[articoletto n.° 21]
FONDAZIONE
DI RACALMUTO NEL BASSO MEDIOEVO
di Calogero TAVERNA
Fu a seguito
dell’assestamento di Federico II che Federico Mosca (o un suo diretto antenato)
potè fondare Racalmuto portandovi coloni suoi propri o accogliendo saraceni
sbandati. Nel 1271 egli però deve cedere il casale a Pietro Nigrello, avendo
tradito l’angioino. Il personaggio riemerge sotto Pietro d’Aragona. Nel 1282 il
Mosca figura, infatti, come conte di Modica, ma non rientra in possesso di
Racalmuto. Sarà Federico Chiaramonte - se crediamo al Fazello - che prenderà possesso
di questo casale e vi costruirà, nel primo decennio del XIV secolo, il castello
con due torri cilindriche che ancor oggi si erge maestoso ed imponente entro la cinta del
paese. E’ falso quel che appare nell’elenco «baronorum et feudatariorum» dello
pseudo Musca (pubblicato dal Gregorio: Bibliotheca, II, pp. 464-70), laddove si
pretende che nel 1296 Racalmuto fosse baronia di Aurea Brancaleone (l’elenco
recita testualmente a pag 20 del ruolo pubblicato nel 1692 da Bartolomeo Musca:
«Aurea Brancaleone, eredi, per Calabiano
e Rachalmuto; reddito onze 400»). Se un ulteriore elemento si vuole per
dimostrare la falsità di quel pur celebre ruolo, eccolo qui: Brancaleone Doria
sposa la vedova di Antonio del Carretto, Costanza Chiaramonte, attorno al 1344,
e solo dopo tale data potè avere qualche pretesa su Racalmuto. Sappiamo infatti
che il figlio - Matteo Doria - nominò propri eredi i figli del fratellastro
Antonio, Gerardo e Matteo del Carretto..
L’excursus sinora soltanto abbozzato tende ad additare un punto per noi basilare della
storia di Racalmuto: l’anno 1271, con il cennato documento angioino, segna il
salto tra preistoria e storia locale. Il paese dal nome arabo dell’Agrigentino,
sorto come casale ad opera di Federico Musca (sia o non sia il conte di
Modica), lascia dietro le spalle il mistero del suo esistere e si accinge a
divenire quella che Amerigo Castro chiamerebbe un’umana, fervida, sofferente,
tenace, talora rigogliosa tal altra “meschinella” «dimora vitale».
Francamente non riusciamo a
concordare con Leonardo Sciascia secondo
il quale Racalmuto «ebbe per secoli ... vita appena “descrivibile”
nell’avvicendarsi di feudatari che, come in ogni altra parte della Sicilia, venivano
dal nord predace o dalla non meno predace ‘avara povertà di Catalogna’; col
carico delle speranze deluse e delle rinnovate e a volte accresciute angherie
che ogni nuova signoria apportava. Ma la vita vi era sempre tenace e
rigogliosa, si abbarbicava al dolore ed alla fame come erba alle rocce.» Quell’abbarbicarsi al dolore ed alla fame
produsse storia narrabile e non solo descrivibile ,ben al di là delle figure
care a Sciascia: il prete ‘alumbrado’ Santo d’Agrò; il teologo Pietro Curto; il
medico ‘specialista’ Marco Antonio Alaimo; l’ “uomo di tenace concetto” -
martire per lo scrittore e niente più che un ‘insano di mente’ per Denis Mack
Smith - Diego La Matina, il monaco
agostiniano di “Morte dell’inquisitore”; il pittore, forse confidente
dell’Inquisizione, Pietro d’Asaro. Sono i protagonisti celebrati dallo
scrittore racalmutese, e per taluni versi falsati o spudoratamente aureolati
nelle sue icastiche pagine.
Da oltre sette secoli,
Racalmuto lascia tracce di vita e di morte negli archivi, nei diari, nelle
opere storiche e si appalesa popolo fervido di inventiva, coeso, dai costumi
peculiari, dalla cultura inconfondibile, capace di azioni reprobe, narrabili, contraddistintosi in eventi
rimarchevoli, con connotati magari di vigliaccheria o di perversione, però non
privi talora di empiti nobili, senza - a dire il vero - nessuna propensione
all’eroismo, ma rifuggendo sempre dalle abiezioni collettive. Nessun episodio
di guerra, nessuna rivolta cruenta, nessuna carneficina, nessun sovvertimento
sociale. Obbedienti e critici, sottomessi ma mugugnanti, specie nelle varie
congreghe (religiose o civili, a seconda dei tempi).
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