, finalmente, riesce a
chiuderla questa fase dell’investitura, come da questa nota del citato
processo:
«Messane die VI^ mensis Settembris XIII^ Ind. 1584 - prestitit juramentum [..]»
Giovanni del Carretto
ereditò una caterva di beni, ma anche un’asfissiante massa di oneri, pesi e
debiti.
Il “paragio”.
Il
“paragio” fu un pernicioso istituto feudale siciliano in base al quale il
feudatario era obbligato a dotare figlie, sorelle, zie, e nipoti femmine (ma
per queste ultime solo nel caso che il genitore non vi potesse provvedere per
indisponibilità economica) in misura adeguata al loro rango.[2]
Simpatico o meno che sia il
sanguigno Giovanni del Carretto di fine ’500, è certo che sul poveraccio cadde
addosso una caterva di sorelle fameliche di ‘paragio’, due fratelli che non
scherzavano in fatto di ‘palanghe’, una figlia ‘spuria’ da dotare bene per
farla sposare dal nobile Russo - forse un parente della prima moglie -, un
figlio infelice avuto tardivamente da una virgulta della arrogante e burbanzosa
famiglia Tagliavia-Aragona della vicina Favara.
E per di più le disgrazie
giudiziarie: soldi per i crimini del fratello Giuseppe (‘multa di mille
fiorini’) e per quelli suoi propri (condanna ad onze mille, da pagarsi alla
moglie del defunto, ed onze duecento al fisco).
Sbuca poi un Vincenzo del
Carretto che le carte della curia agrigentina dànno come arciprete di Racalmuto
al tempo di Girolamo del Carretto nel primo trentennio del ‘600.
Parrebbe da alcuni documenti
[3] un fratello dell’infelice conte di Racalmuto,
quello ‘ucciso dal servo’ nel 1622.
Se è così, fu un altro
figlio di Giovanni del Carretto (e nel caso un figlio illegittimo) da dotare se
non altro per costituire il debito ‘patrimonio’ voluto dal Concilio di Trento
per gli ecclesiastici.
I ‘paragi’ delle sorelle e
dei fratelli buttano il germe di un tracollo finanziario dei Del Carretto che
avrà il suo patetico epilogo nel ‘700 (assisteremo persino ad acrimonie
giudiziarie tra padre e figlio e cioè tra l’ultimo Girolamo del Carretto e suo
figlio Giuseppe - chiamato così anche se il nonno si chiamava Giovanni, e forse
per la perdurante vergogna della esecuzione di quel Carretto per alto
tradimento nel 1650).
Racalmuto - questo feudo dei
Del Carretto - ne subì i danni? Tutto lo
fa pensare.
Donna Aldonza del Carretto.
Un saggio della pretenziosità
delle sorelle di Giovanni del Carretto ce lo fornisce la terribile virago Donna
Aldonza del Carretto - sì, proprio quella che fonda il convento di S. Chiara a
Racalmuto - che pure sul letto di morte non resiste nel suo testamento dal dare
sfogo al suo astio verso il fratello primogenito.
Lo esclude, innanzi tutto,
dal nutrito numero dei suoi eredi universali,[4] che invece
limita alle sorelle donna Diana, donna Ippolita, donna Giovanna, donna Eumilia
e donna Margherita del Carretto «...eius sorores pro equali portione, salvis
tamen legatis, fidei commissis, dispositionibus praedictis et infrascriptis».
Dopo aver fatto alcuni
lasciti per la sua anima ed aver dato le
disposizioni per l’erezione del convento di Santa Chiara, si ricorda del non
amato fratello maggiore Giovanni in questi termini:
«..et perché a detta D.
Aldonza ci competiscono li doti di paraggio sopra lo stato di Racalmuto et beni
di detto quondam suo Padre una con li frutti di essi doti, pertanto essa D.
Aldonza testatrici declara volere detti doti di paraggio una con li detti
frutti di essi et volersi letari di quelli, in virtù di tutti e
qualsivoglia leggi et altri ragioni in
suo favore dittarsi et disponersi, non obstante si potesse pretendere in
contrario, in virtù di qualsivoglia testamento et dispositione, delle quali
leggi in suo favore disponenti, essa voli et intendi servirsi et usari in
juditiarij et extra, sempre in suo favore, conforme alle leggi et ragione di
essa testatrice tiene, le quali doti di paraggio, una con li frutti di quelle,
siano et s’intendano instituti heredi
universali per equale porzione atteso che di li frutti detti doti ni lassao et
lassa à D. Gio: lo Carretto conte di Racalmuto suo frate onze duecento una
volta tantum pro bono amore et pro omni et quocumque jure eidem Don Joanni
quemlibet competenti et competituro et non aliter.
«Item dicta testatrice vole
et comanda che della liti la quale have fatto di conseguitare la sua legittima
che non ni possa consequire più di onze 600, oltra di quelli li quali essa D.
Aldonza testatrici si ritrova havere havuto; li quali onze 600 essa testatrice
lassao et lassa à d. Gio: Battista et D. Eumilia del Carretto soi soro oltre
della loro portione [parte corrosa, n.d.r.] [di cui alla] presente heredità modo
quo supra fatta et hoc pro bono amore et non aliter..»
Ma non tutte le sorelle
erano eguali per la terribile donna Aldonza.
E solo dopo un paio di
nipoti che si ricorda di avere un’altra sorella. A questa solo un legato di 200
once così condizionato:
«Item ipsa tetatrix legavit
et legat D. Mariae Valguarnera comitissae Asari, eius sorori, uncias ducentas
in pecunia semel tantum solvendas per supradictos heredes universales infra
terminum annorum quatuor numerandorum a die mensis [mortis] ipsius testatricis
et hoc pro bono amore».
Uguale trattamento per il
fratello Aleramo:
«Item essa testatrice lassao
e lassa à D. Aleramo del Carretto suo fratello, conte di Gagliano, onzi ducento
della somma di quelle denari che essa testatrici pagao à Giuseppe Platamone per
esso D. Aleramo delli quali detto D. Aleramo è debitori di essa testatrici et
hoc pro bono amore et pro omni et quocumque jure eiusdem D. Aleramo competenti
et competituro.
«Item essa testatrice
declarao et declara che della legittima quale detto Don Aleramo divi pagando
onsi secento tutto lo resto di detta legittima essa testatrice la lassao e
lassa a detto D. Aleramo pro bono amore».
Nel testamento non troviamo
alcunché che ricordi anche il fratello Giuseppe. Forse perché già morto?
Ma non basta. Se ci si
addentra nei processi per investitura dei Del Carretto, sbuca fuori un’altra
sorella: Beatrice del Carretto,[5] morta nel
settembre del 1592.
I Del Carretto a fine secolo XVI.
Tirando le somme, su
Giovanni del Carretto il buon genitore Girolamo scaricava le doti di ‘paragio’
di otto sorelle[6] e due
fratelli.
Poi, si aggiungeranno i carichi di un paio di
figli ‘illegittimi’ e, naturalmente, l’eredità ab intestato per l’unico figlio legittimo, il conte di Racalmuto
per antonomasia, Girolamo del Carretto.
Su quest’ultimo si
abbatteranno i fendenti di una tale complessa situazione patrimoniale, carica
di soggiogazioni anche per le tanti doti di ‘paragio’. Sarà stato per questo,
ma si dà il caso che il giovane conte del Carretto, all’età di ventitré anni si
spoglia di tutto, facendone donazione ai due figli Giovanni e Dorotea e
nominando governatrice la moglie Beatrice e tutore il fratello (o fratellastro)
don Vincenzo del Carretto, arciprete di Racalmuto.
Ma ritorniamo al 1593,
l’anno del censimento. Il conte Giovanni del Carretto, non era di sicuro nel
suo castello racalmutese.
Una nota di cronaca lo
accosta alla morte del celebre poeta
Antonio Veneziano, nel crollo delle carceri del Santo Offizio.
«In questo stesso anno [1593] - precisa un diarista [8] - dì 19
di agosto. Fu posto fuoco alla monizione della polvere che era in Castell’a
mare di Palermo: perilché quasi tutto il castello brugiò, e morirono più di 200
persone, la maggior parte carcerati; fra’ quali morì Antonio Veneziano poeta,
Argistro Gioffredo, il baron di Sinagra, due maestri di sant’Agostino che
andorno a mangiare con l’inquisitori, et altri cavalieri e plebei.
«Scamporno l’inquisitori, il conte di Racalmuto, il barone di Siculiana,
il castellano ed altri. Ivi fu roina grande delle case del castello et delli
palazzi d’inquisitori; et allora, uscendosi d’ivi, andorno a stare alla casa di
Monetta.»
Che cosa vi stesse a fare
Giovanni del Carretto, non è chiaro. Certo egli era «teniente de oficial» del
Santo Ufficio, ma il presidente della Gran Corte Giovan Francesco Rao[9] ed il
viceré Albadalista erano riusciti ad ottenere da Filippo II che i nobili non
potessero far parte dell’Inquisizione.
Non era quindi per ragioni
di ufficio del suo ruolo nel tribunale inquisitoriale che potesse stare in
quelle carceri. La vicenda che abbiamo prima sunteggiato può dunque spiegare il
perché. Vi stava forse in quanto ‘carcerato’ seppure di riguardo[10]. Se è
così, non poteva influire sull’andamento del rivelo di Racalmuto.
Che i guai di Giovanni del
Carretto, per quell’efferata esecuzione di La Cannita, siano stati seri si
desume dal fatto che dovette cedere il passo al fratello rampante, Aleramo del
Carretto, nella carica di Pretore di Palermo.
I Diari [11] parlano del «pretore l’ill.mo sig. D. Aleramo del
Carretto conte di Gagliano» sotto la data del 26 ottobre 1595, e narrano che
l’11 aprile del 1596 costui, come pretore, ebbe a carcerare «tutti li mastri di
piazza». Gli ascrivono poi a merito che in quel tempo «fece fare la scala nova
della Corte del pretore e l’arcivo del capitano».
Giovanni del Carretto dovrà
aspettare per tornare nel pubblico agone. Negli stessi Diari (pag. 142) lo incontriamo il 16 dicembre 1601, quando morì il
Maqueda. Il feretro «andò alla chiesa maggiore sopra la lettica. E lo portarono
in spalla quattro titolati, che furono D. Francesco del Bosco duca di
Misilmeri, D. Vincenzo di Bologna marchese di Marineo, il conte di Cammarata e
quello di Racalmuto ..». Ultimo dei quattro, è vero, ma ci sta.
Giovanni del Carretto resta
vedovo piuttosto presto di Beatrice Russo e Camulo di Cerami. Ha una relazione
non ufficiale da cui - stando solo a ciò che è documentato - ha una figlia di
nome Elisabetta.
Nella seconda metà
dell’ultimo decennio del ‘500 la fa sposare con il nobile Girolamo Russo. A sua
volta, il conte si risposa, piuttosto tardi, con Margherita Tagliavia di
Favara, una potente famiglia che ci tiene a premettere al proprio cognome
quello ancor più prestigioso di Aragona. Tutto fa pensare che il matrimonio sia
stato celebrato nel 1596.
Il primogenito Girolamo del
Carretto viene battezzato a Palermo il 28 ottobre 1597.
Dopo tante traversie
giudiziarie e finanziarie, il conte è chiamato a reiterare l’investitura per la
morte di Filippo II di Spagna (+ il
13/9/1598) Adempie il costoso rinnovo piuttosto tardi (difettava di
liquidità?) e presta giuramento il 18
settembre 1600.[12]
I del Carretto, dopo il
trasferimento a Palermo, non amavano frequentare Racalmuto, almeno sino
all’infelice Girolamo del Carretto, che, dopo l’uccisione del padre, nel 1606,
venne ricondotto, insieme alla sorella,
dalla madre nell’avito castello (e secondo le carte del Carmelo vi trovò anche
la morte nel 1622).
Il figlio, Giovanni, si
ritrasferisce a Palermo per farvisi giustiziare - come detto - nel 1650. Dopo
di che, la famiglia del Carretto prende stabile dimora nel nostro paese,
praticamente sino alla sua estinzione (1710).
Finché i del Carretto si
accontentarono del titolo di barone di Racalmuto, vi stettero proficuamente
abbarbicati. L’ultimo barone, Giovanni, muore nel 1560 nel “castro” racalmutese
e viene seppellito a S. Francesco.
Ecco la testimonianza resa
da un maggiorente locale:
«Nob. Innocentius de Puma de terra Racalmuti, repertus hic presens
testes, juratus et interrogatus supra
capitulo probatorio dicti memorialis, dixit tamen scire qualiter:
«in lo misi di gennaro prossimo passato in la ditta terra di Racalmuto
vitti moriri a lo speciale don Jo: de Carretto, olim baruni di ditta terra, lo
quali si andao et seppellio in la ecclesia di Santo Francisco di ista terra, a
lo quali successi et restao in ditta baronia ipso spett. don Hieronimo ... come
suo figlio primogenito legitimo et naturali,
et accussì tempore eius vitae lo vidio teneri, trattari et reputari per patri et figlio, et cussì da tutti quelli ca lu havino
canuxuto et canuxino ... quia
instituit vidit et audivit ut supra de loco et tempore ut supra».[13]
Dal 1564 comincia la
documentazione della Matrice di Racalmuto: battesimi e qualche atto di
matrimonio. Piuttosto rada all’inizio,
verso la fine del secolo s’intensifica. Le presenze importanti in paese, o per
un battesimo o per far da teste o da padrino o madrina, possono dirsi tutte
documentate.
Quanto ai Del Carretto,
figura per un paio di volte il fratello del Conte, don Giuseppe del Carretto,
quello dei truci delitti che finì con il coinvolgere anche Giovanni del
Carretto.
Viene a Racalmuto, con la
moglie, per fare da compare e comare al figlio di un altro grosso personaggio:
i Vuo. La solennità dell’evento viene così segnata:
«Adi 9 marzo VIe Indiz. 1593
- Diego figlio del s.or Gioseppi e Caterina di VUO fu batt.o per me don
Michele Romano archipr.te - il Compare fu l'Ill'S.or Don Baldassaro del
CARRETTO - la Commare l'Ill. S.ora Donna Maria del Carretto.»
Quattordici
anni prima, il 4 novembre 1579 si era fatto vivo per un’altra analoga
circostanza: il battesimo della figlia Porzia del magnifico “Arthali magn.
Thodisco”. “I padrini: 'ill.mo don Joseppi de lo Carretto et donna Anna de
Carretto”, recita l’atto della Matrice.
Attestata è pure
la presenza in alcune cerimonie di don Baldassare del Carretto, personaggio a
noi non altrimenti noto: l’8 marzo 1589 era stato padrino nel battesimo del
figlio Giacomo del magnifico Dario Piamontisi. “Spettabili signore”, lo vuole
il documento della Matrice.
Troppo poco,
come si vede.
Ebbe ad
attestarsi a Racalmuto, invece, il genero del conte Giovanni, il marito della
figlia illegittima Elisabetta.
Recenti ricerche
d’archivio in Vaticano ci hanno permesso di appurare il ruolo di questo
personaggio.
I Del Carretto ed il vorace vescovo spagnolo di Agrigento Giovanni Horozco Covarruvias y Leyva.
Nel 1599 il vescovo spagnolo
di Agrigento Giovanni Horozco Covarruvias y Leyva si vedeva costretto a
difendersi presso la Sacra Congregazione dei Vescovi e Regolari,[14] avendo
avuto sentore di un libello accusatorio contro di lui che non si è lungi dal
vero ritenerlo ispirato, se non addirittura scritto, dalla potente famiglia
locale dei Montaperto.
Il Presule agrigentino passa
al contrattacco e descrive con toni acri le sopraffazioni dell’intera nobiltà
dell’agrigentino, i del Carretto compresi.
A questo ultimo riguardo,
sono illuminanti i seguenti stralci:
«Beatissimo Padre
L’Episcopo di Girgente del Regno di Sicilia dice à V.B. che l’è,
pervenuto à notitia che alcune persone maligne per calunniare la bona vita et
amministration che l’ha fatto et fa esso supplicante [.....] et particolarmente
con don Petro et don Gastone del Porto
[....] il Principe di Castelvetrano, la duchessa di Bivona, il Marchese di
Giuliana, il Conte di Raxhalmuto, il conte di Vicari, il Baron di Rafadal, il Baron di San
Bartolomeo Don Bartolomeo Tagliavia, diocesani di esso exponente, la magior parte delli quali son parenti concertati
à calunniar l’exponente [........]»
« [.....]Il detto Conte di
Raxhalmuto per respetto che s’ha voluto occupare la spoglia[15] del arciprete morto di detta sua terra facendoci far
certi testamenti et atti fittitij, falsi et litigiosi, per levar la detta
spoglia toccante à detta Ecclesia, per la qual causa, trovandosi esso Conte
debitore di detto condam Arciprete per diverse partite et parti delli vassalli
di esso Conte, per occuparseli esso conte, come se l’have occupato, et per non
pagare ne lassar quello che si deve per conto di detta spoglia, usao tal
termino che per la gran Corte di detto Regno fece destinare un delegato
seculare sotto nome di persone sue confidenti per far privare ad esso exponente
della possessione di detta spoglia, come in effetto ni lo fece privare, con
intento di far mettere in condentione la giurisditione ecclesiastica con lo
regitor di detto Regno.
Et l’exponente processe con tanta pacientia che la medesme giustitia
seculare conoscio haver fatto errore et comandao fosse restituta ad esso
exponente la detta spoglia.
Ma con tutto questo, esso Conte non ha voluto pagare quello che si deve
et si tene molti migliara di scudi et molti animali toccanti à detta spoglia,
non ostanti l’excommuniche, censure et monitorij promulgati per esso exponente
et che detta spoglia tocca al exponente appare per fede che fanno li giurati,
per consuetudine provata, et per le misme lettere della giustitia secolare che
ordinao fosse restituta al exponente.
Et più esso Conte ha voluto et vole conoscere et haver giurisditione
sopra li clerici che habitano in detta sua terra di Raxhalmuto et vole che
stiano à sua devotione privi della libertà ecclesiastica, con poterli carcerare
et mal trattare come ha fatto à Cler:
Jacopo Vella che l’ha tenuto con tanto vituperio et dispregio dell’Ecclesia
in una oscura fossa “in umbra mortis”, con ceppi, ferri et muffuli per spatio
di doi anni et fin hoggi non ha voluto ne vole remetterlo al foro
ecclesiastico.
Anzi, perché il vicario generale d’esso exponente impedio a don Geronimo Russo, genniro
d’esso Conte et gubernatore di
detta sua terra, che non dasse, come volia dare, certi tratti di corda à detto
clerico et essendo stato bisognoso per tal causa procedere à monitorij et
excommunica, il detto Conte fece tanto strepito appresso lo regitore di detto
Regno che fece congregare il Consiglio per farlo deliberare che chiamasse ad
esso exponente et al detto Vicario Generale et lo reprendesse, che è, stata la
prima volta che in detto Regno si mettesse in difficultà la potestà delli
prelati per la potentia di detto Conte.
Con lo quale di più esso exponente have liti civili per causa di detti
beni ecclesiastici, per causa di detto archipretato.
Et di più don Cesare parente
di detto Conte, per il suo favore, fece scappare dalle carceri à doi prosecuti
dalla corte episcopale di Girgente, et perché ni fù prosecuto, diventano
innimici delli prelati.»
[1])
Nei Capitula Regni - edizione Testa,
Palermo 1741, II, pag. 52 segg., cap. LXXI; pag. 209, Cap. CCXLVI (Carlo V) -
si accenna al ‘paragio’ ed ai suoi inconvenienti:
«per la restituzione di dote, et dotario, et ancora per rispetto delle
doti di paragio, si dismembrano molti stati , baronie et feghi, et si
vengono ad annivhilare talmente. che li
Baroni non ponno sostentarsi secondo il suo stato, né hanno quella facoltà che
li conviene ...»
Interessante il commento del
De Stefano (Francesco De Stefano - Storia
della Sicilia dall’XI al XIX secolo - Bari 1977, pag. 111 e segg.):
«Sulla decadenza economica di
molta parte della nobiltà influì assai, specialmente nel ‘600, l’inurbamento
nei grandi centri, di preferenza la capitale,, per cui i feudi vennero
affittati a gabelloti grossi, i quali si arricchirono a spese della nobiltà
terriera e dei lavoratori.
«Allora si aggravò il
fenomeno già delineatosi nel ‘500, perché anche in quel secolo non pochi nobili
erano decaduti al segno che lo stesso parlamento chiese appannaggi decorosi per
‘nobili homini, et gentilhomini, li quali non tenino forma alcuna di vivere; et
per questo accadino ad alcuni erruri’ .
«Con quella dell’inurbamento,
si accompagnarono altre cause: la sproporzione fra redditi e spese, le
dissipazioni per vanità e fasto connesse con la titolomania, la costruzione di
palazzi e ville sontuose [ e le doti di
paragio di cui sopra].
«Non pochi baroni avevano
accumulato sui loro patrimoni tanti arretri di soggiogazioni per doti, che ‘non
hanno forma di casare le loro figlie,
sorelle ed altre persone, alle quali sian dovute doti [ S.V. Bozzo - Corrispondenza particolare di Carlo
d’Aragona, in Documenti per servire
alla Storia di Sicilia, Palermo 1877, p. 167 sgg.]; e il pagamento era
divenuto oltre modo difficile.
«Poiché questi debiti davano
ai creditori diritto a procedere direttamente sui frutti dei feudi, e poteva
accadere che, in tal caso, al debitore non restasse margine alcuno di reddito,
così questi li lasciava incolti.
«I creditori, a loro volta
non mancarono di agire per far valere giudizialmente i beni dei debitori. Il
governo cercò di rimediare a questo stato di cose. Il viceré Maqueda, per
esempio, imprigionò il barone di Siculiana per i suoi molti debiti.»
Illuminante un recente studio
di Maurizio Rizza - La rescissione delle
soggiogazioni in forza del decreto 10 febbraio 1824. Stralciamo alcuni
passi:
«Tra il 1826 ed il 1846 il
volto della proprietà fondiaria siciliana subisce una significativa
modificazione per effetto della legge 10 febbraio 1824 che dava ai debitori di
soggiogazioni la possibilità di soddisfare i debiti contratti con la cessione
di fondi di valore corrispondente.
«La soggiogazione, com’è
noto, era una sorta di ipoteca a rendita perpetua gravante sulla proprietà
feudale.
«Essendo questa considerata
per sua natura inalienabile, ai creditori era data facoltà di agire
esclusivamente sulla rendita del debitore e, qualora questo si mostrasse
inadempiente, veniva concessa la vendita giudiziale dei beni solo dietro
espressa autorizzazione del re.
«Tra la seconda metà del ‘500
e i primi del ‘600 il fenomeno delle soggiogazioni aveva assunto proporzioni
notevoli sia per il numero dei debitori sia per la quantità dei debiti
contratti ...» [Pag. 297].
Principalmente «.. era la nobiltà ad essere pesantemente indebitata: le
numerose e consistenti donazioni ad enti ecclesiastici ed opere pie, certi
complessi e obbligati rapporti di parentela, e il tenore di vita
oltremodo sfarzoso per abito
mentale e per esigenze di corte vi influivano in maniera determinante.
«Un ruolo rilevante
assumevano [...] nella progressiva decadenza di molte grandi famiglie
aristocratiche le cosiddette “doti di paragio”. Secondo le costituzioni de dotario di re Ruggero, in aliquibus di re Federico e quamplurium di re Guglielmo, il barone
era tenuto [a dotare i suoi stretti parenti in maniera congrua]» (pag. 298)
[2]) E
l’A. soggiunge:
«L’abitudine dei baroni
siciliani, nelle cui mani era concentrata la maggior parte della proprietà
fondiaria dell’isola, di non assolvere agli obblighi aggravava il debito
iniziale di un considerevole accumulo di arretrati.
«Questo stato di cose si
ripercuoteva inevitabilmente sull’agricoltura isolana. Diventando sempre più
difficile tener dietro ai pagamenti e
non potendo vendere i loro beni feudali, essi preferivano lasciare in abbandono
quelle terre dalle quali, per il vincolo della soggiogazione, non potevano
ricavare alcun utile.
«Per evitare che il dilagare
del fenomeno potesse provocare nuove terribili carestie come quella del
1590-92, e per impedire che le numerose richieste di far vendere giudizialmente
i beni dei debitori ridimensionassero i patrimoni della nobiltà, la cui ricchezza
doveva contribuire alla magnificenza del regno, erano stati emanati a
cominciare dal 2 dicembre 1598 una serie di provvedimenti che culmineranno
nella istituzione della Deputazione degli Stati.
«Ne derivarono, però, tanti e
tali abusi che il governo fu costretto ad intervenire ripetutamente nel
tentativo di mettere ordine in questa intricata questione.
«Non potendo abolire l’uso
delle soggiogazioni ... i provvedimenti regi si riducevano alla pura e semplice
regolamentazione di quei pagamenti, che di fatto non venivano eseguiti, e alla
rimozione dall’incarico dei giudici e amministratori corrotti.
«Questa linea di fondo sarà
confermata anche nelle stesse severe disposizioni contenute nella Carta reale
del 13 agosto 1735 per i decorsi delle soggiogazioni. Tra il 1622 e 1812
numerose furono le richieste dei baroni di mettere in amministrazione giudiziaria
i propri beni la qual cosa, tuttavia, non valse ad evitare l’arresto di qualche
nobile, il fallimento di illustri casate, lunghissime ed irrisolte liti
giudiziarie e prepotenze di ogni sorta» (pag. 299-300).
Per tanti versi, la storia
dei Del Carretto è l’emblema di queste annotazioni.
[3])
Archivio di Stato di Agrigento - Fondo
46 - vol. 506 - f. 204:
«ex actis meis notarii Angeli Castro Joanne Racalmuti -
«Est sciendum qualiter inter alia capitula testamenti solemnis et in
scriptis quondam don Vincentij del Carretto sacerdotis, ultimi sub quo
decessit, facti in actis meis notarii infrascripti die XV° augusti VII ind.
proximae praeteritae 1624, aperti et publicati in eisdem actis meis sub die XVIII presentis mensis septembris VIII^ inditionis instantis, extat capitulus
ut infra:
«“Item dictus testator legavit et legat de summa illarum unciarum
quadraginta novem redditus supra statu et baronia Ciramis vigore contractuum
superius expressatorum uncias duodecim
redditus Ven: Conventui Sanctae Mariae de Monte Carmelo terrae Racalmuti pro
celebratione unius missae de requie pro anima Ill.i Don Hieronimi del Carretto
comitis Racalmuti eius fratris.”»
Se ne ha la riprova nell’atto
di donazione del 10 luglio, IIIJ^ Ind.
1621 (ASP - Protonotaro Regno - Investiture - Busta n.° 1569 - Processo n. 4074 - 1621 - f. 10) che recita:
«.. Don
Vincentius del Carretto frater ipsius Don Hironimi comitis et avunculus
dictorum Don Joannis et Donnae Dorotheae...»
[4])
vedi testamento reperibile in Archivio di Stato di Agrigento - Fondo 46 - vol.
501.
[5])
Archivio di Stato di Palermo - Fondo: Conservatoria Registro - Serie
Investiture - Busta n.° 141- Anni 1636-48
- f. 118 -
Il documento, invero, riesce
ad intricare ancor più le vicende feudali di Cerami di cui si è detto.
Per gli eventuali
appassionati di araldica ne facciano una sintetica trascrizione, lasciando però
su di loro il gravoso compito di dipanare la matassa - giuridica ed ereditaria
- delle poco chiare vicende e dell’armonia fra i diversi documenti, distanti quasi
un secolo l’uno dall’altro.
«Investitura del fego di Donna Maria in persona di D. Antonino Grillo.
«Die 16 septembris X ind. 1641 - Apud urbem felicem Panormi ...
«d. Joseph Burghetti procurator
.. vigore procurationis in actis notarii Ascanij de Frat’Antoni Panormi
die 22 februarij IX^ ind. 1641 .. D. Antonii Grillo baronis pheudi D. Mariae
tenentis et possidentis feudum praedictum olim de membris et pertinentiis
baroniae et terrae Ceramis ... ob venditionem de eo sibi factam sub verbo regio
absque spe reddimendi ut dicitur “à
lutti passati” per ill.mum D. Joannem del Carretto Comitem Rahalmuti et baronis
dicti feudi et pro eo per ill.m D. Ferdinandum Isguerra olim consultorem E.S.
et judicem deputatum electum per S. E. in venditionem feudi paedicti per acta
notarii Cesaris Luparelli Panormi die 7. ottobris 9^ ind. 1640 ...
«In quo feudo dictus ill.s D. Jo: Junior successit tam ut donatarius
quondam ill.is Hieronimi del Carretto eius olim patris, quam uti filius primogenitus legitimus et naturalis ac
indubitatus successor quondam ill.is Hieronimi vigore donationis in attis notarij Angeli Castrojoanne terrae
Raxhalmutu die X Juliii IIIJ^ ind. 1621, insinuatae in actis Juratorum dictae
terrae eodem die et postea confirmatae per dictum ill.m D. Hieronimum per
quamdam scripturam privatam seu apodixam
manu reverendi patris Francisci Testa
virectoris Collegij Societatis Jesus civitatis Nari, subscriptam manu ill.s Don
Hieronimi et reservatam penes eumdem patrem Rectorem et exinde per acta notarii
Anibalis Musanti
«voluit dictus ill.s del Carretto Don Hieronimus et expresse mandavit
quod post dies duos a die eius mortis praedicta scriptura seu apodixa vim et
roborem habeat et sub dicta dispositione mortuus fuit sub die primo Maij V^
Ind. 1622.
«Vigore cuius pèer M.R.C. fuerunt confirmati tutores ill.s D. Beatrix
del Carretto et de XXliis
vidua relicta dicti quondam Ill.is D. Hieronimi et U.J.D. D. Vincentius
del Carretto dicti don Joannis, moderni comitis pro ut patet per cedulam
receptam penes acta M.R.C. sub die 23 Julii V^ Ind. 1622 et inventarii facti
per dictos tutores in actis Anibalis Musanti Panormi die 3 septembris VI^ ind.
1622
«et dictus ill.s don Hieronimus successit ut unicus filius ab intestato
ob mortem quondam ill.s D. Joannis del Carretto Senioris eius olim patris,
vigore inventarii hereditatis facti in actis notarij Pauli Mulé Panormi die 7
Maij 6^ ind. 1608
«quod feudum fuit venditum dicto Ill.i Don Joanni Seniori per don
Aleranum et d. Joseph del Carretto fratres per acta notarii Francisci de Alfano
Panormi die 17 septembris 13 Ind. 1599.
«In quo feudo dicti D. Aleramus et d. Joseph fratres successerunt ob
mortem D. Beatricis del Carretto
eorum sororis pro ut patet per acta notarii Joannis Carbone die 12
septembris 1592.
«Quod feudum fuit dotatum dictae D. Beatrici per D. Elisabettam del
Carretto, eius matrem, per acta notarii Michaelis de Avanzato sub die XJ
Augusti primae ind. 1588.
«Quod feudum fuit venditum per donnam Beatricem Russo et del Caarretto
baronissam dictae terrae Ceramis et dominum quondam ill.m D. Joannem del
Carretto Seniorem Jug. vigore actus venditionis in actis notarij Francisci
Palmeri die 6 octobris 2^ ind. 1573.
«Quae Donna Elisabetta coepit investituram de dicto feudo ut patet per
investituram sub die X Aprilis V^ ind. 1577.
«Et quia de successionibus praedictis non apparunt captae nullae
investiturae per supradictos del Carretto, pout erant obligati juxta formam
capitulorum Regni et Regius Fiscus praetendebat penas tangentes R.C., fuit
itaque supplicatum E.S. ex parte sub die 19 Augusti 9^ ind. 1641 quod, stante relatione magistri Collectoris
fuisset provisum quod si solverit uncias centum vinginti infra dies octo non
molestetur.
«Ita quod, cum infra mensem capiat investituram, pro ut apparet penes
acta Tribunalis R.P., sicuti de procuratione dicti ill.is D. Joannis contracta
per supradictum actum, quam quidem investituram, actus predictos et
procurationes supra calendatas, pro curiae cautela, vidit et recognovit
spectabilis vir Regius Consiliarius dilectus, U.J.D. D. Jacobus Corsettus .
«Constitutus procurator, in presentia Ill.mi et Ex.mi Domini D.
Alfonsi-Henriquez de Caprera Comitis Comitatus Mohac et Proregis et G.C. huius
Siciliae Regni, pro feudo praedicto, ob venditionem et provisionem praedictam,
praestitit atque fecit juramentum et homagium debìtae fidelitatis et
vassallagij amnibus et ore commendatum, in forma debita et consueta, juxta
sacrarum d. Regni constitutionum imperialium
continentiam et tenorem, in manibus et posse praefatae E.S. illud
recipientis, nomine et parte S.C. et majestatis domini nostri Philippi quarti
Hispanorum utriusque Siciliae, Hierusalem
etc. Regis invictissimi eiusque heredum et successorum in perpetuum,
retentis et reservatis Regiae Curiae eis omnibus;
«quae in privilegio dicti feudi eidem Curiae reservantur, natura,
tamen, et forma feudi in aliquo non mutata, servitio militari, juribus R.C. et
alterius cuiuscumque semper salvis et illesis remanentibus et non aliter nec
alio modo.
«Praesentibus ad hoc pro testibus Gaspare Bonsignore et Jo: Battista
Magliolo .. alijsque quam pluribus.
«In cuius rei testimonium praesens nota facta est loco investiturae,
redapta et registrata in officiis Regni Siciliae Protonotarii, et Regiae
Cancellariae juxta formam Capitulorum Regni, nullo tamen per praesentem notam
generato prejudicio juribus Regiae Curiae tacite vel expresse sed illa semper
illesa remaneant.
« - Don Juan de Granada Cons. - ... vidit Corsettus F. P.; Gaspare
Guarneri pro... vidit de Cavallariis,
Reg. Coll.».
[6])
Non sappiamo molto sulle otto sorelle (e le due zie: Maria e Porzia) di
Giovanni IV° del Carretto, ma abbastanza per escludere la fondatezza della
pagina di Eugenio Napoleone Messana
(E.N. Messana - Racalmuto nella
storia della Sicilia - Canicattì 1969, pag. 104) sulla saga familiare dei
Savatteri in ordine al mirabolante matrimonio di Scipione Savatteri con Maria
del Carretto con dotazione, in dispregio delle ferree leggi feudali dell’epoca,
di un improbabile feudo a Gibillini.
E.N. Messana - come del resto
Nicolò Tinebra Martorana, e in definitiva lo stesso Leonardo Sciascia - subiva,
nel far storia, «la tentazione dell’accensione visionaria, fantastica», per
dirla con lo stesso Sciascia.
Nulla di male, sia chiaro. Basta
tenerlo presente.
Ci riferiamo, per intenderci, a
questa simpatica digressione di famiglia:
«Giovanni IV del Carretto, marito di donna Beatrice Ventimiglia, figlia
unica del principe di Castelbuono, quando ascese alla contea [di Racalmuto]
aveva tre figli, Girolamo Aldonza e Porzia. Girolamo per la legge del
maggiorasco vigente era destinato alla successione della contea.
«Le figlie erano entrambi ospiti della zia Marzia del Carretto, figlia
di Giovanni III, abbatessa di Santa Caterina in Palermo fino al 1598, data della sua morte e vi sarebbero
forse rimaste se non fossero state riportate in paese nel 1600, per volontà del
padre, allarmato dell'insurrezione contro il nuovo pretore. In quell'occasione
Giovanni IV promise le figlie in moglie a quei cavalieri che gliele avessero
ricondotte al castello sane e salve.
«La sorte arrise al milite Scipione Savatteri che sposò Maria ed ebbe
in dote il feudo di Gibillini. Questo matrimonio diede inizio alla famiglia dei
Savatteri di Racalmuto, che risulta essere la più nobile di tutte le altre.
«I Savatteri infatti discendono da Pable Zavatier, nobile francese al
seguito del conte Ruggero [...]
«Non si hanno notizie dei motivi per cui Aldonza non contrasse mai
nozze, si sa soltanto che lei nel 1605 a proprie spese fece costruire l'Abbazia
di Santa Chiara ...».
Stando al Villabianca (Sicilia Nobile), l’abbadessa si chiamava Maria e non Marzia.
Lo stesso marchese riporta le lapidi funeree delle due sorelle nei seguenti
termini, dopo aver premesso che:
«Di esso [Giovanni, il padre del
primo conte di Racalmuto] fu nobile prole GIROLAMO
, che fu lo stipite della presente investitura, ..., e le due femmine MARIA e PORZIA; la
prima delle quali si vede sepolta nella Chiesa del Monastero di Santa Caterina
di Palermo dentro un tumolo marmoreo adorno della seguente iscrizione:
MARIAE de CARRETTO Joannis Domini RAHALMUTI filiae antiquissima, et
praeclarissima SAXONIAE Ducum stirpe, et quadam animi probitate
excellenti foeminae,
quae annum aetatis agens septimum se ad Divae
Catharinae Coenobium religiosissimum aggregavit vixitque singu-
lari probitatis exemplo itaque anno 1566 Coenobii Antistita dele-
cta familiam meliore vitae ratione informandam curavit, eiusdem
deinde Coenobii Templo, quod condere inceperat absoluto, vitam omni
laude cumulatam explevit D. PORTIA de CARRETO uxor D. Gasparis
de Barresio illustris vir carissimae sorori hoc amoris, et doloris
monumentum posuit. Vixit annos 70. Antistita annos 30. Obiit
anno 1598.
Scorgendosi la seconda cioè PORZIA testè avvisata dentro un altro
tumolo, eretto nella Cappella di Nostra Signora della Grazia della Chiesa de'
Padri di S. Cita di Palermo col seguente epitaffio:
Conditur hoc tumulo BARRESIS PORTIA, paris
CARRETTI illustris, candida progenies.
Vivit nobilitas, vivit post funera virtus.
Sic moriens Coeli gaudia laeta subit.
Obiit anno 1607 mense Julii die 25.
Accanto di questo tumolo se ne
vede un altro appartanente ad essa casa CARRETTO, ove si legge:
CARRECTI genere et claro jacet orta Beatrix
virtutum ardenti lumine splendior.
Vixit cara viro moriens, coeloque recepta est,
Inde Beatricis nomen, et homen[sic, ma forse honorem n.d.r.] habet.
D. ARDENTIA ARCAN D.
Betricis CARRETTOS PHILADELPHI olim Baro-
nissae matri suae suavissemae tumulum propriis expolitum la-
crymis moestissima
[F.M. EMANUELI e GAETANI - Della Sicilia Nobile - parte IV
- Forni Editore - Copia anastatica dell'edizione Palermo 1759 - RAGALMUTO -
pag. 203 Parte II Libro IV»
La Marzia di N.E. Messana sembra non esistere.
Quanto a Scipione Savatteri, i registri
della Matrice lo attestano verso la fine del ‘500, ma in termini poco
nobiliari.
Fu comunque un personaggio cospicuo;
proveniva da Mussomeli e sposò tal Petra (o Pina o Petruzza). Dal 1588 al 1595,
troviamo tra i battesimi diversi figli di tal Sipiuni Savatteri, senza orpelli
nobiliari. Ecco gli estremi del suo matrimonio:
12/10/1586 -SAVATERI SCIPIONI DI PAOLINO E BELLADONNA
sposa SAGUNA PETRINA DI ANTONINO E
MARCHISA. Benedice le nozze: don Paolino Paladino -TESTI: Montiliuni Gasparo notaro e cl. Cimbardo
Angilo.
Ma l’origine dai del Carretto da parte
dei Savatteri è, a dire il vero, una revindica non nuova.
La sostenne sino alla frenesia tal
“Giuseppe Savatteri fu Gaspare di
Racalmuto” in un processo celebratosi in Girgenti il 14 luglio 1876 [Cfr.
Archivio Curia Vescovile Agrigento - Registro Vescovi 1902, pagg. 669 e segg.].
La causa verteva sulla pretesa del
Savatteri di avere per sé il beneficio del Crocifisso, a suo avviso “usurpato
dalle autorità ecclesiastiche di Racalmuto in pregiudizio della famiglia Lo
Brutto, di cui il Savatteri proclamasi il maggiore dei discendenti”.
Persa la causa, il Savatteri si rivolse
persino al Vaticano per far valere le sue ragioni. Perse ovviamente il suo
tempo.
Presso la Matrice si trovano alcune carte
processuali, significative per la storia dei benefici ecclesiastici di
Racalmuto. Si legga, ad esempio, la «Comparsa
conclusionale dei Signori ben. d. Calogero Matrona e consorti convenuti -
contro: i conjugi d. Giuseppe Savitteri attore e donna Concetta Matrona,
interveniente forzosa - e contro il signor cav. Vincenzo Ferlazzo Intendente di
Finanza - dell’avv. Giuseppe De Luca (ma,
crediamo, con l’assistenza
dell’Arciprete Tirone).
[7]) Conferma questa data, oltre il citato atto
della Matrice di Racalmuto, il già trascritto documento dell’Archivio di Stato
di Palermo - Fondo: Conservatoria Registro - Serie Investiture - Busta n.°
141- Anni 1636-48 - f. 118 da cui si
desume che Girolamo del Carretto «.. mortuus fuit sub die primo Maij 1622».
Si aggiunge che in forza
delle rituali disposizioni «... per M.R.C. fuerunt confirmati tutores ill. D.
Beatrix del Carretto et de XXliis
vidua relicta dicti quondam Ill.is D. Hieronimi et U.J.D. D. Vincentius
del Carretto».
[8]) Diari della città di Palermo, a cura di
Gioacchino di Marzo - Palermo 1869 - “Varie
cose notabili occorse in Palermo ed in Sicilia” cavate da un libro scritto da Valerio Rosso dottor in medicina, della
città di Corleone - pag. 283.
[9])
questo personaggio riscuote l’incondizionato plauso del Garufi (op. cit. pag.
280 e segg.).
In contrasto con il potente inquisitore Ludovico Paramo, capace
di sottigliezze e fortemente causidico,
gli seppe «opporre sempre la forza dell’argomentazione giuridica e
talvolta anche l’appoggio della forza materiale».
Presso i Viceré spagnoli,
«sapeva a tempo opportuno insinuarsi, mostrar loro come gl’Inquisitori cercassero
di abbassarne l’autorità e renderseli ligi per ottenere i rimedi ch’egli sapeva
con acume trarre dalla copiosa serie di costituzioni e prammatiche.».
Il Rao era stato, nel 1590,
dall’Albadalista promosso da Avvocato
Fiscale a Presidente della Gran Corte (Garufi, op. cit. pag. 257) e ciò «a
dispetto degl’Inquisitori che più d’una volta
gli [avevano fulminato] la
scomunica, sin dall’80».
In tal modo «ebbe fra le mani
quasi tutta l’amministrazione civile e penale del regno».
Lo troveremo ancora in auge
nell’inchiesta per l’uccisione nel 1608 di Giovanni del Carretto, anche se dopo
verrà chiamato a discolparsi (vedi nota,
supra).
Quanto all’Albadalista,
costui, in contrasto con i nobili in
Parlamento, cercò che venisse loro vietato «d’ascriversi al S. Officio»
(Garufi, op. cit. pag. 280).
I nobili furono costretti ad
assecondare quelle esigenze « soprattutto
per evitare che nel Parlamento, cercando di colpire direttamente il
Viceré, si finisse per dare, anche indirettamente, un voto di biasimo alla
Corona.» (op. cit. pag. 280).
In tale contesto si sa che
«il 2 marzo ‘91 Filippo II ordinava a Madrid che non s’ammettessero nel foro
del S. Officio “ ni Titulares ni Barones deste Reyno” che tengano
baronie» (ibidem, pag. 280).
Come abbiamo visto, Giovanni
del Carretto, riesce egualmente a farla franca e ad ottenere il foro
dell’Inquisizione, ma con tanta difficoltà, tante umiliazioni e molti patemi
d’animo.
[10])
Leonardo Sciascia - Morte
dell’Inquisitore - Bari 1982, pag. 183 - la pensa invero alquanto
diversamente.
Precisa: «questo
stesso Giovanni IV troviamo nella cronaca dello scoppio della
polveriera del Castello a mare, 19 agosto 1593: stava a colazione con
l'inquisitore Paramo, ché allora il Sant'Uffizio aveva sede nel Castello a
mare, quando avvenne lo scoppio. Ne uscirono salvi, anche se il Paramo
gravemente offeso. Vi perirono invece Antonio Veneziano e Argisto Giuffredi,
due dei più grandi ingegni del cinquecento siciliano, che si trovavano in
prigione.»
[11])
Op. cit. - Diario della città di Palermo da’ mss. di Filippo Paruta e Niccolò
Palmerino - vol. I, pag. 136.
[12])
ARCHIVIO DI STATO IN PALERMO - PROTONOTARO DEL REGNO - PROCESSI D’INVESTITURE -
BUSTA N. 1555 - PROCESSO N. 3542 -
FEUDO: CONTEA TERRA E CASTELLO DI RACALMUTO -
COGNOME E NOME
DELL’INVESTITO: DEL CARRETTO FRANCESCO [ma trattasi di Giovanni: errore
dell’archivista palermitano di questo secolo] - ANNO: 1600
[13])
ARCHIVIO DI STATO IN PALERMO - PROTONOTARO DEL REGNO - PROCESSID’INVESTITURE -
BUSTA N. 1517 - PROCESSO N. 2554 - FEUDO: TERRA CON CASTELLO DI RACALMUTO -
COGNOME E NOME DELL’INVESTITO: DE CARRECTIS GIROLAMO - ANNO: 1562.
Giovanni del Carretto era
morto nel gennaio del 1560 [invero un
qualche dubbio esiste: la documentazione disponibile potrebbe contenere qualche
errore, ragion per cui la data andrebbe spostata all’anno dopo, 1561 se, come
sembra, l’indizione è la IV] come emerge dal seguente passo:
[ibidem] « ... pertinente
tenore capituli dicti testamenti facti in actis notarii Jacobi Damiani de dicta
terra Racalmuti die ij^ mensis januarij tertiae ind. 1560, [secondo copia del
notaio Amella tratta da un atto del detto Damiani]».
Sembra certo, peraltro, che Girolamo del Carretto prenda possesso di
Racalmuto «Die VIII Januarii tertiae ind.
1560» [ibidem].
Codesto notaio Giacomo
Damiani ci ricorda il notaio finito nelle grinfie dell’Inquisizione di cui
parlano Leonardo Sciascia ed Eugenio Messana.
Stando alle date, sembra
proprio quello dell’Atto di Fede che si celebrò in Palermo il 13 di aprile 1563
(L. Sciascia - Morte dell’Inquisitore
- op. cit. pag. 184).
Quanto alla chiesa di S.
Francesco, essa, dunque, era già eretta
nel 1560 (o comunque nel 1561). Da
rettificare il Tinebra Martorana (pag. 141) che vuole: «Nell’anno 1566 Giovanni del Carretto legò
una certa somma da adoperarsi per i restauri degli edifizî del Convento».
Incorre in un errore di
stampa, come può desumersi da pag. 199 dello stesso volume. La fonte è comunque
questa: ALMAE SICILIENSIS PROVINCIAE - ORDINIS
MINORUM CONVENTUALIUM S.FRANCISCI - a patre magistro Philippo CAGLIOLA - a
MILITA - "Sicilia francescana
secoli XIII-XVIII a cura di Filippo ROTOLO" Venetiis, MDCXLIV - Officina
di Studi Medievvali - Via del Parlamento, 32 - 90133 PALERMO - 1984. [Petrus
Rodulfus THOSSINIANUS, Episcopus Senegallensis ordinis nostri, in Historia
Serafica - v. per RACHALMUTUM lib. 2] [p. 118]
LOCUS RACALMUTI [custodia agrigentina]. Suae fondationis
certam non habet notam, cum scripturas omnes grassantis pestis insumpserit lues. Quam ob rem annus
1576 a THOSSINIANO inscriptus, ad reparationem Ecclesiae, post eliminatum
languorem, non ad fundationem referendus; pugnaret siquidem secum Auctor, qui a
Comite Ioanne, certam pecuniam pro Ecclesiae reparatione legatam asserit, anno
1560.
Ecclesia denuo excitata, imperfecta iacet, in loco iuxta arcem a
Friderico Claramontano constructam, situs amoenus, qui fabricis non spernendis
incrementa suscepit. Ecclesia Divo Francisco dicata. »
[14])
Archivio Segreto Vaticano - SACRA
CONGREGAZIONE VESCOVI E REGOLARI - Anno 1599 - pos. C-L
[15])
Ciò che alla morte del prelato ricade nel dominio del Governo durante la sede
vacante: spoglio.
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