* * *
L’intreccio del volume che presentiamo poggia fra l’altro su
una fonte, sinora sostanzialmente ignota, la “numerazione delle anime” che si è
svolta a Racalmuto nel 1593. Essa offre spunti per descrivere usi, costumi,
vicende, disavventure e, principalmente, sviluppo ed assestamento demografico
racalmutese. Il segmento del secolo XVI verrà raffrontato con quello che è
avvenuto prima e con quanto si è svolto dopo. Dalla tassazione dei tempi del Vespro,
alle grassazioni ecclesiastiche dei papi avignonesi, ai censimenti fiscali
dell’intero corso di quel primo secolo dell’era moderna, Racalmuto viene
inquadrato nel suo essere un consorzio civile collegato con la realtà agrigentina,
palermitana, romana e persino avignonese. Altro che essere un’isola nell’isola,
nel cui ambito la famiglia era un’isola nell’isola nell’isola. Racalmuto non è
certo l’ombelico del mondo ma un cordone ombelicale con il mondo ce l’ha avuto
di sicuro.
Fa alta letterura di certo Sciascia quando scrive in Occhio
di Capra:
«Isola nell’isola,
...la mia terra, la mia Sicilia, è Racalmuto.. E si può fare un lungo discorso
su questa specie di sistema di isole nell’isola: l’isola-vallo .. dentro l’isola Sicilia, l’isola-provincia
dentro l’isola-vallo, l’isola paese, dentro l’isola-provincia, l’isola-famiglia
dentro l’isola-paese, l’isola-individuo dentro l’isola-famiglia ...». Un
discorso questo che oggi si può leggere persino nelle banali riviste patinate del tipo “Meridiani”. Se il passo ha un valore metafisico, filosofico, di
incomunicabilità esistenzialistica, non oso addentrarmici, ma se vuol essere
nota storica su Racalmuto, ebbene mi pare proprio inattendibile.
La Racalmuto - quella che si dipana dal 1271 sin ad oggi - è
solo uno scisto della storia ma tutta quanta vi si riverbera. Se leggo il
magistrale libro di Fernando Braudel su
“Civiltà e Imperi del Mediterraneo
nell’età di Filippo II” e nel frattempo trascrivo carte, diplomi, atti
notarili, ‘riveli’ e simili del Cinquecento racalmutese, scatta un’assonanza
sorprendente: le linee e le scansioni
della storia mediterranea trovano eco, conferma, oppure una riprova o un
completamento o una specificazione proprio nel nostro paese, nelle appannate
note delle sue vicende.
E la documentazione da me esaminata è solo una minima parte
di quanto è disponibile presso gli archivi: da quelli parrocchiali a quelli
agrigentini, per non parlare di quelli di Palermo o di Roma o di quanto trovasi
su Racalmuto in Spagna, a Barcellona o a Simancas o a Madrid.
Racalmuto, la patria di Sciascia, potrebbe essere davvero un
laboratorio di ricerca storica; potrebbero attuarsi iniziative culturali per
approcci originali e mirati verso nuove forme di microstoria. Con positivi
riflessi sull’occupazione giovanile locale.
Non sappiamo se siamo riusciti a superare le secche
dell’eruditismo municipale. Abbiamo, comunque, tentato di abbozzare un contesto
storico in cui Racalmuto è studiato per quelli che ci sembrano i suoi
connotati: una terra baronale con gli alti e bassi della sua popolazione, con
le sue “tande” da ripartire, con le traversìe della famiglia del Carretto che
si riverberavano sui paesani, con le pretese della curia vescovile che
sovrastava sul clero locale e debordava nell’assetto civile, con il sorgere e
l’affermarsi di confraternite laiche, con l’invadente ruolo conventuale di francescani e carmelitani,
con i rapporti tra il feudo maggiore e quelli minori contermini di Gibillini,
Bigini, Gructi e Cometi, con l’assetto della proprietà terriera, con gli oneri
domenicali del conte sulle case e sulle terre, con il terraggio ed il
terraggiolo, con la tematica della finanza locale.
Quattro quartieri: Santa Margaritella, S. Giuliano, Fontana e
Monte, con al centro la gloriosa chiesetta di Santa Rosalia, quadripartivano
l’abitato comitale, come moderne circoscrizioni. Funzionari di quartieri con i
loro cognomi ancor oggi presenti a Racalmuto censivano, vigilavano, tassavano.
I preti - allora - collaboravano, anche nello stanare evasori e falsi
“miserabili”. La faccenda fiscale era allora, come oggi, faccenda seria,
ficcante, perturbativa. Era una faccenda fiscale quadripartita: tasse per il
barone prima e conte poi per i suoi diritti “dominicali”; “tande” per
l’estranea e sfruttatrice Spagna; imposte comunali e, poi, tasse - e tante- di
natura religiosa.
Queste ultime, secondo una nostra stima, erano in taluni
periodi la metà di tutta l’incidenza tributaria: andavano dalle decime
arcipretali (chiamate primizie) ai “diritti di quarta” della Curia vescovile; dai gravami basati su
un falso diploma del 1108 (quello di Santa Margherita) in favore di un canonicato
agrigentino che nulla aveva a che fare con Racalmuto (sappiamo di canonici
beneficiari saccensi) ai tanti balzelli per battezzarsi, sposarsi in chiesa,
avere il funerale religioso. Beh! la chiesa tassava il fedele racalmutese dalla
culla alla tomba.
* *
*
Il lavoro di ricerca si appoggia e presume la pluriennale
indagine che è stata svolta sui libri parrocchiali di Racalmuto. Sono libri,
ripetesi, che annotano nascita e morte, battesimo e matrimonio, precetto
pasquale di ogni racalmutese, senza distinzione di classe sociale o di
propensioni religiose, dal 1554 sino ad oggi. Dapprima lo stato moderno non si
preoccupò di questi aspetti anagrafici; quando poi cominciò a farlo incontrò
spesso - come avvenne per Racalmuto nei primi anni dopo l’Unità - l’astio
vandalico delle popolazioni inferocite e in gran parte quelle note burocratiche
finirono irrimediabilmente distrutte.
Ma alla Matrice di Racalmuto, no. Solo una mano sacrilega strappò qualche
foglio, magari per provare l’indubitabile origine racalmutese di Marco Antonio
Alaimo, nato sicuramente a Racalmuto nei pressi di via Baronessa Tulumello il
16 gennaio 1591, diversamente da quello che attestano le pretenziose lapidi
comunali e come invece afferma l’Abate d. Salvatore Acquista nel suo saggio sul
medico racalmutese del 1832, pag. 25.
Ed a ben guardare quel libretto, sembra proprio lui -
l’autore - il vandalico che ha sottratto il foglio di battesimo di M. A.
Alaimo. Mi riprometto di rintracciare quel foglio tra quei cinque sacchi di
scritti che l’esecutore testamentario Giuseppe Tulumello depositò nella
Biblioteca Lucchesiana il 24 aprile 1879.
([1])
* * *
Le carte della matrice di Racalmuto sono un po' stregate:
appaiono vendicatrici. Basta che uno storico locale si sbilanci in
ricostruzioni storiche che prescindano dalla loro consultazione per scattare la
vendetta: esse stanno lì per sbugiardare il malcapitato paesano. Esigono
rispetto, deferenza, assidua
frequentazione e meticolosa attenzione.
Quando il giovane studente in medicina - il Tinebra
Martorana - si mise a scrivere
improvvisandosi storico locale, nella totale ignoranza dei libri parrocchiali,
questi lo hanno ridicolizzato smentendolo impietosamente specie nelle
fantasiose saghe dei del Carretto, della vaga vedova di Girolamo, nello scambio
di sesso del figlio Doroteo (che invece era una Dorotea longeva e per nulla
uccisa dalla cornata di una capra: voce popolare questa raccolta dal Tinebra).
Dispiace che il grande Leonardo Sciascia si sia fatto travolgere dal suo fidato
storico e sia incappato in spiacevoli topiche, specie nell’anticlericale
attribuzione di un nefando crimine al frate Evodio Poliziense - che davvero era
un pio monaco e che a Racalmuto, se vi mise mai piede, ciò avvenne poche volte e per compiti istituzionali
e conventuali, limitandosi solo ad edificanti incontri con i suoi confratelli
di S. Giuliano. In ogni caso Frate Evodio Poliziense poté frequentare Racalmuto
quando Girolamo del Carretto - che secondo Sciascia fu fatto trucidare dal
monaco - era poco più che tredicenne.
Non fu, poi, questo Girolamo del Carretto ad essere tiranno
di Racalmuto in modo “grifagno ed assetato” secondo il lessico del Tinebra, né
fu lui (ma i suoi tutori) ad accordarsi con i maggiorenti di Racalmuto per una
promessa di affrancamento in cambio di 34.000 scudi (vedi sempre il Tinebra);
né egli è colpevole del “terraggio” e del “terraggiolo” e di tutte quelle altre
nefandezze che sono l’humus
storico-culturale delle Parrocchie di Regalpetra o di Morte dell’Inquisitore.
Quando il conte morì non aveva ancora raggiunto l’età di venticinque anni e da
oltre un anno con atto di donazione tra vivi si era liberato di tutti i suoi
beni in favore dei due figli Giovanni - quello giustiziato poi a Palermo nel
1650 - e Dorotea ( e non Doroteo); egli, inoltre, aveva nominato
amministratrice e tutrice la giovanissima moglie Beatrice di cui, peraltro, si
conosce bene il cognome. Era, costei,
una Ventimiglia.
(E tanto
grazie alle recenti scoperte d’archivio del prof. Giuseppe Nalbone. Siffatte
carte ci forniscono anche notizie su Dorotea del Carretto, divenuta marchesa di
Geraci che risulta defunta da poco nel 1654 [pro comitatu Racalmuti et Baronia
Gibellini, filii filiaeque donnae Dorotheae Carrecto Marchionissae defunctae
Hieratij et praefati d.ni Joannis Comitis Rahalmuti sororis - f. 267 v.]. Il
1654 è l’anno della restituzione da parte del Re di Spagna a Girolamo del
Carretto dei suoi domini racalmutesi con diploma emesso nel Cenobio di S. Lorenzo il 28 ottobre 1654).
Anche il pur meritevole Eugenio Napoleone Messana incappò in
disavventure storiche per avere disatteso le carte della Matrice. Si credeva
incontrollabile e storicizzò una frottola di famiglia facendo sposare nel ‘500
tal Scipione [o Sypioni o Sapioni] Savatteri ad una inesistente figlia dei Del
Carretto per legittimare una inverosimile ascendenza nobiliare. Impietosamente
- anche qui - i libri di matrimonio e di battesimo della Matrice di Racalmuto
danno i dati anagrafici di detto Scipione Savatteri, oriundo peraltro da
Mussomeli, di rispettabile stato piccolo borghese, andato sposo ad
un’altrettanta plebea Petrina Saguna:
12/10/1586 -SAVATERI SCIPIONI DI PAOLINO E BELLADONNA
sposa SAGUNA PETRINA DI ANTONINO E MARCHISA.
Benedice le nozze: don Paolino Paladino -TESTI:
Montiliuni Gasparo notaro e cl. Cimbardo Angilo
Superfluo aggiungere che quella “Marchisa” - madre di Petrina
- è solo un singolare nome e nulla ha a che fare con storie di nobiltà locale.
* * *
Se poi consultiamo le tantissime carte dell’Archivio della
Matrice sulle congregazioni o sui pii legati e simili, abbiamo piacevoli
sorprese sulla vera storia di Racalmuto. Certo, svanisce nel nulla la vicenda
del prete Santo d’Agrò che da solo costruisce l’attuale Matrice: anche qui ci
troviamo di fronte ad una distorsione del Tinebra, che viene ripresa da
Sciascia per una sua impareggiabile rilettura. E’ però una rilettura che
esplode in una irriverente raffigurazione dell’incolpevole e probo sacerdote
Agrò: questi viene immerso in deliri erotici ed addirittura proteso in viaggi
allucinati, deposto sulle spiagge del deliquio sensuale, e, con immagine
spagnola, sommerso nell’Alumbramiento onirico
(vedi Sciascia: Introduzione al Catalogo illustrato delle opere di D’Asaro,
pag. 20).
E dire che sarebbe bastato un fugace sguardo ad un atto
transattivo degli eredi di detto sacerdote
- atto transattivo che si conserva in Matrice - per fugare tali infamanti sospetti e
rispettare la verità storica sulla “fabbrica della Matrice”; la quale ben due
rolli - sia detto per inciso - seguono passo passo, sino al primo ventennio
dell’ottocento. Per lo meno si sarebbero evitate ricadute che non si possono
non lamentare in libri pubblicati non più tardi dell’altro ieri.
* * *
Mi rincresce davvero dover qui dissentire da quanto scrive lo
scrittore nostro compaesano sulla sua origine racalmutese. I registri
parrocchiali - che il grande scrittore invero disdegnò di consultare
approfonditamente - forniscono dati sulla genealogia di Leonardo Sciascia che
vanno ben al di là del “nonno di suo nonno” (cfr. Occhio di Capra, ed. 1990
pag. 12).
1. 1690 circa SCIASCIA
LEONARDO M.°
2. 29.9.1726 SCIASCIA GIOVANNI M.°
3. 7.1.1754 SCIASCIA LEONARDO M.°
4. 24.2.1802 SCIASCIA CALOGERO
5. 26.8.1810 SCIASCIA PASCALIS
6. 25.10.1884 SCIASCIA
LEONARDO
7. 27.3.1920 SCIASCIA PASQUALE
8. 8.1.1921 SCIASCIA LEONARDO
|
Sciascia è racalmutese per lo meno a partire dalla fine del
Seicento e non dai “primi
dell’Ottocento” come amò credere sulla scia di una sua metafora irridente
all’irridente avversione locale verso i “nadurisi” (Occhio di Capra, pag. 95).
Là Sciascia ama inventarsi un bisnonno appunto “nadurisi”. Per i racalmutesi:
«Venire dal Naduri - cito Sciascia - era come venire da una sperduta contrada
di campagna: essere dunque zotici e sprovveduti. Quasi peggio dei milocchesi.
Dal Naduri è venuto a Racalmuto il nonno di mio nonno, Leonardo Sciascia: da
contadino che era stato, a Racalmuto intraprese il mestiere di conciatore di
pelli, pure commerciandole”. Non so dove abbia appreso queste notizie il grande scrittore: so solo,
però, che i libri parrocchiali lo smentiscono su tutta la linea. Da lì vien
fuori un albero genealogico di Leonardo Sciascia ben diverso da quello che
tratteggiò lo stesso Sciascia.
L’invocato “nonno del nonno” era un apprezzato mastro locale,
fedele appartenente alla “maestranza” ancora esistente all’Itria. Di nome
Calogero (e non Leonardo), apparteneva ad una famiglia di mastri che in linea
diretta ci conduce sino ad un capostipite del Seicento di nome Leonardo,
sposatosi con l’agrigentina Vincenza Quagliato.
“Lapsus della memoria” vorrebbe la famiglia - da me
consultata. Può darsi: ma non può neppure affermarsi - come è stato fatto - che
il grande scrittore volesse riferirsi al “nonno di sua nonna”, che in effetti
si chiamava Leonardo Sciascia. Invero,
anche costui era racalmutese, figlio di racalmutese, fratello di quell’Antonino
Sciascia, professore universitario, di cui parla il Tinebra ed a cui lo stesso Leonardo Sciascia teneva
particolarmente.
Mi si perdoni questo mio insistere sulle origini racalmutesi
dello scrittore. Il «'lapsus' della memoria» mostra, a mio modesto avviso, un
atto trasfigurante occorso - o cui il grande scrittore ha indulto - per
esigenze dell'intelligenza ai fini di uno dei suoi raffinati aforismi. Se voi - se noi - racalmutesi avete in uggia
i 'nadurisi', ebbene allora io sono 'nadurisi'. E con ciò? Il dramma o la
farsa di essere «un'isola» o «un'isola nell'isola» o «un'isola nell'isola
dell'isola..» etc. permane non so se tragicamente o esistenzialisticamente.
Racalmuto non ha una storia esemplare. E' una storia paesana,
qualche volta violenta, tal altra generosa, ma sempre entro le righe, in un
pentagramma di invariabile moderazione. L'unica sua gloria è Sciascia. Svetta e
se ne distacca. Radicarlo nella terra del sale, è un mio orgoglio ed una mia
ambizione. 'Occhio di Capra' sembrava smentirmi: le carte della Matrice mi
rasserenano e suffragano la mia convinzione.
Non pretendo certo di scandagliare il mondo dei sentimenti
verso Racalmuto del grande Sciascia: viceversa, ho tentato di risalire la
corrente pluricentenaria di quella 'blasfema ironia' che Sciascia ritaglia per
Racalmuto (Kermesse, pag. 54 ), convinto che da quelle antiche propaggini si
diparte l'insondabile gene atto a far sbocciare il genio inquieto ed
irriverente dello Scrittore racalmutese.
La storia
di Racalmuto va integralmente rivisitata. Non siamo certamente noi quelli che
possiamo espletare un siffatto improbo compito. Ma un tentativo vogliamo
egualmente esperirlo. Speriamo in una pioggia di critiche, rettifiche,
approfondimenti, completamenti. Chi avrà pazienza di leggerci noterà una
dissacrazione della storia racalmutese consolidata, anche se porta l’avallo del
grande Sciascia. Valga come provocazione. Sarà un progresso che dissolverà la
solita favoletta fatta di baroni e conti, jus primae noctis, preti affetti di satiriasi
senile, frati omicidi, contesse fedifraghe, terraggio e terraggiolo, chiese di
inaccettabile vetustà, ripicche di grandi (e mediocre) famiglie, sindaci e
podestà dediti all’omicidio ed allo stupro di minorenni, fascisti e
sansepolcristi ed una pletora di gesuiti, di papa neri, di santi e di venute
miracolose, di risse chiazzotte, di infamie municipali, di toponomi improbabili
e tradizioni sicane, di miniere e di illeciti arricchimenti: una paccottiglia
francamente indigesta. Zolfatai e salinai eroici noi non ne abbiamo mai
conosciuti; martiri per la libertà di pensiero non ci paiono possano allignare
tra i miasmi dei calcaroni zolfiferi
o tra il picconare nelle viscere di Pantanella montagne di salgemma umido e
apportatore di nistagno. I bambini delle elementari si misero a riguardare
Racalmuto ed i loro “sguardi” ebbero l’onore delle stampe nel settembre del
1995. Con gli occhiali delle loro maestrine, i piccoli storici si addentrarono
nei misteri delle origini racalmutesi ed ebbero certezze su tutto: arabi e
conventi, chiese e monumenti, congregazioni e feste, miniere ed artigianato,
acque e sorgenti, strutture sociali e naturalmente una pletota di uomini
illustri ( oltre 18). Sono, invero, ‘sguardi’ dignitosi ma quei bambini non potevano scrutare ciò che
sinora è occulto, ignoto, ignorato.
Il nostro
‘sguardo’ si avvale di ricerche d’archivio, della consultazione di testi
antichi, di recenti reperti archeologici, di studi nuovi e di materiale
epigrafico e numismatico vecchio e nuovo. Troppo e poco, al contempo. Ma per
l’avvio di una rivisitazione della
storia (o microstoria, che dir si voglia) di Racalmuto ci si potrebbe
accontentare.
BREVE SINOSSI INTRODUTTIVA
Il nostro
interesse per la storia di Racalmuto ebbe inizio allo spirare degli anni
’Settanta ed esordimmo con alcune ricerche presso l’Archivio Segreto Vaticano.
Consultando le “relationes ad Limina” dei vescovi agrigentini, c’imbattemmo
immediatamente nella questione della tassazione ecclesiastica di Racalmuto. Ne
trattava il vescovo spagnolo Orozco Covarruvias nell’agosto del 1598: in una
tabella figurava l’arcipretato racalmutese con proventi di ben 250 once annue ([2]).
Le ricerche d’archivio vennero, quindi, allargate ai libri e rolli della
Matrice e da qui ai fondi degli archivi di Stato di Palermo, Roma ed Agrigento,
nonché a quelli della Curia Vescovile di Agrigento. Il materiale acquisito ci
ha portato ad abbozzare una prima ricostruzione storica della natia Racalmuto,
che col passare degli anni si è via via modificata, aggiustata, integrata,
corretta, riformulato. Una fatica di Sisifo! Nello scrivere queste note
iniziamo con una versione che ci accingiamo a sunteggiare. Alla fine dello
scritto, la nostra narrazione apparirà invero già modificata. Non ce ne voglia
l’eventuale lettore.
La
primordiale presenza umana potrebbe venire
attestata dalla grotta di Fra Diego che ci riporta sino ai tempi
dell’uomo di Cro-Magnon (30 mila anni fa) ([3]).
Ma sono i Sicani quelli che per primi consolidarono il loro insediamento nelle
plaghe del nostro altipiano: le tombe a forno che suggestivamente fanno da
corona alla grotta di Fra Diego sono la palpabile quella civiltà preistorica
risalente a quattro mila anni fa.
Nel
1880, nel corso dei lavori per la costruzione della ferrovia Licata-Porto
Empedocle, si rinvenivano nel territorio di Racalmuto, a 10 km. da Canicattì,
altre tombe a forno con corredi di ceramica del secondo millennio a. C.,
sufficientemente investigati dagli archeologi del secolo scorso. Purtroppo,
successive indolenze impediscono tuttora la seria conoscenza della ricca e
peculiare archeologia racalmutese.
Casuali
rinvenimenti di monete greche (con il granchio agrigentino o col cavallo alato
siracusano) comprovano presenze siciliote nella zona di
Casalvecchio-Grotticelle.
L’iscrizione
latina in una “diota” della Roma repubblicana rievoca un intenso commercio
vinario di quel tempo ad opera di un mercante della “Famiglia” dei “Fuscus”.
Fa
spicco una serie di “tegulae sulphuris” (gàvite) rinvenute in varie località di
Racalmuto, una delle quali documenta l’esistenza di miniere di zolfo nei pressi
di Santa Maria durante l’impero di Commodo (180-190 d.C.).
Per
Biagio Pace, le Grotticelle sarebbero un ipogeo cristiano e l’importante
ritrovamento di un tesoretto di monete bizantine del VI-VII secolo d. C. nella
contrada della Montagna contrassegna un’operosa presenza cristiana sin dagli
albori della diffusione del verbo di Cristo in Sicilia.
Ultimamente
sono affiorate “strutture murarie abitative” molto latamente riferite ad “epoca
ellenistica-romano-imperiale” nella zona di Grotticelle il cui studio è
rinviato al tempo in cui i “programmi dei BB.CC. di Agrigento” potranno
snodarsi “con maggiore continuità”.
La
pagina più buia della storia di Racalmuto è quella del dominio arabo. Può dirsi
una storia quasi trisecolare completamente oscurata.
Di
certo sappiamo che, caduta Agrigento attorno all’ 829 in mano dei Musulmani,
quella che dovette essere la popolazione bizantina sparsa per il territorio
racalmutese finì sotto il dominio arabo. Di sicuro, verso l’840 i nuovi e più
stabili padroni furono i Berberi, gente della famiglia camitica della stessa
schiatta dei moderni marocchini. Distrussero costoro religione, usi, costumi,
tradizioni, cultura, superstizioni dei nostri progenitori racalmutesi di lingua
greca? Noi pensiamo di no.
Pochi,
di religione non missionaria, necessitanti di imposte a carico dei ‘rum’
(romani o cristiani che dir si voglia), alieni da commistioni ed in un certo
senso razzisti, non avevano alcun interesse a consumare genocidi nella nostra
landa o a imporre il loro modo di essere maomettani a quelli cui quella
‘grazia’ non era stata concessa, perché militarmente sconfitti. Allah non
poteva essere anche il Dio dei vinti. Ed i vinti servivano - come in ogni tempo
- per lo sfruttamento, per il discrimine sociale, per il supporto schiavistico
su cui, in modo mascherato e variegato, si radicano le leggi della economia.
Così poté esservi convivenza tra le due religioni e i due
popoli, anche se mancano testimonianze per comprovarlo. Ma non ve ne sono
neppure di segno contrario. Propendiamo a credere che gli indigeni bizantini di
Racalmuto rimasero sul luogo al tempo della conquista saracena; essi continuarono
a coltivare grano e vite nelle zone alte del territorio. I vincitori, intere
famiglie di coloni, si assestarono nelle valli, vicino alle fonti d'acqua della
Fontana, del Raffo ed anche di Garamoli e della Menta, in zone appunto propizie
alle loro colture d'ortaggi, in cui erano maestri e che i rum (i cristiani) ignoravano. Dai rum, l'emiro di Girgenti esigeva la tassa capitaria della Gezia, il
soldo per mantenere il culto dei Padri e la fedeltà alla propria religione.
Forse semplici congetture, ma ci appaiono fondate: i Berberi,
insediatisi da noi, introdussero sistemi
di coltivazione degli ortaggi alla stregua di quanto avviene ancor oggi. Certi
autori riportati dall'Amari descrivono la coltura delle cipolle con porche e
zanelle come tuttora si usa negli orti sotto l'attuale Fontana. ([4]).
I secoli dal Nono all'Undicesimo sono sicuramente secoli di dominazione araba
sull’intero altipiano di Racalmuto.
Un documento greco del 1178, che purtroppo non può riferirsi
al nostro paese, diversamente da quello che sostiene l’autorevole Garufi,
riporta un toponimo che richiama l’etimologia araba di Racalmuto: Rachal Chammoùt ( ammu). Nulla però può ricavarsi
che possa tornare utile alla storia (quella veridica) del paese agrigentino.
Per
quanto buia sia la pagina araba
racalmutese, arabo è indubitatamente il toponimo. Già nel XVI secolo il colto
Fazello attestava l’origine
???????????? STARE ATTENTO.. INCLUDERE UN 19 BIES DA QUEL
CHE SEGUE ED ALTRO
‘’’’’’’’’’’’’
[articoletto 19bis]
Due furono le fasi della conquista
araba di Racalmuto: in un primo tempo gli arabi - la componente guerriera -
razziarono il territorio bizantino racalmutese. Se ne stancarono molto presto,
per la povertà di quei coloni nostri antenati. Passarono altrove. Subentraono
allora i Berberi, popolo contadino, che si insediarono presso le sorgenti
(Saracino, Raffo e forse Fontana). Un toponimo - anche se troppo poco -
testimonia infatti che si siano raggrumati attorno alla località del Saracino: le
vicinanze abbondanti sorgenti d’acqua, propiziatrici delle colture di ortaggi
con il sistema delle porche e zanelle, in cui erano maestri, potrebbe
avvalorare la congettura. Sia quel che sia, l’Islam divenne imperante e non
sono da escludere conversioni in massa dei pavidi cattolici del tempo, non
foss’altro per sottrarsi alle sgradite tassazioni che la tolleranza araba aveva
inventato per permettere che i non credenti conservassero vita e beni.
La sopraffazione si inverte con la
conquista normanna dell’XI secolo. Esistesse o meno una terra fortificata di
nome Racel (ad utilizzare le cronache del Malaterra), per
Racalmuto fu il tempo del villanaggio saraceno che durò sino al greve riordino
sociale di Federico II. Che cosa è stato il
“villanaggio”? Non è questa la sede per spiegare l’istituzione contadina che
vedeva il subalterno colono come una “res” del “dominus”, quasi alla stregua di
uno schiavo. (Vedansi, per chi ne voglia sapere di più gli studi di I.Peri). Contadini islamici, miseri e schiavi da una
parte; padroni cristiani, lontani e socialmente insensibili, dall’altra.
L’istituzione di un beneficio a favore di canonici agrigentini, mai racalmutesi, con le decime
del feudo facente capo ad un falso diploma del 1108 (non foss’altro perché non
si riferiva a Racalmuto), svela i misteri della colonizzazione, sotto i
Normanni, di nuove terre. Tanto
avvenne per il beneficio di Santa Margherita, che per l’avallo del Pirri, costituì
poi la saga della nostra chiesa di Santa Maria di Gesù.
I saraceni si ribellarono in modo
devastante negli anni venti del 1200. Federico II li represse, deportandoli in Puglia. Racalmuto diventa deserta. Tocca a Federico Musca - come si è detto - farvi fiorire un nuovo
casale. Nel 1271 le testimonianze sulla vita e le vicende del risorto centro
urbano cominciano ad avere dignità di fonti documentali. Sotto i Vespri, la
terra è Universitas così bene organizzata che il nuovo padrone
aragonese Pietro può esigere tasse ed armamenti, demandando ai
locali sindaci l’ingrato compito esattoriale, persino con la vessatoria
condizione di doverne rispondere con il proprio patrimonio in caso di
insolvenza. Una sorta di ‘solve et repete’ ante
litteram. La cattolicissima Spagna esordiva
con spirito depredatorio nel regno che gli era stato regalato da taluni
maggiorenti siciliani. E così anche la ‘meschinella’ Racalmuto iniziava a
pagarne lo scotto. Roma, il papato, dissentiva. Sarà questa una scusa buona per
esigere dai fedeli di una Racalmuto, che nel 1375 abitano in case coperte di
paglia, una tassa pesante onde liberarsi dell’antico interdetto, che secondo il
nuovo padrone feudale Manfredi Chiaramonte era la causa della ‘mala epitimia’
distruttrice di uomini e cose.
I Chiaramonte si erano impossessati di Racalmuto all’inizio del secolo XIII. Federico
Chiaramonte - un cadetto della famiglia - aveva fatto
costruire, secondo il Fazello, nel primo
decennio, l’attuale fortezza, forse una,
forse tutte e due le torri oggi esistenti. Il territorio era divenuto ‘terra et
castrum Racalmuti’. Vi giunsero preti e monaci forestieri. Nel 1308 e nel 1310
costoro vennero tassati dal lontano papa: un piccolo prelievo - si dirà - dalle
pingue rendite che un prete ed un monaco riuscivano a cavare dai poveri coloni
infeudati dai Chiaramonte. Sono certo pagine non gloriose della storia
ecclesiastica racalmutese. Ma basta ciò per essere obbligati al silenzio
omertoso, sia pure in tema di verità storica? In questa fatica, non sono state
poche le pagine dedicate a tale spinosa questione.
Nel 1392 giunge in Sicilia il duca
di Montblanc. E’ un cinico, infido, ma astuto e determinato
personaggio, protagonista in Sicilia ed in Spagna di grandi svolte storiche.
Martino, secondogenito di Pietro IV e duca di Montblanc, viene dagli storici
siciliani indicato come Martino il vecchio; ebbe la ventura non comune - scrive
Santi Corrente - di succedere al proprio figlio sul trono di Sicilia. Resta
l’artefice della sconcertante condanna a morte del vicario ribelle Andrea
Chiaramonte, e non cessò di combattere
la nobiltà siciliana, salvo a remunerarla oltremisura appena ciò gli fosse
tornato utile.
Ne approfitta Matteo del Carretto per farsi riconoscere il titolo di barone di
Racalmuto, naturalmente a pagamento.
L’intrigo della genesi della baronia di Racalmuto dei Del Carretto è tuttora scarsamente inverato dagli storici.
All’inizio del secolo XIII un marchese di Finale e di Savona - a quanto pare
titolare di quel marchesato solo per un terzo - scende in Sicilia e sposa la
figlia di Federico Chiaramonte, Costanza. Ha appena il tempo di
averne un figlio cui si dà il suo stesso nome, Antonio, e muore. La vedeva
convola, quindi, a nozze con un altro ligure, il genovese Brancaleone Doria - un personaggio che Dante colloca
nell’Inferno - e ne ha diversi figli, tra cui Matteo Doria che morrà senza prole e pare che abbia
lasciato i suoi beni (in tutto o in parte, non si sa) agli eredi del suo
fratellastro Antonio del Carretto. Questi frattanto si era trasferito a Genova.
Aveva procreato vari figli, tra cui Gerardo e Matteo. Matteo, in età alquanto
matura, scende in Sicilia: rivendica i beni dotali di Agrigento, Palermo,
Siculiana e soprattutto Racalmuto. Parteggia ora per i
Chiaramonte ora per Martino, duca di
Montblanc ed alla fine gli torna comodo passare
integralmente dalla parte dell’Aragonese.
In cambio ne ottiene il riconoscimento della baronia. Certo dovrà
vedersela con le remore del diritto feudale. Inventa un negozio giuridico
transattivo con il fratello primogenito Gerardo, che se ne sta a Genova, ove ha
cointeressenze in compagnie di navigazione, e finge di acquistare l’intera
proprietà della “terra et castrum Racalmuti”. [5]
Martino il vecchio si rende subito edotto del senso e
della portata dell’istituto tutto siculo della cosiddetta Legazia Apostolica. Deteneva il beneficio
racalmutese di Santa Margherita l’estraneo canonico “Tommaso de Manglono, nostro ribelle al tempo della secessione contro le
nostre benignità” - come scrive Martino da Siracusa, l’anno del Signore
VII^ Ind. 1398. Gli viene tolto per assegnarlo ad un altro estraneo “al reverendo padre GERARDO DE FINO arciprete della terra di
Paternò, cappellano della nostra
regia cappella, predicatore e familiare nostro devoto”. Altra
ignominia della storia ecclesiastica racalmutese, che ci guardiamo bene
dall’oscurare. Ne abbiamo trattato - come spero si ricorderà - dianzi.
Il secolo XV vede Racalmuto saldamente in mano a Giovanni del Carretto, figlio
del detto Matteo. Henri Bresc vorrebbe
questo barone come un disastrato, finito in mano degli Isfar di Siculiana. A noi
risulta il contrario. Lo vediamo rapace esportatore di grano locale dal
caricatoio del suo feudo minore di Siculiana. Appare come creditore dei Martino, socio
degli Agliata. Lo storico francesce è perentorio: «La baisse du prix de la terre - que l’on suit sur la courbe des prix
moyens des fief vendus par la noblesse - oblige - ritorna sull’argomento in
pubblicazioni a spese della Regione Siciliana e nella sua madre lingua, visto
che mostra gallica diffidenza verso un traduttore siciliano di una precedente
sua opera storica di analogo argomento -
à un endettement toujours plus grave et à une
gestion très rigoureuse du patrimoine résiduel. Et l’on s’achemine vers
l’intervention de la monarchie et de la classe féodale dans l’administration
des domaines fonciers et des seigneuries: Giovanni Del Carretto est ainsi
dépouillé en 1422 de sa baronnie de Racalmuto, confiée en curatelle à son
gendre Gispert d’Isfar, déjà maître de Siculiana.»
Attorno alla metà del secolo, subentra nella baronia di
Racalmuto Federico del Carretto. Il 3
agosto 1452 ne viene ratificata l’investitura stando agli atti del protonotaro del Regno in Palermo. Un grave
episodio di intolleranza religiosa contro gli ebrei - in cui però preminente è
l’aspetto di comune criminalità - si verifica nelle immediate adiacenze di
Racalmuto nell’anno 1474. E’ l’efferata esecuzione dell’ebreo locale Sadia di
Palermo, cui abbiamo già fatto
riferimento. In un documento del 7
luglio 1474, Ind. VII vengono narrate le
circostanze raccapriccianti del crimine. Leggiamo che: Il Vicere' Lop Ximen Durrea da' commissione ad
Oliverio RAFFA di recarsi
a Racalmuto
per punire coloro che uccisero il
giudeo Sadia di Palermo, e di pubblicare un bando a Girgenti per la protezione di quei giudei.
In vernacolo si scrive:
diviti sapiri comu quisti iorni prossimi passati Sadia di Palermo iudeu lu quali
habitava in lu casali di Raxalmuto
actendendo ad alcuni soy fachendi li quali fachia in lu dictu casali fu primo locu mortalmenti feruto
da uno Liuni figlastro di
mastro Raneri; et dapoy alcuni altri di lu dictu casali quasi
a tumultu et furia di populu dediru infiniti colpi a lu dictu iudeu
non havendu timuri alcuno di iusticia. Immo, diabolico
spiritu ducti, tagliaro la lingua et altri menbri et ruppiro
li denti usando in la persuna di
lu dictu iudeu multi crudelitati et demum lu
gettaru in una fossa et copersilu
di pagla et gictaru foco petri
et terra. La qual cosa essendo di malo
exemplo merita grande punicioni et nui tali commoturi di popolo
et delinquenti volimo siano ben puniti
et castigati a talchi ad ipsi sia pena et supplicio et a li altri terruri et
exemplo. E pertanto confidando di la
vostra prudencia ydonitay et sufficiencia havimo provisto per
sapiri la veritati e quilli foru a tali malici participi et culpabili. et per la presenti vi dichimo
commictimo et comandamo che vi digiati personaliter conferiri in lu dictu
casali et cum quilla discrepcioni
lu casu riquedi digiati inquisiri et investigari cui dedi a lu dictu et
li persuni li quali si trovaro a lu dictu tumultu et actu. Et eciam si lu
populu fra loru accordaru amazari lu dictu iudeu et cui si trovau presenti et partechipi a la dicta morti et delicto. Et
de tucti li sopradicti cosi fariti prindiri
in scriptis informacioni et in reddito vestru li portariti a nui. Comandanduvi
chi cum diligencia et cum quilla discrecioni da vui confidamo
digiati prindiri de personis tucti quilli foru culpabili et si
trovaro alo dicto acto et quilli digiati
minari in la chitati di Girgenti et
carcerarili in lu castellu di la dicta chitati in modo chi
non si pocza di loro fuga dubitari. E perche siamo
informati che a lu dictu iudeu fu prisa certa roba et intra
li altri uno gippuni in lu quali si
dichi erano cosuti chentochinquanta pezi d’oro, farriti di lo
dicto gippuni e di tucta laltra roba libri et
scripturi diligenti
investigacioni et perquisicioni
cui li prisi et in
putiri di chi persuna sono.
Quel tesoro
non fu più ritrovato. Non valsero neppure gli anatemi del sacerdote ad indurre
alla restituzione dei 150 pezzi d’oro
trafugati dallo “jppuni” del povero ebreo Sadia di Palermo, racalmutese di vecchia
data. Lo spaccato della società racalmutese con appare molto esaltante. Non
possono comunque da un singolo episodio trarsi valenze generali che sarebbero
solo generiche e fuorvianti. Ma l’indignazione rimane e la tentazione alla
condanna di tutta la comunità ecclesiale dell’epoca è piuttosto irrefrenabile.
Alcuni tratti, un marchio, un DNA, riconducibili alle famiglie citate nel
quattrocentesco dispaccio, qualcuno potrebbe ravvisarli ancora in taluni
personaggi locali.
Il
Cinquecento si apre con la pia leggenda della venuta della Madonna del Monte. Dominava il barone (non
certo conte) Ercole Del Carretto. Ebbe costui il suo bel da
fare con Giovan Luca Barberi, che sembra essere venuto
proprio a Racalmuto per meglio investigare sulle usurpazioni della
potente famiglia baronale. Il Barberi arriva persino a dubitare sul
concepimento nel legittimo letto di alcuni antenati del povero barone Ercole
Del Carretto. Gli
contesta molte irregolarità d’investitura ed il padrone di Racalmuto è
costretto a ricorrere ai ripari formalizzando i suoi titoli nobiliari presso la
corte vicereale di Palermo, a suon di once. La ricaduta - oggi si direbbe:
traslazione d’imposta - sui disgraziati racalmutesi dovette essere espoliativa.
In compenso - direbbe Sciascia - fu profuso il succo gastrico delle opere di
religione. Non proprio una “venuta” miracolosa, ma una statua di marmo della
Madonna fu certamente fatta venire da Palermo - genericamente si dice dalla
scuola del Gagini - e posta in bella mostra su un altare,
maestosa, della chiesa del Monte, che ad ogni buon conto preesisteva. Ai
parrocchiani, questo non può di sicuro venire predicato. Se ne
scandalizzerebbero oltre misura. Ma qui, in un orecchio, può venire
sommessamente e riservatamente sussurrato. Chi ha orecchie da intendere,
intenda.
In
apposito capitolo, abbiamo seguito la storia (quasi soterranea) di una
Racalmuto alle prese con tanti problemi politici, relisiosi ed economici. Là
abbiamo puntato l’attenzione su
arcipreti, sacerdoti, religiosi e laici del nostro paese nei due secoli e più
successivi alla scoperta dell’America: mentre il mondo entrava nell’era
moderna, il medioevo racalmutese persisteva in istituti, atteggiamenti ed altro
che appariva come un’ascia bipenne: masse di contadini scorticate a vivo;
signorotti e prelati rapaci e lontani.
* * *
La vicenda della controversia liparitana, nel suo
svilupparsi a Racalmuto è un’orrida vicenda: abbiamo scritto quella pagina di
storia locale - religiosa e civile - con raccapriccio, disorientamento,
vergogna: il distacco dello storico va a farsi benedire di fronte a siffatti
disvelamenti che i cupi registri parrocchiali ti sbattono in faccia. Ogni
commento saprebbe di impietosa acquiescenza e noi non ne abbiamo voglia. Per un
pugno di ceci, si poteva - e si doveva - avere remora a tribolare le
popolazioni contadine affamate anche crudeltà inferte in punto di morte.
[1]) Domenico
De Gregorio: Biblioteca Lucchesiana Agrigento, Palermo 1993, pag. 209
[2] ) Archivio
Segreto Vaticano. Relationes ad limina - Agrigentum - 18/A f.18
[3])
Cro-Magnon (Francia), località del
Périgord, nel dipartimento della Dordogne. Uomo di Cro-Magnon. Razza di Homo
sapiens sapiens, cui appartengono i resti scheletrici rinvenuti nella località
omonima e risalenti al Paleolitico superiore.
[4]) Michele
Amari: Biblioteca Arabo-Sicula,
Torino 1880 - pag. 305-306, dal Kitab 'al
Falah, Libro dell'Agricoltura di Ibn 'al Awwam
[5]) Solo lo studio e l’analisi del diploma del 1400
dell’Archivio di Stato di Palermo, relativo ai Del Carretto consente di far una qualche luce sulle vicende
del feudo racalmutese nel XIII secolo. Cfr. ARCHIVIO DI STATO - PALERMO
- REAL CANCELLERIA - BUSTA N. 38 - (Anni 1399-1401) pag. 177 recto a pag. 181.)
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