PROFILI DEI DEL CARRETTO DI RACALMUTO
Non c’è
dubbio che una potente famiglia denominata “DEL CARRETTO” si sia affermata a
Finale Ligure sin dal dodicesimo secolo o giù di lì: essa estese i propri
domini anche a Savona e poté fregiarsi del magniloquente titolo di Machesi di
Finale e Savona. A cavallo tra i secoli tredicesimo e quattordicesimo, i del
Carretto liguri erano al vertice del loro potere ma erano costretti a
suddividere il feudo in quote tra i numerosi figli. Le ricerche storiche
indigene, però, non dimostrano l’esistenza di un certo Antonino del Carretto
che in qualche modo avesse titolo di marchese nel primo decennio del ’300.
Rimbalza dalla Sicilia l’esistenza di un tal marchese, evidentemente spurio, e
l’autorità storica di un Pirri o di un Inveges o di Barone è tale che gli
odierni araldisti liguri di Finale inframmettono questo personaggio nella
ricognizione delle tavole cronologiche dei loro marchesi. Diciamolo subito: un
marchese Antonio I del Carretto che nei primi del trecento lascia Finale Ligure
per approdare ad Agrigento e sposare l’avvenente Costanza figlia di Federico II
Chiaramonte, semplicemente non esiste.
ANTONIO I
DEL CARRETTO
Questo non
significa che un avventuriero ligure si sia potuto accasare con la giovane
figlia del cadetto della potente famiglia Chiaramonte. Ed è proprio così che è
andata: dopo i Vespri la Sicilia fu meta del commercio marittimo dei Liguri.
Uno di questi, ricco ma anche in là con gli anni, ebbe a sposare Costanza
Chiaramonte. E’ appena imparentato con la altezzosa famiglia dei Del Carretto,
marchesi di Finale e di Savona. Il mercante forse porta quel cognome, forse no.
Fa comunque credere di essere Antonio del Carretto, marchese di quei due centri
liguri. Il matrimonio dura il tempo necessario per generare un figlio cui si dà
lo stesso nome del padre. Il vecchio Antonio decede e la vedova sposa un altro
avventuriero ligure che questa volta dice di essere Bancaleone Doria. Da questo
secondo matrimonio nascono vari eredi che si affermano, e talora violentemente,
nella storia siciliana. Ma mentre il ramo dei del Carretto sembra subito
acquisire un qualche diritto su Racalmuto - escludiamo però che si trattasse di
diritti genuinamente feudali, forse appena “burgensatici” - quello dei Doria
non nutre interesse alcuno per quelle terre, paludose ed impenetrabilmente
boschive, che circondavano il nostro centro, specie nella parte vicino
Agrigento.
ANTONIO II
DEL CARRETTO
Antonio II
del Carretto non lascia traccia storica di sé: di lui si parla solo negli atti
notarili di fine secolo, a proposito della sistemazione successoria tra due dei
suoi figli, il primogenito Gerardo e l’irrequieto Matteo.
In quel
documento - che trova ampio spazio in questo lavoro - emerge che Antonio II del
Carretto passò la fine dei suoi giorni nientemeno che a Genova. Ciò fa pensare
che l’orfano di Antonio I non bene accolto in casa del patrigno Brancaleone
Doria, di tal che appena gli si presentò il destro ritornò in Liguria nella
terra dei propri padri, ma non a Finale o a Savona - terre delle quali secondo
gli agiografi sarebbe stato marchese - ma a Genova. Questo la dice lunga sul
fatto che il preteso titolo era fasullo, comunque inconsistente.
A Genova
Antonio II fa fortuna: l’atto transattivo tra i due figli Gerardo e Matteo
rendiconta su partecipazioni a compagnie navali, oltre che su beni immobili e
mobiliari di grossa valenza economica, persino strabocchevole rispetto al
lontano, piccolo feudo che a quel tempo era Racalmuto.
Non
sappiamo dove sposa una tal Salvagia di cui ignoriamo ogni altra generalità. E’
certo che entrambi gli sposi erano defunti alla data di un importante documento
del 12 marzo 1399 (pubblicato infra).
Antonio II
- pare certo - lascia in eredità ai figli:
«loca vigintiocto et dimidium que dicuntur loca de
comunii ex compagnia que dicitur di “Santu Paulu” civitatis Janue in compagnia
Susgile pro florenis auri duobus milibus qui faciunt summa unciarum quatringentarum»
In altri
termini si sarebbe trattato di quote nella compagnia di navigazione genovese di
San Paolo per un valore di duemila fiorini pari a quattrocento onze siciliane
(una somma enorme per l’epoca). Antonio II aveva raggranellato anche molti beni
in Sicilia ed in particolar modo a Racalmuto sia per diritto successorio dalla
madre Costanza Chiaramonte sia per lascito del fratellastro Matteo Doria, morto
piuttosto giovane. L’inventario completo può essere quello che traspare dalla
transazione tra i due figli Gerardo e Matteo e cioè:
«casale et feuda Rachalmuti ac omnia et singula iura
et bona feudalia et burgensatica predicta» posti, cioè in
«territorio Garamuli et Ruviceto, in
Siguliana, cum onere iuris canonicorum
civitatis Agrigenti, .... et eciam in
quoddam hospitio magno existente
in civitate Agrigenti iuxta hospitium
magnifici Aloysio de Monteaperto ex parte meridiei, ecclesiam S.cti Mathei ex parte orientis, casalina heredum
quondam domini Frederici de Aloysio ex parte orientis/, viam publicam ex parte
occidentis et alios confines, ac eciam in quoddam viridario quod dicitur “lu
Jardinu di la rangi” posito in contrata Santi Antonij Veteris cum terris vacuis
vineis et in toto districtu in quo iacet flumen dicte civitatis ex parte
orientis viam publicam ex parte occidentis et alios confines cum onere iuris
quod habet ecclesia Santi Dominici de Agrigento nec non in omnibus et singulis
bonis feudalibus et censualibus sistentibus in civitate Agrigenti et eius
territorio ac ... in omnibus et singulis bonis feudalibus burgensaticis et
censualibus sistentibus in urbe Panormi et eius teritorio cum segnalibus suis,
et in omnibus et singulis bonis
stabilibus castris villis baronijs feudalibus et burgensaticis sistentibus in toto regno Sicilie.»
Che Antonio
II sia morto a Genova è ipotesi desumibile da questo passo del citato
documento:
«dominus Gerardus promisit sub vinculo
iuramenti amnia privilegia instrumenta et scripturas facientes pro bonis
predictis venditionis ut supra et specialiter pro baronia Racalmuti que
remanserunt penes eundem dominum Gerardum post mortem magnifici quondam domini
Antoni de Carretto eius patris qui mortuus fuit in posse et manibus dicti
domini Gerardi mittere de Janua ad Siciliam ad eundem dominum Matheum et
heredes suos.»
Antonio II
del Carretto ebbe per lo meno tre figli: Gerardo primogenito, Matteo arrampante
cadetto che inventa la baronia di Racalmuto e Giacomino (Jacobinus) morto
piuttosto giovane.
GERARDO
DEL CARRETTO
Gerardo del
Carretto è il primogenito di Antonio II del Carretto: non sembra che questi
abbia mai messo piede in Sicilia. Il suo centro d’interessi è Genova e là ha
famiglia e ricchezze. Finge di avere interesse alla successione nel titolo
feudale della baronia di Racalmuto, solo per consentire al fratello minore
Matteo del Carretto di sistemare la pendenza con la causidica e venale curia
dei Martino a Palermo. Se leggiamo attentamente i termini di quell’atto
transattivo - pubblicato in altra parte di questa ricerca - ci accorgiamo che
trattasi di espedienti e cavilli giuridici che nulla hanno a che fare con la
vera possidenza dei due fratelli.
Avrà ragioni
da vendere Giovan Luca Barberi, un secolo dopo, a mettere in discussione la
legittimità del titolo baronale di Racalmuto che sarebbe passato da Gerardo al
fratello Matteo, non solo a pagamento - cosa non ammesso secondo il diritto
feudale allora vigente - ma addirittura con un concambio tra beni allogati
nella lontana Genova e prerogative giuspubblicistiche sui nostri antenati
racalmutesi. Un volpino imbroglio che ancor oggi è ben lungi dall’avere una
persuasiva esplicazione da parte degli storici locali. Quello che scrive Pirri,
Inveges, Barone e poi Girolamo III del Carretto e poi il Villabianca e poi San
Martino de Spucches (ed altri moderni araldisti) e prima il Tinebra Martorana
(tralasciando gli inverosimili Acquista, padre Caruselli, Messana, lo stesso
Sciascia, i tanti preti da Morreale a Salvo) è semplicemente inerosimile
congettura. Invero anche il Surita incorre in un errore: per lo meno fa uno
scambio di persona tra i due fratelli Gerardo e Matteo del Carretto.
Gerardo del
Carretto sposa una tal Bianca da cui ebbe una caterva di figli: si sa di
Salvagia primogenita e portante il nome della nonna paterna, Antonio, Nicolò,
Luigi Caterina e Stefano. Nell’atto del
1399 che qui si va citando, il titolo riservato a Gerardo è solo “egregius vir
dominus”. Per converso il titolo di marchese viene appioppato a Matteo del
Carretto designato come “magnificus et
egregius d.nus Matheus miles marchio Saone”.
In un atto
dell’anno prima ([1]) era tutto l’opposto: Gerardo viene
contraddistinto con il titolo di “nobilis marchio Sahone familiaris et amicus
noster carissimus”; Matteo viene relageto in secondo ordine e segnato solo come
“nobilis miles, consiliarius noster dilectus”.
MATTEO
DEL CARRETTO,
primo barone di Racalmuto
Figlio di
Salvagia e Antonio II del Carretto è il vero capostipite della baronia dei del
Carretto di Racalmuto. Da lui prende le mosse un titolo feudale effettivo e
debitamente riconosciuto che sarà sufficientemente attivo nel quindicesimo
secolo, assillante nel sedicesimo (alla fine del secolo, la baronia sarà
promossa a contea), parassitario nel diciassettesimo secolo e finirà nel primo
decennio del diciottesimo secolo in modo miserando.
Matteo del
Carretto sposa una tal Eleonora e sembra averne avuto un solo figlio maschio:
Giovanni, personaggio di spicco che eredita e consolida la baronia di
Racalmuto. Pare che abbia anche avuto diverse figlie.
Prima del
1392 non vi sono dati certi comprovanti la presenza in Sicilia di Matteo del
Carretto, ma già in quell’anno l’irrequieto barone di Racalmuto si attira le
rampogne del duca di Mont Blanc, il futuro Martino il Vecchio. Un liso diploma
di Palermo ([2]) ne
fornisce indubbia testimonianza;
[PRO UNIVERSIS HOMINIBUS LEOCATE ET ..] Dux Montis Albi etc.
«Fidelis etc. Novamenti cum querela e statu expostu a la nostra
maiestati comu pasandu per lo vostru locu di Rachalbutu tanti homini di la
Licata nostri fideli quelli di lu dictu
locu qui tutti generalmente defrodaru e
fichiruli assai dispiachiri; per la
quali cosa si ita est la nostra maiestati
haviva causa di meraviglia et imperoki lu dictu delittu fu tantu manifestu ki
pocu bisogna affannu di chircarisi che
cumandamu ki con omni diligencia duviti fari constringiri quelli di lu
dictu locu ki incontinenti divun restituiri tutti li cosi predicti a lu procuraturi di la presente per parte di li
altri persuni per tali modu ki non perdanu cosa nulla e non sia bisognu ki la
nostra maiestati cesaria [si occupi]
plui di questa cosa [...] per modu ki la loro pena sia terruri di ogni altru ki
vulissi operari mali maxime quam li fideli e homini di la nostra persona. Date
in Cathanie VIIII augusti XV ind. [1392] - Lo Duc.
Dirigitur
Matheo di Carrecto»
Il
trambusto storico che attanaglia gli anni 1392-1396 è ben complesso e non è
questa la sede per dipanarlo: Matteo del Carretto vi si trova impigliato in
tutte le salse. Dapprima è cauto ma è palesemente condizionato dai potenti
Chiaramonte di Agrigento. Gli aragonesi che bussano alla porta non sono
graditi. Si è visto sopra come orde di militari famelici e predoni
scorrazzassero per le campagne: le terre racalmutesi del barone Matteo del
Carretto ne sono infestate. Ci si difende come si può. Ma il Duca di Mont Blanc
è già un duro: esige riparazioni, restituzioni; opera dunque come un
conquistatore spagnolo spietato ed ingordo.
Matteo del
Carretto - stando anche a testi di storia rigorosi - è alquanto amletico: prima
blando con gli Aragonesi, ha momenti sediziosi, si riappacifica, torna alla
ribellione, ma alla fine ha modo di riconciliarsi con i Martino e ne diviene
fedele (ma prodigo e pertanto ultraricompensato) suddito. A suon di once,
solleticando oltre misura (evidentemente a spese dei subalterni racalmutesi)
”l’avara povertà di Catalogna”, riesce a farsi riconoscere per quello che non è
mai stato: barone di Racalmuto, il primo della serie, l’usurpatore di una
condizione giuridica che Racalmuto sin allora era riuscito ad aggirare.
Certo il
predace Matteo del Carretto ebbe a vedersela brutta incastrato tra l’incudine
del duca di Mont Blanc ed il martelo del vicino Andrea Chiaramonte prima che
finisse proprio male.
La storia
di Andrea Chiaramonte parte, invero, da lontano e noi qui vogliamo farne un
accenno per meglio comprendere il ruolo di Matteo del Carretto.
Alla morte
di Manfredi III Chiaramonte spunta un Andrea Chiaramonte di dubbia paternità.
Nel 1391 eredita tutti i beni ed i titoli dei Chiaramonte comprese le cariche
di Grande Almirante e dell’ufficio di Vicario Generale Tetrarca del Regno;
rifiuta obbedienza a Martino Duca di Montblanc e organizza la resistenza di
Palermo all’assedio delle truppe catalane.
Promuove la
riunione dei baroni siciliani a Castronuovo nel 1391. Cerca di impegnarli alla
difesa dell’Isola contro i Martino. L’anno dopo (1392) arresosi ad onorevoli
condizioni, viene preso con inganno e decapitato dinanzi allo Steri il 1° giugno dello stesso anno.
Matteo del Carretto, con sangue chiaramontano nelle vene, prima parteggia per
Andrea ma poi l’abbandona al suo destino, trovando più conveniente
fiancheggiare i nuovi regnanti venuti dalla Spagna. Racalmuto può finire - o
ritornare - nel pieno dominio di questo cadetto della famiglia originaria di
Savona, destinata nel Quattrocento a nuovi protagonismi feudali.
Un figlio
naturale di Matteo Chiaramonte, Enrico, appare sulla scena politica siciliana
per lo spazio di un mattino: nel 1392 si sottomette a Martino dopo la morte di
Andrea e si rifugia con aderenti e amici nel castello di Caccamo, che
successivamente dovette abbandonare per andare esule in Gaeta, dove sembra
abbia finito i suoi giorni.
La nobile
prosapia scompare dall’Isola e non vi torna mai più a dominare. La sua storia è
quasi tutta la storia di Sicilia nel Trecento ed ingloba la dominazione
baronale su Racalmuto. In quel secolo non sono i del Carretto ad avere peso
sull’umano vivere racalmutese; forse una intermittente incidenza la ebbero i
Doria (in particolare, Matteo Doria); per il resto il potere porta il nome dei
Chiaramonte, il potere sul mondo contadino; quello delle grassazioni tassaiole;
quello delle cariche pubbliche; quello stesso che investe i pastori delle
anime: preti, religiosi, chiese, confraternite, decime e primizie. Oggi, i
racalmutesi, fieri delle loro due belle torri in piazza Castello, non serbano
ricordo - e tampoco rancore - per quei loro antichi dominatori e gli dedicano
strade, con dimesso rimpianto, quasi si fosse trattato di benefattori.
La
turbolenta vita di Matteo del Carretto emerge da un diploma ([3]) del 1395
(die XV° novembris Ve Inditionis) che fu al centro dell’attenzione
anche del grande storico siciliano Gregorio ([4]): « Matheus de Carreto miles baro
terre et castrorum Rahalmuti - vi si annota in latino - ultimamente si rese non osseuiente verso
la nostra maestà.» Certo quel “castra” al plurale starebbe a dimostrare che sia
“lu Cannuni” sia il “Castelluccio” erano appannaggio di Matteo del Carretto.
Poi, il Castelluccio, quale sede di un diverso feudo denominato Gibillini passa
nelle mani di Filippo de Marino, fedelissimo vassallo del Re (1398);
non abbiamo la data precisa della concessione; per quel che vale il de Marino
figura possessore del feudo di Gibillini nel ruolo del 1408 dello pseudo
Muscia. ([5])
Le note
storiche che riusciamo a cogliere nel cennato diploma del 1395 concernono i
seguenti passaggi dell’andiriviene opportunistico del nostro primo barone: su
istigazione di alcuni baroni, Matteo del Carretto si dà alla ribellione contro
i Martino; tardivamente fa credere (il re spagnolo ha voglia di credere) che
non fu per sua cattiva volontà (voluntate maligna) ma per la minaccia che gli
avrebbero diversamente occupate le terre. Matteo è pronto a prosternarsi
dinanzi ai nuovi regnanti spagnoli e fa intercedere l’altro ribelle - rientrato
nell’ovile - Bartolomeo d’Aragona, conte di Cammarata. Questi viene ora
accreditato dalla corte panormitana “nobile ed egregio nostro consanguineo,
familiare e fedele”. La riconciliazione - non sappiamo quanto costata al neo
barone di Racalmuto - è contenuta in capitoli che strutturati “a domanda ed a
risposta” così recitano:
"Item peti chi a misser Mattheu di lu Carrectu
sia fatta plenaria remissioni et da novu confirmationi a se et soi heredi de
tutto lo sò, tanto castello quanto feghi quantu burgensatichi, li quali foru e
su de sua raxuni, et chi li sia confirmatu lu offitio de lu mastru rationali lu quali per lu dictu
serenissimu li fu donato et concessu, oy lu justiciariatu dilu Valli di
Iargenti" - Placet providere de officio justiciariatus cum fuerit
ordinatus, quousque officium magistri rationalis vacaverit, de quo eo tunc
providebit eidem.”
Matteo del
Carretto vorrebbe dunque essere riconfermato nell’officio di “maestro
razionale”, cioè a dire vuol ritornare ad essere l’esattore delle imposte; ma
l’ufficio è ora occupato irremovibilmente da altri; il nostro barone allora si
accontenta dell’ufficio del giustiziariato di Girgenti. Il re acconsente.
Il diploma
prosegue:
"Item peti chi lu dictu misser Mattheu haia tutti
li beni li quali ipso et so soru [2] havj a Malta". Placet.
Notiamo il
fatto che Matteo aveva anche una sorella con la quale condivideva proprietà a
Malta.
Item peti "Lu dictu misser Mattheu chi in casu
chi, perchi ipso si reduci ala fidelitati, li soi casi, jardini oy vigni chi
fussero guastati oy tagliati, chi lu ditto serenissimo inde li faza emenda
supra chilli chi li farranno lo dannu oy di li agrigentani". Placet.
E’ uno
squarcio altamente rivelatore: Racalmuto dunque era stato assediato e
assoggettato ad angherie militari come saccheggi e distruzioni. Case, giardini
e vigne del barone erano stati oltremodo danneggiati (“guastati”, alla
siciliana, recita il testo). Se ne attribuisce la colpa agli agrigentini.
Item peti "lu ditto misser Mattheu chi in casu
chi lu so castello si desabitassi chi quandu fussi la paci li putissi
constringiri a farili viniri a lu so casali." Placet.
Il feudo di
Racalmuto si era spopolato, dunque. Tanti villani erano fuggiti; la servitù
della gleba - allora sotto diversa forma drammaticamente imposta - aveva
trovato uno spiraglio per empiti di libertà. Con la forza, ora il barone poteva
andare all’inseguimento di quei fuggiaschi e ricondurli alle pesanti fatiche
del lavoro dei campi coatto.
Remictimus et gratiose relaxamus Matteo preditto omnem
penam, culpam et offensam, dolum, delictum, fraudem, malitiam et omnem crimen
et spetialiter crimen lese maiestatis in omnibus suis capitulis, depradationes,
dampna homicidia et robberias et omnem culpe causam que prefatus Mattheus
commiserit hactenus et perpetraverit, quesiverit et ordinaverit motu proprio
vel alieno, tam contra personas quam contra statum nostrarum maiestatum, nec
non contra consiliarios nostros atque fideles et vassallos atque extraneos et
loca fidelia serenitatis nostre, parcentes et indulgentes ipsi Mattheo eius
uxori et filijs, familiaribus et domesticis suis ac restituentes eosdem ad
statum pristinum et honores et famam integram tam quo ad personam quam etiam ad
baronias et omnia bona feudalia et burgensatica ubique existentia mobilia et
immobilia, et specialiter ad terras et castra predictorum Rachalmuti et
ad jura et actiones sibi hactenus competentes et ad bona omnia quocumque nomine
censeantur, que omnia etiam si opus est de novo conferimus, concedimus et
donamus prefato Mattheo et suis heredibus in perpetuum, eo modo et sub illis
oneribus et servitijs quibus ea tenebat et possidebat ante perpetrationem
criminis supraditti; donationibus, concessionibus et alienactionibus quibuscumque
de bonis ipsis aut alterius ipsorum alicui per nostras serenitates
factas quas de certa nostra scientia plena concientia et absoluta potestate pro
bono pacis et beneficio publico
revocamus, irritamus et penitus anullamus, obsistentibus nullo modo posito
etiam quod in prefatis nostris concessionibus sit adietta clausula remissionis
fatta et fienda non obstante, vel eciam si in illis nostris concessionibus
diceretur quod quecumque remissio non
preiudicet illis nisi in ea ponantur forma dittarum concessionum de
verbo ad verbum vel forte alia formula verborum sub quacumque conceptione verborum sit in illis [3]
apposita, quibus clausulis derogamus expresse
de conscientia nostra et plenitudine potestatis regie annullamus etiam
et irritamus omnes sententias, editta de certa etiam iuditia contra ipsum Mattheum edita, lata et
promulgata per magnam regiam curiam de crimine lese maiestatis ac si contra
eumdem numquam prolata fuisset.
Questa la
formula assolutoria, ampia, faconda, omnicomprensiva, rassicurante. Ancora una
volta ci domandiamo: quanto è costata? Chi ha pagato? Quale ripercussione sulle
esauste finanze racalmutesi?
Insuper
confirmamus, laudamus et approbamus ditto Mattheo omnia et singula privilegia
per nos seu predecessores nostros eidem Mattheo vel suis concessa seu indulta
sub servitijs et conditionibus contentis in eis et quolibet eorumdem ac etiam expressatis iuxta modum et formam
capitulorum predittorum et responsionum per nos fattarum eisdem ut superius
continetur, nostris tamen et alterius iuribus semper salvis.
La chiosa
finale è ulteriormente munifica per l’avventuriero ligure che prende
inossidabile possesso delle nostre terre, dei nostri antenati, della giustizia
che è possibile praticare nelle plaghe del nostro altipiano. Storia appena
“descrivibile” per Sciascia: materia di riprovazione politica ed accensione
passionaria per noi. Sciascia non amava i sentimenti (forse faceva eccezione
per i risentimenti). Più che per il “tenace concetto” (che poi era solo
testardaggine) di fra Diego La Matina, gli stilemi sciasciani avrebbero avuto
più valore civico se rivolti a stigmatizzare questo trecentesco impossessamento
dei liguri del Carretto di noi tutti racalmutesi.
Non tutto è
negativo però nella storia di Matteo del Carretto: pare che s’intendesse di
letteratura e addirittura di letteratura francese (sempreché questo vuol dire
un ordine ricevuto da Martino nel 1397). Ne parla Eugenio Napoleone Messana; ma
la fonte è Giuseppe Beccaria ([6]) che ha
modo di narrare:
«Costoro
[armate spagnole guidate da Gilberto Centelles e Calcerando de Castro] e con
cui era anche Sancio Ruis de Lihori, il futuro paladino della seconda moglie di
Martino, la regina Bianca, approdavano in Sicilia nello scorcio del 1395; e nel
1396 ultima a cedere tra le città appare Nicosia, ultimo tra i baroni Matteo
del Carretto, signore di Racalmuto [pag. 17] ...
Il 5
giugno, infatti, nel 1397 egli [il re] scriveva da Catania a un certo Matteo
del Carretto chiedendogli in prestito la Farsaglia
di Lucano in lingua francese, di cui costui teneva un bello esemplare, allo
scopo di leggerla e studiarla e metterne a memoria alcune delle storie.»
[Documenti pag. 97 - I (F.72 e segg.) - 5
giugno 1397.]
Rex Siciliae etc. Consiliare noster, La nostra
maiestati ha gran plachirj di exercitarj et legirj lucanu in franciscu, maxime
per mectirini a menti alcunj di li storj; et, certificati ki vui vi haviti unu
bellu et utilj, per li presentj vi pregamu effectuare ki nj dijati complachirj
et mandarinj lu dictu lucanu, et di zo plachiriti la excellentia nostra.
Data Cattanie sub nostro sigillo secreto quinto Junij,
quinte indictionis. Post datam. Vi diclaramu ki per portari lu dictu libru vi
mandamu lu purtaturj di la prisenti, cum lu qualj nj mandiriti lu dictu libru.
Data ut supra.
Dirigitur matheo de carrecto.
Dominus rex mandavit mihi motaro furtugno.
(Registro -
Lettere Reali, num. I anni 1396-97, Vª Ind. - Archivio Stato Palermo)
Matteo del
Carretto ebbe quindi a subire le vessazioni della curia che non voleva
riconoscergli i titoli nobiliari che i Martino in un primo momento sembravano
avergli consentito. E’ costretto a scomodare il fratello Gerardo della lontana
Genova, notai di Agrigento, deve oliare abbondantemente le ruote della corte e
quando sta per riuscire nell’impresa ecco arrivare la morte. Tocca al figlio
Giovanni I continuare le beghe legali. E se in un atto del 13 aprile del 1400
il barone capostipite appare ancora in vita, il 22 agosto del 1401 risulta già
defunto. Gli succede Giovanni I del Carretto
[1]
) Datis Cathanie anno dominice incarnationis Millessimo trecentesimo XCVIIII
die primo Januari VIII Ind. Rex Martinus . - Dominus Rex mandat m. Jacobo de
Aretio Prothonotaro [ARCHIVIO DI STATO -
PALERMO - RICHIEDENTE NALBONE GIUSEPPE - REAL
CANCELLERIA - BUSTA N. 38 - Anni 1399-1401]
[2]
) ARCHIVIO DI STATO DI PALERMO - REAL CANCELLERIA - BUSTA N.° 28 - F. 117 VERSO
[3]
) Noi utilizziamo la copia che trovasi nel Fondo Palagonia volume 630.
[4]
) Rosario Gregorio fu storico e paleologo di grandi meriti: non si riesce a
capire perché Sciascia ce l’abbia con lui. Ecco alcune denigrazioni contenute
nel “Consiglio d’Egitto”: «Un uomo, il canonico Gregorio, piuttosto antipatico,
caso personale a parte, fisicamente antipatico: gracile ma con una faccia da
uomo grasso, il labbro inferiore tumido, un bitorzolo sulla giancia sinistra, i
capelli radi che gli scendevano sul collo, sulla fronte, gli occhi tondi e
fermi; e una freddezza, una quiete, da cui raramente usciva con un gesto
reciso delle mani spesse e corte.
Trasudava sicurezza, rigore, metodo, pedanteria. Insopportabile. Ma ne avevano
tutti soggezione.» (Op. cit. edizione Adelphi Milano 1989, pag. 47).
[5]
) MUSCIA, Sicilia Nobile, pag. 72
[6]
) Giuseppe Beccaria - Spigolature sulla vita privata di Re Martino in Sicilia -
Palermo - Salvatore Bizzarilli 1894 - pag. 15.
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