martedì 7 luglio 2015

Non è da poco che conosciamo vita e miracoli della Ecclesia Terrae Racalmuti dei primissimi decenni del XVI secolo. Volervi collocare miracoli e portenti per cervellotiche tradizioni è follia. Una relazione episcopale del Tagliavia taglia la testa al toro. La chiesa del Monte c'era e come e da tempo; la chiesa di Santa Lucia, una frottola. Carta canta. Trascriviamo nostri vecchi appunti.


Non è da poco che conosciamo vita e miracoli della Ecclesia Terrae Racalmuti dei primissimi decenni del XVI secolo. Volervi collocare miracoli e portenti per cervellotiche tradizioni è follia. Una relazione episcopale del Tagliavia taglia la testa al toro. La chiesa del Monte c'era e come e da tempo; la chiesa di Santa Lucia, una frottola. Carta canta. Trascriviamo nostri vecchi appunti. 

Dai 1600 del 1505 ai quasi 3500 abitati del 1548 il salto era stato rimarchevole: non poteva trattarsi solo di normale crescita demografica; sotto il barone di Racalmuto si erano quindi determinate condizioni di vita accettabili, da preferire a quelle dei feudi circostanti; contadini, mastri e forse anche mendicanti ebbero ad affrottarsi nei quattro quartieri che ormai si erano stabilmente definiti: a) Santa Margaritella, tra l’attuale Carmine, bar Parisi e la Guardia; b) San Giuliano, tra Guardia, tabaccheria Fantauzzo, Collegio, Fontana e attuale chiesa di San Giuliano; c) Fontana o quartiere fontis, l’altro spicchio di nord-est tra la Fontana, il castello, la Matrice e l’attuale chiesa dell’Itria; d) quartiere del Monte o montis comprendente l’ultimo quarto a ridosso dell’omonima chiesa esistente anche allora.
Era tutto suolo baronale; per ergervi una casa occorreva pagare uno jus proprietatis ai del Carretto; se poi si era contadini e si andava a coltivare terre altrui nell’ambito del feudo (o Stato di Racalmuto) scattavano tributi in natura; se la coltivazione avveniva in feudi circostanti (Gibillini, Cometi, Grutticelli, Bigini, Aquilìa, Cimicìa, ed altri ancora), il tributo raddoppiava: terraggio (quello infrafeudo) e terraggiolo (quello extrafeudo) furono termini presto entrati in uso, a significare balzelli che pur tuttavia si accettavano non essendo diverso altrove. Sfuggì il particolare a Tinebra; vi fece eco Sciascia e l’odiosità delle presunte angherie comitali cade tuttora sul malaticcio Girolamo II del Carretto, quello ucciso dal servo arbitrariamente chiamato con il rispettabile patronimico Di Vita.
Un vescovo agrigentino del tempo, il nobile Tagliavia nutrì eccessivo interesse per la comunità ecclesiastica di Racalmuto. Nel 1540 mandò suoi pignoli visitatori; tre anni dopo fece visita inquisitoria lui stesso. Poteva considerarsi apparentato con il bigotto Giovanni III del Carretto, ma il barone non viene neppure adombrato nelle relazioni episcopali che per nostra fortuna si conservano nell’archivio vescovile di Agrigento.
In tali atti vescovili viene descritta piuttosto diffusamente la condizione dell’organizzazione ecclesiale di Racalmuto.
Un fenomeno nuovo emerge con il suo peso sociale, economico e soprattutto bancario: quello delle confraternite. Le confraternite cinquecentesche di Racalmuto nascono come associazioni per garantire la “buona morte” che è come dire una onorevole sepoltura - il culto dei morti da noi è stato sempre presente, ossessivo, dispendioso - ma subito, venute in possesso di disponibilità finanziaria e monetarie,  cosa di gran rilievo in un’angusta economia curtense, assurgono a potentati economici molto simili alle attuali banche: finanziano, danno in affitto gli immobili di proprietà (sia pure relativa), fanno committenze per costruire chiese (fonte prima del loro guadagno per le sepolture a pagamento che vi vengono fatte), le fanno riparare, e così via di seguito. Non sono corporazioni di arti e mestieri, anzi sono essenzialmente interclassiste. Il prete visvolge un ruolo, ma solamente religioso: è soltanto il cappellano spirituale. Nasce da qui il detto tutto racalmutese: monaci e parrini, vidici la missa e stoccaci li rini. Come dire i preti ed i monaci nelle confraternite ci stano per celebrar messa, ma dopo bisogna loro “stuccarici li rini” beffarda espressione per specificare che ognuno deve poi girarsi su se stesso per le mansioni e competenze proprie, in assoluta indipendenza. I preti infatti non potevano inserirsi nella gestione economica, tutta affidata al governatore laico ed agli altrettanto laici deputati che ogni anno si eleggevano. Il vescovo Tagliavia cerca di irreggimentare il tutto, ma con evidente scarso successo.
Dai rapporti episcopali emerge questo interessantissimo quadro delle caratteristiche istituzioni e affiorano, sia pure con una fioca luce questi nostri antenati ([2]) :
·      Luminaria del Santissimo Corpo di Cristo, istituita nella chiesa maggiore di S. Antonio (che però essendo pressoché distrutta [v. op. cit. pag. 210] non era praticabile ed al suo posto operava provvisoriamente l’ “Ecclesiola” dell’Annunciazione della Gloriosa Vergine Maria): ne era Governatore mastro Antonino La Licata, che introitava la detta luminaria sopra alcune case di Racalmuto, che erano costituite in 17 corpi di fabbricati, e che si solevano locare per circa otto once, con affitti peraltro crescenti. In più il Governatore raccoglieva le elemosine giornaliere e curava i legati.
·      Nella detta ecclesiola vi era anche la confraternita della Nunziata: ne erano i rettori:
1.    Montana mastro Paolo;
2.    Cacciatore mastro Paolo;
3.    Santa Lucia Cesare;
4.    Vaccari Giovanni.
Avevano dodici once di reddito sopra diverse case che appartenevano alla detta Confraternita, che si solevano locare per le stesse dodici once.
· Confraternita della chiesa  di Santa Maria del Monte: ne erano rettori:
1.    Cacciatore mastro Pietro;
2.    Vaccari Pietro;
3.    de Agrò Mirardo;
4.    Fanara Addario.
Erano al contempo  Governatori ed avevano  quattro once e venti tarì di reddito sopra diversi possedimenti terrieri.
·      Confraternita di Santa Maria di Gesù: ne erano rettori:
1.    de Agrò Natale;
2.    Vurchillino (Borsellino) Antonino;
3.    Murriali Giuliano;
4.    de Alaimo Michele.
Erano al contempo  Governatori ed avevano  dodici carpi di case in Racalmuto che solevano locare per dieci once all’anno.
·      Confraternita di S. Giuliano: ne erano rettori:
1.    Curto Angelo;
2.    Lauricella Andrea;
3.    Curto Stefano;
4.    Picuni Antonino.
Avevano una certa somma di rendita. Fu loro imposto di esibire il legittimo inventario, sotto pena d’interdetto.
 Gli aridi inventari episcopali del 1540 e del 1543 ci consentono comunque di fare una ricognizione critica - senza le grandi sbavature cui gli storici locali indulgono - delle chiese veramente esistenti all’epoca. Abbiamo innanzitutto la vetusta chiesa di S. Antonio: è parrocchiale, risale ad epoca immemorabile (noi pensiamo alla prima metà del Quattrocento). Al tempo di Giovanni III del Carretto è fatiscente; nessuno pensa a ricostruirla; la si lascia in abbandon0 ma alla fine la solerzia del vescovo Tagliavia è tale che risorge a nuova vita e il culto in essa perdura sino alle soglie del Settecento.

Monsignor Pietro Tagliavia ed Aragona, nel tempo in cui fu vescovo di Agrigento curò molto le visite pastorali. Racalmuto fu prima, nel 1540, assoggettato ad un’ispezione sommaria la cui verbalizzazione è contenuta in cinque fogli ove è riportata, in sostanza, una secca inventariazione dei beni delle più importanti chiese di allora: Nunziata, Santa Maria di Gesù, Santa Margherita, Madonna del Monte e San Giuliano. [3] Tre anni dopo, il paese subì, come si è accennato, una più seria indagine da parte del vescovo in persona, che vi si recò il giorno 11 giugno 1543. Il taglio del resoconto è ora molto più articolato, e viene fornito uno spaccato della vita religiosa locale di grande interesse.[4]
Al centro della locale comunità religiosa è l’arciprete don Nicolò Gallotto (o de Gallottis). E’ originario della terra di San Marco, diocesi di Messina; è anche canonico agrigentino (“est etiam canonicus agrigentinus”). Non riusciamo a sapere, però, se risiede in paese. Gode di metà delle rendite e degli emolumenti, perché l’altra metà serve per il sostentamento di quattro cappellani che accudiscono alla chiesa e amministrano tutti i sacramenti all’intera popolazione (“dictus dopnis Nicolaus habet dimidiam omnium redditum et emolumentorum ... alia dimidia est assignata quatuor capellanis qui serviunt dicte ecclesie et administrant populo ecclesiastica Sacramenta.”).
Ricade su Racalmuto l’onere del sostentamento del suo arciprete, cui spetta per antico diritto (“ex disposictione”), il beneficio della “primizia”. E’ questo un gravame tributario in forza del quale ogni fuoco (famiglia) è assoggettato alla corresponsione di un tumolo di frumento ed un altro di orzo all’anno; le vedove sono obbligate solo per il tumolo di frumento; i non abbienti sono esonerati (”primitiam .. contigit dictus archipresbiter seu eius locum tenentes unaquaque domo dicte terre et illam solvunt hoc modo: unaqueque domus solvit tumulum unum frumenti et unum ordei, exceptuatis viduis, que solvunt tumulum unum frumenti tantum singulo anno”.)
Nella visita del 1540 era stato precisato che il Gallotto percepiva annualmente tale primizia nella misura di 25 salme di frumento e 22 di orzo. Considerando una salma formata di 16 tumoli, avremmo 400 fuochi di cui 48 quelli di vedove capo-famiglia. La popolazione abbiente ascenderebbe quindi a circa 1600 abitanti. Ma siamo molto lontani dai dati disponibili per quell’epoca. Nel rivelo del 1548, sotto Carlo V, Racalmuto risulta forte di 890 fuochi per oltre 3100 abitanti. Non crediamo che vi fossero 490 case di indigenti; il numero degli esonerati e degli evasori doveva essere molto elevato. Ed il fenomeno dovette essere duraturo. Un paio di secoli dopo, nel 1731, l’arciprete Algozini dava i seguenti ragguagli sulla primizia di Racalmuto, un diritto che evidentemente si perpetuava: «questa chiesa non ha decime ma la Matrice solamente ha ogni anno in primizie, tolti li miserabili e fuggitivi, formenti di lordo in circa salme quarantaquattro, in orzi salme sedici in circa, dovendo pagare ogni capo di casa tum.lo uno di formento e tum.lo uno d’orgio.» Tradotto in statistica demografica, abbiamo una popolazione di 2800 abitanti, a fronte di una popolazione effettiva dichiarata dallo stesso Algozini in 5134 anime suddivisa in 1200 famiglie. Sorprendono le analogie e le concomitanze con il fenomeno elusivo del 1540. A meno che in entrambi i casi si dichiarasse soltanto la metà (la dimidia pars di spettanza dell’arciprete).
Oltre alle primizie, l’arciprete Gallotto percepiva i proventi per quelli che l’Algozini due secoli dopo chiama diritti di stola: i proventi cioè dei funerali e dell’amministrazione dei servizi religiosi (“mortilitia et alia provenientia ex administratione cure”).
Nel 1540 si constatava che la chiesa dell’Annunziata dell’omonima confraternita fungeva anche da chiesa parrocchiale al posto della Matrice intitolata a S. Antonio e non si aveva nulla da eccepire. Visitata per prima, se ne annotava la doppia funzione: «Ecclesia di la Nuntiata  confraternitati et servi pro maiori ecclesia di ditta terra». E’ comunque alla chiesa maggiore che spetta il diritto delle primizie: essa, in quanto “maior ecclesia”, «habet primitias videlicet salme 25 frumenti et salme 22 ordei in persona domini Nicolai Gallocti cum onere unius misse quotidie»   Ma tre anni dopo, il vescovo Tagliavia ha di che ridire: per lui, l’Annunziata è “ecclesiola” e quindi non può fungere da chiesa madre; è un tempio «valde parvulum et angustum pro tanto populo”. La vecchia matrice di S. Antonio è diruta; ma poiché essa sarebbe adeguata alle esigenze di spazio dell’accresciuta popolazione, viene ordinato dal presule che venga restaurata e riedificata. «Et quia .. ecclesia [maior] est diructa, et hec que servit pro maiori ecclesia est valde angusta, ideo iussit provideri quo dicta maior ecclesia restauretur et reedificetur.» Non si mancò di eseguire gli ordini vescovili: sappiamo di certo che nel 1561 la chiesa Madre è proprio S. Antonio.
Le nostre notizie sull’arciprete venuto dalla diocesi di Messina sono tutte qui. Non abbiamo neppure un appiglio per formulare un qualsiasi giudizio sulla sua figura. Poté essere un bravo sacerdote, ma poté essere un semplice percettore di benefici ecclesiastici. Dei quattro cappellani che lo coadiuvarono (o lo sostituirono) non sappiamo neppure i nomi.

Le carte episcopali richiamate a proposito dell’arciprete Gallotto contengono accenni ad altri sacerdoti racalmutesi della metà del Cinquecento: fra loro spicca don Francesco de Leo, vicario foraneo della terra di Racalmuto. Si sa quanto importante fosse il ruolo del vicario che fungeva da rappresentante del vescovo  sul luogo. A lui venivano demandati i compiti esecutivi della giurisdizione della Curia agrigentina, specie in materia penale. Il vicario era uomo temuto e rispettato, forse ancor più dell’arciprete, che spesso si limitava a percepire i frutti del beneficio ottenuto per entrature curiali e non metteva neppure piede nella parrocchia di cui era titolare.
Il de Leo era vicario, dunque, al tempo dell’arciprete Gallotto. Tra gli altri compiti aveva quello di curare gli interessi del canonico don Giovanni Puiates, titolare del beneficio di Santa Margherita. Naturalmente, anche questi si limitava a percepire i pingui proventi racalmutesi senza interessarsi neppure della chiesa che sorgeva accanto a quella di Santa Maria di Gesù: a ciò pensava il vicario d. Francesco de Leo ed era incarico che espletava encomiabilmente. Il vescovo Tagliavia nel visitare, nel 1543, la chiesa di Santa Margherita la trova «satis bene compositam» ed il merito l’attribuisce al vicario, «hoc propter bonam curam dopni Francisci de Leo, vicarii dicte terre.»
Del solerte vicario, oltre a questa notizia, non sappiamo null’altro. Possiamo giudicarlo, comunque, positivamente e tutto fa pensare che fosse racalmutese. Si spiega così perchè tenesse  alla vetusta chiesa di S. Margherita che, se è da dubitare che risalisse al 1108 come scrisse nel 1641 il Pirri, era pur sempre un luogo di culto di cui ad un diploma del 1398. Il de Leo sembra avere care le tradizioni indigene. La chiesa, varie volte rinnovata e ricostruita, era da tempo immemorabile sede di un titolo canonicale agrigentino. «Ecclesia Sancte Margarite - si sa dalla visita del 1543 - est titulus canonicatus” che al tempo spettava al cennato canonico Pujades. I contadini racalmutesi dovevano corrispondere le decime al canonicato della Cattedrale di Agrigento e non risulta che il beneficiario sia stato mai un racalmutese. Quando si trattò di giustificarne il titolo originario, si assunsero a documenti due antichissimi diplomi del 1108. In essi si descrive la donazione di un fondo da parte di Roberto Malconvenant ad un suo parente, il milite Gilberto, a condizione che vi edificasseuna chiesa. Gilberto accetta, si fa chierico ed inizia, costruisce e completa un tempio nella sua terra intitolandolo a Santa Margherita Vergine. Il vescovo Guarino in una domenica del 1108 consacra chierico e chiesa  inquadrandoli nella giurisdizione della Cattedrale agrigentina.
L’ubicazione del centro agricolo è di ardua individuazione. Nel diploma viene così descritta l’estensione del fondo: se ne specificano i confini; emergono quindi punti di riferimento e località che nulla hanno a che vedere con Racalmuto. Quella antica chiesa “normanna” non è posta pertanto vicino a Santa Maria, non ci compete e lasciamola al suo destino. Il fascino della storia racalmuetese non si appanna certo per il venire meno di una tale tradizione.
Resta assodato che a Racalmuto il culto di Santa Rosalia è ben antico. Non sembra, però, che vi sia qualcosa su S. Rosalia nelle primissime visite pastorali agrigentine del 1540-3, dato che in quella del 1543 si accenna solo alle seguenti chiese racalmutesi:
1)         Chiesa Maggiore, sotto il titolo di S. Antonio;
2)         “Ecclesiola” sub titulo Annuntiationis Gloriose Virginis Marie, da tempo sede di una Confraternita e dove era stato trasferito il Santissimo , chiesa adibita ormai al posto di quella Maggiore, a quanto pare fatiscente;
3)         Chiesa di Santa Maria del Monte;
4)         Chiesa di santa Maria di Gesù;
5)         Chiesa di Santa Margherita;
6)         Chiesa di San Giuliano;

Nella precedente visita del 1540 abbiamo:
1)         Chiesa della “NUNTIATA”
2)         Chiesa di Santa Maria di Gesù (Jhù)
3)         Chiesa di Santa Margherita;
4)         Chiesa di “Santa Maria di lo Munti”;
5)         Chiesa di S. Giuliano.
(Cfr. le pagine 196v-198v della Visita)
Passando al setaccio i radi accenni delle carte episcopali del 1540-1543 abbiamo che non proprio recenti erano le chiese quali:

·      la Nunziata, visto che vi si trovava una vecchia tunichella di damasco turchino ( Item uno paro di tunichelli una di villuto iridato cum soj frinzi di varij coluri et l’altra di damasco turchino vechia);
·      Santa Maria di Gesù col suo vecchio paramento di borchie stagnate (Item uno casubolo  di borcati vecho stagnato);
·      Santa Margherita sia per quel che sappiamo dalle antiche fonti sia come testimoniano i “avantiletto” lisi (item dui avantiletti vechi). Significativo invece che a S. Giuliano non v’era nulla di vecchio.



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