1577 (b) [R. Cancell. ann. 1577. f. 476].
Fu pretore di Palermo nell'anno 1559 (a) [DI GIOVANNI, Palermo Ristor. lib. 4.
f. 242 retr.], e Don Vincenzo Di Giovanni nel suo PALERMO RISTORATO lib. 2 f. 138.
giustamente l'annovera fra 'l chiaro stuolo de' Padri della Patria mercé il
lodevolissimo governo, ch'egli fece, procacciato avendone gloria, ed ornamento.
Presedette altresì la Compagnia della Carità di essa Città di Palermo nel
1549., e adorno videsi di distintissimi elogi fattigli da Rodolfo Imperatore con
le sue Imperiali lettere al Rè Filippo II. negli anni 1580 e 1598., rapportate per extensum da BARONE loc. cit. lib. 3. c. 11 De Majest. Panormit.
[2]) Per
i diffidenti, citiamo questo passo dell’investitura: Ponit
qualiter Cadaver prefati ill. don Hieronimi del Carretto sepultum et defunctum fuit in ecclesia Santae
Mariae de Jesu extra moenia felicis urbis Panormi die 9 mensis Augusti XI^ Ind.
1583 pro ut patet per fidem authenticam parochialis ecclesiae Sancti Jacobi
Maritime eiusdem urbis felicis Panormi die 14 Julii XII Ind. 1584.
E questo è
l’atto di morte:
Die nono Mensis Augusti XI^ Ind. 1583
Fu
sep.to in S.ta Maria de Giesu extra moenia lo Ill.mo s.or Do’ Geronimo Lo
Carretto conte de Racalmuto.
In
quorum fidem, et testimonium predictam notam nostra propria manu subscripsimus
suis die loco, et tempore valituram.
dat. Pan: die
precalendato
+ P. Raphael
de Natale Capp.us ut supra
+ P. Dionisius
de Martina Capp.us ut supra
[3]) Come
dimostrano il Nalbone ed il Taverna nel loro lavoro Racalmuto in Microsoft, la flessione non vi fu.
[4] )
Cfr. il ns. lavoro sulla signoria
racalmutese dei del Carretto.
[5]) Con 100
onze donna Aldonza del Carretto poteva un decennio dopo fondare a Racalmuto un intero convento: quello di S. Chiara.
[6])
Vedasi la nota apposta nel Libro dei Morti del 1667 presso l’Archivio della
Matrice di
Racalmuto. Il 26 agosto del 1667 muore
il padre fra’ Giovan Battista FALLETTA
dell’Ordine degli Eremiti di Sant’Agostino della Congregazione di
Sicilia all’età di 63 anni. Ad assisterlo è il confratello P. Salvatore da
Racalmuto, agostiniano, un frate in odore di santità, che solo in questi ultimi
tempi si cerca di farlo emergere dalle nebbie di un colpevole oblio. Per
volontà del vescovo agrigentino frà Ferdinando Sancèz
de Cuellar, invero in esecuzione di disposizioni pontificie, il Convento
di S. Giuliano di Racalmuto andava chiuso, per carenza di uomini e di
mezzi. Fra’ Giovan Battista Falletta
veniva pertanto sepolto nella Chiesa Madre, anziché a S. Guliano, dato che,
come viene annotato: «stante soppressione conventui Sacre Congregationis per decretum
sub die 26 augusti 1667 ». Ma il Convento
riaprì e sopravvisse per un altro secolo almeno.
[7])
Leggasi quanto elucubrato in Morte dell’Inquisitore a pag. 182 dell’edizione Laterza 1982. Per
inciso, è tutt’altro che provata la storia del priore agostiniano mandante
dell’omicidio di Girolamo del Carretto, avvenuto il 2 (e non 6)
maggio del 1622, ammesso che di omicidio si sia trattato e non della
stroncatura per “un morbo” del venticinquenne conte di Racalmuto. I documenti in nostro
possesso ci fanno propendere per quest’ultima congettura.
[8])
Archivio Segreto Vaticano - Sacra Congregazione dei Vescovi e Religiosi - Anno
1602: positiones D-M.
[9]) ASV
- SCVR - anno 1601: positiones G-M.
[10])
ARCHIVIO VATICANO SEGRETO - SACRA CONGREGAZIONE DEI RITI - PROCESSI nn. 28;
2169; 2170.
[11])
ARCHIVIO PARROCCHIALE DELLA MATRICE DI RACALMUTO - LIBER MORTUORUM 1811. Dove
fosse quella piazza ove veniva eretto il patibolo non sappiamo con certezza: da
alcuni elementi documentali sembra trattarsi di Piazza Castello.
[12])
Vincenzo Di Giovanni - Palermo Restorato - Palermo 1989, libro quarto, pag. 335. Per un
approfondimento si leggano le splendide pagine di C.G. Garufi: Fatti e
personaggi dell’Inquisizione in Sicilia - Palermo, Sellerio - pp. 255
e 262-263.
[13] ) E’
sempre il vescovo Ramirez che nella sua relatio ad limina del 1699 così
raffigura la parrocchia di Racalmuto:
RECALMUTUM
Oppidum
animarum quinque millium sub Archipresbyteri cura, cuius electio, et institutio
prout de Iure Communi, habetque pro sui sustentatione prope ducenta scuta.
In Maiori Ecclesia per Sacerdotes Almutijs insignitos quotidie
horæ Canonicæ recitantur.
Regularium
Virorum domus quinque.
1. Carmelitarum: Sacerdotibus tribus,
cum duobus Laicis.
2. Minorum Conventualium: Sacerdotibus
tribus, cum uno Laico.
3. Minorum Regularis Observantiæ:
quatuor Sacerdotibus, et tribus Laicis.
4. Reformatorum S. Augustini: tribus Sacerdotibus, et laicis duobus.
5.
Domus Hospitalis, in qua fratres S. Jonnis Dei: uno Sacerdote, et duobus
Laicis.
Hinc representandum censui, quod postquam hi Fratres Hospitale pro suo Instituto
exercendo acceperunt, nunquam Instituto vacant, sed redditus Hospitalis ipsi consumunt, et cum ab
Ordinarij sint Iurisdictione exempti,
non sunt vires ad cogendum, ut, vel Instituto vacent, vel domum relinquant.
Monialium Monasterium sub Regula Tertij Ordinis S.
Francisci, ubi Deo famulantur decem et octo Professæ Chorales, duæ Novitiæ, et quinque Conversæ.
Ecclesiæ, ultra Maiorem, et præfatas, quindecim. Sacerdotes
quadraginta septem, Clerici triginta sex.
Crediamo un
erompere di bilioso astio - che sembra suffragare le pesanti accuse sabaude
contro il prelato Ramirez - queste note d’indole generale che non
possono non riferirsi anche a Racalmuto:
Quia vere
paucis ab hinc Mensibus totius Dioecesis visitationem integre absolvimus, et
plura, eaque graviora mala animadvertemus, oportet nos Sanctam Sedem certiorem
facere, ut dignetur pro reparatione validam porrigere manum: aliter enim putamus nos insufficientes ad tantum onus: ne
si remedium adhibere velimus, malum eat in peius cum animarum detrimento.
In Clero Seculari hoc malum inter alia
reperimus, quod cum totum ferme Regnum, eiusque oppida sub immediata
iurisdictione Baronum, abusus inolevit, quod hi assumunt sibi viros sacerdotali
caractere insignitos pro temporalium rerum administratione. Hos Sacerdotes
secretos appellant, nomen impositum ad significandum ministerium, nempè, ut
sint exactores frumenti, hordei, vini, olei, aliarumque frugum ad Barones spectantium.
Præfatorum Baronum terras dividunt inter Oppidanos ad excolendum,ut plurimum
non sine pauperum iniuria, dum eos cogunt ad conducendas terras præfatas, non quas possunt excolere, nec pro pensione,
super qua deberent pacisci, sed pro
beneplacito Baronum.
Custodes sunt
Iurisdictionis Laicalis, tam Criminalis, quam Civilis. Et quamvis designatos
teneant Laicos Ministros, quorum nomine causæ iudicantur: nihil tamen illi
disponunt absque interventu, aut certe dispositione præfatorum Sacerdotum, qui
tam Capitaneis, quam Birruarijs præcipiunt; hunc, verbi causa, modo carceribus
addicendum, illum e carceribus extraendum, hunc aut illum, hac vel illa pæna
plectendum, sive ab ea absolvendum, atque sæpius homines criminosos proprijs
ipsorum manibus capiunt carceribus mancipandos, non sine irregularitatis
periculo. Incedunt armis onusti, venationibus clamorosis, et venationibus
dediti sunt, atque ut milites sclopis (?), alijsque similibus armati comitantur
Barones, quando iis hinc inde commigrari contingit. Hinc plura audent contra
Ecclesiasticas personas, et Iurisdictionem Ecclesiæ, sicut et contra locorum
Sacrorum Immunitatem, quibus in gratiam Baronum infestissimi sunt.
Cogunt
sæpissime cæteros Sacerdotes, at alias Ecclesiasticas personas oppidorum, sicut
diximus de Vassallis laicis, ad acceptandum terras ad seminandum pro pensione
sibi benevisa, atque solvere gabellas, ad minus eas quas in sui favorem
imponunt Barones. Horum Sacerdotum ministerio usque ad Sacratissimas functiones
Ecclesiasticas se ingerunt, præscribunt Ritus, et Cæremonias intra Ecclesias.
Plurimi sunt qui nec permittunt Sacramenta administrare in illorum oppidis,
nisi illis Sacerdotibus, de quibus sciunt omnia ad beneplacitum eorum
ordinaturos; aliter tot mala contra eosdem machinatur, etiam per carcerationem,
et exilium parentum, vel coniunctorum, quod compelluntur Ministerio renunciare.
Atque similiter faciunt contra Vicarios foraneos, si omnia ad eorum nutum non moderentur. Nulli licet pro negotio
aliquo ad Episcopum recurrere, non obtenta prius ab eis venia. Ipsi Causas
Spirituales sæpius decidere faciunt per se, vel per suos ministros oretenus.
Sacerdotes, et alias Ecclesiasticas personas mulctant et carceribus addicunt.
Ecclesiarum bona, et aliorum piorum locorum pro illorum placito administrantur,
lites insurgentes dirimunt, quod relictum fuit pro una Ecclesia, vel pro aliquo
opere applicant alteri Ecclesiæ, vel pro
alio ministerio, atque inventi sunt qui bona stabilia Ecclesiarum concesserunt
Laicis ad meliorandum. Nec audent ita vexati Ecclesiastici ad Prælatum
recurrere, tum quia impossibiles sunt iuridicæ probationes, cum contra dominos,
et potentes, quin etiam eorum ministros laicos, Vassali ullo pacto ad deponendum adigi non possint; tum quia
si aliquam super negotio inquisitionem faciant Prælati, statim suspicio oritur
quod querelis Ecclesiasticorum permoti hoc agant, quamquam pro Fisco Causa
formetur, et tunc mala, quæ imminent, graviora sunt hac misera servitute. Sæpe
voluimus mittere manum pro
Ecclesiasticorum defensione; at vero
illi poplite flexo rogaverunt, ut manum retraheremus, scientes quam certo defensionem cessuram in maximam illorum
ruinam, quorum libertati consulebamus: unde miserrimam tolerant servitutem;
tutant enim, et iactant Barones se in proprijs Oppidis esse rerum tam
prophanarum, quam ecclesiasticarum, ut supremos
moderatores. His accedit quod anno proxime elapso per omnes Civitates, et Oppida promulgatum
fuit Laicale proclama, quo monebantur omnes
ministri Iurisdictionis Temporalis, nullum familiarem aut ministrum Laicum Episcoporum debere gaudere privilegio fori Ecclesiastici;
Et cum oporteat tenere ad minus
ministros inferiores, quales sunt
Birruarij, Laicos; ut primum isti pro defensione Iurum Ecclesiarum, vel
Ecclesiasticorum, nomine Curiæ Spiritualis monent aliquem, ut desistat ab
offensione, vel citant pro præfata
tuitione, carceribus mancipant, si monitio, aut citatio sit contra aliquem
Laicum Ministrum, aut contra ab eis dependentes. Nec datur (tam longe, lateque
in hoc Regno gravaminum patet campus) in
propriam defensionem aliquid moliri; cum
non solum actus iuridicos efformare, sed
nec verbum quidem proferre liceat, quod statim aditum non præstet gravamini decidendo … Iudice qui pro Regula Iudicandi
habet præfatum laicale proclama.
Hinc
Ecclesiastica disciplina prolapsa, Prælatorum Iurisdictio enervis, Subditorum
audacia petulantior, in quibus nec obedientia, nec modestia, personarum Deo
Sacratarum propriæ reperiuntur, quippe sæpissime in delinquendo seculares
facinorosos enormiter excedunt. Augentur hæc
mala ex nimia facilitate obtinendi
exemptionem … Prælatis, quæ tanta promptitudine occurrit, ut nullus eam
pro libito non consequatur. Si autem nolit exemptionem generalem circa omnes causas, et in aliquo
delinquat, sufficit ut non possit corrigi … Prælato, dicere se esse gravatum.
Vel oportebit Prælatum in alio Trubunali facere partes actoris tot causarum
quot habet subditos. Unde modo Prælati nihil agere possunt præterea, quæ ut in
plurimum facere possunt alibi, in villulis Vicarij foranei Episcoporum.
Regularium
Virorum res non fælicius se habent, quia similia patiuntur, vel potius eadem
tam subditi, quam Superiores illorum: Patiuntur tamen Regularium res aliud
notabile malum contra Regularem Observantiam, et disciplinam quam, etiam si
vellent amplecti, non possent ad præscriptum Regulæ vivere ob paucitatem
fratrum commorantium in Conventibus. Plures enim sunt Conventus in quibus duo
tantum habitant fratres, in alijs tres, aut quatuor ad summum. Unde nec
Ecclesiæ decenter tenentur, neque horæ Canonicæ in Choro in similibus domibus
recitantur, et sæpius potius scandalo, quam exemplo populi sunt; Quapropter
prudentiores, laicorum, immo et Regularium
putant, putant consultissimum
fore, si præfati supprimerentur conventus, et Fratres in eisdem existentes ad
alios, in quibus ob maiorem numerum posset institui Regularis Observantia, trasferrentur.
***
Monialium
Monasteria plures conservant tenaciter abusus. Inter quos non inferioris momenti est, quod in eis
commorantur plurimæ feminæ seculares aliquando ingressæ titulo amplectendi
institutm monasticum, quod noluerunt, vel non potuerunt amplecti. Aliquando
ingressæ titulo educationis, quæ ab
infantia usque ad finem vitæ durat. Et sæpissime atque ut in plurimum,
cum notabili monasteriorum damno non solvunt alimenta, vel quia non possunt,
vel quia nolunt; Et cum sint frequenter sorores, vel proximiores consanguineæ
Monialium, istæ ob gratiam parentum, et consanguineorum exigere
rationesalimentorum nolunt, quinimmo impediunt exationem. Et cum aliunde
Monasteria non sint valde opulenta, quam (per il Copista: quæ, n.d.r.) sæpe egestate laborant,
et sustentare nequeunt tot Moniales, et seculares, unde opus habent consumere
pecunias destinatas pro emptione
stabilium, censuum, et aliorum annualium reddituum, ne perire fame cogantur. Ob quam causam iam minus curant seculares
de monachandis filiabus, aut sororibus invenerunt quidem modum exonerandi
familias absque dispendio. Hinc exceptis paucis Monasterijs, in quibus
exactissime Regula, quam profitentur, observatur, in cæteris nec umbra apparet
Regularis Observantiæ, sicut nec votorum paupertatis, et obedientiæ, sed vivunt
non aliter quam si seculares essent sub clausura custoditæ.
Præterea pene in omnibus Monasterijs conversæ sunt
feminæ seculares, nec volunt eas Moniales recipere ad habitum et professionem
regularem, ut possint libito … Monasterio eicere.
Quod rare,
etiam quando inhabiles fiunt pro Monasteriorum servitio, faciunt.
* * *
Omnia ferme præfata possent obtinere optatum
remedium ab ordinaria potestate si vires haberet hac vero civibus evacuata,
cogimur cum dolore cordis potius mala videre, et plangere, quam tolerare. Videmus navim iactatam fluctibus, remigamus
laborantes, contrarij venti concutiunt, atque his agitati procellis pene
submergimur. Unde solum remanet, ut cum illis clamemus, quorum personam et
ministerium gerimus, Domine, salva nos, primus sperantes ab eo qui Christi
vices habet vocem audire. Confidite. Ego sum nolite timere, utque ventis, et
mari imperio facto tranquillitas magna fiat. Et hæc de statu Ecclesiæ, et
Dioecesis Agrigentinæ, quam sub Obedientia Sanctæ Sedis et EE. VV. protectione
humiliter collocamus, atque sub ea vivere velle, et mori toto corde
protestamur.
Datum
Agrigenti die 20 septembris 1699.
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