Alla
cortese attenzione della dott.ssa MUSUMECI,
sono un pensionato della Banca
d’Italia, nato a Racalmuto ma residente a Roma. Data la mia età non ho certo
sotterranei interessi nel mio amore per l’archeologia e la storia del mio paese
natio. Patria di Sciascia, Racalmuto invero meriterebbe maggiore attenzione ed
è sintomatico che, mentre si proclama in Gazzette Ufficiali della Regione
Siciliana del 1980 zona archeologica la contrada di Pietralonga che appartiene
a Castrofilippo, si lasciano i vandali operare in pace presso il Rovetto (non
incluso nei tanti vincoli archeologici) o nella stessa zona della Noce-Menta
(altrettanto esclusa) ove i reperti numismatici, edili e fittili bene attestano
– per contiguità con Vito Soldano – presenze urbane romane, e prima greche, per
non parlare la selvaggia deturparzione per scavi abusivi nelle basse tombe
sicane di fra Diego a Gargilata.
Mi si dice che la nuova addetta al settore archeologico,
dott.ssa Musumeci è bene intenzionata. I miei rallegramenti e l’augurio mio
fervido di buon lavoro. Frattanto, però, i reperti consegnati dal sig.
Calderone restano negletti, alla stregua di quelli consegnati sette anni fa ai
Carabinieri di Racalmuto. Perché non affidarli alle locali scuole o alla
sezione di Archeoclub per le prime inventariazioni e le prime ricerche?
Chi scrive, operando qui a Roma, spera di fare
avere anche dalla FSRS fondi per scavi nella patria di Sciascia. Codeste
Autorità sono propense a dare il loro assenso?
In caso affermativo, forse qualche cenno d’intesa
potrebbe venirmi dato a questa E-Mail:
Se si ha
pazienza e mi si degna di un minimo di attenzione, si potrebbe già dare uno
sguardo a questi miei appunti. Una chiave per valutare se quello che vado
ponderando ha un senso. Forse vi è qualche spunto che potrebbe venire incluso
nei programmi di codesta benemerita Soprintendenza. La civiltà sicana
racalmutese non ha nulla da invidiare a quella magnificamente descritta in Dalle Capanne alle “Robbe” di Milena.
Non si vede perché debba restare tanto negletta.
Racalmuto, miliardi e milioni di anni addietro
Se l’età della terra vanta un’età di cinque miliardi di
anni, ne dovette trascorrere di tempo prima di arrivare in piena epoca
miocenica (circa venti milioni di anni or sono) allorché un fenomeno
rimarchevole ebbe a verificarsi in territorio racalmutese: nembi e nembi di
moscerini annebbiarono le plaghe allora affioranti a Racalmuto e quando vi
morirono lasciarono scie solfifere, poi coperte man mano di sale, gesso, trubi
e quindi di humus. A noi va di rappresentare così l’ipotesi scientifica che
Pratesi e Tassi [1] volgarizzano in questi
termini: «la terra delle miniere di zolfo, le celebri zolfare inscindibili
dalla storia della Sicilia perché teatro di tragedie umane legate al triste
fenomeno della schiavitù dei carusi …
riveste ancora un notevole interesse naturalistico, per chi voglia comprendere
la storia della formazione di queste singolari montagne erose, incise,
deforestate, che hanno l’aspetto caratteristico di certe regioni interne
mediterranee, dalla Castiglia all’Anatolia. La cosiddetta serie
gessoso-solfifera, intercalata da depositi di salgemma che sono tra i rarissimi
d’Italia, non è che una formazione miocenica comprendente antichissimi tripoli
in basso e poi calcari di base e calcari solfiferi, per giungere infine ai
gessi superficiali e quindi più recenti. Oggi si è inclini a ritenere che
questa formazione abbia avuto origine dalle grandi lagune terziarie
progressivamente evaporate, con un processo di sedimentazione che avrebbe avuto
per protagonisti non solo i principii della fisica e della chimica, ma
addirittura uno straordinario microscopico batterio, il Desulfovibrio desulfuricans, capace di nutrirsi di petrolio greggio
e di rubare ossigeno al solfato di calcio dando luogo a idrogeno solforato che,
attraverso una normale ossidazione, avrebbe partorito lo zolfo nativo.»
Quanto al sale racalmutese, ci pare illuminante
quest’altro passo dei due citati autori[2]: «le
rocce che costituiscono queste zone sono essenzialmente due: le argille gessose
e sabbiose, spesso salate con grandi ammassi di salgemma, che includono qua e
là banchi di rocce più tenaci, e le rocce gessoso-solfifere vere e proprie.
L’origine di questi minerali è da ricercarsi nei parossismi orogenici del
Miocene, in cui, con il formarsi finale delle Alpi e degli Appennini, seguì un
sollevamento generale del suolo che portò alla formazione di estesissime lagune
salate la cui lenta evaporazione originò un complesso di depositi di sale,
gesso, ed altre sostanze.»
Il processo geologico si evolve con la formazione di
strati silicei. Sempre secondo il Pratesi e il Tassi: «tra i due strati di
rocce (sopra quelle gessoso-solfifere, sotto le argille gessose e sabbiose) sta
un sottile strato di materia silicea nota con il nome di tripoli o farina
fossile, composta specialmente da scheletri di microrganismi acquatici quali
radiolari e diatomee.»
Anche per l’Altipiano di Racalmuto può affermarsi con i
due autori che «la formazione gessoso solfifera è abbondantemente ricoperta da
depositi marini più recenti, del Pliocene. Una crosta, alta parecchi metri, di rocce calcaree, in genere tufi
composti da un impasto di gusci e di conchiglie che proteggono i più molli
terreni sottostanti. Si formano così come delle zattere di roccia calcarea gallegggianti sulle formazioni
gessoso-solfifere. […] Quando la crosta calcarea viene però ad essere corrosa
tanto da permettere alle acque di sciogliere il gesso sottostante, si ha la
formazione di cavità carsiche dette zubbi
o addirittura grandi avvallamenti …»
Cerchiamo
di raccapezzarci un po’ meglio: nel succedersi degli sconvolgimenti geologici,
il territorio di Racalmuto raggiunge l’attuale sua conformazione nelle fasi
finali dell’era terziaria, cioè in tempi piuttosto recenti. Concetto in ogni
caso relativo, visto che bisogna andare a ritroso nel tempo per almeno cinque
milioni di anni. Non va dimenticata la ricorrente teoria scientifica secondo la
quale l’intera Sicilia sarebbe terra “geologicamente recente”([3]). Ed anche
qui trattasi di risalire, nella notte dei tempi, per un centinaio di milioni di
anni prima di datare la fase iniziale del complesso fenomeno formativo
dell’isola. In un primo momento,
“formazioni calcaree mesozoiche, e cioè dell’èra dalle forme intermedie
di vita, o èra secondaria” ebbero ad abbozzare un cosiddetto “scheletro” tra
Trapani, Palermo e Messina con un isolato nucleo avente l’epicentro a Ragusa.
In una seconda fase, si formò una sorta di tessuto connettivo per il
progressivo emergere di terre durante la regressione pliocenica. Infine, in
epoca quaternaria, affiorarono le terre marine.
Secondo una
cartina della distribuzione dei terreni pliocenici e quaternari in Sicilia
dovuta al Trevisan [4] Racalmuto
si modella con le forme che oggi ci sono familiari sul finire del periodo
intermedio e cioè durante la transizione dal terziario al quaternario, in pieno
Pliocene. Studi sulla geologia di Racalmuto sono stati fatti da A. Diana
(1968). Geologi locali (vedasi fra gli altri Luigi Romano) hanno di recente
dato i loro apporti. Nella sua tesi laurea il Romano, avvalendosi dei dati
sperimentali desunti dalla trivellazione di una quarantina di pozzi, distingue
quattro strati nel sottosuolo racalmutese.
«Cronologicamente - ci ragguaglia l’A [5] - i terreni che compaiono nella zona
studiata, vengono raggruppati come segue:
1) complesso argilloso caotico di
base, di età pre-tortoniana;
2)
formazione Terravecchia del Tortoniano, costituita da sabbie, conglomerati e
argille;
3) serie Gessoso-Solfifera, complesso
rigido costituito da vari elementi del Saheliano e Messinese.
4) una formazione di copertura di età
Pliocenica inferiore, costituita da marne e calcari marnosi (Trubi).
Completano
la geologia della zona una copertura detritica alluvionale.»
Trivellando la zona del Serrone per una quarantina di metri abbiamo dunque una stratigrafica sovrapposizione geologica, a conferma delle varie ipotesi degli studiosi prima sommariamente chiamati in causa.
RACALMUTO PREISTORICO -
ZOLFO, GRANO E SALE
Racalmuto
sorge, si popola e si accresce per due grandi vocazioni economiche:
l'agricoltura e le risorse minerarie. Già nella preistoria sembra che siano
presenti due flussi migratori diversi: uno a sfondo agricolo che da Licata tocca le falde del versante
sud del Serrone e l'altro, in cerca del sale, contiguo agli insediamenti
che dalla Rocca di Cocalo si espandono verso Milena, Montedoro, Bompensiere.
L'immigrazione
agricola di popoli che vengono fatti risalire al XVIII secolo a.C. venne
documentata durante i lavori della ferrovia nel 1879. [6] I pochi reperti fittili finirono dispersi nei
sotterranei di un qualche museo siciliano ed attualmente risultano
irreperibili. Le tombe a forno dei pressi della stazione
ferroviaria di Castrofilippo sono del tutto sparite,
smantellate dalle successive cave di pietra.
L'altro
insediamento è quello che l'ingenuità delle cartoline illustrate locali
definisce 'tombe sicane', site attorno alla grotta
di Fra Diego. In mancanza di ufficiali campagne di scavi - che le
competenti autorità continuano a denegare, anche se la patria di Sciascia le imporrebbe - dobbiamo
accontentarci delle intuizioni dilettantesche e delle tante segnalazioni che
dal '700 in poi si rincorrono. Il cospicuo numero di tombe a forno dimostra l'esistenza di
gruppi estesi, dediti ai culti mortuari dell'inumazione in forma fetale, con i
cadaveri forse spolpati a bagnomaria e forse legati per la paura di una
vendicatrice resurrezione che i nostri antenati pare nutrissero. [7]
Quei
cosiddetti antichi Sicani, installandosi attorno alla
grotta di Fra Diego, avranno trovato il salgemma delle vicinanze e
fors'anche lo zolfo per la continuità del fuoco. Risale alla tarda età romana
lo strambo passo di Solino che il Tinebra Martorana riferisce - a nostro avviso
fondatamente - al territorio di Racalmuto. Ma rispecchia, di certo, una
tradizione millenaria. Solino scrive che il sale agrigentino, se lo metti sul
fuoco, si dissolve bruciando; con esso
si effigiano uomini e dei (C.I. Solinus, 5\ 18;19). Ancora nel '700 il viaggiatore inglese Brydone andava alla ricerca di quei
fenomeni. Sommessamente pensiamo che v'è solo confusione tra sale e zolfo,
entrambi già conosciuti dai nostri preistorici antenati. Con lo zolfo si
foggiavano statuette del tipo dei 'pupi', dei 'cani', delle 'sarde' di
'surfaro' che ai tempi della mia infanzia circolavano ancora.
Sale, zolfo e gesso Racalmuto li
avrebbe, dunque, ereditati dagli sconvolgimenti del Miocene. Inquieta alquanto l'idea
che le ricchezze della rampante borghesia ottocentesca di Racalmuto si debbano
a quel geologico vibrione. Ma le viscere della terra non furono solo fecondate
di zolfo dal singolare microrganismo miocenico: inghiottirono anche l’antomoniu
e cioè il grisou il venefico
idrocarburo che incendiandosi produce morte per incenerimento dei polmoni dei
malcapitati minatori che avessero a respirarlo. Sciascia vi scrisse un mirabile
racconto: L’Antomonio, appunto. Così
lo chiosa in premessa: «gli zolfatari del mio paese chiamano antimonio il grisou. Tra gli zolfatari, è leggenda che il nome provenga da antimonaco: ché anticamente lo
lavoravano i monaci e, incautamente maneggiandolo, ne morivano. Si aggiunga che
l'antimonio entra nella composizione della polvere da sparo e dei caratteri
tipografici e, in antico, in quella dei cosmetici. Per me suggestive ragioni,
queste, ad intitolare L’antimonio il
racconto.» Noi, quelle ragioni sciasciane, stentiamo ad individuarle. Ne
abbiamo, però, delle nostre. Una mia nonna raccontava del suo primo marito
finito, dopo poche settimane dalle nozze, morto per antimonio dietro un muro
prontamente eretto per impedire che il grisou
si espandesse da una “galleria” all’altra: tanto si sapeva che per i poveretti
investiti nelle viscere della miniera non c’era più scampo. Si procedeva, così,
a salvaguardare gli altri cunicoli solfiferi.
Apparentemente ancora integri, quei minatori scapparono dal profondo
della miniera, ma giunti all’uscita la trovarono murata. Ira, terrore,
sgomento, disperazione, preghiere supplichevoli, bestemmie imprecazioni ..
furono scene davvero apocalittiche che si possono soltanto sospettare, intuire,
immaginare. Poi, la morte inesorabile, senza più respiro per i polmoni inceneriti. Ancor oggi, per tanti di
noi racalmutesi, la zolfara – per dirla con Sciascia – equivale all’«uomo
sfruttato come bestia e [al] fuoco della morte in agguato a dilagare da uno
squarcio, l’uomo con la sua bestemmia e il suo odio, la speranza gracile come i bianchi germogli di grano il venerdì
santo dentro la bestemmia e l’odio.» [8]
Per un secolo e mezzo
il vibrione solforoso produrrà a Racalmuto “povertà vile” [9] per
tanti zolfatai e flebile benessere per taluni “coltivatori” di “pirrere”.
Preistoria
racalmutese
Sull’altipiano di Racalmuto - che, a ben
vedere, altipiano non è - l’uomo ha lasciato, da oltre quattro millenni, tracce
del suo dimorarvi ora rado, ora intenso, qualche volta prospero, ma di solito
stentato. Un popolo preistorico, quello cosiddetto sicano, fu presente per
oltre sei secoli nel secondo millennio a. C. Ma a partire dal XIV sec. a.C.,
mentre nella vicina Milena ebbe a prosperare una popolazione che, come
attestano le ancor visibili tombe a tholos, seppe avvalersi degli influssi
micenei, il territorio di Racalmuto pare divenuto del tutto inospitale e la
civiltà sicana scompare del tutto (o non fu in grado di lasciare testimonianze
che superassero l’onta del tempo).
Ma a che epoca risale il primo insediamento umano nel
territorio di Racalmuto? Fu esso teatro di qualche fase evolutiva della specie
umana? Come vissero i primi nuclei umani? Ove abitarono e con quali riti e
culture?
Sono tutte
domande senza risposta, alla luce delle attuali conoscenze scientifiche. Solo
si può ipotizzare una qualche presenza umana nella grotta di Fra Diego, che per
ubicazione ed ampiezza sembra proprio idonea ad ospitare il primitivo homo sapiens sapiens dei dintorni
racalmutesi.
La grotta
di fra Diego, circondata da una necropoli di tombe a forno, è, a mio avviso, un
inghiottitoio, ma sospeso in alto dovrebbe testimoniare uno di quei fenomeni
detti zubbi che abbiamo sopra in
qualche modo descritti. Ne nacque un avvallamento quale oggi notiamo con tanti
altri inghiottitoi lungo il costone roccioso. Sull’antico sprofondo ebbe di
certo ad accumularsi uno strato di detriti per slavamento delle antistanti
colline che ascendono sino al Castelluccio.
Oggi,
dall’alto della grotta, vi si può ammirare una plaga destinata ad essere una
zona archeologica di grosso risalto. Nell’estate del 1999 il sig. Palumbo di
Milena – un personaggio assurto alla notorietà per avere coadiuvato con gli
archeologi che hanno reso famosa la contermine Milocca sicana – rinveniva
in quell’avvallamento un continuum
ceramico sicano, greco, romano, arabo e normanno. A suo avviso, era là che si
era dispiegato l’insediamento umano dell’epoca sicana di cui le affascinanti
tombe a forno ne sono l’ancora visibile testimonianza archeologica. Ma la vita
non si era fermata al XIII secolo a. C.: era proseguita, in quello stesso
luogo, con i greci, con i romani, con i bizantini e soprattutto con gli arabi.
Accomunati si rinvengono cocci delle varie epoche, disseppelliti
disordinatamente dai moderni trattori. Forse la Gardûtah della geografia dell’Edrisi trovavasi proprio sotto la
necropoli sicana di fra Diego. Va a
finire che aveva proprio ragione padre Salvo quando scriveva [10]: «da noi,
a Gargilata, certamente [i sicani] vi ebbero un villaggio, il cui nome con
molta probabilità sarà stato Gardûtah,
più tardi corrotto il Gardulâh, donde
si pensi derivi il nome Gargilata della contrada. A fare il nome di Gardûtah è il geografo arabo Edrisi al
tempo di Ruggero I nel secolo XI. Egli chiama in tal modo un imprecisato
villaggio del suo tempo sito in quei paraggi della contrada Gargilata “a nove
miglia da Sutera”.» La ceramica araba che abbiamo notato sotto la guida del
Palumbo sembra dare il supporto archeologico alla congettura di padre Salvo.
Speriamo che le pubbliche autorità si inducano finalmente a fare le campagne di
scavi che la terra di Sciascia ben merita e speriamo che si provveda per la
salvaguardia di quei beni che sono le tombe, al momento in pasto alla selvaggia
profanazione di tombaroli.
L’affacciarsi
dell’uomo in Sicilia data ad epoca non ancora precisata. Forse 500.000 anni fa
le zolle sicule furono calpestate dal primo Homo
erectus. Più probabile che ebbero a passare centinaia di anni prima che
fosse l’Homo sapiens a passare
dall’Africa in Sicilia. Ci pare convincente il Tusa che è molto circospetto in
proposito. «A quale epoca rimontano le prime tracce dell’uomo .. in Sicilia»,
si domanda [11]. Ed ecco
il suo punto di vista: «Alcuni ritengono che i ciottoli di pietra levigata e
appena scheggiata rinvenuti in località “Giancaniglia” … costituiscano la prova
della presenza dell’uomo in quella zona durante il Paleolitico Inferiore,
quell’epoca antichissima della presenza umana che generalmente si data a
partire da 500.000 anni fa; non si è sicuri di questo però, studi e ricerche
continuano. La presenza umana è però accertata, ed anzi considerevole, in un
periodo molto più avanzato rispetto al precedente, il Paleolitico Superiore.»
I
dilettanti non danno comunque per vinti. Secondo notizie di stampa dell’autunno
del 1983 in Sicilia sarebbe stato rinvenuto un reperto di ossa e denti di un Austrolopithecus e cioè l’uomo risalente
a 4 milioni di anni fa e i cui primi reperti sono stati rinvenuti nel 1924 presso
Taungs nel Bechaunaland (Tanganica
nell’Africa Meridionale). Quello di Sicilia lo si vuol far risalire a 3 milioni
e mezzo di anni. Cacciava in piccoli gruppi: Sapeva accendere il fuoco e usava
grossi ciottoli come utensili.
Più
possibilista ci appare De Miro secondo il quale [12] «dal
territorio agrigentino, più particolarmente da un giacimento omogeneo di Capo
Rossello presso Realmonte, provengono i documenti di quell’industria su
ciottolo riferibili alla “Pebble Culture”, cioè alla più antica industria
litica del paleolitico inferiore: questi oggetti (ciottoli scheggiati a una
estremità su una faccia o su due facce), trovati sui terrazzi a sabbie
calabriane a quota compresa tra 60 e 70 m. s.l.m-, hanno una importanza
notevole per la più antica presenza umana nell’Isola e nell’intero continente
italiano, in quanto forniscono la prova che in Sicilia l’uomo fece la sua
comparsa alle soglie dell’Era Quaternaria e – per le relazioni con la Pebble
Culture nord-africana – sembrano suggerire per i tempi più antichi del
Quaternario l’unione della Sicilia con l’Africa e l’assenza della fossa
tunisina.» A noi è capitato d’imbatterci in schegge litiche sparse in un
terreno antistante a grotte naturali in contrada Fontana del Vozzaro (sotto il
Castelluccio). Il signor Candeloro, un solerte
ricercatore, ci segnalava reperti di antichissima presenza umana nella
stessa grotta di fra Diego. Occorrono comunque attenzioni scientifiche per
avere certezze sulla più vetusta cultura umana nei dintorni racalmutesi.
Dobbiamo
saltare al secondo millennio a.C. per essere certi di consistenti nuclei
abitativi che sogliono chiamarsi, sulla scia di una pagina di Tucidide, sicani. Due testimonianze ce l’attestano
in modo indubbio: le tombe a forno
scavate nella parete della medesima grotta di Fra Diego e presenti anche lungo
il crinale che da lì arriva, passando per il Castelluccio, sino alle porte del
paese; ed un ritrovamento casuale a dieci chilometri da Canicattì, lungo la
strada ferrata.
Sulla
primissima presenza umana nei dintorni di Racalmuto, non sappiamo null’altro se
non quanto, con qualche ingenuità ed approssimazione da dilettante, ebbe a
riferire, in una sua corrispondenza a W. Helbig, il solerte ingegnere delle
ferrovie, Mauceri ([13]).
Apprendiamo, così, che «le scoperte di tombe antichissime hanno un
importantissimo riscontro nell’altipiano di Pietralonga tra Canicattì e
Racalmuto, ove ebbi la fortuna di esaminare le tracce di un gruppo di tombe
scoperte casualmente. La strada ferrata in costruzione, che va da Canicattì a Caldare,
... a circa dieci chilometri dalla prima città passa in una terrazza che si
protende a sud-ovest di un altipiano tortuoso, costituito da un gran banco di
roccia calcare non ancora denudato. In questa altura e su vari speroni rocciosi
che in vari sensi si diramano, nella scorsa estate [1879] furono aperte
parecchie cave di pietra per le costruzioni ferroviarie. Quivi i cavatori
avanzando le loro cave in vari punti, ... incontrarono molte tombe che hanno
una perfetta somiglianza con le altre precedentemente descritte.» ([14]) Si ha,
quindi, la descrizione delle tombe, oggi non più rinvenibili. Esse «erano
scavate - aggiunge il Mauceri - quasi tutte nei versante di levante e
mezzogiorno dell’altipiano e dei contrafforti. La loro forma è assai varia;
abbonda per lo più il tipo della tomba a pozzo, come quella di Passarello; ma
sembra che talvolta le celle invece di due siano state tre e anche quattro. In
un punto pare fosse stata aperta una specie di trincea, su cui poi furono
scavate parecchie celle a pozzo, ma irregolari.
[...] La chiusura della bocca dei pozzi o dell’ingresso delle celle è
sempre fatta con grossi massi irregolari, e in cui non scorgesi traccia di
alcuna particolare lavoratura. Tutte le tombe, oltre a contenere più d’uno
scheletro e parecchi vasi, contenevano anche molti ossami di animali, e terra
grassa mista a cenere e carbonigia. Nessun utensile, né di pietra né di
metallo.» ([15]) Segue la
descrizione di n.° 11 reperti fittili, di cui viene fatta anche una
riproduzione grafica. Trattasi di vasetti di terracotta, di frammenti di una
“coppa di un vaso grande”, di “una specie di olla”, della “coppa di un calice”,
di un “vaso di bucchero”, nonché di un “utensile di terracotta a forma di un
corno”. Non è questa le sede per
riportare diffusamente la descrizione che fornisce il Mauceri: per gli
appassionati, si fa rinvio alla pubblicazione ed alle tavole ivi allegate. La
conclusione di quella corrispondenza contiene affermazioni che l’ulteriore
sviluppo dell’archeologia ha solo in minima parte confermato. «Gli altopiani
rocciosi e naturalmente muniti di Passarello, Pietrarossa, Fundarò e
Pietralonga, ([16]) -
conclude l’A. - nei cui contorni sonosi scoverte le tombe da me descritte, mi
sembrano indicare il sito di altrettante dimore stabili dei Sicani, tanto più
che ho osservato alle falde di ciascuno abbondanti sorgenti d’acqua. In ispecie
a Pietralonga, chiunque esamini la contrada, troverà indicatissimo il sito di
una città; ond’io ritengo che di queste notizie potrà in qualche guisa
avvantaggiarsene la topografia antica di Sicilia, potendosi ivi collocare
qualcuna delle città sicane (Ippona, Macella, Jeti, ecc.) di cui è tuttora
incerta la giacitura.»
Dopo la descrizione di quel
rinvenimento casuale, nessuna campagna di scavi è stata sinora portata avanti
nel territorio racalmutese. Quell’antichissima - ma certa - presenza umana
resta dunque per ogni altro verso oggi del tutto oscura. Si trattò di un popolo
sicano, ma come quel popolo visse, con quale evoluzione, con quali strutture
socio-economiche, si ignora del tutto. Possono solo avanzarsi congetture: ma
esse risultano alla fine inappaganti.
Quel che le affioranti
testimonianze archeologiche dimostrano con certezza è un policentrico insediamento
sicano che può farsi risalire all’Età del Bronzo (1800-1400 a.C.) Oltre alla
necropoli lungo la strada ferrata, nei pressi di Castrofilippo, di cui è cenno
presso il Mauceri, il maggior nucleo è quello sulla fiancata della grotta di
Fra Diego. Tombe rade, ma pur presenti, emergono vicino al Castelluccio, su un
avvallamento del Serrone ed in altre contrade racalmutesi. Molto manomesse, ma
non irriconoscibili, sono le tumulazioni sicane scavate in costoni calcarei
sovrastanti la contrada di Casalvecchio o al confine tra il Saraceno e
Sant’Anna.
Si sa che
nel XIII-XII secolo a.C. si sviluppa nella media Valle del Platani
un’articolata iconografia tombale micenea. E’ questo il tempo dei primi
contatti con il mondo miceneo. Nella confinante Milena si rinvengono tombe a
tholos e materiali del Mic. III B-C. Secondo il De Miro è da pensare «ad una
miceneizzazione di questa parte dell’Isola tra il Salso ed il Platani,
risalente a veri e propri stanziamenti di nuclei transmarini avvenuti nel
XIII-XII secolo a.C., forse alla ricerca della via del salgemma.» ([17]) Il Monte Campanella
di Milena, ove sono state rinvenute tombe a tholos con frammenti di vasi
micenei e corredo di spade e pugnali di bronzo e un bacile cipriota del XIII
secolo a.C., non è poi tanto lontano dalla necropoli di Fra Diego; eppure a
Racalmuto nulla si è trovato, a memoria d’uomo, che comprovi un analogo
influsso miceneo. Né vi è notizia di tombe a tholos in qualche punto
dell’intero territorio di Racalmuto. Forse è da pensare che la civiltà sicana
sia sparita a Racalmuto sin dal XIII secolo a.C.? Lo stato delle conoscenze
archeologiche porta a tale conclusione. Spariscono, dunque, i Sicani o
sopravvivono senza contaminazione? Ed in tal caso per quanti secoli ancora?
Possiamo solo affermare con qualche fondamento che al tempo della
colonizzazione interna dell’Agrigento greca, Racalmuto dovette essere pressoché
disabitato, come la rarefazione delle testimonianze archeologiche paiono
dimostrare.
LA CIVILTA’
SICANA RACALMUTESE A CONFRONTO CON MILENA
a) – le ricchezze archeologiche di Milacca
ed il ritardo racalmutese
Vincenzo La
Rosa dell’università di Catania ha potuto scandagliare dal 4 dicembre 1977 il
territorio di Milena alla ricerca delle antiche civiltà ivi succedutesi. Il
volume Dalle capanne alle “Robbe” ne
attestano i felici risultati. Là, i diversi sovraintendenti (specie
agrigentini) sono stati prodighi di autorizzazioni ed aiuti. Nella contermine
area racalmutese, ciò è impensabile. L’attenzione è tutta protesa alla Valle
dei Templi. Quanto è greco o post greco ha senso; il resto solo se ha attinenza
al mito minoico del re Cocalo. Al
momento, Racalmuto può solo usufruire del riverbero delle risultanze pre e
proto storiche che gli scavi e gli studi della contermine Milena sfornano a
ritmo davvero sostenuto.
E se lì
sono ormai assodate «le presenze di tipo egeo e, più in generale, .. le culture
sicane della media e tarda età del Bronzo» [18] restiamo
autorizzati a pensare altrettanto per Racalmuto, specie in territorio di Fra
Diego.
b) Le affinità geomorfologiche.
Gli studi
sul sistema geomorfologico di Salvatore Maria Saia [19] si
attagliano ovviamente, anche, al limitrofo territorio di Racalmuto. Certo non
in modo pedissequo: ad esempio, l’affluente del Platani, Gallo d’Oro, nasce
dalle falde del Castelluccio e zigzagando per il versante Est di Vallanuova
s’immette in pieno territorio di Montedoro, ma non può affermarsi per il tratto
racalmutese quello che il Saia afferma per Milena e cioè che il corso d’acqua
in questione abbia «assunto un ruolo principale nell’azione morfologica di
“modifica” territoriale e nel quale si congiungono quasi tutte le aste del
reticolo idrografico di questo ambito territoriale.» Comunque fenomeni analoghi
vi sono nelle lande racalmutesi, sia pure collegati ad altri corsi d’acqua.
In pieno
invece attengono a Racalmuto queste altre considerazioni del Saia: «I termini
stratigrafici risultanti dall’esame
superficiale e raffrontati alla letteratura geologica vengono descritti come
appartenenti alla cosiddetta “Serie Solfifera”, cioè ad una “successione di
sedimenti prevalentemente evaporitici, compresi tra le argille del Tortoniano
superiore e la formazione dei «trubi» del Pliocene basale, depositatisi in
corrispondenza ad una crisi di salinità interessante l’area mediterranea” (Decima & Werzel, 1971» [20] Aggirate
le difficoltà della terminologia scientifica, il succo del discorso conferma,
specie per i riferimenti cronologici, quello che ci siamo sforzati di
rappresentare sopra sull’evoluzione geologica dell’altipiano racalmutese. Ci
troviamo quindi di fronte «ad una successione continua costituita
schematicamente dalle seguenti unità dal basso verso l’alto, in successione più
o meno continua sulle argille basali: 1 - Tripoli; 2 – Calcare; 3 Gessi e
gessareniti con lenti di sale; 4 – Trubi con l’elemento basale dell’Arenazzolo.»
In definitiva – esulando da questo lavoro approfondimenti scientifici
dell’assetto geomorfologico racalmutese – possiamo agganciarci alle
recentissime conclusioni di quanti ritengono «il territorio [che ci occupa]
tipico della zona centrale della Sicilia [con] elementi di uniformità geologica
a quella fascia centro meridionale dell’Isola.» In altri termini, «è un
territorio che ha avuto una “storia” geologica relativamente recente se
raffrontata al susseguirsi delle ere geologiche, ma la caratterizzazione in
termini litologici plastici o comunque riconducibili a forme non proprio
consistenti o resistenti all’erosione ne ha determinato un paesaggio
geomorfologico piuttosto “appiattito” che ha consentito facili ed agevoli
insediamenti umani.»
c) Lo zolfo
Dalle
ricerche su Milena estrapoliamo, poi, queste annotazioni, sempre del Saia,
sulle “mineralizzazioni” che investono appieno la nostra ampia vallata a nord
del Castelluccio: «La serie Gessoso-Solfefera presenta le mineralizzazioni
classiche che la caratterizzano e che sono costituite principalmente dallo
zolfo, da salgemma e da vari tipi di sali a composizione potassica o sodica..»
«Il minerale, di genesi sedimentaria, è associato a gesso, anidride e talora
salgemma, la cui origine non è ancora del tutto certa, ma sembra che si
verifichi per “riduzione dei solfati (ad es. CaCO4), con formazione
intermedia di solfuri e successiva ossidazione di questi ultimi da parte di acque ricche di CO2,
che depositano contemporaneamente CaCO4 secondario. L’azione riducente
dei solfati è svolta essenzialmente da microrganismi di tipo anaerobico.
D’altra parte diversi organismi quali i solfo-batteri, possono precipitare
direttamente lo zolfo da acque contenenti H2S, che può a sua volta
derivare da esalazioni termali o dalla putrefazione di sostanze organiche.” (Carobbi, 1971) [21] La
riduzione di solfati (come il gesso) per opera dei solfo-batteri (Spirillum desulfuricum Bayer e Microspina aestuari v. Deden) con
produzione di H2S, e la consequenziale soluzione in acqua potrebbe
spiegare, altresì, la differenza diffusa di acque solfuree [22],
considerato che il fenomeno non può attribuirsi a fenomeni di origine
vulcanica.»
Qui, si
esplica, in termini altamente scientifici, quello che noi alquanto
fantasiosamente abbiamo cercato di rappresentare a proposito del vibrione
“desulfuricante”, reo di ottocenteschi sfruttamenti di poveri zolfatari e di
obbrobri sociali avverso gli imberbi “carusi”.
d) Il
salgemma.
Ma passiamo
al sale. «La presenza del sale – aggiunge il Saia, op. cit. p. 25 – è stata
dimostrata, nel tempo, dagli affioramenti spontanei dovuti a falde acquifere
sotterranee che, dopo aver disciolto il minerale, sgorgano in superficie ove,
sottoposte a rapida evaporazione per esposizione alle mutate condizioni di
temperatura e pressione, precipita il sale, lasciando intravedere le chiazze
bianche anche a notevole distanza. Le ricerche minerarie hanno dimostrato
l’esistenza di grossi giacimenti salini che si presentano discontinui perché
sottoposti ad intensa attività “tettonica comprensiva con pieghe diapiriche
anche strette per cui lo spessore apparente può, alle volte, raggiungere e
superare i 1000 metri” (Decima & Wezel, 1971) ed esposti a rapide
dissoluzioni. Oltre alle mineralizzazioni di sali sodici se ne riscontrano anche
potassici [oscenamente deturpanti le miniere di Gargilata, a ridosso del Cozzo
Don Filippo]e magnesiaci.»
e) Il gesso.
Ed ora
prendiamo a prestito dal geologo alcune notazioni scientifiche sul gesso. «La
presenza dei gessi – conclude sempre il Saia, op. cit. p. 25 – soprattutto di
quelli nella forma selenitica (cristalli cosiddetti a “ferro di lancia” o “coda
di rondine”) per la facile lavorabilità ha probabilmente favorito gli
insediamenti [sicani], anche al fine di pratiche o di culti come ad esempio quello
dei morti con relative opere tombali inserite nelle pareti di gesso.»
Racalmuto
conferma appieno tale tesi. Necropoli sicane monumentali sono, ictu oculi, quelle di fra Diego; ma
diffuse sono quelle meno appariscenti, talora persino solitarie, che contrassegnano
l’intero territorio. Si pensi che persino a fondo valle, vicino Pian di Botte, si rinvengono in
soggiogante solitudine tombe sicane, scavate nelle pietre gessose. Appena
disponibili massi capienti, gli antenati sicani di Racalmuto andavano a scavarvi
i “forni” tombali, a testimonianza del loro culto dei morti, della loro
irriducibile fede nell’oltretomba.
A
Racalmuto, come a Milena, però «gli insediamenti antropici hanno ancor più
modificato il paesaggio attraverso la denudazione dei suoli per uso agricolo
senza tenere conto che la presanza di argille avrebbe, come di fatto è
avvenuto, portato all’accentuazione dell’erosione rendendo di fatto gli stessi
suoli in parte inutilizzabili e pericolasamente instabili. Le argille, per la
loro impermeabilità, hanno favorito la corrivazione delle acque superficiali
che vengono accumulate nei fondovalle dando origine, il più delle volte, a
piene notevoli e devastanti con l’intensificarsi delle precipitazioni.»
f) Le grotte ed il fenomeno carsico.
Il fenomeno
carsico, adeguatamente indagato in territorio di Milena, è naturalmente
presente anche a Racalmuto: qui, finora è stata ispezionata la sola grotta di
fra Diego con risultati non del tutto soddisfacenti. Mutuiamo quindi dalle
risultanze del club alpino che da tempo indaga sui fenomeni carsici di Milena.
Marcello Panzica La Manna [23] ci
fornisce questi ragguagli, utilizzabili, secondo noi anche per Racalmuto,
almeno sino a quando non vi saranno spedizioni speleologiche adeguate.
«Rilevanti risultano gli affioramenti di
rocce evaporitiche di età messiniana
(Miocene superiore)[e quindi il territorio] è caratterizzato dalla presenza di
estese fenomenologie carsiche sia superficiali che sotterranee. Il fenomeno
carsico sui gessi (più propriamente “paracarsico” secondo l’accezione di Cigna,
1983), a causa dell’elevatissima solubilità di tale roccia ad opera delle acque
meteoriche, si sviluppa con formeestremamente più marcate e ad evoluzione più
rapida rispetto a quelle dell’analogo e più conosciuto fenomeno che si sviluppa
nelle rocce calcaree (carsismo classico). […] Sono riscontrabili due differenti
tipologie di grotte definibili, secondo la classificazione di Cigna (1983, op.
cit.), 1) cavità pseudocarsiche; 2) cavità paracarsiche.»
«Le cavità pseudocarsiche sono quel tipo di
grotte denominate “tettoniche”, legate cioè alle discontinuità meccaniche delle
masse rocciose che costituiscono i vani sotterranei. La genesi di tali grotte è
da imputare in parte alla fratturazione della roccia, prodottasi a causa dei movimenti
tettonici che hanno interessato l’area, in parte a fenomeni di tipo gravitativo
che hanno disarticolato gli affioramenti gessosi in blocchi di varia
dimensione.»
«Le cavità paracarsiche sono quelle che si
originano per l’azione di solubilizzazione della roccia gessosa ad opera delle
acque di precitazione meteorica. Il gesso presenta una solvibilità in acqua
molto elevata (dell’ordine di 2,5 g/l) che se messa in relazione con la
quantità di pioggia ed i tempi di esposizione della roccia agli agenti atmosferici,
giustifica la formazione degli imponenti reticoli di ambienti e gallerie
presenti nel sottosuolo. Le cavità riconducibili a tale tipologia sono
strettamente e funzionalmente legate alle morfologie carsiche di superficie;
esse infatti rappresentano la prosecuzione, nel sottosuolo, del reticolo
idrogeografico epigeo. Nella maggior parte dei casi le acque di pioggia vengono
incanalate all’interno delle depressioni, che dopo percorsi più o meno lunghi
le convogliano verso punti di assorbimento localmente denominati “zubbi” o
“inghiottitoi” nella terminologia idrogeologica. All’interno le grotte mostrano
chiaramente i segni dell’escavazione delle acque incanalate ed è possibile
riconoscere le varie fasi della loro evoluzione, dal momento in cui erano completamente
invase dal flusso idrico fino a quando lo stesso ha iniziato a decrescere,
abbandonando completamente, in certi casi, le cavità medesime. Quasi sempre
agli inghiottitoi sono associate delle cavità (“risorgenze”) che costituiscono
il punto di ritorno a giorno delle acque sotterranee.» (op. cit. p. 28)
E qui
abbandoniamo le citazioni erudite idrografiche [24], che non
sono certo pane per i nostri denti. In tempo comunque per lamentare l’assoluta
indifferenza delle autorità locali per un siffatto patrimonio ipogeo, di cui
manca persino uno straccio di inventario.
Grotte pseudocarsiche
abbondano in ogni dove a Racalmuto. Anzi, lo stesso paese all’origine fu patria
di coloni cavernicoli (noi pensiamo attorno al 1240, dopo la cacciata dei
saraceni da parte di Federico II): a ridosso del Calvario e del Carmine, sotto via Roma, nei pressi della Madonna
della Rocca, abbondavano gli anfratti gessosi, ove fu agevole trovare dimora,
se non confortevole, almeno riparata. Una selvaggia superfetazione edilizia ha
inglobato e fatto sparire la prisca realtà abitativa racalmutese. Ancora nel
1608, là era sede di rimarchevole opificio la grotta di Pannella. Citiamo da una visita pastorale del vescovo
Bonincontro [25]:
Et parimente la Parocchia della Nunciata incomincia
del medesimo Convento del Carmino e tira a drittura alla grutta di Pannella[sottolineatura
ns.]restando d.a grutta nella d.a
parocchia della Nunziata
In un atto del 1596, quale si rinviene nel Rollo di Santa
Maria di Gesù conservato in Matrice [26],
abbiamo la testimonianza di una più antica utilizzazione di una grotta in pieno
centro, cioè a dire nei pressi del Monte:
Die nono
mensis Januarii x^ ind. 1596.
Item in et super sex corporibus domorum sursum et
deorsum cum eius antro [corsivo, ns,]
simul contiguis et collateralibus confinantibus cum domibus heredum quondam
Vincentij la Mendola alias lo Vecchio et in quarterio Montis seu della
Santicella …..
Le campagne
erano (e sono), peraltro, cosparse di grotte pseudocarsiche, provvidenziali per i palmenti. I vari Rolli della Matrice ne riportano
diversi estremi negli atti notarili a partire dal XVI secolo. Ne citiamo un
esempio [27]:
Die nono mensis Januarii x^
ind. 1596.
Item ditta donatrix pro Deo et eius anima titulo
donationis predictae inrevocabilis inter vivos ut supra per eos et
successoreres donavit et donat Antonino et Cataldo Morriale fratribus eius
nepotibus terrae Racalmuti absentibus ..
pro eis et eorum heredibus et successoribus
in perpetuum stipulante et sollemniter recipiente vineam nuncupatam di lo Piro cum eius domo antro [corsivo, ns.] torculare clausura et aliis in
aea existentibus sitam et positam in pheudo Nucis secus vias publicas per quas
itur versus civitatem Agrigenti ……
Quanto alle
grotte paracarsiche, il fenomeno più
appariscente si verifica in contrada S. Anna, ed in particolare all’apice del
Pizzo di Blasco: sinora latita ogni interesse scientifico e quindi nulla siamo
in grado di annotare. Solo forse è da tener presente che là, in un classico zubbio, si è conformato un profondo
bacino ove - per clima particolare, per sedimentazioni acquitrinose e per
protezione termica - c’è una lussureggiante flora, inaccessibile anche per i
cacciatori, che andrebbe adeguatamente classificata e studiata.
g) La flora e questioni botaniche.
Racalmuto
ha per il momento la fortuna di venire, sotto il profilo floro-faunistico –
indagato e fotografato dall’appassionato e competentissimo dott. Giovanni
Salvo, che sta davvero colmando, almeno qui, lacune secolari. Gli si dovrà
tanta gratitudine per le sue pubblicazioni, corredate da splendide fotografie,
sui lineamenti floristici e vegetazionali del territorio di Racalmuto.
Il nostro
territorio – amcor più di quello di Milena – è «fortemente antropizzato e ricco
in specie annuali, nitrofile, mentre esempi di vegetazione naturale si
rinvengono nelle zone impervie e nei calanchi in quanto non adatte all’impianto
di culture.» [28] Si può
affermare che vi attecchiscano oltre 400 entità floristiche che vivono allo
stato spontaneo. La maggior parte di esse è annuale (terofite), le altre sono
erbe perenni o perennanti (emicriptofite e geofite) o arbusti ed alberi
(camefite e fanerofite). Da segnalare: la biscutella
lyrata (Cruciferae), il lathyrus
odoratus L. (Leguminosae), l’Ononis
oligophilla (Leguminosae); la Pimpinella
anisoides (Umbelliferae); il Tragopogon
porrifolius L. subsp. cupani (Guss.) Pigna; la Crepis vesicaria L. subsp. hyemalis ( Biv.) Babc. (Compositae). Ed
inoltre: l’ Erysimum metlesicsii Polatschek
(Cruciferae), l’ Astragalus huetii
Bunge (Leguminosae), la Lavatera
agrigentina Tineo (Malvacee).
Gli studi
sulla confinante Milena hanno portato al seguente censimento della vegetazione
(estensibile ovviamente anche a Racalmuto):
1)
Vegetazione degli ambienti rupestri con queste
presenze: Diplotaxis crassifolia
(Rafin.) DC., Erysimum metlesicsii
Po., Silene fruticosa L., Athamanta sicula L., Sedum dasyphyllum L. Cheilanthes fragrans (L.) Swartz;
2)
Garipa a Thymus
capitatus (L.) Hoffm. et Link con queste presenze: Thymus capitatus, Cistus
Creticus L., Teucrium flavum L., Teucrium fruticans;
3)
Prateria steppica ad Ampelodesmus mauratinicus (Poiret) Dur. et Sch.., con queste
presenze: Ampelodesmos mauritanicus, Anthyllis maura G. Beck, Psoralea
bituminosa L., Kundumannia sicula
(L.) DC, Festuca coerulescens Desf., Hyoseris radiata L., Dactylis hispanica Roth, Brachypodium distachyum (L.) Beauv., Hypochoeris achyrophorus L., Reichardia picroides (L.) Roth, Coronilla
scorpioides Koch, Scorpiurus
muricatus L., Asperula scabra
Presl., Hedysarum spinosissimum L., Urginea maritima (L.) Baker, Convolvulus atltheoides L., Anemone hortensis L., Asparagus acutifolius L., Rubia peregrina L., Dafne gnidium L., Cistus
creticus L.;
4)
Prateria steppica a Lygeum spartum L., con queste presenze: Lygeum spartum L., Catananche
lutea L., Scabiosa dichotoma
Ucria, Daucus aureus Desf., Eringyum dichotomum Desf., Lavatera agrigentina Tin., Ononis oligophylla Te., Aster sorrentinii (Tod.) Lojac.;
5)
Vegetazione ad Arundo
pliniana Turra, con queste presenze: Arundo
pliniana, Cirsium scabrum (Poiret)
Dur. et Barr;
6)
Vegetazione nitrofila e subnitrofila, con queste
presenze: . (durante il periodo estivo-autunnale) Kickxia spuria (L.) Dum. Ssp. Intergrifolia
(Brot.) Fern., Chrozophora tinctoria
(L.) A. Juss., Euphorbia chamaesyce
L., Picris echioides L., Diplotaxis erucoides (L.) DC., Heliotropium europaeum L.,
Sonchus oleraceus L., Chenopodium
opulifolium Schrader, Chenopodium
vulvaria L., Ecballium elaterium
(L.) A. Richard, Solanum nigrum L., Aster squanatus Hieron, Cynodon dactylon (L.) Pers., Polygonum aviculare L., Colvolvulus arvenis L., Delphinium alteratum Sibch. Et Sm., Conyza bonariensis (L.) Con., Ammi visnaga (L.) Lam; (durante quello
invernale primaverile) Calendula arvenis
L. Galactites tomentosa Moene, Centaurea Schouwii, Carlina lanata L., Reichardia
picroides (L.) Roth, Hypochoeris
achryrophorus, Fedia cornucopiae (L.)
Gaerner, Linaria reflexa (L.) Desf., Echium plantaginum L., Borago officinalis L., Cerinthe major L., Lavatera trimestris L., Euphorbia
helioscopia L., Geranium dissectum
L., Hedysarum coronarium L., Hippocrepis unisiliquosa L., Scorpiurus subvillosus L., Lotus ornithopodioides L., Trifolium nigriscens Viv., Trifolium resupinatum L., Trifolium lappaceum, Trifolium squarrosum L., Melilotus infesta Guss., Lathyrus odoratus L. Lathyrus ochrus (L.) DC; (vegetazione infestante il grano) Neslia paniculata (L.) Desv., Torilis nodosa (L.) Gaertner, Carduus pycnocephalus L., Bupleorum lancifolium Hornem, Papaver hybridum L., Ranunculus arvenis L. Bromus rubens; (terofite a ciclo
invernale-primaverile) Legousia falcata
(Ten.) Fritsch, Anacyclus tomentosum
(All.) DC, Rhagadiolus stellatus (L.)
Gaertner, Galium tricornutum Dandy, Ridolfia segetum Moris, Allium nigrum L., Gladiolus italicus Miller, Phalaris
brachystachys Link, Phalaris paradoxa
L., Ornithogalum pyramidale L., Asperula arvenis L., Filago pyramidata L., Euphorbia exigua L., Rapistrum rugosum (L.) ALL., Sinapis arvensis L., Brassica nigra (L.) Koch, Leopoldia comosa (L.) Parl, Scandix pecten.veneris L., Medicago
polymorpha L., Sherardia arvenis L., Lolium
rigidum Gaudin, Sonchus asper
(L.) Hill, Cichorium intibus;
(vegetazione antropogena ai margine delle strade) Chrysanthemum coronarium L. (Crisantemo giallo), Malva nicaeensis All., Anacyclus tomentosum (All.) DC., Hordeum leporinum Link, Notobasis syriaca (L.) Cass., Bromus madritensisi L., Echium plantagineum L., Galactites tomentosa Moench, Erodium malacoides (L.) L’Her., Convolvulus althaeoides L., Beta vulgaris L., Foeniculum vulgare Miller;
7)
Praticelli effimeri a sedum caeruleum L. su gessi, con queste presenze: sedum caeruleum L. (Borracina azzurra), Sedum micranthum Bast., Hypocoeris achyrophorus L., Campanula
erinus L., Poa bullosa L., Valantia muralis L., Trifolium scabrum L., Medicago minima (L.) Bartal., Linum strictum L., Bromus fasciculatus Presl., Trifolium
stellatum L., Stipa capensis
Thunb., Crupina crupinastrum (Moris)
Vis., Vulpia ciliata Dumort, Scilla autumnalis L., Ononis reclinata L., Ononis sieberi Beser? Rumex bucephalophorus L., Arenaria leptoclados Guss., Polygala monspeliaca L. Sideritis romana L.;
8)
Vegetazione degli ambienti acquatici, con queste
presenze: Populus nigra (pioppo nero,
ma molto raro), Tamarix africana
Poiret, Phragmites communis Trin.
(Cannuccia di palude), Equisetum
telmateja Ehrh., Nasturtium
officinale R. Br., Apium nodiflorum
(L.) Lag., Juncus bofonius.
Spigolando
dal più divulgativo testo di Pratesi e Tassi, a Racalmuto si attagliano le
formazioni vegetali dell’intera Sicilia, fatta eccezione della diffusione del
castagno (Castanea sativa) sull’Etna, «ad opera dell’uomo» [29] Per il
resto, possiamo anche essere pedissequi: «Gli “orizzonti-climax” presenti
nell’isola, e cioè le formazioni più stabili e caratteristiche, sono
essenzialmente quatro» e cioè:
a)
l’Oleo-ceratonion,
«che prospera nelle parti più basse e litoranee, e che consiste in una macchia
sempre verde mediterranea i cui elementi più importanti sono l’oleastro (Olea oleaster), il carrubo (Ceratonia siliqua) e, a tratti, la
inconfondibile palma nana (Chamaerops
humilis), unica palma spontanea del bacino mediterraneo. Per lo più, però,
questa vegetazione è scomparsa [e al suo posto prospera] una tipica graminacea
dei luoghi arifìdi, la Stipa tortilis.»
Altre piante del territorio: il lentisco (Pistacia
lentiscus), la fillirea (Phillyrea
angustifolia) e altri arbusti della macchia mediterranea;
b)
«a livello leggermente più elevato vive la seconda associazione, quella del Quercion ilicis, costituita da una
foresta sempreverde mediterranea a quercia, e soprattutto a leccio (Quercus ilex) e sughera (Quercus suber)». Su una radura nella
parte nord del Castelluccio, rimangono ancora alcuni esemplari di “aggliannari”
(in Traina, vocabolario siciliano: “agghiannara” o “agghiandra” = “frutto della quercia, del cerro, del leccio,
e cibo dei porci: ghianda”). Nei recenti tentativi di forestazione poteva
benissimo darsi impulso a siffatta piantagione, creando altresì le premesse per
un ritorno alle porcilaie tradizionali ove i maiali possano venire depurati,
dai mangimi transgenici, con
“aggliannari” per il ripristino delle ineguagliabili salsicce dei miei tempi,
di cui trovo testimonianze addirittura in carte del ‘600 conservate in Matrice;
c)
«più in alto ancora sta l’orizzonte del Quercion pubescentis, o delle latifoglie
eliofile, nel quale normalmente domina la roverella (Quercus pubescens), ma assai più spesso la degradazione ambientale
ha lasciato solo una formazione a prateria steppica che ha per protagonista
un’altra graminacea (Ampelodesmos tenax).
Qualche volta, in luoghi più freschi e umidi, prende il sopravvento un’altra
specie di quercia spogliante, il cerro (Quercus
cerris).» V’è qualcosa del genere nello sprofondo di Sant’Anna, dopo la grotta dell’innamorata? In ogni caso,
chissà se nel divisato recupero a fini turistici del Castelluccio troverà posto
un rimboschimento con vegetezione autoctona, consona all’orizzonte del Quercion pubescentis!
d)
Non dovrebbe altresì riguardare Racalmuto «il piano
superiore, montano … del Fagion
silvaticae, che ospita le residue formazioni di faggio (Fagus silvatica): qui un
interessantissimo endemismo, l’abete siculo (Abies nebrodensis), oggi quasi distrutto, doveva in passato avere
notevole diffusione.» Speriamo che, sempre al Castelluccio, possano tentarsi
resurrezioni arboree di autoctone faggete.
Continuiamo
a citare: «Purtroppo questa successione di ambienti è ormai in gran parte
alterata e ridotta. Solo qua e là ne rimangono frammenti importanti e
significativi, come avviene per le quattro specie di pini presenti in Sicilia
allo stato spontaneo, di cui non sussistono ormai che esigue colonie: dal pino
laricio (Plinus laricio) sul
massiccio etneo, al pino domestico (Pinus
pinea) sui Monti Peloritani; dal pino marittimo (Pinus noster) di Pantelleria, al pino di Aleppo (Pinus halepensis) delle pendici
dell’altipiano meridionale e di varie isolette circumsiciliane.»
Il pino
siciliano è ormai entrato nella più pretenziosa letteratura. Artefice
principale: il pino di Pirandello. E si sa che anche il nostro Sciascia ebbe a
dire la sua; a dire il vero riportando le apprensioni di un grande entemologo
agrario racalmutese Giovanni Liotta, titolare di cattedra all’Università di
Palermo. Sciascia lo ebbe presente nelle sue conversazioni – in articulo mortis – con il defunto
giornalista Domenico Porzio e l’apprezzamento elagiativo, cui certo Sciascia
non indugiava –nel bellissimo libro “Fuoco all’Anima”, purtroppo oggi censurato
dalla famiglia. Lo Scrittore si era rammentato di una notizia sul pino di
Pirandello che stava per morire che gli era stata fornitagli nell’autunno del
1988, quando già il Liotta era dal febbraio “professore di Ia” dell’
Istituto di Entomologia Agraria di Palermo. Il Liotta ci fornisce ora la
versione autentica di quell’episodio [30]
commentando: «Quando riferivo di questa notizia Leonardo Sciascia non annuiva,
non dissentiva, non faceva alcun cenno palese che desse la certezza di un suo
interesse. […] La notizia di mummificare il pino in realtà l’aveva fatto
inorridire. […] Leonardo era fatto così: era un grande, paziente e infaticabile
ascoltatore e quello che ascoltava, lo scremava, lo elaborava e, se necessario,
lo riproponeva sotto una prospettiva di grande interesse.»
Anche
Racalmuto ha il suo pino “letterario”: quello della casina di campagna dei
matrona alla Noce. Lo rievoca Sciascia, lo celebra Bufalino ( … mantello verdissimo, sormontato
all’orizzonte da un antico albero solitario …. [31]), ne
coglie l’ineffabile incanto, in un momento di corrusca tempesta, il fotografo
Pietro Tulumello (e qui davvero Sciascia ha malie evocative: un paesaggio del tutto simile all’Amor sacro e all’Amor profano del
Tiziano: e la sera trascorre in esso come una delle tizianesche donne serene ed
opulente … [32]). Noi
continuiamo a mirare le chiomate piante che ancora avvolgono la casina di
campagna del Barone Tulumello, al Cozzo della Loggia, sotto il Serrone. Ma
quanto resisteranno?
-
un micro
orto botanico per Racalmuto
Auspichiamo
che i denudati cozzi attorno alla Fondazione Sciascia ospitino un micro-orto
botanico ove si rinserrino le piante ed i fiori cari a Sciascia. Come, ad
esempio, le magnolie e non tanto per il loro profumo o perché queste
«splendevano … [come] luminose e
profumate donne, di mai più vista bellezza» [33] E si
ricostituiscano le sciasciane “siepi di fichidindia” [34] e non
manchi un tocco rievocativo «dell’intensa coltivazione di alberi di noce» con
«quei grandi alberi che i contadini chiamano di bellu vidiri, con disprezzo: cioè belli a vedersi ma inutili: il
corbezzolo, il caccamo, qualche varietà di ficus. E ci sono gli orti. E queste
sono le oasi, nella gran calura del giorno; né manca, a darne l’illusione, la
palma. La palma de oro y el azul sereno: e questo verso di Machado, palma d’oro in
campo azzurro, è diventato per me una specie di araldico simbolo del luogo.» [35] E noi
auspichiamo anche che nell’«orto» sciasciano abbiano rimembrante dimora le
piante, i fiori, le erbe e pure le gramigne di autoctona progenie racalmutese.
Vorrà il chiarissimo prof. Liotta collaborare ad un siffatto progetto? Vi è
contrario il competentissimo dott. Salvo?
Confessiamo
di avere avuto un moto di stizza nel leggere alcune notazioni botaniche del
Renda: [36] alcune caratteristiche
piante arboree racalmutesi sono tutt’altro che indigene. «Il limone [già, le Lumie di Sicilia, n.d.r.] – discetta lo
storico – raggiunse la Sicilia e la Spagna nell’alto medioevo, durante il
dominio arabo. L’arancio arrivò più tardi e, a quanto sembra, non ebbe
importanza apprezzabile fino al XV secolo. Gli arabi portarono on Sicilia e in
Spagna anche il mandorlo, la canna da zucchero, la palma e altre specie
esotiche, come il melograno, il melocotogno, il nespolo invernale ecc. Il
processo di riutilizzazione agronomica di queste numerose specie non fu
univoco. Alcune, come l’ulivo e il mandorlo, ebbero incremento notevole. Altre
decaddero e furono abbandonate. Fra queste, sono da ricordare la canna da
zucchero, il riso, il gelso per l’alimentazione del baco da seta, il legno da
bosco, l’allevamento, e poi il lino, la canapa, il cotone, la soda vegetale
ecc. »
Un tempo a
Racalmuto si coltivavano cotone, lino, canapa ed altre piante da vestiario:
oggi, culture del genere, sono del tutto ignote. La coltivazione più estesa è
stata sempre quella del grano, di varie specie ivi compresa quella c.d. tumminìa, alternata alla semina di
avena, orzo e fave nelle annate di riposo. Se già nel XIV secolo Federico del
Carretto operava una sorta di outright
sui futuri raccolti di grano racalmutesi con Mariano Agliata, [37] al tempo
di Filippo II l’approvvigionamento di grano al caricatoio di Girgenti consentì
un proficuo commercio dei baroni del Carretto, che così assurgono al rango di
conti, in quei calamitosi tempi di
guerra mediterranea contro il Turco. E così nel Seicento, quando anche le
Clarisse racalmutesi, amministrate da un prete Traina, possono conferire, a
pagamento, il loro frumento in esubero presso il caricatoio racalmutese. Abbiamo, poi, testimonianze settecentesche
davvero illuminanti. In questa sede ci limitiamo a riportare questo diploma,
tratto dall’archivio Palagonia:
Faccio fede io infrascritto M.stro not.
della Corte Giuratoria della terra di Racalmuto a tutti e singoli officiali del
Regno e specualmente a chi spetta vedere la presente, qualmente, sendosi
promulgato bando pella formazione de novi Riveli dei frumenti esistenti in
questa terra e territorio di Racalmuto sotto li dui ottobre 1763, rimesso da
S.E. per via del suo supremo tribunale del Real Patrimonio nel termine di
giorni quattro in detto bando prefisso, spirato sotto li sei corrente, non
hanno comparso in questa corte giuratoria a fare il loro rivelo a tenore del
detto bando altre persone ecclesiastiche, secolari, forani ed altri se non
l’infrascritte, cioè:
N.°
|
Denominazione
|
Salme
|
Tomoli
|
1
|
Grillo don Antonio, s.802 frumento raccolto
p.p. XI ind. 1763. Quali frumenti li servino cioè s. 300 vendute ed obligate
a questa univ. per il panizzo del popolo; s. 300 frumento per simenze in
forte e timilia, per il fego dell'Aquilìa, s. 100 frum. Pello
|
802
|
|
soccorso de parospolari e tenetieri; s. 30 fr.
Per mangia di propria famiglia e salme settantadue per simenza e soccorsi
delle proprie chiuse, gabbelloti e societarij
|
|||
2
|
Spinola not. Gioachino, s. 10 fr. dal XI ind.
1763, quali ffr. li servino, cioè s. 3 per simenza, s. 1,8 per soccorso, s. 2
per governare le vigne ed il resto per mangia di propria famiglia
|
10
|
|
3
|
Grillo don Gaetano, come procuratore del fego
delli Gibbillini, territorio di questa rivela avere nelli magasini di quel
fego s. 306ffr. raccolto XI In. 1763, quali li bisognano per semene, soccorsi
e copertura di detto fego.
|
306
|
|
4
|
Grillo don Antonino Maria, rivela s. 91 forte
e timilia raccolto nel 1763; quali li bisognano cioè per simenze di forte e
timilia s. 40 per soccorso di detto seminerio e sem. di legumi s. 15 e s. 24
per mangia ed impiego di casa.
|
91
|
|
5
|
Amella don Antonino, rivela s. 2.. quali li
bisognano per mangia
|
2
|
|
6
|
Gambuto don Francesco Antonio. rivela s. 50 ..
quali s. 50 forte li servino cioè simenza per forte s. 10, salme 5 soccorsi
di d. sem., s. 2 per soccorso sem, d'orzo, salme 4 per provvedere la vigna, e
s. 29 per mangia e commodo di propria casa
|
50
|
|
7
|
Alfano m.° Giuseppe del quondam Bartulo,
rivela s. 65 forte .. quali li bisognano cioè s. 55 vendute a questa un. di
Racalmuto per il pubblico panizzo, s. 2 per simenza, s. 1 per soccorso di d.
sem., s. 1 per soccorso di vigne e s. 6 complimento delle s.
|
65
|
|
65 per mangia di casa
|
|||
8
|
La Matina Alberto, rivela s. 5 fr.forte ..
quali li bisognano cioè s. 1.8 simenza, s. 0.12 soccorso per detto seminerio
e s. 1 soccorso in f. per sem. d'orzo e s. 1.12 per mangia di mia famiglia
|
5
|
|
9
|
Picone Margarita, rivela s. 3.8 ff.te .. quali
li bisognano per mangia di propria casa
|
3
|
8
|
10
|
Romano m.° Diego di m.° Francesco, rivela s.
105 fr.forte .. quali li bisognano per simenza, s. 3.8 e s. 6.8 per mangia di
casa
|
10
|
|
11
|
Grillo don Antonio come Governadore della
Segrezia di questa sudetta terra di Racalmuto rivela avere nelli magazini
della Segrezia s. 703 .. quali li bisognano cioè s. 200 vendute a questa
unoversità per il pubblico panizzo ed il resto che sono s. 503 f.f
|
703
|
|
per simenza e soccorsi dello Stato di
Racalmuto
|
|||
12
|
Salvo (di) Filippa vif.a del quondam Giuseppe,
rivela s. 12 fr.forte .. quali li bisognano s.6 per mangia e s.6 per
commodarlo a divere persone
|
12
|
|
13
|
Carbone Giovanne, rivela s. 1fr.forte .. quali
li bisogna per mangia
|
1
|
|
14
|
Nalbone Giovanne, rivela s. 10 fr.forte ..
quali li bisognano s. 4 per simenza,
s. 2 per soccorso e s. 4 per mangia
|
10
|
|
15
|
Macaluso Rosina Giuseppe rivela s. e f.f.te ..
quali li bisognano per mangia di casa
|
2
|
|
16
|
Saldì m.° Paolino, rivela s. 9 ff.f. .. delli
quali li bisognano s. 2 per simenza e s. 3 per soccorso di detto sem., sem.
d'orzo e ligumi e s. 4 per mangia di propria casa
|
9
|
|
17
|
Tulumello Calogero rivela s. 110 f.f.te e
timilia, delli quali ff. li bisognano cioè per mangia della mandra s. 35 ff.,
p. simenza s. 20, per soccorso di seminerio d'orzo e ligumi e colture di
vigne s. 12 e s. 43 p. commodo e mangia della propria famiglia
|
10
|
|
18
|
Di Franco m.° Giuseppe, rivela s.4 fr.forte ..
quali li bisognano p. simenza s. 1.8 ff., soccorsos. 0.12 ed il resto per
mangia di propria famiglia
|
4
|
|
19
|
Di Franco don Giuseppe, rivela s. 0.8 ..f.fte
li servino per mangia
|
8
|
|
20
|
Savarino Leonardo, rivela s.1 ..f.fte li
servino per mangia
|
1
|
|
21
|
Farrauto Francesco, rivela s. 2.12 ..f.fte li
servino per mangia di casa
|
2
|
12
|
22
|
Picone m.° Pasquale del quondam m.° Calogero
rivela s.1.12 ..f.fte li servino per mangia di casa
|
1
|
12
|
23
|
Castillano Diego, rivela s..4 ..f.fte quali li
bisognano s. 1.4 per simenze, s. 0.12 soccorso ed il resto per mangia di sua
famiglia
|
4
|
|
24
|
Morreale Antonino di Mara, rivela s.1 ..f.fte
quali li bisognano per mangia di casa
|
1
|
|
25
|
Alessi Giuliano, rivela s.1 ..f.fte quali li
bisognano per mangia di casa
|
1
|
|
26
|
La Matina m.° Gaspare, rivela s.1.8 ..f.fte
quali li bisognano per mangia di casa
|
1
|
12
|
27
|
Barone Carlo, rivela s.12.6 ..f.fte quali li
bisognano cioè s. 4 per simenza, s. 2 per soccorso, per seminerio di s. 2
orzo, s. 1.8 e s. 5 per mangia di casa
|
12
|
6
|
28
|
Cino Giacomo, rivela s. 5 ..f.fte quali li
bisognano per mangia di casa
|
5
|
|
29
|
Castillana Giuseppe, rivela s.2 ..f.fte quali
li servino per mangia
|
2
|
|
30
|
Lauricella Laurenzo, rivela s.1 ..f.fte quali
li bisognano per mangia di casa
|
1
|
|
31
|
Giglia (di) Liborio e Giuseppe, padre e figlio
rivelano s.4 ..f.fte quali li bisognano per mangia
|
4
|
|
32
|
Schicchi don Francesco, rivela s.3 ..f.fte
quali li bisognano per mangia
|
3
|
|
33
|
Lo Brutto don Gioachino del quondam don
Gaspare, rivela s.6 ..f.fte quali li bisognano per mangia di casa
|
6
|
|
34
|
Pomo m.° Angelo, rivela s.18 ..f.fte quali li
bisognano s. 2.8 per simenza, s. 1.12 ff. per soccorso di detto seminerio e
colture di vigna, s. 6 a nome della congregazione del Monte per espansioni
giornali e s. 7.12 per mangia di casa
|
18
|
|
35
|
Piccione Salvadore, rivela s.3 ..f.fte quali
li bisognano s. 1 per simenza, s. 1 per soccorso di detto seminerio e
seminerio di ligumi e s. 1 complimento di s. 3 per uso di mangia di casa
|
4
|
|
36
|
Borzellino m.° Raimondo, rivela s.3 ..f.fte
quali li bisognano per simenza
|
3
|
|
37
|
Carlino Gaetano, rivela s.0.8 ..f.fte quali li
bisognano per simenza
|
8
|
|
38
|
Collura Stefano d'Angelo, rivela s.2 ..f.fte
quali li bisognano per mangia
|
2
|
|
39
|
La Matina Gregorio, rivela s.6 ..f.fte quali
li bisognano s. 3per simenza, s. 1.8 soccorso di detto sem. e s. 1.8 per
mangia di casa
|
6
|
|
40
|
La Matina Giovanne, rivela s.10 ..f.fte quali
li bisognano s. 2 per simenza, s. 1 per soccorso per detto sem. e s. 1 per
soccorso di legumi e s. 6 per mangia
|
10
|
|
41
|
Tulumello Giuseppe, rivela s.70 ..f.fte quali
li bisognano s. 35 per mangia della mandra, s. 16 per simenza, s. 10 per
soccorso di detto simenerio, ligumi ed orzo, e s. 9 per mangia di casa e
garzoni
|
70
|
|
42
|
La Licata Paulo, rivela s.25 ..f.fte quali li
bisognano s. 10 per simenza, s. 8 per soccorso di d.° sem.° in forte, sem.°
di legumi ed orzo e s. 7 per mangia
|
25
|
|
43
|
Tulumello Giovanne, rivela s.70 ..f.fte quali
li bisognano s. 35 per mangia della mandra, s. 16 per simenza, s. 10 per
soccorso di detto simenerio, ligumi ed orzo, e s. 9 per mangia di casa e
garzoni
|
70
|
|
44
|
Picone Chiodo Nicolò, rivela s.42..f.fte quali
li bisognano s. 12 per simenza, s. 5 per soccorso di d.° sem., s. 3 per
soccorso di sem. di legumi ed orzo s. 3 per governare n.° migliari otto di
vigna e s. 19 compl. delle dette s. 42
|
42
|
|
per mangia ed agiuto del borgesato
|
|||
45
|
La Matina Calogero, rivela s. 15 per raccolto
f.f per 1763, quali f.f. mi bisognano s 2 per simenza, s. 2 per soccorso di
d.° sem.° e sem,° di legumi ed orzi e s. 11, compl. dette salme 15 per mangia
ed impiego di casa
|
15
|
|
46
|
Busuito Grispino, rivela s. 26 per raccolto f.f per 1763,
quali f.f. mi bisognano s 6.2 per simenza, s. 5 per soccorso di d.° sem.° e
sem,° di legumi ed orzi e s. 5 p. governare le vigne, s. 4.8 per soccorso
dell'eredità del q. m.° Diego Marturana, s. 10
|
26
|
|
47
|
Mantione Calogero
|
1
|
|
48
|
Ristivo Matteo, rivela s. 3 per raccolto f.f per 1763,
quali f.f. li bisognano per mangia
|
3
|
|
49
|
Collura Calogero d'Angelo, rivela s. 5 per raccolto f.f per 1763,
quali f.f. li bisognano s 2 per simenza, s. 1 per soccorso i e s. 2, per
mangia
|
5
|
|
50
|
Licata Reda Giuseppe, rivela s. 6 per raccolto f.f per 1763,
quali f.f. li bisognano per mangia
|
6
|
|
51
|
Mantione Vito,
rivela s. 2 per raccolto f.f per 1763, quali f.f. li bisognano per mangia
|
2
|
|
52
|
Collura Melchiore d'Angelo, rivela s. 4 per raccolto f.f per 1763,
quali f.f. mi bisognano s. 1 per simenza, s. 1 per soccorso di sem,° di
legumi ed orzi e s. 2 per mangia di casa
|
4
|
|
53
|
Vinci don Calogero rivela s.26 per raccolto
f.f per 1763, quali f.f. li bisognano s 10 per simenza, s. 5 per soccorso di
d.° sem.°, s. 3 p. soccorso di sem.° di legumi ed orzi e s. 2 di posessioni
bonoficate di vigne e s. 8 p. mangia
|
26
|
|
54
|
Mantione Erasimo, rivela s. 5 per raccolto f.f per 1763,
quali f.f. li bisognano s per mangia
|
5
|
|
55
|
Bellavia don Giuseppe, rivela s. 10 per raccolto f.f per 1763,
quali f.f. mi bisognano s 2 per simenza, s.1 per soccorso di d.° sem.° e s.
10 per mangia
|
10
|
|
56
|
Avarello Agostino, rivela s. 1o per raccolto f.f per 1763,
quali f.f. mi bisognano s 3 per simenza, s. 3 per soccorso di d.° sem.° e
sem,° di legumi ed orzi e s. 4, compl. dette salme 10 per mangia
|
10
|
|
57
|
Matina notaro don Niccolò, rivela s. 2 per
raccolto f.f per 1763, quali f.f. li bisognano per mangia
|
2
|
|
58
|
Burruano Calogero del q. Marcello rivela s. 2
per raccolto f.f per 1763, quali f.f. li bisognano per mangia
|
||
59
|
Troisi Pietro, rivela s. 16 per raccolto f.f
per 1763, quali f.f. li bisognano s. 5.8 f.f. per simenza, s. 3 per soccorso
di d.° sem. e s. 6.8 per mangia di casa
|
16
|
|
60
|
Burruano Michel'Angelo del quondam Andrea,
rivela s. 2 per raccolto f.f per 1763, quali f.f. li bisognano per mangia
|
2
|
|
61
|
Burruano Giuseppe del quondam Marcello, rivela
s. 28 per raccolto f.f per 1763, quali f.f. li bisognano s.4 per simenza, s.
4 per soccorso di d.° sem.° e sem,° di legumi ed orzi e governare le vigne e
s. 20 per mangia e impiego do casa
|
28
|
|
62
|
Burruano Alberto del quondam Marcello, rivela
s. 4 per raccolto f.f per 1763, quali f.f. mi bisognano s 1 per simenza, s. 1
per soccorso di d.° sem.° e sem,° di legumi ed orzi e il resto per mangia
|
4
|
|
63
|
Tulumello Gioachino, rivela s. 4 per raccolto
f.f per 1763, quali f.f. li bisognano per mangia di sua casa
|
4
|
|
64
|
Di Rosa m.° Diego, rivela s. 10 per raccolto
f.f per 1763, quali f.f. li bisognano s 4 per venderli per compra di
vestimenti s. 2 p. soccorso delle vigne e s. 4.3. per mangia
|
10
|
|
65
|
Grillo e Poma Dr. Don Barone Niccolò, rivela
s. 132 per raccolto f.f per 1763, quali f.f. mi bisognano s 35 per
simenza, per soccorso di d.° sem.° s.
40 e seminerio di timilia s. 14 f.f. per sem,° di legumi ed orzi e s. 43 per
mangia e impiego di casa
|
132
|
|
66
|
Lo Brutto don Bonaventura, rivela s. 3 per
raccolto f.f per 1763, quali f.f. li bisognano per mangia
|
2
|
|
67
|
Savatteri don Francesco, rivela s. 4 per
raccolto f.f per 1763, quali f.f. li bisognano s. 3 per simenza, s. 2 per
soccorso di d.° sem.° e s. 3 a comp. di dette s.8 per mangia
|
8
|
|
68
|
Scibetta m.° Stefano, rivela s. 160 per
raccolto f.f per 1763, delli quali li bisognano s.150 per averle vendute a
questa Un.tà per il pubblico panizzo ed il resto per mangia di propria casa
|
160
|
10
|
69
|
Di Rosa m.° Gioachino, rivela s. 2.12 per
raccolto f.f per 1763, quali f.f. li servino per mangia
|
2
|
|
70
|
Frachanzillo Tommaso, rivela s. 8 per raccolto
f.f per 1763, delli quali f.f.li bisognano s. 4 per simenza, s. 2 per
soccorso e s. 2 copml. di dette s. 8
per mangia
|
8
|
|
71
|
Tirone don Niccolò, rivela s. 15 fr.forte e s.
5 timilia per raccolto f.f per 1763, quali f.f. mi bisognano s. 12 per
simenza, s.61 per soccorsi e s. 2 compl. di d.e s. 20 per mangia
|
20
|
|
72
|
La Mantia m.° Giuseppe, rivela s. 4 per
raccolto f.f per 1763, quali f.f. mi bisognano s. 0.6 per simenza, s. 0.6 per
soccorso e s. 3.4 comp. di d.e s. 4 per mangia di casa
|
4
|
|
73
|
Cacciatore m.° Antonino, rivela s. 4 per
raccolto f.f per 1763, quali f.f. li bisognano per mangia
|
4
|
|
74
|
Picone don Ignazio d'Alessandro, rivela s. 3
per raccolto f.f per 1763, quali f.f. li bisognano per mangia di sua casa
|
3
|
12
|
75
|
Poma m.° Gerlando, rivela s. 1.12 per raccolto
f.f per 1763, quali f.f. li bisognano
per mangia
|
1
|
|
76
|
Rizzo don Vincenzo, rivela s. 24 per raccolto
f.f per 1763, quali f.f. li bisognano s. 8 per simenza, s. 6 per soccorso di
d.° sem.° e sem,° di legumi ed orzi e s. 10 per mangia di casa e garzone
|
24
|
|
77
|
Picone Chiodo don Antonino, rivela s. 14 per
raccolto f.f per 1763, quali f.f. li bisognano s.3 per simenza, s. 2 per
soccorso di d.° sem.° e sem,° di legumi ed orzi e s. 9 a compl. di d.e s. 14
per mangia e impiego di casa
|
14
|
|
78
|
Lo Brutto Antonino; rivela s. 2.8 per raccolto
f.f per 1763, quali f.f. mi bisognano per venderli per sollennizzare la festività di S. M.a del Monte come
Governadore della Confraternità di detta Chiesa.
|
2
|
|
79
|
Lauricella Antonino, rivela s. 12 per raccolto
f.f per 1763, quali f.f. li bisognano s 4 per simenza, s. 3 per soccorso di
d.° sem.° e sem,° di legumi ed orzi e is. 5 compl. di d.e s. 12 per mangia di
casa
|
12
|
|
80
|
Carlino Calogero, rivela s.10 per raccolto f.f
per 1763, quali f.f. mi bisognano s. 1.10 per simenza, s. 1 per soccorso di
d.° sem.° e e il resto per mangia
|
10
|
|
81
|
Galeano m.° Francesco, rivela s. 5 per
raccolto f.f per 1763, quali f.f. li bisognano per mangia
|
5
|
|
82
|
Castillano Michel'Angelo, rivela s. 2 per
raccolto f.f per 1763, quali f.f. li bisognano per mangia
|
2
|
|
83
|
Lauricella Francesco, rivela s. 8 per raccolto
f.f per 1763, quali f.f. mi bisognano s. 31 per simenza, s. 2 per soccorso di
d.° sem.° e sem,° di legumi ed orzi e s. 3 comp. di d.e s. 8 per mangia
|
8
|
|
84
|
Borzellino m.° Ludovico, rivela s. 3 per
raccolto f.f per 1763, quali f.f. li bisognano per mangia
|
3
|
|
85
|
Alfano m.° Pietro, rivela s. 15 per raccolto f.f per 1763,
quali f.f. li bisognano s 8 per simenza, s. 4 per soccorso e il resto per mangia
|
15
|
|
86
|
Salvo (di) Andrea, rivela s. 8 per raccolto
f.f per 1763, quali f.f. mi bisognano s. 3 per simenza, s. 1.8 per
soccorso e s. 3.8 comp. delle s. s.
8 per mangia di propria casa
|
8
|
|
87
|
Lo Giudice Pietro, rivela s. 2 per raccolto
f.f per 1763, quali f.f. li bisognano sper mangia
|
2
|
|
88
|
Lo Giudice Giacomo, rivela s. 0.8 per raccolto
f.f per 1763, quali f.f. li bisognano
per mangia
|
8
|
|
89
|
Lo Indelicato Francesco, rivela s. 8 per
raccolto f.f per 1763, quali f.f. li bisognano pello molino della pasta e
mangia di casa
|
8
|
|
90
|
Di Franco m.° Agostino, rivela s. 40 per
raccolto f.f per 1763, quali f.f. li bisognano s. 6 per simenza, s. 3 per
soccorso di d.° sem.° ed altre s. 2.6 per soccorso di sem,° di legumi ed orzo e per altro il
soccorso delle vigne ed il resto per mangia
|
40
|
|
91
|
Murgante Giuseppe di Filippo rivela s. 3 per
raccolto f.f per 1763, quali f.f. li bisognano per mangia
|
3
|
|
92
|
Grillo fra' Antonio Maria, procuratore dello
ven. convento di S. Francesco dei minori conventuali, rivela s. 7,8 per
raccolto f.f per 1763, quali ff. li bisognano per mangia dello detto convento
|
7
|
8
|
93
|
Pirrelli fra' Giacomo Priore del ven. convento
di S. Giovanni di Dio sotto titolo di S. Sebastiano, rivela s. 3. 13 ff. e
timilia per raccolto f.f per 1763, quali li bisognano per mangia di detto
convento
|
3
|
13,2
|
94
|
Pomo fra' Giuseppe Prc.re del venerabile
convento del Carmine, rivela s. 23 per raccolto f.f per 1763, delli quali li
bisognano s. 10 per simenza, s. 3 soccorso di d. sem. s. 2 per le vigne e s.
8 per mangia convento
|
23
|
|
95
|
Carretto fra Gaspare pr.re del ven. convento
di S. Giuliano de Padri Agostiniani della congregazione di Sicilia, rivela s.
8 per raccolto f.f per 1763, delli quali li bisognano s. 2 per governo di un
predio di vigna e s. 6 per mangia
|
8
|
|
96
|
Grillo sac. d. Salvadore Maria, rivela s. 160
per raccolto f.f per 1763, delli quali mi bisognano simenze in ff. s. 24,
simenza in similia s. 30 per colti scarsi le s.te tim. s. 30, per coltura di
vigne s. 20, per serviggio della mia casa e famiglia
|
||
per mangia s. 16, per due famoli in campagna
esistenti di capo d'anno s. 25 ff., per soccorso ed agiuto a coloro che si
devono pigliare a società il sud. sem. e legumi ed orzo; s. 15 ff: restano
per quelle occorrenze che potranno insorgere
|
160
|
||
97
|
Grillo sac. d. Giuseppe, rivela s. 20 per raccolto f.f per 1763,
delli quali li bisognano per simenze e soccorso di suo patrimonio e mangia di
casa
|
20
|
|
98
|
Campanella sac. d. Stefano arciprete, rivela s. 100 per raccolto f.f per 1763, i
quali mi bisognano s. 18 per mangia di famiglia, s. 4 per simenze, s. 3 per
soccorso di seminerio di legumi ed orzo e s. 75 quali ho venduto a questa
università comp. di
|
||
salme 100 per uso del publico panizzo sotto
nome di Stefano di Salvo
|
100
|
||
99
|
Lauricella sac. d. Elia, rivela s. 8.8 ff. raccolto XI ind.
1763, delle quali mi bisognano s. 7 per simenza e mi bisognano salme 10 per
mangia almeno di dieci persone
|
8
|
8
|
100
|
Pumo cl. Francesco, rivela s. otto ff.
raccolto XI ind. 1763, delli quali mi bisognano s. 2 ff. per simenza,
soccorso s. 2, il resto s. 4 comp. di dette s. 8 per mangia di casa
|
8
|
|
101
|
Borzellino sac. d. Mario, rivela s. 5 ff. raccolto XI ind. 1763,
delli quali li bisognano per mangia di casa
|
5
|
|
102
|
Conti sac. d. Gerolamo, rivela s. 26 ff. raccolto XI ind. 1763,
delli quali li bisognano s. 8 ff. per simenza, s. 7 per soccorso di d.° sem.° e sem.° di
legumi ed orzi e governare due possession di vigna proprie, s. 11 p. mangia e
commodo proprio
|
26
|
|
103
|
Crinò diacono d. Filippo, rivela s. 2 ff. raccolto XI ind. 1763, quali li servino per mangia di casa
|
2
|
|
104
|
La Matina sac. d. Gaspare, rivela s. 7 ff. raccolto XI ind. 1763,
delli quali mi bisognano s. 3 ff. per simenza, e s. 4 per mangia di casa
|
7
|
|
105
|
Farrauto sac. d. Santo, rivela s. 200 ff. raccolto XI ind. 1763,
delli quali mi bisognano s. 100 ff. vendute al publico panizzo di questa, s.
80 obligate al caricatore di Girgenti, s. 20 per mangia e simenze di proprie chiuse
|
220
|
|
106
|
D'Amico sac. d. Antonino, rivela s. 8 ff. raccolto XI ind. 1763, delli
quali di deducano s. 3 a ragione di processione del SS.mo Sacramento e s. 5.8
per mangia
|
5
|
8
|
107
|
Savatteri sac. d. Michel'Angelo, rivela s. 21 ff. raccolto XI ind. 1763,
delli quali mi bisognano s. 2.8 ff. per simenza, s. 5 per soccorso di detto
sem.° e sem.° di legumi ed orzo, s. 4
dati in accodo e s. 10 per mangia e commodo di casa
|
21
|
|
108
|
Scibetta e Franco sac. d. Giuseppe, rivela s.
30 ff. raccolto XI ind. 1763, delli quali mi bisognano s. 4 ff. per simenza,
s. 2 per soccorso di detto sem.° e s. 2 persem.° di legumi, s. 8 per lo
soccors o di un predio di vigne e s.
14 p. mangia e commodo
|
30
|
|
109
|
Picone sac. d. Ignazio, rivela s. 4 ff.
raccolto XI ind. 1763, delli quali mi bisognano s. 1 ff. per simenza, s. 1
per soccorso e s. 2, comp. di d. s. 4
per mangia di casa
|
4
|
|
110
|
Sferrazza sac. d. Filippo, rivela s. 3 ff.
raccolto XI ind. 1763, delli quali mi bisognano s. 1 ff. per simenza, s. 0.8
per soccorso e s. 1.8 per mangia propria
|
3
|
|
111
|
Mantione sac. d. Baldassare, rivela s. 2 ff.
raccolto XI ind. 1763, delli quali mi bisognano per mangia di casa
|
2
|
|
112
|
Mantione sac. d. Antonino, rivela s. 27.10 ff.
raccolto XI ind. 1763, delli quali mi bisognano s. 7.8 ff. per simenza, s. 5
per soccorso di detto seminerio e
socc. sem. d'orzo e legumi, s. 3 per governare le vigne e s. 12.2. per
mangia di casa
|
27
|
10
|
113
|
Pitrozzella sac. d. Baldassare, rivela s. 10
ff. raccolto XI ind. 1763, delli quali mi bisognano s. 8 ff. per simenza, s.
4 per coltura di detto seminerio
|
10
|
|
114
|
Montagna diacono d. Onofrio, rivela s. 6 ff.
raccolto XI ind. 1763, delli quali mi bisognano s. 3 ff. per simenza, s. 1.8
per soccorso e s. 1.9. per mangia di casa
|
6
|
|
115
|
Baeri sac. d. Ignazio, rivela s. 0.8 ff.
raccolto XI ind. 1763, quali li
bisognano . per mangia di casa
|
8
|
|
116
|
Baeri sac. d. Casimiro, rivela s.2 ff.
raccolto XI ind. 1763, quali li
bisognano per mangia
|
2
|
|
117
|
Nalbone sac. d. Benedetto, rivela s. 360 ff.
raccolto XI ind. 1763, delli quali li bisognano s. 5 ff. per simenza, s. 2
per soccorso, s. 3 soccorso èer il seminerio di legumi, s. 20 per mangia, s.
2 per soccorso delle vigne e s. 250 obbligate a q. Un. per
|
360
|
|
Pubblico panizzo e s.78 commodate
|
|||
118
|
Fucà diacono d. Giuliano, rivela s. 1 ff.
raccolto XI ind. 1763, quali li
bisognano per mangia
|
1
|
|
119
|
Fucà sac. d. Pasquale, rivela s. 1 ff.
raccolto XI ind. 1763, quali mi
bisognano per mangia
|
1
|
|
120
|
La Matina sac. d. Pietro, rivela s.13 ff.
raccolto XI ind. 1763, delli quali li bisognano s. 5 ff. per simenza, s. 2
per soccorso e s. 6 per mangia
|
13
|
11,2
|
121
|
Avarello sac. d. Alberto, rivela s. 75.11.2 ff. raccolto XI
ind. 1763, delli quali s. 10 ff. per simenza, soccorso si d. sem.° s. 8, soccorso sem.° di legumi s. 8 e s. 49.11.2 per
mangia ed impiego di mia casa
|
75
|
|
122
|
Busuito sac. d. Antonino, rivela s. 6 ff.
raccolto XI ind. 1763, delli quali mi bisognano s. 1.4 ff. per simenza, s. 2
per soccorso sem.° di legumi e s. 1
soccorso di d.° sem.° di forte e per governare le vigne ed il resto. per mangia
|
6
|
|
123
|
Scibetta ed Alfano sac.d . Giuseppe, rivela s.
70 ff. raccolto XI ind. 1763, delli quali 40 vendute a questa un. per publ.
panizzo, s. 6 per simenza e il restante per mangia di mia famiglia, soccorso
delli metatieri di legumi ed orzo e p.
|
70
|
8
|
Migliari dieci di vigna e più per fare
l'arbitrio di campagna
|
|||
124
|
Farrauto sac. d. Saverio, rivela s. 0.8 ff.
raccolto XI ind. 1763, quali mi
servono per mangia
|
||
125
|
Biondi sac. d. Baldassare, rivela s. 4 ff.
raccolto XI ind. 1763, delli quali li servono per mangia
|
4
|
|
126
|
Alfano sac. d. Filippo, rivela s. 30 ff.
raccolto XI ind. 1763, delli quali li bisognano s. 4 ff. per simenza, s. 7
per soccorso di d.° semin.° e sem,° di legumi e governare la vigna
|
30
|
170,4
|
4335
|
1
|
||
4346
|
quali infrascritti riveli sono in questa
nostra Corte firmati dalle persone che sanno scrivere e parte firmati da
persone per quelle che non sanno scrivere, ed oltre l’infrascritti riveli che
nel sopracitato termine si sono ricevuti di sopra, .. non ve ne sono altri;
onde in defe del vero ho fatto la presente sottoscritta di mia propria mano. In
Racalmuto li 30 ottobre XII ind. 1763
D.n Lucio Amella Mag. Not.
Oltre alla
composizione delle classi sociali racalmutesi (in vetta, tanti preti), possiamo
cogliere tutto un linguaggio estremamente significativo ai fini della
raffigurazione del mondo contadino dell’epoca:
1)
panizzo del popolo;
2)
frumento per simenze in forte e timilia [o
tumminìa], per il fego dell'Aquilìa;
4)
simenza
per soccorso e per governare le vigne e per mangia
di propria famiglia;
5)
Grillo don Gaetano, come procuratore del
fego delli Gibbillini, territorio di questa, rivela avere nelli magasini di quel fego s. [salme] 306
ffr. [frumento] raccolto nella XIa
In. 1763 [= 1763, undicesima indizione], quali li bisognano per semene, soccorsi e copertura di detto
fego;
6)
per simenze di forte e timilia s. [salme]
40 per soccorso di detto seminerio e
sem. [seminerio] di legumi s. 15 e s. 24 per mangia ed impiego di casa;
7)
simenza fumento forte s. 10, salme 5 per
soccorsi di d. sem. [semina], s. 2 per soccorso sem, [semina] d'orzo, salme 4
per provvedere la vigna, e s. 29 per mangia e commodo di propria casa;
8)
s. [salme] 55 [di frumento]vendute a questa un.
[università] di Racalmuto per il
pubblico panizzo;
9)
Grillo don Antonio come Governadore della
Segrezia di questa sudetta terra di Racalmuto rivela avere nelli magazini della
Segrezia s. 703 .. quali li bisognano cioè s. 200 vendute a questa unoversità
per il pubblico panizzo ed il resto che sono s. 503 f.f per simenza e soccorsi dello Stato di Racalmuto;
10) Di
Salvo Filippa vid.a [vedova] del quondam
Giuseppe, rivela s. 12 fr.forte [frumento forte] .. quali li bisognano: s.6 per
mangia e s.6 per commodarlo a divere persone;
11) Saldì
m.° [mastro] Paolino, rivela s. 9 ff.f.
.. delli quali li bisognano s. 2 per simenza e s. 3 per soccorso di detto sem.,
sem. d'orzo e ligumi e s. 4 per mangia di propria casa;
12) Tulumello
Calogero rivela s. 110 f.f.te e timilia, delli quali ff. li bisognano cioè per
mangia della mandra [Traina,
vocabolario: mandra: luogo ov’è rinchiusa la freggia] s. 35 ff., p. simenza s.
20, per soccorso di seminerio d'orzo e ligumi e colture di vigne s. 12 e
s. 43 p. commodo e mangia della propria famiglia;
13) Tulumello
Giuseppe, rivela s.70 ..f.fte quali li bisognano s. 35 per mangia della mandra,
s. 16 per simenza, s. 10 per soccorso di detto simenerio, ligumi ed orzo, e s.
9 per mangia di casa e garzoni;
14) Picone
Chiodo Nicolò, rivela s. 42..f .fte [frumento forte] quali li bisognano s. 12
per simenza, s. 5 per soccorso di d.° sem., s. 3 per soccorso di sem. di legumi
ed orzo s. 3 per governare n.° migliari otto di vigna e s. 19 compl. delle
dette s. 42 per mangia ed agiuto del borgesato;
15) Grillo
e Poma Dr. Don Barone Niccolò, rivela s. 132 per raccolto f.f per 1763, quali
f.f. mi bisognano s 35 per simenza, per
soccorso di d.° sem.° s. 40 e seminerio di timilia s. 14 f.f. per sem,° di
legumi ed orzi e s. 43 per mangia e impiego di casa;
16) Scibetta
m.° Stefano, rivela s. 160 per raccolto f.f per 1763, delli quali li bisognano
s.150 per averle vendute a questa Un.tà
[università] per il pubblico panizzo ed il resto per mangia di propria
casa;
17) Lo
Brutto Antonino; rivela s. 2.8 per raccolto f.f per 1763, quali f.f. mi
bisognano per venderli per sollennizzare la
festività di S. M.a del Monte come Governadore della Confraternità di
detta Chiesa;
18) Grillo
fra' Antonio Maria, procuratore dello ven. convento di S. Francesco dei minori
conventuali, rivela s. 7,8 per raccolto f.f per 1763, quali ff. li bisognano
per mangia dello detto convento;
19) Pirrelli
fra' Giacomo Priore del ven. convento di S. Giovanni di Dio sotto titolo di S.
Sebastiano, rivela s. 3. 13 ff. e timilia per raccolto f.f per 1763, quali li
bisognano per mangia di detto convento;
20) Pomo
fra' Giuseppe Prc.re del venerabile convento del Carmine, rivela s. 23 per
raccolto f.f per 1763, delli quali li bisognano s. 10 per simenza, s. 3
soccorso di d. sem. s. 2 per le vigne e s. 8 per mangia convento;
21) Carretto
fra Gaspare pr.re del ven. convento di S. Giuliano de Padri Agostiniani della
congregazione di Sicilia, rivela s. 8 per raccolto f.f per 1763, delli quali li
bisognano s. 2 per governo di un predio di vigna e s. 6 per mangia.
-
i
preti, il grano, il pane
Ed ecco i dati del folto clero:
a)
Grillo sac. d. Salvadore Maria, rivela s.
160 per raccolto f.f per 1763, delli quali mi bisognano simenze in ff. s. 24,
simenza in similia s. 30 per colti scarsi le s.te tim. s. 30, per coltura di
vigne s. 20, per serviggio della mia casa e famiglia per mangia s. 16, per due
famoli in campagna esistenti di capo d'anno s. 25 ff., per soccorso ed agiuto a
coloro che si devono pigliare a società il sud. sem. e legumi ed orzo; s. 15
ff: restano per quelle occorrenze che potranno insorgere;
b)
Grillo sac. d. Giuseppe, rivela s. 20 per raccolto f.f per 1763, delli
quali li bisognano per simenze e soccorso di suo patrimonio e mangia di casa;
c)
Campanella sac. d. Stefano arciprete, rivela s. 100 per raccolto f.f per 1763, i
quali mi bisognano s. 18 per mangia di famiglia, s. 4 per simenze, s. 3 per
soccorso di seminerio di legumi ed orzo e s. 75 quali ho venduto a questa
università comp. di salme 100 per uso del publico panizzo sotto nome di Stefano
di Salvo;
d)
Lauricella sac. d. Elia, rivela s. 8.8
ff. raccolto XI ind. 1763, delle quali mi bisognano s. 7 per simenza e mi
bisognano salme 10 per mangia almeno di dieci persone;
e)
Pumo cl. Francesco, rivela s. otto ff.
raccolto XI ind. 1763, delli quali mi bisognano s. 2 ff. per simenza, soccorso
s. 2, il resto s. 4 comp. di dette s. 8 per mangia di casa;
f)
Borzellino sac. d. Mario, rivela s. 5 ff. raccolto XI ind. 1763, delli
quali li bisognano per mangia di casa;
g)
Conti sac. d. Gerolamo, rivela s. 26 ff. raccolto XI ind. 1763, delli
quali li bisognano s. 8 ff. per simenza,
s. 7 per soccorso di d.° sem.° e sem.° di legumi ed orzi e governare due
possessioni di vigna proprie, s. 11 p. mangia e commodo proprio;
h)
Crinò diacono d. Filippo, rivela s. 2 ff. raccolto XI ind. 1763, quali li servino per mangia di casa;
i)
La
Matina sac. d. Gaspare, rivela s. 7 ff.
raccolto XI ind. 1763, delli quali mi bisognano s. 3 ff. per simenza, e s.
4 per mangia di casa;
j)
Farrauto sac. d. Santo, rivela s. 200 ff. raccolto XI ind. 1763,
delli quali mi bisognano s. 100 ff. vendute al publico panizzo di questa, s. 80
obligate al caricatore di Girgenti, s. 20 per mangia e simenze di proprie chiuse;
k)
D'Amico sac. d. Antonino, rivela s. 8 ff. raccolto XI ind. 1763, delli
quali di deducano s. 3 a ragione di processione del SS.mo Sacramento e s. 5.8
per mangia;
l)
Savatteri sac. d. Michel'Angelo, rivela s. 21 ff. raccolto XI ind. 1763, delli
quali mi bisognano s. 2.8 ff. per simenza, s. 5 per soccorso di detto sem.° e
sem.° di legumi ed orzo, s. 4 dati in
accodo e s. 10 per mangia e commodo di casa;
m)
Scibetta e Franco sac. d. Giuseppe, rivela
s. 30 ff. raccolto XI ind. 1763, delli quali mi bisognano s. 4 ff. per simenza,
s. 2 per soccorso di detto sem.° e s. 2 persem.° di legumi, s. 8 per lo
soccors o di un predio di vigne e s. 14
p. mangia e commodo;
n)
Picone sac. d. Ignazio, rivela s. 4 ff.
raccolto XI ind. 1763, delli quali mi bisognano s. 1 ff. per simenza, s. 1 per
soccorso e s. 2, comp. di d. s. 4 per
mangia di casa;
o)
Sferrazza sac. d. Filippo, rivela s. 3 ff.
raccolto XI ind. 1763, delli quali mi bisognano s. 1 ff. per simenza, s. 0.8
per soccorso e s. 1.8 per mangia propria;
p)
Mantione sac. d. Baldassare, rivela s. 2
ff. raccolto XI ind. 1763, delli quali mi bisognano per mangia di casa;
q)
Mantione sac. d. Antonino, rivela s. 27.10
ff. raccolto XI ind. 1763, delli quali mi bisognano s. 7.8 ff. per simenza, s.
5 per soccorso di detto seminerio e
socc. sem. d'orzo e legumi, s. 3 per governare le vigne e s. 12.2. per
mangia di casa;
r)
Pitrozzella sac. d. Baldassare, rivela s.
10 ff. raccolto XI ind. 1763, delli quali mi bisognano s. 8 ff. per simenza, s.
4 per coltura di detto seminerio;
s)
Montagna diacono d. Onofrio, rivela s. 6
ff. raccolto XI ind. 1763, delli quali mi bisognano s. 3 ff. per simenza, s.
1.8 per soccorso e s. 1.9. per
mangia di casa;
t)
Baeri sac. d. Ignazio, rivela s. 0.8 ff.
raccolto XI ind. 1763, quali li
bisognano . per mangia di casa;
u)
Baeri sac. d. Casimiro, rivela s.2 ff.
raccolto XI ind. 1763, quali li
bisognano per mangia;
v)
Nalbone sac. d. Benedetto, rivela s. 360
ff. raccolto XI ind. 1763, delli quali li bisognano s. 5 ff. per simenza, s. 2
per soccorso, s. 3 soccorso per il seminerio di legumi, s. 20 per mangia, s. 2
per soccorso delle vigne e s. 250 obbligate a q. un. [questa università] per
pubblico panizzo e s.78 commodate;
w)
Fucà diacono d. Giuliano, rivela s. 1 ff.
raccolto XI ind. 1763, quali li
bisognano per mangia;
x)
Fucà sac. d. Pasquale, rivela s. 1 ff.
raccolto XI ind. 1763, quali mi
bisognano per mangia;
y)
La Matina sac. d. Pietro, rivela s.13 ff.
raccolto XI ind. 1763, delli quali li bisognano s. 5 ff. per simenza, s. 2 per
soccorso e s. 6 per mangia;
z)
Avarello sac. d. Alberto, rivela s. 75.11.2 ff. raccolto XI
ind. 1763, delli quali s. 10 ff. per simenza, soccorso si d. sem.° s. 8, soccorso sem.° di legumi s. 8 e s. 49.11.2 per
mangia ed impiego di mia casa;
aa)
Busuito sac. d. Antonino, rivela s. 6 ff.
raccolto XI ind. 1763, delli quali mi bisognano s. 1.4 ff. per simenza, s. 2
per soccorso sem.° di legumi e s. 1
soccorso di d.° sem.° di forte e per governare le vigne ed il resto. per mangia;
bb) Scibetta
ed Alfano sac.d . Giuseppe, rivela s. 70 ff. raccolto XI ind. 1763, delli quali
40 vendute a questa un. per publ. panizzo, s. 6 per simenza e il restante per
mangia di mia famiglia, soccorso delli metatieri di legumi ed orzo e p.
migliari dieci di vigna e più per fare l'arbitrio di campagna;
cc)
Farrauto sac. d. Saverio, rivela s. 0.8
ff. raccolto XI ind. 1763, quali mi
servono per mangia;
dd) Biondi
sac. d. Baldassare, rivela s. 4 ff. raccolto XI ind. 1763, delli quali li
servono per mangia;
ee)
Alfano sac. d. Filippo, rivela s. 30 ff.
raccolto XI ind. 1763, delli quali li bisognano s. 4 ff. per simenza, s. 7 per
soccorso di d.° semin.° e sem,° di legumi e governare la vigna.
Nel
mezzo del ‘700, a Racalmuto, dunque, occorrevano 4.346 salme di frumento per la
“mangia” dell’intera popolazione che, secondo “la numerazione delle anime” del
quale si custodisce in quel mirabile scrigno (purtroppo in gran dispitto alle
locali autorità) che è l’archivio della Matrice, ascendeva a circa 5.800 anime
sotto n. 1537 capi-famiglia. [39]
Il panizzo pubblico richiedeva qualcosa come 1.195 salme di frumento, il che
significa che oltre l’78% delle famiglie non aveva grano proprio bastevole per
sostentare il proprio gruppo familiare e doveva far ricorso al pubblico
“panizzo”. Solo 126 possidenti potevano considerarsi autosufficienti, ivi
compresi i quattro conventi ancora aperti, ed i 31 ecclesiastici (preti e
diaconi) che costituivano il 2% dei “fuochi” racalmutesi del ‘700. Non
disponiamo, purtroppo, notizie sul frumento che, finito nei pubblici caricatoi,
emigrava per esportazioni o per le cosiddette “tratte” che per secoli avevano
foraggiato il “biscotto” degli eserciti spagnoli.
-
i
vigneti.
Ma
non tutte le terre erano destinate al frumento. da un rollo della Confraternita
di Santa Maria (dedita alla buona morte, e si sa che il culto dei trapassati è
stato da tempo un buon affare a Racalmuto) abbiamo potuto enucleare qualcosa
come 102 vigneti di varia dimensione, con vette di 18.000 viti che i fratelli
Taibi vantavano in località Montagna, dislocati pressoché dappertutto, e
coltivati in vario modo: “vinea de aratro” (come dire che fra vite e vite si
poteva arare e quindi coltivare frumento o legumi o altro); “vinea cum suis
arboribus” (la vigna alberata era consueta a Racalmuto, almeno fino a quando
non ebbe a prendere piede quella a tettoia, ultimamente coperta con teli di
plastica, in modo anche osceno); “vinea arborata com eius clausura” (una bella
vigna alberata in mezzo a chiuse di terre da pane); “vinea cum eius clausuris, arboribus et domo”
(una spaziosa “robba” con vigneti, frutteti e campi di grano); “clausura cum
domibus, aqua, terris scapulis et arboribus et aliis” (era la “chiusa” che il
potente e ricco Giovanni Amella possedeva nel feudo di Gibillini, a confine con
il vigneto di suo fratello Giovanni, con quello di Pietro Salvo e con il
vigneto di Antonino Gugliata).
Non
disponiamo di dati sufficienti a tracciare un valido quadro statistico, ma il
seguente speccietto non è poi del tutto trascurabile:
DATA
|
COGNOME NOME
|
LOCALITA'
|
|
1589
|
MASTROSIMONE Marianus et Joannella
de Mastrosimone
|
CASALI VECCHIO
|
|
1589
|
BURGIO PIETRO
|
CASALI VECCHIO
|
|
1589
|
GIANGRECO MARIANO
|
CASALI VECCHIO
|
|
1589
|
GRACI VINCENZO
|
CASALI VECCHIO
|
|
1578
|
MONTELEONE NICOLO'
|
SERRONE
|
|
1580
|
LUPARELLO ANTONINO
|
NOCE
|
|
1580
|
DE LIO JACOBO
|
NOCE
|
|
1587
|
SUTTASANTI PIETRO
|
SCALA
|
|
1587
|
RIZZO MARTINO
|
SCALA
|
|
1587
|
ALAIMO IACUZZO MARCO
|
SCALA
|
|
1594
|
MACALUSO GIUSEPPE DI VINCENZO
|
SERRONE
|
|
1594
|
GUELI ANTONINO
|
SERRONE
|
|
1594
|
BARBIERI PIETRO
|
SERRONE
|
|
1596
|
SURCI PAOLO
|
SERRONE
|
|
1596
|
FRANCO BARTOLO
|
SERRONE
|
|
1596
|
SFERRAZZA - Gerlandus Sferracza
quondam Antonini alias Cannatuni uti tutor Francisci Sferracza eius fratris
|
ROVETTO FONTE
|
|
1596
|
MESSINA PAOLINO
|
GARAMOLI CORVO
|
|
1596
|
PALERMO FABIO
|
GARAMOLI CORVO
|
|
1596
|
RESTIVO DRAGO GIOVANNI
|
GARAMOLI CORVO
|
|
1596
|
MULE' VILLICO ANTONINA
|
GARAMOLI CORVO
|
|
1596
|
LUPARELLO LEONARDO
|
GARAMOLI CORVO
|
|
1596
|
MESSINA PAOLINO
|
GARAMOLI CORVO
|
|
1596
|
LA LICATA ANTONELLA
|
CELSO-LOGGIATO-GIBILLINI
|
|
1596
|
AMELLA JO. VITO
|
CELSO-LOGGIATO-GIBILLINI
|
|
1596
|
ALLETTO ANTONINO
|
CELSO-LOGGIATO-GIBILLINI
|
|
1596
|
LA LICATA ANTONELLA
|
PIRO-NOCE-FICOAMARA
|
|
1596
|
LA ROCCA PIETRO
|
PIRO-NOCE-FICOAMARA
|
|
1596
|
LA LICATA GIURLANDELLA
|
MALVAGIA
|
|
1596
|
RIZZO MARCO
|
MALVAGIA
|
|
1597
|
BARBERI GRIXO VINCENZO
|
SAMBUCHI
|
|
1597
|
RUGGERI LUIGI
|
SAMBUCHI
|
|
1597
|
LO BRUTTO CARLO
|
SAMBUCHI
|
|
1597
|
CALCI GIUSEPPE
|
SAMBUCHI
|
|
1597
|
BARBERI alias MOSSUTO ANTONINO
|
CULMITELLA
|
|
1597
|
CACCIATORE mastro PIETRO
|
CULMITELLA
|
|
1597
|
AGRO' VENTO GIOVANNI
|
CULMITELLA
|
|
1597
|
LA LICATA LOGIA ANGELO
|
DONNA FALA - PORTELLE
|
|
1597
|
TAIBI CINO LUIGI
|
DONNA FALA - PORTELLE
|
|
1597
|
LA LATTUCA GIUSEPPE
|
DONNA FALA - PORTELLE
|
|
1597
|
INGRAO FILIPPO
|
BOVO
|
|
1597
|
MORREALE mastro MARIANO
|
BOVO
|
|
1598
|
FIXINA E STAFARACI Filippus de
Fixina et Vincentius Stafarachi socer et gener
|
SANTA DOMENICA
|
|
1598
|
BELLOMO PIETRO
|
SANTA DOMENICA
|
|
1598
|
ACQUISTA SIMONE
|
SANTA DOMENICA
|
|
1598
|
GENTILE LUCIANO
|
BOVO
|
|
1598
|
PARLA VINCENZO
|
BOVO
|
|
1600
|
MANTEGNIA PASQUALE
|
GAZZELLE
|
|
1600
|
PIEMONTISI ADDARIO
|
GAZZELLE
|
|
1600
|
BRUCCULERI SIMONE
|
GAZZELLE
|
|
1600
|
GARLISI GIROLAMO FU SANTO
|
GAZZELLE
|
|
1600
|
BARBA ANTONINO FU PAOLO
|
MANCHI
|
|
1600
|
AMELLA GRAVUSO PAOLO
|
MANCHI
|
|
1600
|
BARBERI FILIPPO
|
MANCHI
|
|
1600
|
PETRUZZELLA GERLANDO
|
MANCHI
|
|
1600
|
SIGNORINO VITO
|
GIBILLINI
|
|
1600
|
AMELLA SEBASTIANO
|
GIBILLINI
|
|
1600
|
LA LOMIA GIOVANNELLA
|
GIBILLINI
|
|
1600
|
GRILLO GIOVANNI
|
BOVO
|
|
1600
|
CARAVELLO FILIPPO
|
BOVO
|
|
1600
|
PIRNICI GIOVANNINO
|
BOVO
|
|
1600
|
LA LICATA ANTONELLA
|
NOCE
|
|
1600
|
LA LICATA ANTONELLA
|
PIDOCCHIO
|
|
1600
|
LA LICATA ANTONELLA
|
GAZZELLA
|
|
1600
|
PIEMONTISI ADDARIO
|
GAZZELLA
|
|
1600
|
GIANDALIA SIMONE
|
GAZZELLA
|
|
1602
|
TAIBBI VINCENZO ED ALESSANDRO
|
MONTAGNA
|
|
1602
|
CURTO ANTONINO DI BARTOLO
|
MONTAGNA
|
|
1602
|
RIZZO PIETRO DI SIMONE
|
MONTAGNA
|
|
1602
|
SANFILIPPO SANTO
|
MONTAGNA
|
|
1602
|
TAIBBI VINCENZO ED ALESSANDRO
|
MONTAGNA
|
|
1602
|
BUSCEMI CORRADO
|
MONTAGNA
|
|
1603
|
MACALUSO FRANCESCO DI VINCENZO
|
GRANCI
|
|
1603
|
POMA IACOBO
|
GRANCI
|
|
1603
|
LAURICELLA ANTONIO
|
GRANCI
|
|
1603
|
AMELLA GIOVANNI DI FRANCESCO
|
GIBILLINI
|
|
1603
|
SALVO PIETRO
|
GIBILLINI
|
|
1603
|
D'ASARO PIETRO, PITTORE
|
GARAMOLI CORVO
|
|
1603
|
MACALUSO FRANCESCO FU VINCENZO
|
GARAMOLI CORVO
|
|
1603
|
D'ASARO PIETRO, PITTORE
|
NOCE
|
|
1603
|
GUADAGNO NOT. GIOVANNI
|
||
1604
|
BARBIERI ANTONIA
|
CULMITELLA
|
|
1604
|
CACCIATORE PAOLO
|
CULMITELLA
|
|
1604
|
AGRO' VENTO GIOVANNI
|
CULMITELLA
|
|
1604
|
MONTELEONE not. NICOLO'
|
MENTA
|
|
1604
|
IANNUZZO SALVATORE FU ANGELO
|
BIGINI
|
|
1604
|
PACE GERLANDO
|
BIGINI
|
|
1604
|
XANDRO CATERINA
|
PIDOCCHIO
|
|
1604
|
TAIBI ALESSANDRO
|
PIDOCCHIO
|
|
1604
|
GIGLIA ANTONINO
|
PIDOCCHIO
|
|
1606
|
BORSELLINO PIETRO DI ANTONIO
|
MONTAGNA
|
|
1606
|
MACALUSO ALESSIO
|
MONTAGNA
|
|
1606
|
PETRUZZELLA BARTOLO
|
MONTAGNA
|
|
1607
|
LO NOBILI mastro GIULIO
|
STALLUNERI
|
|
1607
|
BARONE mastro FRANCESCO
|
STALLUNERI
|
|
1607
|
LO NOBILE mastro FRANCESCO
|
STALLUNERI
|
|
1607
|
GUELI GIUSEPPE DI GERLANDO
|
STALLUNERI
|
|
1608
|
CURCIO ANDREA
|
GIBILLINI
|
|
1608
|
CAPOBIANCO MICHELE
|
GIBILLINI
|
|
1608
|
MESSINA ORLANDO
|
GARAMOLI
|
|
1608
|
PALERMO FABIO
|
GARAMOLI
|
|
1608
|
LO GIUDICE VINCENZO
|
GARAMOLI
|
|
1608
|
RESTIVO GIOVANNI
|
GARAMOLI
|
|
I vigniti,
sparsi un po’ ovunque, si palesano però più insensivi a Garamoli, in contrada
Montagna, a Bovo, alla Noce, alla Menta, al Rovetto, a casali Vecchio, a
Culmitella, al Serrone; in varie località che in quel tempo facevano parte del
feudo di Gibillini, come dire i versanti di Monte Castelluccio; in talune
contrade oggi di incerta, e talora ormai dimenticata, ubicazione quali: Bigini,
Gazzelle, Granci, Malvagia, Manchi,
Pidocchio, Sambuchi, Stalluneri, Santa Domenica; e non mancavano vigneti
neppure nella parte Nord, a cavalcioni del vallone oggi così desolato, come ci
testimoniano i dati relativi a Donna Fala o a Quattro Finaiti.
Integrando
i dati con quelli che appaiono da un altro “rollo” – sempre custodito in Matrice
– abbiamo, infatti, vigneti – oltre alle località citate – in contrade quali:
Carcarazzo, Pernice, Muscamenti, Cannatone, per non parlare del Ferraro, dei
Malati, del Saracino, Sant’Anna, San Giuliano, Rocca Russa, Canalotto, Muccio,
Giardinello (feudo di Gibillini), Corbo, Petravella, Cozzo della Pergola, Santa
Maria di Gesù, Marcianti (feudo di Gibillini), Vella del Corbo, Arena, Muccio
(feudo di Gibillini), Lago (feudo di Gibillini), Scifitello, Castilluzzo (feudo
di Gibillini), Carmelo.
- il
sommacco.
Una
piantagione, che se pur tarda è comunque attestata da documenti del XVII
secolo, è quella del sommacco: serviva per la concia delle pelli e quindi,
allignando nei costoni rocciosi, ebbe a propagarsi in quelle zone impervie con
intensità tale che ancor oggi – seppure ormai quasi inutilizzata – non si
riesce ad estirpare. La solita Matrice ci fornisce dati d’archivio: è del 1685
questo documento che attiene ad una ipoteca :
Item in et
super salma una et tumulis octo terrarum cum eius vinea et summacio intus et
torculare sitis et positis in dicto pheudo et in contrata Bovi secus vineam
Francisci de Poma Agostini et secus contrata dello Corbo et alios confines.
Apparteneva
ad una famiglia ancor oggi in auge: al sacerdote don Pietro Casuccio ed al
fratello Nicolò. E certo, di sommacco ebbe bisogno il padre del “nonno del
nonno” di Leonardo Sciascia – che, diversamente da quanto asserisce in Occhio di Capra lo Scrittore, era
racalmutese puro sangue. Mastro Leonardo Sciascia s’induceva il 22 aprile del
1768 a fare società con mastro Carmelo Bellavia e con mastro Giuseppe Alfano, a
suo volta associato con mastro Pietro Picone. I quattro soci «posuerunt et ponunt, ac contelerunt et
conferunt … uncias quadraginta et tarenos decem et octo in pretio viginti
quatuor coriorum bovuum.» Il Bellavia e lo Sciascia conferivano «operam, artem et peritiam coriariorum ,
laborem et industriam in vendendis et emendendis coriis praedictis.»
L’Alfano ed il Picone si assumevano le spese
«coriariorum officinae, vel ut vulgariter dicitur “della conciaria”» e su
di loro ricadeva l’onere delle spese «in
emptionem calcis, summacci, et aliorum.»[40] Mastro Leonardo Sciascia aveva sposato il 7 gennaio 1754 Innocenza Alfano, figlia di mastro
Bartolomeo Alfano.
Tra gli Sciascia e gli Alfano erano consueti i matrimoni ed i gradi di
affinità erano piuttosto stretti.
-
gli alberi
da frutta
Gli alberi da frutta, che un tempo dovevano essere molto
diffusi, furono drasticamente ridimensionati quando i sabaudi, gli austriaci ed
i Borboni ebbero l’infelice idea di tassari in modo capitario.
La rarefazione degli alberi da frutta si coglie benissimo
nel rivelo che il convento degli agostiniani fa agli atti del notaio
Michelangelo Savatteri, il 10 maggio 1754. [41] Il
convento – ove da giovane divenne diacono
fra Diego La Matina - è ancora aperto, ad onta dei divieti papali, ed è davvero
prospero. Eppure, si guardi come sono esigue e ristrette le specie di alberi da
frutta:
«Beni stabili
rusticani
Possiede questo venerabile convento salma 1 e tumoli
8 di terre, atte a giardino secco, in questo stato, contrata S. Giuliano,
confinante con il detto venerabile convento e via pubblica di tutti i lati, che
secondo l'estimo dell'esperto di questa terra ragionati ad onze 120 per salma,
sono di valore cento ottanta onze, o. 180;
Item in dette terre vi esisteno alberi di diverse
sorti, cioè mandorle n.° 70 a tt. 6
per uno sono di valore onze 12 che secondo l'estimo dell'esperto d.o, fanno o.
12
Alberi di olive
n. 12 a tt. 6 per uno sono di valore onze quattro secondo l'estimo dell'
esperto ;
Alberi di pruni [albero che fa le susine = Prunus domestica
culta L., v. Traina] di tutta sorte n.° 200 a tt. 8 per ogn'uno secondo
l'estimo dell'esperto;
Alberi di peri n.° 15 secondo l'estimo dell'esperto
ragionati a tt. 6 per uno sono di valore onze;
Alberi di fastuche [ pistacchio = Pistacium L.) n. 8 che secondo l'estimo dell'esperto a tt.
15 per uno sono di valore onze 4;
Alberi di noci
n. 2 secondo l'estimo dell'esperto unza una per uno sono onze due;
Alberi di pomi
[pyrus malus L., probabilmente compresi gli alberi di “cutugna”, cotogno, Pyrus
cydonia L.] n.° 6 ragionati secondo l'estimo dell'esperto a tt. tre per uno
sono di valore tt. deciotto;
Alberi di granati
[melograno, Punica granatum L. Denominato dalla città spagnola, a memoria
dell’importazione araba] n.° venti secondo l'estimo dell'esperto a tt. 3 per
uno sono di valore onze due;
Alberi di fichi
n.° 15 secondo l'estimo dell'esperto a tt. 4 per uno sono di valore onze due.»
Mancano
aranci e mandarini ed anche limoni. Mancano: gelsi, sorbi, peschi, nespoli,
ciliegi ed altre specie oggi piuttosto ricorrenti nelle campagne di Racalmuto.
Notisi la prevalenza dei frutti invernali. Quanto al valore, questa la
gerarchia: noce (un’onza ad albero); pistacchio (15 tarì ad albero); pruni
(tarì 8 ad albero), nonché mandorli, ulivi e peri (tutti sollo stesso standard
di 6 tarì ad albero) e, quindi, gli alberi di fico (4 tarì ad albero), i
melograni con i pomi a soli 3 tarì ad albero. Si tace sui fichidindia che
dovevano pur esserci.
- le risorse agricole degli agostiniani di S. Giuliano.
Il documento ci pare perspicuo anche per quest’altri
rilievi agrari:
«Possiede pure detto venerabile convento, in detto stato
contrada Barona, salma una e mondelli due di terre scapoli per uso di
seminerio, confinante con Carlo Barone, e via publica, che secondo l'estimo
dell'esperto ragionati ad onze 120 salma sono di valore cento trenta cinque
onze ...... -/ 135.
Possiede più detto venerabile convento tumoli 12 di
terre occupate da n.° migliara 8 di vigne nel feudo delli Gibillini Contrata
Ferraro confinante con vigne di Santo Diana, Nicolò Curto, ed altri, e via
publica, che secondo l'estimo
Possiede pure detto venerabile convento in detto stato
mcontrada Barona salma una, e mondelli due di terre scapoli per uso di
seminerio confinante con Carlo Barone, e via publica, che secondo l'estimo
dell'esperto ragionati ad onze 120 salma sono di valore cento trenta cinque
onze ...... -/ 135
Possiede più detto venerabile convento tumoli 12 di
terre occupate da n.° migliara 8 di vigne nel feudo delli Gibillini Contrata
Ferraro confinante con vigne di Santo Diana, Nicolò Curto, ed altri, e via
publica, che secondo l'estimo dell'esperto ragionate ad onze 12 per migliaro
sono di valore onze novantasei e tarì 10 ....................-/ 125.10.
In dette vigne esiste il Palmento per commodo della vendemmia e con
altre due case di abitazione terrane e cioè una entrata, e l'altra paglialora,
e due camere di sopra, che secondo l'estimo dell'esperto di questa sono di
valore onze trenta
................................................................... -/ 30
In dette vigne vi sono n.° trenta quattro alberi di mandorle, peri,
fiche, ed olive, che secondo l'estimo dell'esperto di questa ragionati a tt. 6
per uno sono di valore onze se, e tarì venti quattro
.........................................................................................................................
-/ 6.24.
Possiede di più detto venerabile convento tumoli 8 di terre atte a seminerio
confinanti coll'istesse vigne di sopra ad onze 64. salma secondo l'estimo
dell'esperto importa trentadue onze .. -/ 32
In dette terre
vi esiste fiumara con sua acqua sorgente in n.° 100 alberi di Pioppo che
prezzati
secondo l'estimo dell'esperto a tt. 8, grana uno, sono di valore onze
quattordici e tarì 20 ..-/14.20»
Lo spaccato contadino del
mondo racalmutese settecentesco si tinge anche di questo tratto non proprio
edificante. I ricchissimi frati di San Giuliano si danno alla questua lungo le
campagne ed ottengono dai devoti villici questi tutt’altro che trascurabili
“introiti spirituali”:
«Introito Spirituale
In primis salme 10 formenti provenuti per questua ragionati a tt. 40
salma importa ...............-/ 3
E più salmi 6 orzi a tt. 24 salma provenuti per questua importa .............................................
-/ 4
E più salmi 4 fave provenute per questua ragionati a tt. 24 salma
importa .............................. -/ 3
E più salme due lenti[cchie] provenuti per questua a tt. 42 salma
importa ....……................... -/ 2
E più salma 1 ceci provenuti per questua ragionati ad -/1.26 salma
importa .................. -/1.26
E più botte sei musto ragionate a onze 1.7 botte
.................................................................-/ 6»
I frati
questuanti portano nelle stive del convento «formenti, orze, fave, lenticchie e
ceci». Il Borbone, da Napoli, insensibile a cosiffatte devozioni, tassa.
Il convento di S. Giuliano ha pure il problema della
gesione delle vigne site al Ferraro: ecco come denuncia il «Prodotto delle vigne di Gibillini»: sono
vigne «date a società, franche d'ogni spesa, un anno per l'altro, [per un
valore di] botte 4 di vino-mosto, ragionate per onze 3,3 per botte.»
Restiamo colpiti da quel pioppeto di 100 albero lungo la
“fiumara” del Ferraro. Oggi, nessuna traccia è più lì rinvenibile, né di
pioppi, né di acque fluenti. Il pioppo,
come i tanti canneti di cui parlano le fonti, erano indispensabili nelle
costruzioni edili. Due grossi volumi contabili denominati “libri della fabrica”
sono consultabili in Matrice ai fini dell’inveramento della costruzione della
nostra chiesa madre, sempre che si abbia voglia di discostarsi delle letterarie
attribuzioni di Sciascia ad un prete in alumbramiento. Nel Seicento si faceva ricorso al pioppetto
di Garamoli. Era difficoltoso ed il trasporto costava. Lo sfruttamento di
facchini era comunque possibile: bastava dar loro “salsicce e vino”. A
comprova, citiamo: «il 22 dicembre del 1658 si pagavano mastro di Napoli e suo
figlio «per havere andato in Garomoli per sbarrare li travetti et n° 3 burduna
che mancano al complimento della nave [della Matrice] ed in più per havere
fatto portare dui carichi di travetti di Garamoli.» Occorrono 20 tarì «per havere fatto venire dui burduna da
Garamoli e più per pani, salzizza e vino a vinti homini che uscirono detti
burduna dentro la fiumana e ni portaro uno a 2 dicembre alli detti Gueli et
Napoli e suo figlio per intravettare e pulire la travetta.» Le tre attuali
navate della Matrice furono dunque intravettate con legname di Garamoli nel
dicembre del 1658, quando don Santo d’Agrò – il prete alumbriato da Sciascia - era
morto da 21 anni (risulta, appunto tumulato, nella parte allora esistente della
Matrice, sotto l’altare della Maddalena il 22 luglio 1637).
I pioppi degli agostiniani del Ferraro non dovevano essere
dissimili da quelli di Garamoli, e del tutto uguali a quelli – radi – che
ancora resistono nello zubbio sotto Fra Diego. Questa è almeno la tesi dei
grandi naturalisti racalmutesi che abbiamo interpellato.
Rintracciato via E-Mail il mio compagno di liceo prof.
Giovanni Liotta, lo apostrofai nel dicembre del 1999 in questi termini:
A Garamoli, dunque, v’era nel 1658 una “fiumana” ove
impenetrabilmente prosperava un bosco di alberi ad alto fusto che
all’occorrenza venivano utilizzati per fare dei “burdana” per il tetto delle
chiese. Qui si tratta della nostra matrice (ovvio che quella di cui parla
Sciascia fatta a spese di un prete, l’Agrò, in vena di alumbriamento, non
esiste). Di che tipo erano quegli alberi? Ha ragione il dott. Salvo che li
vuole della famiglia populus alba? Si
potrebbe pensare ad una colonia di pioppi
neri (p. nigra)? O ad
altre specie di alberi ad alto fusto?
Perché sono spariti?
E prontamente – e tanto simpaticamente, quanto gentilmente
– il grande entomologo mi precisava:
Quanto alle piante che vivevano e ancora vivono ai bordi del
canale per lo smaltimento dell'acqua della sorgente, credo, come Salvo, che
debbano essere attribuite alla specie Populus
alba, (il pioppo più comune della zona).
Ma noi
continuiamo a sperare che i citati esperti racalmutesi ci forniscano risultati
di appositi studi: Racalmuto li merita.
h) La fauna
Così come a
Milena, anche a Racalmuto, la fauna che circolava dal Neolitico al periodo
tardo romano era sostanzialmente costituita dagli ovicaprini (si calcola sul
46,75%), dai bovini (sul 20,19%) e sui maiali (intorno al 19,57%) [42] Anche a
Racalmuto ebbe a pascolare il cervo e seppure rade non mancarono la volpe, la
lepre ed il cinghiale.
Ci pare
pertinente pure ai nostri siti questo passaggio del lavoro della Wilkens:
«Oltre ai resti di mammiferi sono stati identificati anche alcuni molluschi
marini (Murex trunculus, Glycymeris
sp., Glycymeris violacescens), marini
fossili (Dentalium sp.) e terrestri (Rumina decollata, Helix aspersa, Eobania
vermiculata, Leucochroa candidissima).
Mentre è probabile che le conchiglie marine, compreso il Dentalium fossile, venissero utilizzate a scopo ornamentale, la
presenza di molluschi terrestri può essere causale, dato che non sono stati
trovati in numero tale da far supporre un loro uso alimentare.»
Nell’Eneolitico,
in zona Rocca Aquilia così prossima alla contrada Marchesa di Racalmuto, «la
percentuale degli ovicaprini è molto alta, raggiungendo il 71,55%. [..…]La
caccia ha un interesse molto limitato con il 3,44% e due sole specie: il cervo
e la volpe. […]Tra gli ovicaprini
prevale nettamente la pecora, essendo la capra rappresentata solo da un
frontale femminile con cavicchie.»
Risale al
Bronzo antico l’utilizzo certo di bovini come animali da lavoro. Non mancava il
cane. Nel Bronzo medio, i maiali tra uno e due anni venivano utilizzati per la
macellazione. Per le pecore «le macellazioni avvenivano alla nascita, a 3/5
mesi e a 8/9 mesi nei giovani, si hanno resti di subadulti di 18/24 mesi e di
adulti di età media ed avanzata. Si aveva quindi uno sfruttamento di tutte le
possibilità del gregge: latte, carne e lana.» «I resti di cane sono scarsi e
comprendono la mandibola di un giovane compresa tra uno e quattro mesi. Gli
altri frammenti appartengono ad adulti di piccola taglia. Tra le specie
selvatiche sono stati identificati la volpe, il cinghiale, il cervo e la
tartaruga.»
Verso la
fine dell’età del Bronzo, la commestione del cane risulta con certezza: «una
mandibola di cane con denti regolari denota la presenza di un individuo a muso
lungo, mentre un frammento di femore con graffi di scarnificazione sul lato
ventrale in prossimità dell’epifisi distale, indica che anche i cani venivano
utilizzati nell’alimentazione.»
Estendiamo
a Racalmuto queste importanti “interpretazioni e confronti” della Wilkens:
«Nell’economia di questa area la caccia ha sempre avuto un’importanza
secondaria e solo nel Neolitico di Mandria i resti di animali selvatici
raggiungono una percentuale significativa (11,72%). La tendenza verso un
allevamento misto con forte importanza della pastorizia affiancata da buone
percentuali di bovini e maiali è evidente dall’esame del materiale neolitico. I
bovini sembrano in questa fase destinati essenzialmente alla produzione di
carne e latte, mentre negli ovicaprini, che in tutti i periodi sono costituiti
in massima parte da ovini, sembra prevalere l’interesse per la lana e il latte
rispetto a quello per la carne. […] Nell’Eneolitico si accentua la tendenza
verso la pastorizia a danno principalmente dell’allevamento dei maiali. […]
Negli strati più recenti di Serra del Palco … è presente il cavallo.»
Il cavallo
pare che sia giunto tardi in queste zone: «Il cavallo, identificato solo in
livelli di età storica, raggiunge a Rocca Amorella un’altezza di mm. 1316. Si
tratta quindi di un individuo di taglia media. I resti di asino sembrano invece
da attribuire ad animali di piccola taglia.»
In
definitiva, «tra gli animali selvatici si nota una certa varietà di specie nel
Neolitico (volpe, lepre, cinghiale e cervo). […] Solo il cervo si trova con
regolarità in quasi tutte le fasi. E’ da notare il tasso nel Bronzo tardo di
Serra del Palco. […] Il daino è presente solo a Rocca Amorella.» Non mancava il
gatto.
In millenni
di attività venatoria e di braccognaggio, la facies faunistica di Racalmuto è radicalmente cambiata.
Naturalmente vi ha contribuito l’antropica modificazione della locale
vegetazione. Il degrado degli ambienti per il dissennato utilizzo di
fitofarmaci è stato spesso esiziale. Vi si aggiunga la vulnerazione che le
tante strade hanno determinato nell’ecosistema del territorio..
Resiste,
comunque, nella zona la Volpe (Vulpes
vulpes crucigera Bech.), avente pelliccia rossastra sul capo e sul tronco e
grigia sulle parti inferiori. Vive in genere tra le sterpaglie dei campi o
trale balze rocciose (come nella cava di Fulvio Russo, al Serrone). Pare che non sia del tutto scomparso il Gatto
selvatico (Felis silvestris Schreb.).
Tra i roditori sopravvive l’Istrice (Hystrix
cristata cristata L.). Pure ancora presente il Riccio (Erinaceus europaeus consolei Barr. – Ham.), un insettivoro dal capo
largo e con il muso appuntito. Tutte le parti superiori del corpo sono
ricoperte, dalla fronte alla coda, da aculei di due o tre centimetri di
lunghezza. Lepri e conigli non mancano, anche se ormai non più indigeni, ma
provenienti dai paesi slavi ed immessi nel territorio per ripopolamento,
purtroppo senza avvedutezza veterinaria, e quindi, non di rado, infetti e
contagiosi. Lepre comune (Lepus europaeus
corsicanus De Wint) e coniglio selvatico (Oryctolagus cuniculus huxleyi Haeck.) sono per ora preda - al Castelluccio, al
Serrone, alla Pernice, persino sotto le varie “robbe” di campagna – di quella
fosca genia dei cacciatori locali, per fortuna in via di estinzione.
Sembrano
tornare a volteggiare sulle lande racalmutesi gli antichi rapaci. Consueti i
rapaci notturni quali: il Barbaggianni (Tyto
alba Scopp.), dal piumaggio biancastro nella parte inferiore del corpo e
rossastro nella parte superiore, con disco facciale a forma di cuore in cui
sono inseriti occhi relativamente piccoli di colore oscuro, la Civetta (Athene noctua Scop.) – e pensiamo al
Giorno della Civetta di Sciascia – piumaggio grigio marrone, attiva nel
crepuscolo e nelle prime ore dell’alba, divoratrice di insetti e predatrice di
topi e uccelli di piccole dimensioni. E, poi, il Gufo comune (Asio otus L.) e l’Allocco (Strix aluco L.). A noi fa ancora effetto
l’ansimante gridio dello Jacobbu (strix bubo L.), quando, dopo l’estivo
imbrunire al Serrone, sfreccia invisibile tra i vigneti. E quasi umano è il
richiamo dei piccoli che, sempre al Serrone, la volpe reitera divagando ora qui
ora là nella notturna pastura.
Corvi,
cornacchie, gazze, storni, cardellini, fringuelli, allodole, capinere, tordi,
merli, rondini, pettirossi, sono uccelli passeriformi o ancora non estinti o in
fase di piacevole ritorno. L’upupa, ma anche il piccione selvatico, la tortora,
la quaglia, la coturnice di Sicilia allietano ancora i nostri campi. Rettili,
di solito innocui (i familiari scursuna)
continuano, in primavera, a spogliarsi delle loro lunghe squame sui campi,
sempreché non uccisi prima dalla superstizioso e biblico ribrezzo dei contadini
nostrani. Lucertole a iosa: dalla Podarcis
wagleriana (Gist.) alla comunissima Podacis
sicula sicula (Raf.). Sui muri delle case e sulle rocce due specie di
gechi, grandi divoratori di insetti: la Tarentola
mauritanica (L.) e l’Hemidactylus turcicus (L.)
E che dire
delle lumache: a Racarmutu aviemmu li
babbaluciara, diceva un’ingenua canzone popolare. Babbalucieddi, babbaluci, iudisca e muntuna, termini familiari a
tutti i racalmutesi. Proverbi:
-
Sparaci,
babbaluci e fungi/spienni dinari assà e nenti mangi;
-
Quannu la
sorti nun ti dici,/jettati nterra e cuogli babbaluci;
-
Cu va a
sparaci mangia ligna,/ cu va a babbaluci
mangia corna;
Sciascia, nel suo Occhio di Capra, sapidamente catoneggia
sui detti popolari racalmutesi sulle lumache, a proposito dello sfortunato cui
non resta altro che buttarsi a terra a raccogliere “babbaluci” (v. pag. 113). E
la zoologia sciasciana di Occhio di capra,
oltre allo stesso titolo si estende a questi proverbi:
-
a cuda di surci,
per gli amori finiti, a coda di sorcio, nella noia; (p. 22);
-
a li piedi di lu
cavaddru, ( … «nel mondo contadino che io conobbi non era animale amato:
più delicata del mulo e di minor rendimento, bizzoso, imprevedibile, capace di
fughe da una campagna all’altra» …) e cioè quando si è «senza rimedio: ad
aspettare il colpo dello zoccolo» (p. 26);
-
a piedi
d’agnieddru, «si dice del naso alla francese» (p.29);
-
culuri di cani ca
curri, «colore indefinibile» (p. 58);
-
e iddu pirchì
sceccu si fici? «quasi che l’asino avesse scelto di fare l’asino così come
un uomo sceglie un mestiere, una professione.» (p.67);
-
e lu cuccu ci
dissi a li cuccuotti/ a lu chiarchiaru nni vidiemmu tutti, «chiarchiaru ..
pauroso rifugio di selvaggina, di uccelli notturni, di serpi; e vi si caccia
col furetto, che spesso nelle tane resta ‘mpintu,
impigliato, quasi il labirinto dei cunicoli fosse matassa che l’aggroviglia. …
Come dire agli inferi, a un luogo di morte in cui tutti ci incontreremo. E
senza dubbio vi agisce la memoria delle antiche necropoli scavate nelle colline
rocciose, come intorno al paese se ne trovano.» (pp-67-68);
-
lu cani di don
Miliu – lu cani di Pinu lu crastu di Pasqua – lu curnutu a lu so paisi, lu
sceccu unni va va – lu pisci di lu mari/ è distinatu cu si l’havi a mangiari –
lu puorcu all’organu – lu sceccu di
Silivestru – lu sceccu zuoppu si godi la via/ la megliu giuvintù a la
Vicaria (pp. 83-88);
-
‘mmucca a un cani,
modo scherzoso per non dare risposta a chi vuol sapere ove travasi qualcuno (
94);
Riportiamio altri proverbi e modi di dire racalmutesi
(distici, quartine) a sfondo .. animale:
-
Sutta lu to
palazzu c’è un jardinu
ci su chiantati arangi e pumadoru
e ni lu miezzu c’è cunzatu un nidu
ancidduzzi ci sunnu a primu vuolu;
-
Ora
ancidduzzi calati, calati
a la cima di l’arburi e ci viditi
quannu nni
la caggia intrati
comu di la
pena nun muriti;
amicuzzi vi
priegu ‘n caritati
amicizia cu
li donni nun aviti;
iu persi la
mia libirtati
na donna m’ingaglià cu li so ariti;
- Chi hai gadduzzu ca
reciti sulu?
Iu cci
arrispunnivu di luntanu:
persi la puddastra e sugnu sulu!
-
Comu ci
finì a lu gaddu di Sciacca/ pizzuliatuddu di la sciocca.
-
Lu gaddu
cci dissi a li gaddini/ ca lu tiempu si piglia comu veni
-
Ludia
brutta facciazza di mulu/tu va diciennu ca t’ha’ mmaritari,/ nun n’ha né robba
nemmenu dinari,/cu è ddu sceccu ca
t’havi a pigliari?
-
Si Diu voli
la mula camina/ci ammu arrivari a la missa a Ragona.
-
Ti cridi ca
era mulu di la rota/ pi pigliarimi a tia disonorata?
-
La
sciccaredda cci dissi a lu mulu/ siemmu fatti pi dari lu culu.
-
Cu di lu
mulu voli fari un cavaddu/ li primi pidati sili piglia iddu.
-
Aviva un
gaddu e lu fici a capuni/ lu sbrigu cci livavu a li gaddini.
-
Ni sta
vanedda ci abita ‘na quaglia,/ tutti la vuonnu e nuddu si la piglia.
-
Lu
puddicinu dissi ni la nassa/ quannu maggiuri c’è minuri cessa.
-
La
tarantula annaca e nun sapi a cui
stenni
l’aritu e nun lu cogli mai
passa la
musca e ni l’aritu ‘ngaglia
e ci
patisci nni ddi eterni guai
la
tarantula ngrata siti vui
la musca
sugnu iu ca c’ingagliavu
quantu aiu
piersu pi amari a vui
sugnu a lu ‘mpiernu e nun nni niesciu mai.
·
lu
cacciaturi assicuta la quaglia/e
l’assicuta finu ca la piglia;
·
La
turturidda quannu si scumpagna
si parti e
si nni va a so virdi luogu
vidi
l’acqua e lu pizzu si vagna
e di la
pena si nni vivi un puocu
e poi si
minti ncapu na muntagna
jetta suspira e lacrimi di fuocu:
amaru cu
perdi la prima cumpagna,
perdi li
piacira, lu spassu e lu juocu.
·
All’armi,
all’armi: la campana sona
li turchi
sunnu junti a la marina.
·
Ah! Quantu
è mpami l’arti di lu surfararu
ca notti e
jornu travaglia a lu scuru
piglia la
lumera e fa un puocu di lustru
quannu
scinni jusu cu lu so capumastru
·
La schetta
si nni prega di li minni
la maritata
di li figli ranni
·
Niesciu la
sira comu lu nigliu
Viersu la
matina m’arricogliu.
·
Si ni
pigliamu colari muriemmu
e
vincitoria a li mpamuna dammu.
·
Cci vò viniri
dda banna Riesi
unni ci su
pagliara comu casi;
cci sunnu
tri picciotti comu rosi
una di
chiddi tri mi dissi trasi;
trasi ca
t’aiu a dari li beddi cosi:
puma,
pumidda, maremi e cirasi.
Iu ci lu
dissi: nun vuogliu sti cosi,
vuogliu la
zita, la robba e li casi.
·
Biedda, li
tò biddizzi iu li pritiegnu
siddu li
duni a l’antri, iu m’allagnu.
·
Ora ca ti
criscieru sti lattuchi,
tutta ti
gnucculii, tutta t’annachi.
·
Ci pienzi
bedda quannu iammu a Naru
ca la
muntata ti paria pinninu?
·
Bedda, ci
vò viniri a San Bilasi,
n’addivirtiemmu ca siemmu carusi?
·
Aiu cantatu
pi sbariarimi la menti
oppuramenti
la malincunia.
·
Comu vo
fari fa, si la patruna
basta ca
truovu la pignata china.
·
Buttana ca
cu mia tu fa la santa,
cu li cani
e li gatti tieni munta.
A
mezzannotti cu scippa e cu chianta,
la tò
matruzza li cuorpi ti cunta.
Quantu
grana vusca sta figliuzza santa,
ci voli lu
nutaro ca li cunta.
·
Cu scecchi
caccia e a fimmini cridi/ faccia di paradisu nun nni vidi.
·
Lu surci
cci dissi a lu scravagliu:/ quannu tu fa beni scordatillu.
·
Ficiru paci
li cani e li lupi,/ poviri piecuri e svinturati crapi.
·
A vvu
commari chiamativi la gatta,/ sannò vi veni cu l’ancuzza torta.
·
Sugnu comu
lu cunigliu ni la tana,/ firriatu di sbirri e di ‘mpamuna.
·
Chi avi stu
sceccu ca raglia?/ avi la corda longa e s’impiduglia.
L’animale
domestico, in una società perennemente contadina come è stata sinora quella
racalmutese, ha avuto ovviamente ruoli primari nella nutrizione, nell’ausilio
nei lavori agricoli, nella caccia, nei trasporti, nello scambio e persino nei
passatempi. Gli atti notarili del Cinquecento, del Seicento, del Settecento
pullulano di contratti di compravendita di muli e giumente, di ginizze e buoi, di asine e pecore e
capre. Un carro trainato dai buoi è quello che portò a Racalmuto la Bedda Matri di lu Munti, secondo
l’ingenua iconografia settecentesca che dell’ex voto affisso nella parete destra del Santuario del Monte. E a
fine Maggio, in prossimità dei grandi lavori
estivi nelle campagne, c’era la rinomata fiera del bestiame di
Racalmuto. Ancora in Matrice – ormai piuttosto defilato – si onora S.Antonio,
cui s’intestava nell’antichità la chiesa arcipretale che era particolarmente
venerato per la protezione che accordava agli animali. Ancor oggi, il 13
giugno, una messa a S. Antonio, propiziatrice di favori celesti per la
salvaguardia del locale bestiame, viene recitata, con devozione e
partecipazione del residuale mondo agricolo. Cavalli e muli bardati, salgono
tuttora la scalinata del Monte, a portare “prommisioni” in frumento. Prima entravano
in chiesa: poi, p. Farrauto ed il vescovo Peruzzo interdissero quella devota
tradizione.
Una
terminologia sempre più in disuso entrava persino nei rogiti: “un mulu di pilu
baiu”; una jnizza; in primis, due
muli uno maschio di pilo baio castano et l’altra femina di pilo bajo; dui
muli maschi, di cojo di pilo morello, marcati allo collo e spalla destr; un
cavallo di pilo sauro, con merco [contrassegno] tundo alla coscia sinistra con
la coruna; un cavallo maurello forzato di bianco con una stilla in fronte
bianca; cavallo stornello con l’armi della razza alla coscia sinistra; cavallo
stornello, muzzo senza grigni [criniera], e senza merco; cavallo argentino
mercato alla coscia sinistra della razza; cavallo bajo, rotato,
facciolo, con tutti li quattro piedi bianchi mercato alla coscia
sinistra della razza; Un maccio [mulo] grande morello mercato allo collo della
razza del Re; una fuschetta falba che dona al scuro; un cavallo bajo chiaro
causolo di tutti li piedi faciolo con un cerro di capilli bianchi sopra la
gregna; dui giumenti di cocchio affrisciunati baj, una delli quali ha lu pedi
darreri malato.
Certo, nel gran parte, codesti sono termini usati nell’inventario del conte Giovanni del Carretto, trucidato in una giornata di maggio a Palermo nel 1608: erano tempi in cui un cavallo valeva più di uno schiavo. E dopo viene, infatti, la scuderia umana che il conte deteneva per il suo servizio nel suo palazzo palermitano. Il burocratico stile del notaio suona tristo alle nostre orecchie:
Item uno scavo masculo chiamato
Mustafà di Scandaria, moro di figlio di Abitelle, di comune statura, brunetto,
mustazzi nigri, di età di anni 27 in circa; item un altro scavo nomine Angelo
di Zagaro figlio di Fideli turco, al presente battizzato di età di anni 18,
sbarbato, pocho mustazzi; un altro scavo
nomine Alì, moro, figlio di Solomina, bono, d’età d’anni quaranta, commune
statura, olivastro, barba castagna con alcuni
pili bianchi; item un altro scavo nome Alì, turco figlio di Acudì. di
paese di Romania, di età d’anni 35, buona statura, barba e mustazzi castagnoli;
uno scavo d’età d’anni . . .
in circa nome Odeo Fazz.l di Bona, figlio di Fuit, mor; item una scava nome
Aramundi di Zaffi di anni quaranta in circa, bona statura, capilli nigri con
alcuni signi al barbarozzo; un’altra
scavotta d’età d’anni dieci nome Naclara figlia di Alburascar di Bona, moro;
item un’altra scava nome Fileze di detta Bona, matre di detto Nazar d’età
d’anni quaranta in circa, figlia d’Alì capilli nigri, mercata a la frunti e
barbarozzo con alcuni stizzi azoli.
Presso la
Chiesa Madre abbiamo rinvenuto quest’accenno ad una compera di buoi, da servire
per il trasposto dal favarese feudo di S. Benedetto di colonne per l’edificanda
Matrice nel 1655:
6.1.1655
|
A Giulio Pisano onze vinti e tt.rì undici,
quali si ci hanno pagato per havere andato alla città della Licata con
Stefano Garlisi et alli feghi attorno per cumprare altri boi di
carrozza per portare le colonne della d.a fabrica…
|
Da un rivelo del 1658 è possibile trarre un quadro dei possessori
di bestie da soma in quel di Racalmuto. Molto attendibile per motivi fiscali:
·
il numero dei fuochi era di 1239 per 5.165 ;
·
in paese vi erano 52 cavalli;
·
le giumente, invece, in minor numero, appena 38;
·
i buoi, 218 a testimonianza del fervore dei lavori
agricoli;
·
le “vacche di aratro”, n.° 191.
Pecore e capre non vennero conteggiate; e crediamo anche
gli asini.
Asini e muli s’intensificarono nell’Ottocento con
l’esplosione delle miniere di zolfo. Fu il tempo dei “vurdunara”. Scrive
Francesco Renda, nel libro di storia che abbiamo citato (p. 118): «Il solo
trasporto dello zolfo […] fino alla vigilia dell’unità richiese l’impiego di
3.000 uomini e di 10.000 muli, una vera e propria armata in permanente stato di
mobilitazione.» Fino all’entrata degli americani, nel 1943, la teoria di asini
con il loro carico di “balate” di zolfo era consueto per le trazzere che da
Quattro Finaiti, Cozzo Tondo e dintorni si portavano alla stazione ferroviaria.
Noi ne abbiamo ancora vivo il ricordo. E l’afrore delle urine che stagnavano
nelle solite pozzanghere è rimasto memorabile: già, l’asino doveva soffermarsi
sempre al solito posto per le sue evacuazioni uretrali. Piuttosto recente l’uso
del carretto, appena le carrozzabili lo permisero. E dopo, utilizzando i dissestati Moss degli americani, la
meccanizzazione, il trasporto su camion.
La caccia, più che per nutrimento, è stata uno sport, una
passione. Il barone Luigi Tulumello, a fine Ottocento, si fece costruire nel
feudo lasciatogli dal prozio prete, delle torrette, da cui sparare
tranquillamente ai conigli, che si premurava a immettere nelle sue terre a
tempo debito. Una guardia campestre – tale Martorelli – amava però fare il
bracconiere nei dintorni della tenuta baronale di Bellanova. Il nobile don
Luigi Tulumello non tollerava il dispetto che si permetteva una volgare guardia
campestre: la fece chiamare, e, in sua presenza la fece inquisire da un suo
famiglio. Il Martorelli fu arrogante, anzi mise in dubbio “l’essere omo” di
quel manutengolo. Dopo pochi giorni, il Martorelli ci rimise la pelle. In un
fascicolo a stampa che trovavasi – chissà perché? – nella sacrestia della
Matrice (ma mani pietose l’hanno trafugato) si poteva leggere il racconto del
processo penale che ne seguì. Per le autorità inquirenti, due bravacci favaresi
si erano acquattati in una macelleria di tal Borsellino, all’inizio di via
Fontana. Quando, come al solito, il Martorelli, baldanzoso sulla sua giumenta,
passò verso il meriggio per andare ad abbeverare la bestia giù alla fontana, fu
da malintenzionati paesani additato dall’interno della macelleria. I bravacci
seguirono allora il Martorelli fino alla fontana e là gli scaricarono addosso
vari colpi di lupara. Per gli inquirenti, i mandante era stato il barone;
l’organizzatore il famoso campiere Bartolotta.
Si fecero, costoro, un paio di anni di carcere preventivo, ma poi vennero
totalmente assolti. Per qualche coniglio selvatico, ci si rimetteva la pelle a
Racalmuto sino al tardo Ottocento. Per gli avversari politici, il barone
Tulumello – anche se poi sindaco ed consigliere provinciale - rimase “un reduce dalle patrie galere”,
come può leggersi in missive anonime che
si conservano nell’archivio centrale di stato. E così anche per Sciascia. Va
letta in proposito questa pagina di Nero su nero: [43]
«La ragione lontana di questa mia avversione [per i titoli
nobiliari, ndr] sta che al mio paese,
dove l’ultimo barone era morto una diecina d’anni prima che io nascessi,
l’ombra di costui dominava ricordi di soperchieria e violenza, di corruzione e
di malversazione amministrativa. A casa mia, poi, ce n’era un ricordo più
vicino e diretto, e più tremendo: il barone si diceva avesse fatto ammazzare un
cugino di mio nonno, una giovane guardia campestre della cui moglie si era
invaghito.
«Nonostante il rapporto di dipendenza (il barone era
sindaco, o forse sindaco era suo fratello), la guardia lo aveva ammonito e
forse minacciato: che girasse al largo della sua casa, della sua donna. E il
barone gli aveva mandato il sicario, a tirargli alle spalle mentre quello
abbeverava la giumenta. Dell’agguato, del colpo alle spalle, della terribile
condizione della vedova che si era levata, ma inutilmente, ad accusare il
barone, mi si faceva un racconto minuzioso:
ma in segreto, quasi col timore che il barone potesse ancora, dalle sue
spie, venire a sapere quel che si diceva di lui. E ricordo una particolarità
piuttosto orrenda: che il colpo che uccise la guardia era fatto, oltre di
lupara, di schegge di canna; e volevano dire atroce irrisione (nel sentire
popolare la canna, forse perché data all’ecce
homo come scettro, è simbolo di scherno; e si ritengono maligne, cioè
inevitabilmente destinate a suppurare, le ferite da canna).»
Parola d’onore: nelle carte processuali, neppure l’ombra
del delitto passionale. Per movente, si adduceva la stizza per il bracconaggio
dei conigli baronali e l’ira per la tracotante insolenza della guardia
campestre. Erano, poi, tempo d’abigeato e la lettera anonima avverso i
Tulumello – quando la guardia campestre Martorelli era già morta e sotterrata –
ce ne ragguaglia con insinuazioni maligne. Certo, ora la nuova guardia comunale
Leonardo Sciascia è tutta per il barone Tulumello: in data 25 maggio 1896 si
scriveva anonimamente al Cadronghi:
«Eccellenza. -
Il sindaco Tulumello reduce dalle patrie galere, tutto può ciò che si vuole.
Fattosi padrino di un bambino del marasciallo, se ci è fatto lama spezzata; con
cui a mantenere le apparenze di un paese tranquillo e di ordine, si occultano
reati col qui pro quo. Il vice pretore Alaimo informi. Così la mafia, vestita
di carattere pubblico regna e governa. Pertanto, un Michele Scimé, braccio
destro del Tulumello, poté essere assolto, sebbene colto in flagranza di
abigeato di animali. Così i fratelli Bartolotta - della greppia - non vengono
inquisiti di animali, mentre vennero nei loro armenti scovati animali rubati.
Così Leonardo Sciascia disciplina l'elemento cattivo che, sotto le parvenze di
circolo elettorale, (sic) dove un Tulumello è presidente, soffoca ogni libera
manifestazione, come nell'ultima elezione. Così Alfonso Conte, dopo la
villeggiatura fattasi col Sindaco, dalle carceri di Girgenti, Catania e
Palermo, gode oggi di una pensione assegnatagli dal Tulumello, sì da fare il
maestro didattico della malavita. Et similia.»
L’abigeato fu piaga che si protrasse sino alla prima metà
del XX secolo: se si lasciava la mula oppure l’asino in aperta campagna, spesso
non si ritrovava più l’animale, come oggi per la macchina, a meno che non si
pagava un riscatto. I manutengoli erano i soliti affiliati alle cosche protette
dai soliti galantuomini. Nelle inviolabili tenute di costoro trovavano più o
meno provvisoria ricettazione. Mi raccontano della tragedia occorsa al genitore
del gesuita padre Scimé (Garibardi),
cui fu sequestrata la scecca mentre
zappava certe terre della Culma. La riebbe, pagando il riscatto, per
l’intermediazione di un potente dell’epoca, un galantuomo di tutto rispetto.
i)
Archeologia
e preistoria
In sintonia
con Milena, Racalmuto fa risalire le sue ascendenze umane comprovate al Neolitico.
La fase neolitica dei dintorni racalmutesi è variamente comprovata. «Frammenti
di ceramica impressa [provenienti dalla] contrada Fontanazza presso Milena» [44]
comproverebbero insediamenti umani risalenti addirittura al VI-V millennio a.C.
La citata contrada non confina con il nostro territorio ma non sta molto
discosta e se insediamenti umani vi erano in quella lontana epoca neolitica
colà, non è poi azzardato congetturare che incuneamenti abitativi vi dovettero
essere a Racalmuto. Futuri scavi archeologici – ne siamo certi – lo
comproveranno. A Serra del Palco, sul versante ovest di Monte Campanella in
Milena, scavi eseguiti negli anni 1981-82-83 hanno messo in luce «un
insediamento del neolitico medio, ripreso attraverso i vari momenti dell’età
del rame.» [45] Fu epoca
questa – antichissima – in cui i nostri antenati seppero costruirsi le capanne
abitative, il La Rosa propende per «introduzione della “cultura del recinto”» e
ciò come peculiarità «del processo di neolitizzazione della fascia sud-occidentale dell’Isola,
determinato verosimilmente dall’arrivo di piccoli gruppi transmarini,
rapidamente assimilati.» [46] E
continuando con l’esimio archeologo, vaggiunto che « … l’episodio si consuma
nell’ambito del neolitico medio, magari attardato [attorno al terzo millennio
a.C. dunque, ndr] , e certamente in
un momento anteriore alla introduzione della tessitura (nessun elemento di
fuseruola è stato sinora restituito dallo scavo). […] La documentazione di
questa “cultura del recinto”, la sua brevità, l’assenza finora di materiali più
tardi di quelli stentinelliani associati a ceramica tricromica, sono dunque i
dati di maggior rilevo per uno specifico approccio al fenomeno della
neolitizzazione nella media valle del Platani.»
Lo
sprofondo di Gargilata - con le sue
acque (ora purtroppo sparite), con monti gessosi (atti alle tombe e validi per
la difesa), con la sua stretta contiguità alle zone archeologiche già indagate
– fa affiorare ceramiche antichissime, che, quando verranno studiate, non
potranno che dar la prova di un fenomeno di neolitizzazione anche in terra
racalmutese: e la presenza umana verrà posticipata rispetta alla datazione del
Griffo ma risulterà di sicuro presente già da prima del secondo millennio a.C.,
anche se, a quanto pare in base alle recenti risultanze archeologiche, non di
molto.
Sulla falsa riga di quanto tracciato da Carla
Guzzone sul neolitico a Serra del Palco (vicina ed omologa al territorio
nostrano di Nord-Est), ipotizziamo presenze umane racalmutesi del tutto
analoghe a quelle evolutive del Neolitico (ben 5 momenti) e della successiva
età del rame (due momenti). Per abbozzare un quadro di ampia massima, siamo
costretti per il momento, in mancanza degli indispensabili e non più rinviabili
scavi stratigrafici, a riecheggiare la sintesi della Guzzone [47]:
a)
il primo momento è quello dei fori sul banco roccioso,
destinati all’alloggiamento di pali lignei per la perimetrazione e il sostegno
della copertura di capanne;
b)
il secondo momento è quello delle capanne con battuti
pavimentali;
c)
segue poi la fase monumentale; impianti realizzati con
tecnica accurata (grossi blocchi rinzeppati da piccole pietre), con probabili
alcove e con probabili contenitori di derrate;
d)
il quarto momentoè quello dei rifacimenti;
e)
un quinto ipotetico episodio edilizio sarebbe
rappresentato (se davvero può riferirsi al neolitico) da un bel focolare
impostato su di uno strato di giallastro.
Per un
quadro d’assieme, con particolare riferimento all’età eneolitica, riportiamo
queste note di sintesi di Laura Maniscalco: [48]
«L’età del
rame … è rappresentata da un gran numero di stazioni. […] I siti individuati,
sia attraverso scavi che da semplici ricognizioni sul terreno, sono tutti di
carattere domestico, manca una altrettanto ampia documentazione relativa
all'aspetto funerario. Alcune tombe a forno presenti nella zona e
presumibilmente attribuibili a questo periodo, risultano violate da tempo.»
Discorso
questo valido per le tombe a forno di Fra Diego: anche in riferimento alle
affermazioni della Maniscalco, può dirsi che la nostra spettacolare necropoli
di Gargilata va ricondotta temporalmente all’età del rame, a circa l’inizio del
secondo millennio a.C. Vi si attagliano le risultanze archeologiche della
vicina Rocca Aquilia la cui similarità e la cui propinquità con Gargilata sono
incontestabili. Per quel che ce ne riferisce la Maniscalco, «i saggi eseguiti a
Rocca Aquilia hanno restituito sequenze stratigrafiche complete dal tardo
neolitico alla fine dell’età del rame.» Come dire sino alle soglie dell’età del
bronzo, cioè ad immediato ridosso del secolo XVII. Ovvio che le date sono di
mero riferimento, atteso il continuo ripensamento delle datazioni preistoriche.
Scavi
recenti a Milena ragguagliano sulle presenze insediative risalenti alle fasi
finali del bronzo antico; [49] quelle del
bronzo medio sono state comunicate sin dalla loro individuazione nel 1988 dal
prof. Vincenzo La Rosa [50]. Il continuum del vivere preistorico nell’hinterland del fiume Gallo d’oro, la cui
ampia ansa dal Monte Castelluccio al Platani abbraccia anche i displuvi
castellucciani racalmutesi, è ormai ampiamente ed esemplarmente documentato
nell’area nissena; solo per risibili barriere circoscrizionali, ciò manca per
le nostre ancor più ubertose plaghe.
A mo’ di
nota conclusiva, per avere una chiave di lettura, della vicenda preistorica
della civiltà sicana racalmutese, valgano questi stralci da uno studio di
Fabrizio Nicoletti [51]:
«Non sappiamo se la nostra regione sia stata
popolata in un periodo anteriore al neolitico. I reperti della grotta
dell’Acqua Fitusa, a monte del fiume, lasciano sperare in future scoperte. Già
da ora la nostra attenzione può concentrarsi su un gruppo di manufatti
inquadrabili tipologicamente tra i pebble tools. [..] La cronologia dei discoidi è .. incerta, per quanto la loro
presenza nel territorio risulti [piuttosto] capillare. Un bifacciale da
contrada Cimicia, di forma ovale, sembra potersi confrontare con esemplari
analoghi diffusi nella Sicilia centrale. Nella maggior parte dei casi si può
pensare ad una datazione compresa tra il neolitico medio e le prime fasi
dell’età del bronzo. […] Il neolitico, sin dai livelli più antichi di Serra del
Palco-Mandria, vede la comparsa di quel singolare e ricercato vetro vulcanico
che è l’ossidiana. La sua origine allogena non lascia dubbi circa la nascita di
una rete di scambi che in questo periodo interessò la valle del Platani.[…]
L’ossidiana grigia segue l’andamento generale: in ascesa durante la fase delle
capanne, in declino durante quella dei recinti, in rapida ascesa alle soglie
dell’eneolitico, quando diviene quasi l’unico tipo attestato.[…] Nonostante le
consistenti importazioni di ossidiana, la materia prima maggiormente usata in
tutti i periodi, almeno a partire dal neolitico medio, è una varietà di selce a
grana fine dai colori variabili dal giallo-verde, al rosso, al marrone, spesso
mescolati su un unico pezzo a testimonianza della medesima origine. […]
L’industria del villaggio sommitale di Serra del Palco è la più tarda tra
quelle conosciute nella media valle del Platani. Il progressivo sviluppo
culturale dalle forme castellucciane a quelle thapsiane è in questo sito
accompagnato dalla presenza di materiali micenei. […] C’è da chiedersi quale possa essere stato il ruolo delle
importazioni micenne in un radicale mutamento che, oltre agli aspetti già noti,
sembra coinvolgere la stessa tecnologia litica. …»
Succede
così il periodo miceneo con le sue belle tombe a tholos e gli evoluti manufatti
metallici [52]. Racalmuto
non ha, però fornito sinora alcun dato che attesti la presenza di quella civiltà.
Per rarefazione antropica o per effetto di puntuale vandalismo che ha fatto
sparire le testimonianze, almeno quelle più evidenti?
Ma se tombe
a tholos dell’età del bronzo il
Tomasello [53] ha
individuato in località Furnieddu
(c/o Sorgente), così prossima ai
confini della Culma, come essere certi che esse non vi fossero più nelle
circonvicine terre racalmutesi?
«La tomba
di Furnieddu – precisa il Tomasello – ma soprattutto le due camere thoidali
costituiscono per le loro caratteristiche una presenza archeologica
significativa nella Sicilia centro-meridionale della media e tarda età del
bronzo e confermano sempre di più l’importanza di questo comprensorio
geografico nel contesto della preistoria siciliana.» Ed aggiunge: «sul piano
culturale, significativa per la puntualizzazione del quadro delle relazioni con
il mondo miceneo risulta la presenza di questa tipologia architettonica di
matrice egea in un territorio così interno della Sicilia; il tradizionale
panorama dei rapporti con l’Egeo sembrava, infatti, voler privilegiare i
territori costieri dell’Isola e quasi esclusivamente quelli sud-orientali.
Inoltre, il materiale funerario attribuito alle due tombe di Monte Campanella e
assegnabile quanto meno al XII secolo a.C. ha consentito di antedatare la penetrazione
di questa tipologia architettonica nella Sicilia centro-meridionale e di
tentarne una periodizzazione. Infatti la
tradizionale datazione delle tholoi in roccia della vicina Sant’Angelo Muxaro,
fissata da Paolo Orsi all’VIII secolo a.C., sembra adesso difficilmente ancora
sostenibile.»
Risalirebbero
addirittura al XV/XIV secolo a. C. i primi rapporti di questi luoghi con i
micenei. «Gli indizi di una pregressa serie di contatti – si interroga
l’insigne archeologo – con il mondo indigeno, compresi tra il XV ed il XIV
secolo a.C. (TE IIIA) e attestati nello stesso sito di Milena, portano a
chiedersi se la verosimile sequenza cronologica proposta da Pugliese Carratelli
per la famosa “saga” Kokalos e Minosse non risponda ad un quadro storico reale,
articolato sulla ubicazione, natura, dinamica ed esiti di questi contatti nel
lungo termine.» Ritorna l’ipotesi cara a De Miro secondo la quale «nella zona
agrigentino-nissena possano essersi verificati, in concomitanza con l’arrivo
dei manufatti egeo-micenei, dei veri e propri stanziamenti di nuclei
transmarini, che avrebbero poi continuato, pur con identità culturale
progressivamente meno nitida, ad elaborare tipi e motivi del patrimonio
originario. Queste popolazioni avrebbero così contribuito direttamente alla
formazione del sostrato, determinando anche l’adozione di tipi come la tomba a
tholos.» E ciò non poté non riguardare il confinante nostro entroterra.
Una tomba a
tholos pare che ci fosse addirittura alla Noce, proprio nel podere vezzeggiato
da Sciascia e con lui da Bufalino. Pare che fosse subcircolare, volta a
calotta, banchina interna a ferro di cavallo e persino dotata del simbolico
incavo cilindrico sommitale, l’invito segnaletico alle anime di trasmigrare da
lì nel mondo dei cieli. Lo Scrittore pare l’abbia fatta inglobare quando
fabbricò il suo estivo eremo. Sappiamo da Occhio
di capra che il vedersi al
Chiarchiaro era per Sciascia come un dover trasmigrare fra gli inferi, in
un luogo di morte ove tutti ci si incontra. Ed anche su di lui giocava forse il
popolare abbrividire al ricordo «delle
antiche necropoli scavate nelle colline rocciose, come intorno al paese se ne
trovano». Nel dubbio, quella sua grotta della morte antica venne ascosa in
interno ipogeo, risuscitato alla conservazione delle cose della vita.
Confessiamo
che quanto a datazione siamo stati spesso frastornati dall’ondivaga
periodizzazione dell’antica e nuova scienza archeologica. Meritevolissimo
quello che hanno fatto a Milena: hanno rimesso ai vari dipartimenti di fisica e
di fisica nucleare dell’università di Catania i reperti ceramici ed hanno così,
potuto stabilire età, sì, presunte ma
con approssimazioni di mezzo millennio che per le cose preistoriche sono
davvero una bazzecola. Si afferma che sui «campioni ceramici … è stato
possibile operare la datazione tramite termoluminescenza (versione coars grain)» [54] che sono
termini per noi davvero ostrogoti. Ne vien fuori questa serie di età presunte
in BP e cioè a dire before present
(prima del presente):
sito strato
|
età presunta
|
Serra del Palco
recinti
|
|
Recinto maggiore
|
NEOLITICO MEDIO
|
7000-6500 BP
|
età BP
|
+
|
-
|
ETA' PRESUNTA non BP
|
Età a.C. MASSIMA
|
Età a.C. 2 MINIMA
|
6893
|
864
|
864
|
4893
|
5757
|
4029
|
7445
|
1068
|
1068
|
5445
|
6513
|
4377
|
6852
|
871
|
871
|
4852
|
5723
|
3981
|
7770
|
981
|
981
|
5770
|
6751
|
4789
|
7055
|
739
|
739
|
5055
|
5794
|
4316
|
10148
|
2292
|
2292
|
8148
|
10440
|
5856
|
6773
|
398
|
398
|
4773
|
5171
|
4375
|
MEDIA
ETA'
|
MEDIA
ETA' MASSIMA
|
MEDIA
ETA' MINIMA
|
5361
|
6278
|
4443
|
RECINTO MINORE
|
NEOLITICO MEDIO
|
7000-6500 BP
|
età BP
|
+
|
-
|
ETA' PRESUNTA non BP
|
Età a.C. MASSIMA
|
Età a.C. 2 MINIMA
|
6387
|
447
|
447
|
4387
|
4834
|
3940
|
6923
|
600
|
600
|
4923
|
5523
|
4323
|
MEDIA
ETA'
|
MEDIA
ETA' MASSIMA
|
MEDIA
ETA' MINIMA
|
4655
|
5179
|
4032
|
FONTANAZZA IV
|
|
CAVE
|
RAME
|
5500-600O BP
|
età BP
|
+
|
-
|
ETA' PRESUNTA non BP
|
Età a.C. MASSIMA
|
Età a.C. 2 MINIMA
|
|||||||
4759
|
427
|
427
|
2759
|
3186
|
2332
|
|||||||
4773
|
615
|
615
|
2773
|
3388
|
2158
|
|||||||
MEDIA
ETA'
|
MEDIA
ETA' MASSIMA
|
MEDIA
ETA' MINIMA
|
2766
|
3287
|
2245
|
SERRA DEL PALCO – SOMMITA'
|
|
SEQUENZA STRATIGRAFICA
|
BRONZO MEDIO
|
3400-3200 BP
|
età BP
|
+
|
-
|
ETA' PRESUNTA non BP
|
Età a.C. MASSIMA
|
Età a.C. 2 MINIMA
|
3248
|
590
|
590
|
1248
|
1838
|
658
|
3690
|
820
|
820
|
1690
|
2510
|
870
|
MEDIA
ETA'
|
MEDIA
ETA' MASSIMA
|
MEDIA
ETA' MINIMA
|
1469
|
2174
|
764
|
SERRA DEL PALCO – SOMMITA'
|
||||||
SEQUENZA STRATIGRAFICA
|
BRONZO ANTICO
|
|||||
3800-3600 BP
|
||||||
Età BP
|
+
|
-
|
ETA' PRESUNTA non BP
|
Età a.C. MASSIMA
|
Età a.C. 2 MINIMA
|
|
3420
|
367
|
367
|
1420
|
1787
|
1053
|
|
4205
|
461
|
461
|
2205
|
2666
|
1744
|
|
4303
|
619
|
619
|
2303
|
2922
|
1684
|
|
MEDIA
ETA'
|
MEDIA
ETA' MASSIMA
|
MEDIA
ETA' MINIMA
|
1976
|
2458
|
1494
|
Ne desumiamo che anche per Racalmuto la più antica
presenza umana comprovabile risale al Neolitico medio e cioè attorno a 5361
anni prima di Cristo (al massimo a 8278 anni fa, al minimo 6443 anni addietro).
Il neolitico medio racalmutese risale dunque in BP (before present, prima del presente) a 7000-6500 (5000-4500 a.C.).
Le datazioni del Griffo relative a materiale conservato nel museo regionale di
Agrigento sarebbero quindi confermate.
Non dovrebbero
significare molto le pur cospicue differenze di datazione dei reperti del
recinto maggiore e di quelli del recento minore di Serra del Palco: solo uno
spostamento nel tempo dell’insediamento umano, ma sempre nell’ambito del
Neolitico medio (7000-6500BP). Questo comunque il quadro di raffronto
Denominazione
|
Età media
|
Età massima
|
Età minima
|
Recinto maggiore Serra del Palco |
5361
|
6278
|
4443
|
Recinto minore Serra del Palco
|
4655
|
5179
|
4132
|
differenza
|
706
|
1100
|
311
|
Forse possiamo congetturare che sino al 4100 a.C. nei
dintorni di Milena, e quindi anche a Racalmuto, persisteva il Neolitico medio.
Congetture analoghe per l’età del rame: dal quarto
millennio a.C. sino all’esordio del 3° millennio (i reperti archeologici
oscillano attorno al 2700 a.C. in un arco di tempo ipotizzabile tra un
massimo (3287 a.C.) ed un minimo (2.245 a.C.). Abbiamo quindi le tre fasi
dell’età del bronzo: bronzo antico con ceramica che può pur risalire al 2.303
a.C.; bronzo medio, iniziato probabilmente attorno al 1700 ed il tardo bronzo
che si aggancia all’età del ferro per sfociare nel c.d. miceneo.
Certo, in avvenire, quando scavi stratigrafici verranno
praticati anche a Racalmuto e potranno utilizzarsi i ritrovati (immancabili) di
una tecnologia sempre più sofisticata, le datazioni suesposte risulteranno
senza dubbio imprecise, ma allo stato delle nostre conoscenze (o meglio nel
buio assoluto oggi lamentabile per la preistoria racalmutese) queste
cifre-simbolo una qualche luce, un certo orientamento paiono fornirlo.
Sui Sicani racalmutesi abbiamo solo i ritrovamenti del
Mauceri del 1879 di cui parliamo in vari
punti di questa trattazione: ci pare sbagliata persino la località del
reperimento dei reperti archeologici, essendo forse improprio il toponimo di
Pietralonga (località invero di Castrofilippo). A dieci chilometri di strada
ferrata da Canicattì (come scrive lo stesso Mauceri) non ci pare che ci possa
essere la contrada di Pietralonga: prescindendo dall’esattezza del
chilometraggio, si potrebbe trattare delle cave di pietra ancor oggi visibili a
ridosso del cozzo Mendolia, tra la stazione ferroviaria di Castrofilippo e la galleria
in territorio racalmutese. Abbiamo già riportato ampi stralci delle note del
Mauceri per non doverci qui ripetere. Erano davvero quelle tombe e ceramiche
risalenti al secondo millennio a.C. e cioè alla fase terminale del bronzo
antico? Non lo sapremo mai, almeno fino a quando scavi nella zona non faranno
emergere ceramiche analoghe a quelle dell’ottocentesco ingegnere ferroviario,
andate purtroppo irrimediabilmente perdute.
Le tombe a forno della parete del costone roccioso, sparse
tutte attorno alla grotta di fra Diego, sono tanto vistose e suggestive, quanto
del tutto inesplorate (ad eccezione dei tombaroli che possono violare a loro
piacimento in assenza di ogni tutela pubblica). Sicuramente sicane, di certo
antiche di svariati millenni, attendono di raccontarci la loro storia
archeologica.
Una tomba singolare abbiamo scoperto nell’estate del 1999
in contrada Piano di Botte: con Pietro Tulumello ne abbiamo fatto un servizio
fotografico, almeno in tempo non potendosi escludere che vandaliche manomissioni
ne stravolgano l’assetto geoantropico. Attorno si è ormai consolidato
l’assestamento steppico che abbiamo sopra segnalato: deturpato da un osceno
traliccio, abbraccia il notevole masso tombale un prato erboso in
inverno-primavera, in giallo per le stoppie in estate-autunno. In fondo, il
caratteristico Cozzo Tondo, in linea ideale con la più caratteristica zona
archeologica milocchese. Ad est, l’ubertosa collina della Culma, a Nord-Ovest:
un minuscolo vigneto ed il melanconico colore degli accumuli dei rosticci di
una dismessa miniera di zolfo. Prima uno
dei mulini sul vallone: uno dei cinque mulini cinquecenteschi dei Del Carretto.
E, prima ancora, la zolfara di Piano di Corsa, così vicina al cimitero, ove fu
rinvenuta la Tegula Sulfuris venduta
al Salinas, da far congetturare essere là attorno la località solfifera
sfruttata al tempo dell’impero romano. In un raggio di cinquecento metri, ben
tre interessantissime testimonianze archeologiche, di ben tre distaccatissime
epoche. Lo scisto gessoso sembra essere disceso dall’apice montano, lungo la
bisettrice della vallata Nord del Castelluccio, a seguito di fenomeni di
distaccamento dovuti agli assetti tellurici del miocene. Piuttosto isolato, fu
utilizzato per evidenti fini tumulativi in tempi sicuramente sicani. L’incavo,
alto ben oltre la statura di un uomo, ma stretto e poco profondo, è un
manufatto antico, posteriore di sicuro ai tempi delle prische tombe a forno di
fra Diego, ma antecedente rispetto alle più evolute forme dei tholoi di Monte
Campanella. Sotto il profilo archeologico, non possiamo vantare competenza
alcuna, neppure dilettantistica, per cimentarci in datazioni o altro
specialistici ragguagli. In via di larga massima, saremmo propensi a ritenere
l’epigeo funereo databile attorno all’anno mille a.C. Lungo tutto il pendio di quella vallata
sporgono qua e là massi similari. Lungo la stessa direttrice, più in alto,
sotto un’ansa della rotabile del Ferraro, un altro analogo masso gessoso,
reclinatosi di recente ad opera dell’uomo, mostra due antiche tombe, ma per
fattura e caratteristiche ci paiono bizantine. Dovremmo, quindi, essere tra il
sesto e l’ottavo secolo d.C., ai tempi cioè del tesoretto di monete bizantine
trovate negli anni Quaranta in località Montagna. [55]
Anche qui, tutt’intorno fino a fondo valle, steppa. L’interruzione delle
piantagioni della Forestale non ci pare perspicua, con quegli estranei,
desolati e desolanti, eucalipti. Sotto la strada, recenti sono i vigneti:
sopra, il lussureggiare delle coltivazioni e dei frutteti che ancora residuano
dall’opera settecentesca degli agostiniani.
E’ la zona dei calanchi, della nudità arborea per il
dilavamento piovano. Come in quelle zone potessero stanziarsi e gli antichi
sicani, così poveri di mezzi, ed anche le popolazioni bizantine, resta per il
momento un mistero. E’ da pensare che allora là vi fossero boschi e l’humus
perdurasse ancora ferace? Quell’abbarbicarsi ad ogni scisto di roccia
per tumulare i propri estinti, lo farebbe arguire. Diciamo pure che
l’irradiazione dal centro di Gargilata fu nei secoli una costante: ferace il
territorio circostante, fervida l’opera dell’uomo nel coltivare dove fosse
possibile, anche lungi dalla capanna sicana o dalla frugale dimora coperta di
tegole, di canali d’argilla cotta.
In queste desolate contrade, in cima al Castelluccio,
tutt’intorno, al Serrone, giù al Rovetto, alla Montagna, alla Noce, al
Saraceno, ai Malati, al Pizzo di Don Elia, al Giudeo, ed altrove, affiorano ancora le sciasciane necropoli, non
vistose come quella di Gargilata. Invece di sperperare fondi pubblici in
insulsi “musei in piazza”, è da sperare che le future autorità locali
recuperino codeste nostre radici dell’ancestrale memoria sicana.
In questa estate, quando abbiamo fatto vedere il manufatto
sicano di Piano della Botte al noto G. Palumbo di Milena, costui era piuttosto
propenso a valutare il rudere come un tentativo di tholos, lasciato cadere
forse per abbandono coatto della località. E’ tesi suggestiva. Resta, allora,
da spiegare perché, in una certa fase della loro vicenda racalmutese, i sicani
del luogo dovettero fuggire. Le ipotesi tante:
aggressioni belliche; sopraggiunta insalubrità della zona; alluvioni; dissesti geologici. Chissà se potrà
darsi in avvenire una valida risposta. Frattanto, si faccia qualcosa, come
nelle zone del vecchio (e per noi, migliore) toponimo di Milocca. Già, Milena docet!
VERSO L’AVVENTO DEI GRECI
Non
riusciamo a resistere alla forte tentazione di formulare nostre personali
congetture sull’evoluzione sociale ed abitativa dei primordi racalmutesi. Se
qualche abitante vi fu a Racalmuto durante il Paleolitico Superiore, fu la
grotta di Fra Diego ad ospitarlo: quell'antro per esposizione, per capienza e
per vicinanza a luoghi fertili ed a valli boschive adatte alla cacciagione, si
attaglia all'ospitalità troglodita. Le testimonianze archeologiche più antiche
sono però di gran lunga posteriori e ci portano in piena cultura della 'Conca
d'Oro' con le caratteristiche «tombe del
tipo a forno» ([56]).
Da quell'era i nostri
progenitori - siano sicani o altro - riuscirono a sormontare gli sconvolgimenti
epocali dell'Età del Bronzo in condizioni di relativo benessere, piuttosto
pacifici ed alquanto prolifici, come il diffondersi delle tombe per tutto il
crinale collinare sta a testimoniare. Caccia e risorse minerarie, ma
soprattutto cerealicoltura e pastorizia consentirono sopravvivenza ed anche
sviluppo. A quanto pare, l’ingresso nell’Età del Ferro fu loro fatale.
A questo punto si ebbe una crisi
per ragioni che ci sfuggono: forse per le razzie dei Siculi, forse per
difendersi dalle incursioni di popoli stranieri giunti dal mare, i Sicani di
Racalmuto sembra abbiano preferito ritirarsi entro le più sicure zone
montagnose di Milena.
Successivamente,
quando, per l'aridità della loro terra, i greci sciamarono per il Mediterraneo
e le genti di Rodi e di Creta, via Gela, si insediarono nella valle
agrigentina, per i radi indigeni di Racalmuto
fu il definitivo tracollo.
I moderni storici si
accapigliano per stabilire tempi, modalità e drammi di quell'esodo geco cui non
si attaglierebbe neppure il termine di colonizzazione, trattandosi di
un'espulsione senza ritorno. Sono però propensi a ritenere che quei greci
subirono la violenza della scacciata dalle loro famiglie contadine e, mancando
di mogli, quella violenza la scaricarono sulle donne indigene di Sicilia,
violandole con nozze coatte.
Un doppio dramma - si dice -
che, ci pare, Racalmuto non subì né nella prima ondata di immigrazione greca,
né in quella della seconda generazione. La zona era lungi dal mare e lungi
dalle rive sabbiose, preferite dai greci per trarre in secco le loro
imbarcazioni, magari come semplice auspicio per un (improbabile) ritorno in
patria. I rodiesi ed i cretesi di Gela
fondarono, accrebbero e consolidarono la città akragantina. Allora il nostro
Altipiano cessò di essere libero territorio anellenico: erano giunti i tempi
della famigerata tirannide di Falaride. Nel sesto secolo a.C., per le locali
popolazioni iniziò una devastante denominazione greca. I cadetti greci di
Agrigento, privi di terra e di beni per il costume del maggiorascato del loro
popolo, cercarono, forse, fortuna e dominio nei dintorni e così anche Racalmuto
cadde nelle loro mani. Si attestarono certo nelle feraci contrade tra
Grotticelle e Casalvecchio, e, secondo recentissimi ritrovamenti archeologici,
anche alle falde del costone di Fra Diego. I radi reperti numismatici con la
riconoscibile effigie del granchio akragantino
non attestano solo l'inclusione
di quel territorio nella circolazione monetaria delle varie tirannidi dell'antica
Agrigento, ma soprattutto l'insediamento dei nuovi padroni. Da quell'epoca la
civiltà sicana indigena non è più testimoniata in alcun modo. I nuovi padroni
venuti da Agrigento presero certo la più gagliarda gioventù per trasferirla, schiava,
nella titanica costruzione dei templi. La gran parte, se non resa schiava, fu
senz'altro assoggettata ad una sorta di servitù della gleba. Taluni, scacciati
o fuggitivi, si ritirano con i loro sparuti armenti negli inospitali valloni
siti a tramontana. E divennero pastori randagi e rudi, feroci ma liberi,
anarchici e misantropi, irriducibili ed incoercibili, simili a quei pastori che
ancor oggi sembrano mantenere le prische connotazioni di uomini fieri e ribelli. In tutto ciò sono da rinvenire le radici
della storia sociale racalmutese. La classe agro-pastorale nasce e si evolve
lungo millenni con sufficiente continuità e peculiarmente autoctona. Sono i
vertici ed i dominatori che vengono da fuori, arroganti ed estranei. Si pensi
che un ricambio in senso classista Racalmuto l'ha potuto registrare solo ai
nostri giorni. Soltanto gli anni ottanta del XX secolo sono propizi ad un
rivoluzionario avvento di amministratori con genuine ascendenze locali e
d'autentica estrazione popolare.
IL PERIODO GRECO
Tra il 570
ed il 555 a. C. Racalmuto non poté che essere pertinenza rurale della polis di Akragas, sotto la tirannide di
Falaride: costui assurge al potere cavalcando la tigre dei ribellismi sociali e
plebei dell'Agrigento di allora. Fu questo fenomeno tipico dei silicioti greci
di quel periodo.
Il piccolo
centro abitato vi fu travolto di riflesso, per via dei greci nobili che
poterono appropriarsi delle terre dell’Altopiano sito ad Oriente. Frattanto
nelle nostre plaghe ebbero a moltiplicarsi i kyllyrioi, i semi schiavi di cui parla Erodoto: gente che doveva
lavorare per la vicina polis di
Akragas, senza libertà di movimento, senza diritti civili se non quelli di non
potere essere venduti o allontanati dalla terra che lavoravano, potendo
conservare la propria famiglia e la propria vita comunitaria. I reperti
numismatici che talora si sono rinvenuti nel nostro territorio sono i soli
indici della loro presenza.
E' certo che sino a quando non
si faranno scavi come quelli che gli Adamesteanu e gli Orlandini ebbero a
condurre nel circondario di Gela attorno agli anni cinquanta, o più
recentemente il La Rosa a Milena, a noi non resta che avventurarci in vagule
congetture.
In una
campagna di scavi del 1960, furono fatte importanti scoperte presso
Vassallaggi, in S. Cataldo, e si attribuì a quella località la nota cittadina
di Motyon
della Biblioteca di Diodoro Siculo (Kokalos, VIII 1962). Tramontava
definitivamente il sogno accarezzato da Serafino Messana nel secolo
diciannovesimo di assegnare quel nome greco al nostro paese. La sua teoria
della 'metatesi' di Motyon che diventa «Casalmotyo e perciò Casalvecchio» - e
dire che Serafino Messana ignorava le teorie linguistiche del Ciaceri che vuole
Mothion una grecizzazione del preesistente 'Mutuum' - svanisce irrecuperabilmente.
Tinebra Martorana già rifiutava quella teoria con l'elegante 'non liquet' (non risulta) preso a prestito da Filippo
Cluverio. Oggi, liquet (risulta)
l'inattribuibilità di Motyon a Racalmuto e dintorni: la località è dagli studiosi concordemente ubicata
attorno a S. Cataldo o comunque nei pressi di Caltanissetta.
Quando vi fu dunque l'attacco di
Ducezio all'avamposto di Akragas, Motyon, nel 451 o nel 450 a.C., l'onta
dell'invasione non riguardò queste nostre contrade: per quei tempi, S. Cataldo
era a distanza ragguardevole: quei nostri antenati dovettero però fornire grano
e vettovaglie e vite umane in quella guerra tra Akragas, sostenuta dai
siracusani, e l'esercito di Ducezio, il siculo-ellenizzato di Mineo. Per
Racalmuto passavano di sicuro gli opliti agrigentini. La rete viaria di allora
non doveva essere granché diversa da quella della fine del secolo scorso.
Frattanto
Racalmuto, territorio rurale di Akragas, perdeva usi e costumi sicani,
dimenticava la madre lingua per storpiare un’aliena lingua dorica, e si
dedicava alla coltivazione dell'ulivo, alle vigne, alla vinificazione per i
padroni di Agrigento. Insieme naturalmente al grano, merce di scambio per i
traffici agrigentini con la madre patria greca o con i vicini cartaginesi. La
continuità degli autoctoni - pastori e contadini - persisteva certo, ma in via
sotterranea e ovviamente subalterna, priva di ogni esteriorità e senza lasciare
alcuna testimonianza ai posteri.
Racalmuto
continuava a riflettere sbiaditamente la vicenda storica di Agrigento. Restava
pertinenza rurale, piuttosto disabitata, senza monumenti ragguardevoli, con una
popolazione sfruttata e vessata. Periferia agricola della Polis, dunque, al tempo degli splendori di Terone, il tiranno
agrigentino legato anche con vincoli di parentela con quello di Siracusa,
Gelone. Pindaro esaltava, a pagamento, Agrigento come la più bella città dei
mortali. Racalmuto doveva fornire grano e tributi per consentire ai tiranni
agrigentini di equipaggiare le costosissime corse dei carri a quattro cavalli
nei giochi olimpici della lontana Grecia.
Dopo, chi vinceva commissionava le famose odi a Pindaro, statue a scultori
greci e profondeva doni ai santuari di Olimpia.
A Racalmuto, sulla cui economia agricola
quegli eventi ebbero a pesare, giunse, sì e no, una flebile eco, se qualche
signorotto di Agrigento ebbe a recarsi nelle proprie terre per refrigerarsi in
qualche sua villa sulle pendici del Serrone durante la canicola estiva. Alcuni
versi delle Olimpiche di Pindaro su quella vittoria col carro di Terone nel 476
a. C. ebbero ad incantare qualche nostro antenato, incolto ma sensibile
all'alta poesia.: «certo per i mortali
non sta/ fissa una soglia di morte,/ né quando un giorno figlio del sole/
s'acquieterà alla fine in pura felicità:/ flutti diversi, momenti alterni/ di
gioia e d'affanno vengono agli uomini» eran poi versi da avvincere anche
l'animo del contadino greco, intento a riverire il suo padrone, specie se
questi li recita mirando le stelle cadenti del cielo senza fine dell'estate
racalmutese. E qui da noi circolavano anche le monete col granchio agrigentino,
testimonianza di commerci, esportazioni di grano e presenze greche.
Sfiora la locale società
contadina la nebulosa vicenda di Trasideo, figlio di Terone, «violento ed
assassino», per Diodoro Siculo. La sua
cacciata da Akragas, per il passaggio ad un regime democratico, fu forse
neppure avvertita. Non sapremo però mai
se Racalmuto fu coinvolto nella successiva confusione che venne a determinarsi
per lo sconvolgimento nella distribuzione delle terre su nuove basi.
Dopo il 427 a. C., Akragas si
acquieta, entra nella riservatezza. Se Siracusa coinvolge Imera, Gela e forse
Selinunte nella sua guerra contro Lentini, a sua volta sostenuta da Camerina,
Catania e la piccola Nasso, Akragas si mantiene neutrale e fa affari con tutti
vendendo il suo grano ad entrambe le parti contendenti e lucrandovi sopra per
un benessere economico, di cui dovette goderne anche Racalmuto, sia pure in
minima parte. Sono queste, certo, ipotesi, ma ci suonano attendibili.
Atene - con
Alcibiade che credeva di potere fagocitare la Sicilia in un guerra lampo
ritenendola una terra di imbelli popolazioni bastarde - si avventura, nel 415
a. C., nella guerra contro Siracusa. Subisce, l'esercito ateniese, una
disastrosa sconfitta. Atene, con 40.000 uomini agli ordini del suo più esperto
generale, Demostene, ritenta l'impresa. Siracusa trova alleati a Sparta, a
Gela, Camerina, Selinunte Imera e persino tra i siculi di Kale Akte. Quelle
tragiche vicende che portano alla tremenda disfatta degli ateniesi trovano
risalto nelle memorabili pagine di Tucidide. Akragas, come al solito, sta a
guardare; ancora una volta è neutrale, alla stregua di Cartagine e del settore
fenicio della Sicilia. In quel trambusto, Akragas ha modo di prosperare con i
profitti di guerra. Racalmuto, come sempre propaggine rurale di quella polis, ne segue sicuramente le sorti,
intensificando l'agricoltura e la pastorizia. Ma, attorno al 406 a. C., con
l'ascesa di Dionisio I alla tirannide di Siracusa, per Akragas fu l'inizio del
declino. Per converso, Racalmuto poteva affrancarsi dal giogo della vicina polis akragantina.
Nel 406 a.C., fallito il
tentativo di Ermocrate di impossessarsi di Siracusa, Akragas iniziò il suo
ciclo storico di colonia punica. Un esercito africano numeroso e potente -
anche se ben lontano dall'astronomica cifra di 120.000 uomini, come vorrebbe
Diodoro - ebbe come primo bersaglio l'opulenta Agrigento. Gli aspri
combattimenti tra siracusani e cartaginesi durarono sette mesi, nell'imbelle indifferenza
dei greci agrigentini. Nel dicembre del 406, per Akragas fu, però, la fine:
fuggirono i cittadini a Leontini e la città fu abbandonata. I cartaginesi si
diedero ai saccheggi ed alla spoliazione delle tante opere d'arte, ivi compreso
- pare - il toro di bronzo di Falaride. Racalmuto fu per quei tempi terra
lontana: niente saccheggi dunque, anzi un afflusso di cittadini agrigentini
dovette verificarsi. Le disgrazie agrigentine finirono col dare enfasi ad un
risveglio demografico nel vecchio centro sicano sito nel nostro fertile
altipiano. Quegli agrigentini che vi avevano fattorie e ville, ebbero di certo
a preferire le note località racalmutesi all'angustia dell'esilio in quel di
Lentini.
Dionisio il
giovane, un ventiquattrenne rampante, si impossessava frattanto di Siracusa.
Trattava con i cartaginesi ed Akragas cadeva nella mediocrità dell'epikrateia africana. La popolazione
poteva ritornare a casa, ma per una umiliante sudditanza punica. Dal 405 al 264
a.C. la storia di Agrigento emerge solo per qualche barlume che le vicende
siracusane vi riflettono. E' comunque un
ruolo subalterno alla politica ed alle fortune di Cartagine: da una parte,
commercio, relativo benessere, vivacità economica; dall’altra, sudditanza
politica e remissività verso la civiltà africana d'oltremare. Una tassazione
gravava sulla popolazione cittadina - ora blanda, ora esosa, a seconda delle
esigenze cartaginesi.
Crediamo
che in tale contesto Racalmuto ebbe tempi non duri: i nuovi dominatori africani
erano gente di mare per penetrare nelle impervie e infide vallate racalmutesi.
Per altri versi, si apriva qui un mercato proficuo per quei tempi ed i suoi
prodotti agricoli potevano trasformarsi in moneta contante, idonea ad
un'economia vivace, se non addirittura prospera. Il male di Akragas si
tramutava in buoni affari per Racalmuto.
L'archeologia
e la numismatica attestano qualcosa di più delle fonti letterarie: sappiamo che
artigiani greci e non greci furono chiamati a coniare le cosiddette monete
siculo-puniche. Tinebra Martorana scrive di monete con effigi di improbabili
scheletri e potrebbe trattarsi degli oboli di Motya o delle monete con la
spiga. Per noi, quei reperti numismatici attestano proprio la presenza dello
scambio cartaginese nelle terre racalmutesi di quei secoli.
Sempre il
Tinebra Martorana ci testimonia del
rinvenimento di monete «di argento [aventi] da una parte un cavallo alato ed al
rovescio il capo armato di un guerriero». Trattasi senza dubbio di pegasi che ci richiamano le dittature siracusane di
Dione o di Timoleonte (357-317 a.C.). In quel periodo, il territorio
racalmutese non fu durevolmente assoggettato a Siracusa. I segni monetari
palesano dunque un libero scambio: grano, orzo, ma anche vino, olio e prodotti
caseari del paese prendevano la via dell'oriente siciliano oltre a quella del
mare africano. Ne derivò un tenore di vita evoluto da consentire tumulazioni di
lusso ed alla greca. Non possiamo non credere al Tinebra Martorana quando
scrive: «In contrada Cometi,
.... si rinvennero sepolcreti d'argilla
rossa, resti di ossa, lumiere antiche, cocci di vasi» e le monete di cui
abbiamo detto sopra.
LA PARENTESI CARTAGINESE
Attorno al
282 a.C. si affaccia sul proscenio della storia un tiranno agrigentino di un
qualche rilievo: Finzia. Fu lui a radere al suolo Gela e a trasportarne la
popolazione nell'attuale Licata: in questa località il tiranno costruì una
città di stile greco, cinta di mura e dotata di agorà e di templi. Racalmuto dovette essere terra subalterna a
Finzia e dovette contribuire quindi al sostegno finanziario delle mire
egemoniche del tiranno agrigentino. Fu però vicenda storica di breve respiro.
Sparisce ben presto Finzia e Akragas, ritornata debole e faccendiera, non sa
ostacolare l'egemonia di Siracusa.
Nel 280 a. C. Siracusa sconfigge
Akragas. Cartagine, vigile ed interessata, arma un imponente corpo di
spedizione che presto raggiunge le porte di Siracusa. Akragas ed il suo territorio - ivi compreso Racalmuto - si estraniano, come
sempre, dalla lotta armata ed assistono piuttosto indifferenti all'intrusione
di Pirro, quel re dei Molossi, passato alla storia per le sue risibili
vittorie.
Akragas e Racalmuto, quale sua
pertinenza, rientrano nella zona di influenza di Cartagine e vi restano per
quasi un ventennio fino a quando la Sicilia fenicia incappa nelle mire
espansionistiche della repubblica romana.
Nel 264
a.C. scoppia la prima guerra punica e la vicenda siciliana si avvia
melanconicamente a divenire la scansione di un'oscura appendice della lontana e
suprema Roma. La Sicilia assurge all’inglorioso ruolo di provincia che secondo
Cicerone: «prima docuit maiores nostros
quam praeclarum esset exteris gentibus imperare». Già, la Sicilia fa
gustare per prima ai Romani quanto fosse bello soggiogare popoli stranieri. E,
ancora - dopo un secolo e mezzo - Sicilia, Akragas (e ancor più Racalmuto)
saranno per i romani nient'altro che «extera
gens» [gentucola straniera] da dominare e da proteggere solo perché «ornamentum imperi».
Roma
conquistò Akragas nel 261: dopo un assedio di sei mesi, le scomposte furie dei
romani si sfogarono ignominiosamente sui poveri cittadini agrigentini. Né beni,
né donne e neppure gli stessi uomini furono risparmiati: 25.000 dei suoi
abitanti furono venduti come schiavi.
Sette anni
dopo, sono i cartaginesi a rimpadronirsi della città, dopo avere distrutto la
flotta romana che ritornava dall'Africa. A farne le spese è ancora una volta la
città di Akragas: i cartaginesi bruciano ogni cosa, abitazioni e mura.
Riteniamo
che la terra di Racalmuto dovette risultare alquanto decentrata per subire
direttamente le atrocità di quella guerra punica. Ma i riflessi dovettero
esserci, dolorosi e devastanti. Lutti per i parenti che si erano stanziati
nella vicina polis; distruzione di
beni; spoliazioni, rapine, banditismo, vandalismi ed altro.
Le antiche fonti nulla ci dicono sui successivi due
decenni: verso lo spirare del secolo, Akragas
e la vicina Eraclea Minoa
appaiono saldamente in mano dei cartaginesi. Tra il 214 e il 211 a.C. un
massiccio movimento di uomini armati - si parla di 40.000 militari tra i quali
6.000 cavalieri - su 200 navi parte da Cartagine per raggiungere la Sicilia.
Punto di approdo è Akragas: sulle colture raculmutesi si abbatte il gravame di
apporti alimentari a quegli eserciti tutto sommato stranieri. Nel 212 a. C.
tocca a Siracusa cadere nelle mani dei romani ed il grande Archimede finisce
ucciso per mano militare. Per i cartaginesi, nel grande scontro con i romani,
le sorti belliche volgono al peggio: i fenici ripiegano su Agrigento, ultimo
baluardo delle loro difese. Mercenari numidi consumano l'ennesimo tradimento.
Akragas cade ancora una volta in mano dei romani; ancora una volta popolazione
e beni diventano bottino di guerra per una vendita sui mercati del mondo.
Levino a Roma fa il suo trionfale rapporto. Per Racalmuto inizia l'epoca di
agro ferace per le distribuzioni di grano nella lontanissima Roma.
IL
PERIODO ROMANO
Finite le
guerre puniche, il console Levino avvia la Sicilia al suo secolare sfruttamento
agricolo da parte di Roma. Dall'originaria Siracusa i gravami fiscali della
legge Ieronica si estendono all'intera Isola, a tutto vantaggio delle plebi
dell'Urbe: quell'estensione avviene con
la lex Rupilia del 132. E
così sotto il cielo di Roma una società di pubblicani appaltava la riscossione
delle tasse sul pascolo (scriptura) e sui trasporti
marittimi (portorium). Ma erano il grano, l'orzo, il vino, l'olio e i
legumi di Sicilia che, assoggettati a decima, prendevano la via del mare per
Roma.
Ma per uno dei soliti paradossi della storia, Racalmuto in
quel regime coloniale romano ebbe occasione e modo di sviluppo economico e
demografico: il suo suolo ferace ed anche la sua vocazione alla viticoltura
furono di sprone all'insediamento contadino. Niente grandi opere e neppure
edifici; non si ebbe manco un toponimo che resistesse all'oblio dei tempi.
Eppure, i segni di quel consorzio umano e sociale nel territorio di Racalmuto
sono giunti sino a noi: resti fittili, anfore, monete romane ed altre
testimonianze archeologiche.
Nella contrada di S. Anna agli inizi del secolo furono
rinvenute anfore in gran numero - forse proprio quelle che servivano agli
esattori romani per trasportare il grano o l'orzo a Roma - e mi si dice che i
proprietari dei poderi dell'epoca si affrettarono a farle sparire nelle voragini
del monte Castelluccio per il timore di espropri o molestie da parte delle
autorità.
E' tuttavia
noto un reperto di grande interesse che fu trovato da tal Gaspare Vaccaro nel
1782: esso ci attesta della organizzazione esattoriale delle decime agrarie a
Racalmuto da parte di Roma. Trattasi di una iscrizione latina pubblicata nel
1784 da Gabriele Lancellotto Castello, principe di Torremuzza, nel suo "Siciliae et adiacentium insularum veterum
inscriptionum - nova collectio..". A pag. 237 il principe archeologo
c'informa che l'anfora fittile rinvenuta a Racalmuto era una "diota"
(anfora per vino) nel cui manico [«in
manubrio diotae fictilis erutae»] poteva leggersi la seguente epigrafe:
C* PP. ILI* F* FUSCI
RMUS. FEC.
|
Il Mommsen diede credito al Torremuzza e
pubblicò tale e quale quell'epigrafe nei suoi ponderosi volumi (C.I.L. X, 8051, 40, pag. 870) ma amputandola
del riferimento alla diota
ed eludendo ogni commento prosopografico.
Chiaro appare,
comunque, il richiamo ad un personaggio di nome FUSCO, del tutto ignoto alla storia di Sicilia ma ben presente alla
prosopografia romana. Marziale augura al potente Fusco che «le smisurate sue
cantine diano ottimi mosti» (VII, 28); Giovenale ironizza sui ricchi Fusco
della Roma del suo tempo; un Fusco fu console romano con Domizio Destro ed
abbiamo anche un Cn. Pedanius Fuscus Salinator
e via di seguito. Ma una famiglia Fusco siciliana non sembra essere esistita.
Quello del vaso fittile di Racalmuto era dunque un romano
o in ogni caso un cittadino di Roma: un probabile esattore dunque e forse un
esattore delle decime sul vino di Racalmuto se ci fidiamo del Torremuzza quando
accenna a diote fittili e cioè ad anfore per il trasporto a Roma del vino, prelevato
in natura dal fisco romano sino a tarda età, come si evince dalle Verrine di
Cicerone.
Per quasi quattro secoli la vita agricola e contadina nei
dintorni di Racalmuto, sotto il dominio romano, trascorre senza lasciare
traccia alcuna. Gli studiosi ci avvertono che tutto il sottosuolo siciliano
divenne proprietà privata di Augusto, ma di miniere racalmutesi non si ha
notizia per quel periodo. Solo, sul finire del secondo secolo d.C., sotto
Comodo, secondo una non convincente lettura del Salinas, si registra una svolta
economica di grande risalto in Racalmuto: le miniere di zolfo, impiantate come
alcuni vecchi ancor oggi ricordano, vi presero piede.
Per oltre un millennio non se ne seppe nulla, finché
nell'Ottocento si rinvennero i cocci di talune forme romane, simili alle
'gàvite', recanti sul fondo i caratteri a risalto, e con scrittura alla
rovescia, indicativi dello stabilimento minerario.
Il primo ad
averne contezza fu l’avv. Giuseppe Picone, figlio di racalmutesi trasferitisi
ad Agrigento. All’Archivio di Stato di Roma si conserva una preziosa
corrispondenza tra il Picone, all’epoca ispettore degli scavi e dei monumenti
di Girgenti ed il Ministero, che risale
al 3 novembre del 1877. Emerge un’appropriazione indebita da parte del grande
tedesco ai danni del modesto avvocato con antenati racalmutesi.
Burocraticamente l’oggetto della corrispondenza si denomina: Mattoni antichi con bolli relativi alle
miniere sulfuree. Un ottocentesco alto burocrate del Ministero della
Pubblica Istruzione di quel tempo, il dott. Donati, interpella seccamente il
Picone:
Il dr. Mommsen reduce dal suo viaggio in Sicilia mi
parla della scoperta importante da lui fatta di bolli fittili con ricordi di
preposti alle miniere sulfuree nei primi secoli dell'e.c. - Sarò grato alla S.V.
se si compiaccia dare su tale oggetto i maggiori ragguagli.
L’interpellato
risponde in data 28 dicembre 1877 (Repertorio
al protocollo 1878 n.° 16) in termini dimessi ma di grosso risalto per la
storia delle miniere di zolfo racalmutesi al tempo dei Romani:
Furono or sono pochi anni scoverti nel bacino di
Racalmuto, e a considerevole profondità taluni mattoni antichi, con bolli, che
io raccolsi, e formano parte di questo museo comunale. In essi si vedono delle
iscrizioni latine, che, per difetto d'arte, venivano rilevate al rovescio di
che siano leggibili da sopra a sinistra, come le scritture orientali.
In uno di essi mutilato si legge (totalmente a
rovescio, n.d.r.) :
MANCIPYM/
SULFURIS
SICIL
Messa questa in rapporto alle altre iscrizioni pare
che vi manchi nella prima linea
EX. OF. (ex officina)
come si rileva in talune, ove si legge Ex officina
Gellii ec. ec.
Dallo stile uniforme e dalla paleografia risulta
sippure, che l'epoca sia quella di Antonino Domiziano e di altri, come dai
frammenti di altri bolli, ove si legge il nome di quegli imperatori, sì che
possa concludersi, senza tema di errare, che in quella stagione, la industria
zolfifera era fiorentissima nella provincia Girgentina.
L'esimio Dr Mommsen, che onorò di sua presenza questo
Museo, potrebbe dare alla E.V. maggiori schiarimenti e più dotte illustrazioni
che io non saprei. ([57])
Il Mommsen
fu poco grato al Picone: pubblica - unitamente al Desseau - i dati epigrafici
nei volumi del C.I.L. ([58]) ma si guarda bene dal ricompensare, neppure
con una semplice menzione, il nostro avv. Picone. Sulle ‘gavite’ romane è ormai
consistente la pubblicistica, ma in essa non si rinviene il minimo accenno a
chi per primo ebbe consapevolezza dell’importanza dei reperti solfiferi di
epoca romana, rinvenuti a Racalmuto. Successivamente vi è un’eco nel nostro
Tinebra Martorana che racconta di reperti della specie regalati dalla famiglia
La Mantia all'avv. Giuseppe Picone di
Agrigento e finiti, quindi, al Museo Archeologico di Agrigento.
All'inizio
di questo secolo, il SALINAS aveva modo di rinvenire proprio a Racalmuto alcuni
reperti di quelle che Mommsen impropriamente, ma con fortuna, ebbe a chiamare «tegulae sulfuris». Al Salinas, invero,
furono vendute per il Museo di Palermo quattro lastre con iscrizioni da un contadino
nostro compaesano che le aveva rinvenute nella costruzione di un sepolcro,
provenienti presumibilmente dalle miniere dei dintorni di Santa Maria.
Quell'insigne archeologo procedeva ad una
lettura oggi non piùconvincente che pubblicava sul bollettino dell'Accademia dei Lincei. ([59]) Per lui,
l’iscrizione:
EX PRAEDIS
M. AURELI
COMMODIAN
che si
poteva leggere nell’esemplare cedutogli per denaro da un contadino di
Racalmuto, comprovava la «provenienza dai predii dell’imperatore Marco Aurelio
Commodo Antonino» ed era anche atta a far desumere dalla titolatura la data
esatta; ciò «in quanto Lucius Aurelius Commodus, salendo al trono nel 180,
s’intitola Marcus Aurelius Commodus
Antoninus, per esser poi di nuovo, nel 191, Lucius (Aelius) Aurelius Commodus (Eckhel, Doctr. Num. VII, 134 segg., 102 seg. C.I.L. VI, 992).» In
definitiva, «per siffatta ragione le nostre matrici sarebbero da attribuire al
periodo tra il 180 e il 191.»
Già, il
dotto Michelangelo Petruzzella mi faceva notare che quella trasposizione di
COMMODIAN in Commodo non era molto attendibile. A conferma, il prof. Salmeri [60] optava per
la formula: ex praedis/ M. Aureli/
Commodiani, pur non ignorando la tesi del Salinas, e continuava: «al centro
della fascia compresa tra l’ultima linea e il margine inferiore è raffigurato,
a rilievo come le lettere, un caduceo; mentre tra la prima linea e il margine
superiore compaiono – come sigma – un
ramo (di palma) e due stelle ad otto punte. Il nesso ex praedis, di uso comune nei bolli laterizi urbani, seguito dal
nome del dominus al genitivo, nel
secondo secolo d. C., sta ad indicare il “fondo” da cui viene estratta
l’argilla per la produzione di mattoni e di altri manufatti di terracotta.
Nelle lastre siciliane esso rimanda invece al “fondo” da cui provengono i
blocchi gessosi che, una volta sottoposti a fusione, daranno luogo alle forme
di zolfo. Il praedium in questione,
stando ai dati di rinvenimento delle lastre, deve avere occupato tutta o una
parte del territorio degli attuali comuni di Milena e di Racalmuto, che del
resto sono stati tra i primi nell’area nisseno-agrigentina ad essere stati
interessati, dopo una lunga interruzione, della ripresa dell’attività
estrattiva dello zolfo nel XVIII secolo [61]; suo
proprietario risulta il liberto imperiale M. Aurelio Commodiano [62], da
collocare nei decenni finale del II secolo d. C. L’assenza di ulteriori
specificazioni dopo la formula ex praedis
M. Aureli Commodiani, in particolare del nome di un conduttore, induce a
ritenere che le cave di zolfo dell’area Milena/Racalmuto, nel tempo a cui
risalgono le lastre, venissero sfruttate direttamente dal proprietario. […]
Quanto alla manodopera impegnata nel praedium di Commodiano, essa sarà stata costituita da
schiavi e da liberi salariati; nel De
officio proconsulis di Ulpiano si prevede inoltre che il governatore possa
comminare quale condanna il lavoro in una sulpuraria
[63]»
L’avere
scisso l’epigrafe dall’imperatore Commodo per collegarlo al liberto Commodiano
comporta, però, uno scardinamento della ricognizione temporale del Salinas.
Continuare ad assegnare il reperto agli ultimi decenni del II secolo d. C. pare
fragile congettura, né la figura di quel liberto può venire invocata per
datazioni certe, come invece la primigenia lettura consentiva. Neppure può affermarsi
che il liberto Commodiano fosse davvero il dominus
delle miniere: più probabile che fosse invece il proprietario di un “fondo”
agrigentino ove si potevano benissimo fabbricare le “gàvite” come altri mattoni
e manufatti di terracotta. Nulla proprio ci assicura che Comodiamo sia vissuto
a Racalmuto, a capo di una miniera di zolfo che, stante il luogo del
ritrovamento della “tegula” o “tabula” sulphuris,
potova essere propinqua alla pirrera di
la Ciaula che mastro Liddu Casuccio
seppe ben coltivare nella seconda metà del XIX secolo.
Ma, se fu
assente Commodiano, certo vissero nei dintorni di Racalmuto, tra il Castello
Chiaramontano e la Piana di la Cursa minatori romani - schiavi, salariati e di
certo damnati ad sulpurariam, come
dire una specie di galeotti – le cui condizioni di vita furono molto simili
alla ottocentesca sorte dei minatori che ci hanno descritta Franchetti e
Sonnino nella loro Inchiesta in Sicilia. [64]
Che le
“gàvite” fossero fabbricate lungi dalla miniera, sembra comprovato dalle «tegulae» che sono state rinvenute nel
1947 in località Bonomorone di Agrigento. E qui non attestavano la presenza di
miniere di zolfo perché, come ebbe a scrivere il Prof. Pietro Griffo ([65]), si
trattava di un deposito di cocci di una figlina
(officina di vasaio): dunque il commercio avveniva ad Agrigento, ma la
produzione era altrove ed in particolare, per quel che ci riguarda, a
Racalmuto.
Biagio
Pace, con taglio più letterario che scientifico, così descrive quell'attività
mineraria: «Si tratta di tegole quadrate di terracotta, di circa 40 cm. di
lato, che recano in rilievo, rovesciate, delle epigrafi... Tegole evidentemente
poste, come illustrò il Salinas, nei cassoni destinati a contenere lo zolfo
liquido e che dobbiamo immaginare del tutto identici a quelli che si adoperano
tuttavia sotto il nome di gàvite, nel
fondo dei quali sono parimenti incise le lettere della miniera, che in tal modo
vengono riprodotte in quelle caratteristiche forme falcate di zolfo, le balate, che ognuno che abbia transitato
per le stazioni zolfifere di Sicilia ha notato.» ([66]).
Pare,
comunque, che l'attività mineraria solfifera a Racalmuto si sia presto estinta
nell'antichità: iniziata, a seguire il Salinas ed anche il Salmeri, attorno al
180 d.C., autorevoli autori la ritengono protratta sino al IV secolo d.C. Dopo,
per oltre 14 secoli, nessuna notizia su miniere di zolfo a Racalmuto. Risale,
invece, agli inizi del Settecento una nota negli archivi parrocchiali della
Matrice che ha attinenza con una miniera, ma non di zolfo, sibbene di salgemma.
Sotto la data del 22 ottobre 1706 il cappellano dell'epoca registra
un infortunio sul lavoro: Giacomo Giangreco Cifirri, di 34 anni, sposato con la
sig.a Nicola, periva sotto una valanga di massi, mentre scavava in una salina.
Il giovane minatore veniva sepolto nella Matrice. «In fovea salinae, ob ruinam
salis repentinam, defunctus est», è
la malinconica annotazione in latino.
I TEMPI DELLA DECADENZA DELL’IMPERO ROMANO (Secc. II-IV d.c.)
Se
la tegula rinvenuta e studiata dal
Salinas e dal Salmeri si colloca negli ultimi decenni del secondo secolo d.C., quella di cui riferisce il
Picone sembra doversi datare nel IV secolo d.C. ([67]). In epoca
di totale declino dell’impero romano, andrebbe pure collocato il noto sarcofago
del Ratto di Proserpina ([68]). Rispetto
a quanto si è detto e scritto su tale testimonianza, per noi resta ancor valido
l’appunto della Guida del T.C.I. del 1968: «Il Castello, - è detto relativamente a Racalmuto ([69]) - fondato
tra il ‘200 e il ‘300 da Federico Chiaramonte, nell’interno conserva un
sarcofago romano del sec. IV, con la raffigurazione del Ratto di Proserpina.» La coincidenza tra la data del sarcofago e
quella della tegula studiata dal
Picone consente suggestive ipotesi storiche. Le miniere di zolfo erano dunque
attive dal II al IV secolo d.C. e l‘insediamento umano è molto probabile che
gravitasse attorno alla zona in cui ora sorge il Castello. Noi abbiamo potuto
appurare che sotto la costruzione vi è materiale di risulta che pare trattarsi
di reperti ceramici databili ad epoca post-normanna. In ogni caso, nei secoli
del tardo Impero, ferveva l’attività mineraria là dove nell’Ottocento greve è
stato lo sfruttamento dello zolfo. Si attaglia molto bene anche a Racalmuto ciò
che il De Miro annota in una relazione pubblicata in Kokalos: «Accanto a
famiglie di personaggi politici di rango, la prosperità e l’ambizione di classi
medie possono essere state legate alla produzione e al commercio di zolfo per
cui, proprio dopo la metà del II secolo d.C., si rilevano segni di una attività
proficua sulla base delle non poche tegulae
sulfuris. Questo periodo di ricchezza continua anche nel III sec. d. C. con
i sarcofagi marmorei [...] La produzione era ancora attiva nei primi decenni
del IV secolo d. C.; [quindi, subentra] il silenzio dei documenti». ([70]) Sempre
secondo il De Miro, la tegula
rinvenuta dal Salinas attesta la proprietà imperiale della miniera di zolfo,
data la formula Ex praedis M. AURELI
([71]).
I dati
archeologici disponibili permettono comunque di abbozzare dati descrittivi
sull’industria solfifera racalmutese ai tempi dei Romani, nonché alcune linee
evolutive di quell’antica economia mineraria. «Per quanto riguarda la
produzione - annota il De Miro ([72]) - pur
essendo nulla rimasto delle antiche miniere, evidentemente obliterate da quelle
di età moderna, il processo di estrazione e di preparazione dei pani di zolfo
da commerciare già Biagio Pace aveva indicato come non dovesse differenziarsi
dai sistemi in uso ad Agrigento nel XIX secolo.»
Pare che in
un primo momento ci fosse una organizzazione specialistica che, «distinguendo
tra proprietà del fundus e attività
mineraria, affida[sse] la gestione della miniera e la produzione a “officine”..
Questa tendenza nel III sec. d.C. e oltre porta al monopolio imperiale delle
miniere di zolfo in Sicilia, con una organizzazione razionalizzata e articolata
in cui, unitamente alla proprietà imperiale emerge, in posizione evidenziata,
la figura del concessionario titolare dell’officina,
dell’attività industriale, e in posizione subordinata [..], quella del conductor della miniera.»
Successivamente appare «il manceps,
figura che assume sempre maggior rilievo, sicché in età costantiniana, sparita
l’indicazione dell’officina e del conductor,
essa è la sola registrata dopo l’indicazione dell’imperatore. [..] Il manceps tende ad assumere per appalto
l’intera amministrazione delle miniere di zolfo imperiali, con un significato
molto vicino a quello che, nello stesso periodo, indicava coloro che
attendevano all’amministrazione del cursus
publicus e delle stationes. [...]
Quale sia stato l’evolversi ulteriore della organizzazione industriale delle
miniere di zolfo in Sicilia non è dato sapere. Certo è che dopo il IV sec. d.C.
l’attività si affievolì e si spense. E ciò può essere avvenuto contemporaneamente
al passaggio della proprietà terriera assenteista imperiale e più tardi
ecclesiastica in gestione privata, nel quadro di un’economia che ormai ignorava
lo sfruttamento delle miniere. La destinazione della produzione dovette
superare l’ambito isolano, e in particolare dall’Emporium di Agrigento doveva partire il commercio diretto con
l’Africa. [..] Si ha quindi l’impressione che, caduta in disuso l’industria
dello zolfo, gli interessi economici e gli investimenti si concentrino
esclusivamente sulla campagna [..] Nel IV sec. il tessuto sociale agrigentino
si attiva, nell’ambito religioso, dell’apporto del Cristianesimo, conservando
il suo baricentro verso l’Africa: ceramica sigillata tarda africana e lucerne
sono comune corredo delle sepolture ipogeiche.» ([73])
In tale
contesto, pensiamo ad un’operosa presenza di officinae, conductores e,
quindi, di mancipes in quel di
Racalmuto, con centro abitato gravitante più verso l’area del Castello che
verso Casalvecchio. Ove ora si ergono le torri potrebbe esservi stata una
necropoli, se il noto sarcofago fosse stato utilizzato fin dal IV sec. d. C. là
dove, poi, per secoli è rimasto. I resti di tegulae,
rinvenuti presso S. Maria, rafforzano ipotesi della specie.
Dopo il IV
secolo, uno spostamento del centro abitativo in contrada Grotticelli, è per tanti versi attestato. La fine dell’industria
estrattiva e la desolazione che ebbe a determinare il terremoto che devastò
l’Isola nel 365 d. C. spinsero, probabilmente, a questo cambiamento abitativo.
Ma i resti archeologici che ormai vanno affiorando con ritmo crescente e con
maggiore attenzione da parte delle autorità, attestano necropoli bizantine
sotto il Ferraro e soprattutto un centro abitato – che per padre Salvo è il
Gardutah dell’Edrisi – sotto la grotta di fra Diego, come già si è avuto modo
di accennare.
I
TEMPI DELL’OCCUPAZIONE BARARICA
Tinebra Martorana fa un fugace accenno a Genserico ed ai
suoi Vandali ed a Totila re dei Goti solo per un richiamo storico dei più
generali eventi siciliani dell’epoca, non sapendo che altro dire per quel che
ha più stretta attinenza alle vicende locali. Come abbiamo visto, una qualche
eco di quelle dominazioni dovette esservi per i coloni abbarbicatisi ai
fascinosi costoni snodantisi tra il Caliato, Anime Sante, Grotticelle, Giudeo e
Casalvecchio. Eppure di questo sinora non abbiamo alcuna testimonianza né
scritta né archeologica. Il tempo a venire non sarà avaro di reperti
significativi, specie quando ci si deciderà a porre in atto scientifiche
campagne di scavi nella zona, invece di ricoprire frettolasamente quello che
casualmente affiora.
Nei pressi di Racalmuto sorgono le rovine di Vito Soldano:
ne hanno scritto M.R. La Lomia (1961) ed E. De Miro (1966 e 1972-73) ([74]), ma
non può dirsi che per il momento disponiamo di notizie esaurienti, specie sotto
il profilo storico. Tombe riccamente corredate sono state rinvenute in contrada
Cometi: non è da escludere che lì vi fosse una qualche necropoli riguardante il
finitimo centro di Vito Soldano. Purtroppo l’avida ingordigia dei tombaroli ha
sinora impedito seri e chiarificatori appuramenti archeologici. Per tutto il
periodo romano, e per quello successivo delle scorrerie barbariche, sino
all’avvento dei Bizantini, i vari coloni sparsi nel territorio di Racalmuto
potevano pur bene far capo all’importante insediamento di Vito Soldano, di cui
si ignora il toponimo antico.
Passando alle vicende del rado colonato racalmutese del V
e VI secolo d.C., già scarse sono le conoscenze che si hanno per la più
generale storia della Sicilia; circa le nostre parti sono disponibili
scarsissimi lumi: qualche indizio e talune indicazioni di troppo generica
portata.
Se nel 439
la Sicilia fu occupata dai Vandali, a Racalmuto un qualche sentore ebbe ad
aversi. Non certo in fatto di religione, giacché l’ostilità di Genserico verso
il cattolicesimo e la sua propensione alle conversioni di massa all’arianesimo
difficilmente potevano colpire la nostra plaga, per nulla organizzata sotto il
profilo civile e, per quello che mostra l’archeologia, men che meno sotto il
profilo religioso. Ma se il vescovo cattolico agrigentino - se vi fosse, chi questi fosse e che rilievo
avesse, non si sa - ebbe a subirne una qualche conseguenza, un qualche
riverbero dovette esservi sull’eventuale comunità cristiana racalmutese. Di certo,
quando Genserico fu sconfitto ad Agrigento da Ricimero, conseguenze di quella
guerra ebbero a ricadere sull’economia agricola di Racalmuto. Se crediamo a
Sidonio Apollinare [75], Ricimero
con quella vittoria poté ripristinare la coltivazione dei campi, e qui, a
Racalmuto, lo sbandamento che le scorrerie di Genserico e dei suoi Vandali
ciclicamente determinavano, si diradò per qualche tempo e quindi si ebbe
prosperità con regolari raccolti granari e soddisfacenti vendemmie.
I Vandali dopo il 463 riescono, in qualche modo, a
prendere possesso della Sicilia e la soggiogano sino all’anno in cui, caduto
l’impero romano d’Occidente (476), Genserico la restituisce ad Odoacre: vicende
queste riflessesi sulla plaga racalmutese con incidenze e modalità sinora del tutto
ignote.
La Sicilia passa quindi, nel 491, ai Goti. Si è certi di
un buon governo da parte di Teodorico. Vi sono, però, persecuzioni ariane
contro i cattolici. Per i coloni di Racalmuto che cosa potesse significare
tutto ciò va affidato a congetture più o meno fantasiose, in mancanza di fonti,
non solo documentali, ma anche archeologicche.
Il rivolto storico dei Goti a Racalmuto persiste sino al
535, allorché Belisario riesce a congiungere l’isola all’Impero d’Oriente:
inizia la civiltà bizantina racalmutese che ebbe incidenze ben più rilevanti di
quelle arabe, non foss’altro perché durò di più (quasi tre secoli contro i due
e mezzo dell’insediamento berbero).
IL TEMPO
DEI BIZANTINI
Attorno al VI secolo d.C. a Racalmuto si ebbe un discreto
diffondersi della civiltà bizantina: ne è probante testimonianza il tesoretto
di monete studiato dal Guillou. Aspetto singolare è il luogo del ritrovamento
delle monete, dietro la Stazione Ferroviaria, in contrada Montagna. Ciò fa
pensare che la zona fosse tutt’altro che disabitata. E dire che il centro
abitativo più intenso, per tradizione, viene individuato piuttosto lontano, ad
un paio di chilometri circa, attorno alle Grotticelle.
Per Biagio
Pace le Grotticelle erano - come si è detto - un ipogeo cristiano. I Bizantini
racalmutesi, ormai decisamente convertitisi al cristanesimo e sicuramente
grecofoni (il fondo di lucerne del tempo colà rinvenute portano marchi in
greco), curavano la loro cristiana sepoltura ed è un peccato che vandali locali
abbiano frugato all’interno di quelle tombe, distruggendo un patrimonio
archeologico d’incommensurabile portata storica. Ma la zona resta pur sempre ricca di reperti
e saranno gli scavi futuri a fornire materiale esplicativo di quel periodo
storico, oggi affidato solo alle fantasie degli eruditi locali. (Invero neppure
il Guillou è esaustivo ed il competente Griffo ([76]) retrocede
la datazione delle monete al V secolo: data improbabile se le effigi degli
imperatori bizantini sono di Tiberio II ed Eracleone, di oltre un paio di secoli
posteriori. [77] )
Un
interessante rinvenimento archeologico si ebbe nel 1990 in contrada Grotticelli, ma le pubbliche autorità si sono per il momento decise a imporre la
ricopertura e si sono peraltro limitate
ad imporre un vincolo sul territorio interessato. Nel decreto della Regione
Siciliana del 10 luglio 1991 viene sottolineata «la notevole importanza
archeologica della zona denominata Grotticelle nel territorio di Racalmuto
interessata da stanziamenti umani di epoca ellenistica-romano-imperiale,
costituita da ingrottamenti artificiali ad arcosolio e da strutture murarie
abitative affioranti». Non viene precisato altro. Tanto comunque è sufficiente
a comprovare un più o meno vasto insediamento in quella zona a partire da
un’epoca che per quello che abbiamo detto prima può farsi risalire ai tempi
della caduta dell’impero romano.
L “ipogeo
cristiano” di Biagio Pace, ma più appropriamente bisognerebbe parlare di
“epigeo”, si troverebbe in «quell'abitato prearabo che fa postulare il nome di
Racalmuto» ([78]) Nostre
personali ricerche ci fanno pensare che
lo spunto del grande archeologo poggerebbe su questo passo del Tinebra
Martorana: «..alla contrada Grutticeddi
esiste un poggetto di masso scavato in una grotta; da molti mi fu assicurato
che in quella grotta furono rinvenuti dei sepolcri scavati nel masso con resti
di ossa». Da qui - ad esser franchi - all'ipogeo cristiano ce ne corre. Una
ipotesi dunque, ma tutt'altro che inattendibile come i recenti ritrovamenti nei
dintorni sembrano comprovare. Di certo sappiamo che le Grotticelle erano una plaga abitata anche al tempo dei bizantini. Grotticelle e dintorni poterono dunque
essere fattorie o pertinenze di 'massae' soggette al papa Gregorio nel VI secolo o
alla chiesa di Ravenna oppure costituire beni propri della corte di
Bisanzio. Sulla scia di autorevoli
storici ([79]) è pur congetturabile una
sorta di continuità tra l'assetto agrario dell'epoca bizantina e quella della
Sicilia post-araba. La frattura saracena a Racalmuto, come altrove, fu profonda
ma non insormontabile.
L'ultimo
reperto relativo a Racalmuto pre-arabo (stando almeno a quanto per adesso
disponibile) resta, tuttavia, il cennato ripostiglio di aurei imperiali (oltre
duecento) rinvenuto casualmente in contrada Montagna. Sul ritrovamento delle monete
a Racalmuto, ho sentito varie versioni
pittoresche sin dalla prima infanzia: lavori di scasso per l'impianto di una
vigna; scoperta del tesoro da parte di operai, tra i quali un contadino di non
eccelse capacità intellettuali; rapacità del padrone del fondo; imprevista
denuncia del minorato; intervento dei carabinieri e sequestro delle monete
finite al Museo di Agrigento. A quel ripostiglio si riferisce André Guillou ([80]), secondo
il quale è da collocare nei secoli VII-VIII il «numero notevole di tesori di
monete ... dispersi nell'isola», tra i quali le monete di Racalmuto costituite da «205 pezzi, riferentisi a Tiberio II - Héracleonas».. ([81]) Quelle monete sono oggi custodite in una sala
sempre chiusa del Museo Agrigento, quasi a simbolo del pubblico oscuramento
della nostra antica storia locale. Se non fosse stato per il francese Guillou,
le ultime vicende bizantine di Racalmuto sarebbero restate nell'oblio o
inficiate da errori di datazione ([82]).
RACALMUTO, VILLAGGIO ARABO
Caduta Agrigento sotto gli
Arabi (829), il più o meno fiorente villaggio bizantino di Casalvecchio fu
inglobato dai berberi. Identica sorte per l’agglomerato – se vi fu – nel
ripiano di Gargilata a ridosso del costone di fra Diego. Di congetture se ne possono formulare tante,
di verità storiche solo flebili barlumi.
Che cosa ne
fu di quelle abitazioni? Le attuali conoscenze archeologiche sono insufficienti
per teorizzare alcunché. Sembra però probabile che i coloni un tempo colà
dimoranti abbiano finito con l’abbandonare le loro case e spostarsi altrove,
oppure, come a Gargilata, finire per convivere.
E che può
dirsi della religione? E’ opinione diffusa che gli Arabi fossero tolleranti, ma
noi non sappiamo né di moschee né di chiese cristiane aperte al culto in quel
tempo nella zona dell’intero altipiano. Ed in mancanza di documentazione siamo
lasciati liberi di credere a quel che vogliamo e propendere per tesi di
eclissamento della religione cattolica o di sua sopravvivenza, come di un
fiorire del culto islamico tra l’Est del Castelluccio
ed i luoghi del tramonto sul crinale della Montagna,
se non addirittura a riparo delle balate di Gargilata.
[1] ) Fulco Pratesi e Franco
Tassi, Guida alla natura della Sicilia,
pp. 21-22, Mondadori, Milano 1974.
[2] ) ibidem, p. 204
[3]) Ferdinando Milone: Sicilia, la natura e l’uomo - Torino, 1960, pag. 13.
[4]) L. Trevisan: Les mouvements tectiques récents en Sicile -
Hipothèses et problèmes.
[5]) Luigi Romano: Idrogeologia della propagini sud-ovest dell’altipiano di Racalmuto
-GEOLOGIA - Università di
Palermo - Facoltà di Scienze - Anno Accademico 1978-79 , pag. 6
[6] ) L. Mauceri: Notizie su alcune tombe .. scoperte fra Licata e Racalmuto, in Ann. Inst. Corr. Arch., 1880
[7] ) S. Tine': L'origine delle tombe a
forno in Sicilia, in Kokalos 1963, p. 73 ss.
[8] ) Leonardo Sciascia, L’antimonio, in Opere 1956-1971 – pag. 384, Bompiani Milano, 1987.
[9] ) ibidem, p. 384
[10] ) Sac. Calogero Salvo – Ecco tua madre – pp. 13-14 - Racalmuto
1994.
[11] ) Vincenzo Tusa e Ernesto
de Miro – Sicilia Occidentale - p. 13 – Roma 1983.
[12] ) ibidem, p. 111
[13])
Presso l’Archivio Centrale dello Stato abbiamo rinvenuto la corrispondenza fra
il Mauceri ed il Comm. G. Fiorelli di Roma “sulle antichissime tombe fra Licata
e Racalmuto nella provincia di Girgenti”. Il Mauceri risulta essere ingegnere e
direttore dell’Ufficio Centrale di
Direzione in Caltanissetta delle Strade Ferrate Calabro-Sicule. (cfr. A.C.S. di
Roma - Fondo: ANTICHITA' E BELLE ARTI (AA. BB. AA.) 1° VERSAMENTO - BUSTA N.°
21 -
Fascicolo 40.5.2 ).
[14]) Luigi Mauceri: Notizie su alcune tombe ...
scoperte fra Licata e Racalmuto, in Ann. Inst. Corr. Arch., 1880, pag.
17.
[15]) Luigi Mauceri: op. cit. pag. 18.
[16])
Pietralonga, a dire il vero, non fa parte del territorio di Racalmuto ma del
finitimo Castrofilippo.
[17]) Vincenzo Tusa/Ernesto De Miro: Sicilia
Occidentale. - Roma 1983 - pag.
114.
[18] ) Dalle capanne alle “robbe” – La storia lunga
di Milocca-Milena – a cura di Vincenzo
La Rosa – Pro Loco Milena 1977 – p. 7
[19] ) ibidem, p. 15 e ss.
[20] )
Per maggiori dettagli cfr. Decima A.,
Werzel F.C., 1971 – Osservazioni
sulle evaporiti messiniane della Sicilia centro-meridionale. Riv. Min.
Sicil., 22, pp. 172-187.
[21] )
Per approfondimenti, cfr. Carobbi G.,
1971 – Trattato di mineralogia. Vol.
II – Firenze.
[22] ) Vedansi a Racalmuto, ad
esempio, le polle solfuree sopra Gibillini, in contrada Perciata.
[23]) Marcello Panzica La Manna, Aspetti del fenomeno carsico sotterraneo nel
territorio di Milena (CL) , in Dalle
Capanne alle “Robbe”, cit. p. 27 e ss.
[24] )
Fruibili sono le seguenti letture: Calvaruso
E., Cusimano G., Favara R., Mascari A., Panzica La Manna M., 1978, Primo contributo alla conoscenza del
fenomeno carsico nei gessi di Sicilia. Inghiottitoi di M. Conca (Campofranco –
CL), Atti XIII Congr. Naz. Di Speleologia, Perugia, (preprints); Cigna A..A., 1983, Sulla classificazione dei fenomeni carsici, Atti Congr. Naz. Di
Speleologia. Le Grotte d’Italia, (4), XI, 1983, pp. 497-505; Madonia P., Panzica La Manna M., 1987, Fenomeni carsici ipogei nelle evaporiti in
Sicilia, Atti Simp. Int. Il Cars. Nelle Evapor. In Sicilia, Le Grotte
d’Italia (4), XIII, 1986, pp. 163-189.
[25] ) ARCHIVIO VESCOVILE DI
AGRIGENTO - REGISTRO VISITE 1608-1609 - MONSIGNOR Dn VINCENZO BONINCONTRO -
VESCOVO DI GIRGENTI - (INDICE A PAG. 13: RACALMUTO PAG. 244 aggiunto: 203)
[27] ) ibidem,
f. 331
[28] )
Cosimo Marcenò – lineamenti floristici e vegetazionali del territorio di Milena
(CL), in Dalle Capanne alle “robbe”, op. cit., pp.37-41.
[29] ) Pratesi e Tassi, Guida
alla natura della Sicilia, op. cit. p. 10.
[30] ) Vds. Malgrado tutto, novembre 1999 – n. 5 p.
17.
[31] ) Leonardo da Regalpetra, Racalmuto 1990, p. 8
[32] ) Gli amici della noce, Fondazione
Leonardo Sciascia – Racalmuto 1997 – p. 11.
[33] ) ibidem, p. 7.
[34] ) ibidem, p. 7.
[35] ) ibidem, p. 11.
[36] ) Francesco Renda, Storia della Sicilia dal 1860 al 1970, vol. primo – Sellerio
Palermo 1984, p. 96.
[37] ) Ci si permetta di autocitarci: Calogero Taverna, La
signoria racalmutese dei Del Carretto, Infotar Racalmuto 1999: «Una cosa è certa; Federico del Carretto era
saldamente insediato nella baronia di Racalmuto ben prima che avesse
l'investitura da Alfonso d'Aragona l'11 febbraio 1453. Reperibile presso
l'archivio di Stato di Palermo il contratto che lo vedeva associato nel 1451
con Mariano Agliata per uno scambio di grano delle annate del 1449 e 1450
contro quello di Girardo Lomellino consegnabile a luglio. Il Bresc [op. cit.
pag. 884] commenta: «ce qui permet une fructueuse spéculation de soudure». In
termini moderni si parlerebbe di outright in grano. La domiciliazione sarebbe
stata pattuita presso il "caricatore" di Siculiana..»
[38] ) Renda. F., Storia
della Sicilia .., op. cit. p. 84 «Lo
sfruttamento capitalistico del lavoro contadino riuscì ad elaborare varianti
ancora più gravose del terraggio, quali il paraspolo, o altri analoghi
rapporti, in cui il concessionario fu trasformato in prestatore d’opera senza
salario certo e definito (il compenso sarebbe stato una quota parte del
prodotto conseguito a fine stagione, generalmente grano, nella misura di un
quinto, di un quarto e in casi eccezionali di un terzo).»
[39] ) Per ampi dettagli, v.
il ns. Racalmuto in microsoft, c/o
Biblioteca comunale di Racalmuto.
[40] )
Archivio di Stato di Agrigento – Fondo 6 Notaio Cavallaro Angelo – anni
1767-68 - vol. 10632, ff. 165-167.
[41] )
ARCHIVIO SI STATO PALERMO - DEPUTAZIONE DEL REGNO - INVENT. N. 5 - riveli Vol.
n. 4093 anno 1748 – ff. 250-257-
[42] ) Barbara Wilkens, Resti faunistici provenienti da alcuni siti dell’area di Milena, in
“Dalle capanne alle ‘robbe’ …” cit.
p. 127 e ss.
[43] ) Leonardo Sciascia, Nero su nero, ed, Einaudi Torino 1979, pp. 161-162.
[44] ) Pietro Griffo, Il museo archeologico regionale di Agrigento, Roma 1987, p. 219; vds. pure Vincenzo La Rosa, L’insediamento
preistorico di Serra del Palco in territorio di Milena, in Dalle capanne alle “Robbe”, cit. p. 43.
[45] ) Vincenzo La Rosa, L’insediamento preistorico di Serra del Palco in territorio di Milena,
in Dalle capanne alle “Robbe”, cit.
p. 43
[46] ) ibidem, p. 52.
[47] ) Carla Guzzone, La ceramica del villaggio di Serra del Palco ed il territorio di Milena
in età neolitica, in Dalle capanne
alle “robbe” … cit. p. 55 e ss.
[48] ) Laura Maniscalco, Le ceramiche dell’età del rame nel territorio di Milena, in Dalle capanne alle “robbe” .., cit., p.
63 e ss.
[49] ) Orazio Palio, La stazione di Serra del Palco e le fasi finali del bronzo antico,
in Dalle capanne alle “robbe” … cit.
p. 111 e ss.
[50] ) Vincenzo La Rosa – Anna Lucia D’Agata, Uno scarico dell’età del Bronzo sulla Serra
del Palco di Milena, in Dalle capanne
alle “Robbe” … cit, p. 93 e ss.
[51] ) Fabrizio Nicoletti, Industrie litiche, materie prime ed economia nella preistoria della
media valle del Platani: continuità e cambiamento, in Dalle capanne alle “robbe” … cit.
p. 117 e ss.
[52] )
Resta ancora basilare il vecchio studio del 1968 del De Miro, riportato anche
nel volume “Dalle capanne alle robbe
..” varie volte qui citato. Molto ha aggiunto Vincenzo La Rosa, come si vede
nello studio riportato a p. 141 e ss. Del citato volume.
[53] ) Francesco Tomasello, Le tholoi di monte Campanella a Milena (Cl),
in Dalle capanne alle “robbe” .. cit.
p. 165 e ss.
[54] ) vds. Dalle capanne alle “robbe” .. cit. p.
241 nota a Tab. 1)
[55]
) v.d.s. André
Guillou, L'Italia bizantina
dall'invasione longobarda alla caduta di Ravenna, Vol. I, Torino 1980, pag. 316., per la
datazione e Pietro Griffo, Il museo archeologico regionale di Agrigento,
Roma 1987, p. 192 per la data del
ritrovamento.
.
[56]) Vincenzo Tusa/Ernesto De Miro: Sicilia
Occidentale. - Roma 1983 - pag.
14.
[57])
A.C.S. di Roma - Fondo: ANTICHITA' E
BELLE ARTI (AA. BB. AA.) 1° VERSAMENTO - BUSTA N.° 21 -
Fascicolo 40.3.4 -
(annotazioni interne: 1877 - 64-1-1 - Girgenti - Mattoni antichi con bolli,
miniere solfuree).
[58])
C.I.L. [CORPUS INSCRIPIONUM LATINARUM] a cura di Teodoro MOMMSEN - Vol. X,2 p.
857 - TEGULAE MANCIPUM SULFURIS AGRIGENTINAE - 1883 - (nn. 8044 1-9).
[59])
NOTIZIE DEGLI SCAVI - Anno 1900, pagg. 659-60.
[60] ) Giovanni Salmeri, Sicilia Romana. Storia e storiografia, G. Maimone Editore, Catania
1992, pp. 29-43.
[61] ) M. Colonna, L’industria zolfifera siciliana. Origini, sviluppo, declino.
Catania 1971, pp. 14-15.
[62] )
Così giustamente R.J.A. Wilson, Sicily under the Roman Empire,
Warminster 1990, p. 238 e p. 395 n. 8.
[63] )
Tavole di flessione: sulphuraria, sost.; sulpuraria, sost. sulphuraria, ae, f.,
solfatara, ULP. – Dig. XLVIII, 19, 8,
10; F.G.B. Millar, Condemnation to Hard Labour in the Roman
Empire, «PBSR» 39 (1984), pp. 124-147.
[64] ) Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino, Inchiesta in Sicilia, edizione
fiorentina del 1974, pp. 269-279 del II volume.
[65])
KOKALOS 1963, pp. 163-184.
[66]) B. Pace, Arte e Civiltà, I pp. 393-4
[67])
L’accenno al MANCEPS conduce a quella
datazione, se si accettano le argomentazioni in proposito di E. De Miro, quali
si leggono nella sua relazione pubblicata in Kokalos XXVIII-XXIX, 1982-1982,
pag. 324.
[68])
Oggi custodito nell’androne del Comune, da tempo immemorabile giaceva prima al
Castello.
[69])
Guida d’Italia del Touring Club Italiano - Sicilia - ed. 1968, pag. 303.
[70]) Ernesto De Miro: Città e contado nella Sicilia
Centro-Meridionale, nel iii e iv sec. d.C.
- in Kokalos pag. 320. In quella relazione, spunti
riguardanti specificatamente Racalmuto si colgono nella Tav. XLIV [la Tegula di
cui alla Fig. 1d - CIL X 8044, 1 - MANCIPU[M] - [S]ULFORIS - SICILI[AE] - ST,
se non è proprio quella del Picone, è del tutto analoga.]
[71]) E. De Miro, op. cit. pag. 321.
[72]) E. De Miro, op. cit. pag. 320.
[72]) B. Pace, Arte e Civiltà della Sicilia Antica I, 1935, p. 393
ss.
[73]) E. De Miro, op. cit. passim.
[74])
M.R. LA LOMIA, in Kokalos, VII, 1961; E. DE MIRO, in Encicopledia Arte Antica,
VII, 1966, p. 276, ID, in Kokalos, XVIII-XIX, 1972-73, pp.247.
[75])
Sidonio Apollinare - Carm. II - Panegirico recitato in Roma all’imperatore
Artemio (ediz. di Parigi 1599). Di risalto i versi 362-372. Si celebra la
vittoria di Ricimero del 456 con questi encomiastici tratti:
Agrigentini recolit
dispendia campi,
Inde furit, quod se docuit satis iste nepotem
illius esse viri, quo viso,
Vandale, semper
Terga dabas, nam non siculis illustrior arvis,
Tu, Marcelle, redis per quem tellure, marique
Nostra syracusios texerunt
arma penates.
(Da G. Picone: Memorie Agrigentine, pag. 283).
[76]) Il
Griffo (op. cit.) accenna all’esposizione di «un ripostiglio di aurei imperiali
(ben 207 pezzi) del V secolo d.C. proveniente da Racalmuto per scoperta
occasionale del 1940. » A suo dire il medagliere sarebbe stato oggetto di «un accurato
inventario a cura della dott.ssa M. T. Currò-Pisanò, che s’era preso anche
carico di elaborarlo per le stampe». (Ibidem,
pag. 317). Abbiamo cercato di saperne di più presso il Museo di Agrigento, ma del tutto invano.
[77] )
Bisogna innanzitutto invertire l’ordine: Eracleona (Eraclio II) viene ben prima
di Tiberio II. Eraclio è dei primi decenni del secolo VII, mentre il Tiberio
delle monete cui si riferisce il Guillou chiude nel 711 la sua dinastia. Per il
primo vds. Georg Ostrogorski, Storia dell’impero bizantino, Einaudi
Torino 1968, pp. 95,99,100; per il secondo, ibidem, pp. 120-122, 157.
[78]) B. Pace, Arte e Civiltà della Sicilia
Antica IV, p.174.
[79]) V. D'Alessandro, Per una storia delle campagne siciliane nell'Alto Medioevo, in
Archiv. Storico Siracusano, n.s. V, 1981.
[80]) André Guillou, L'Italia bizantina dall'invasione longobarda
alla caduta di Ravenna, Vol. I,
Torino 1980, pag. 316.
[81])
Cfr. Arch. Stor. Sirac., n. s. IV.
1975-76, pag. 74, n. 149
[82]) P. Griffo, Il Museo Archeologico
Regionale di Agrigento, 1987, pag.192.
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