[Articoletto
n.° 10]
RACALMUTO
SOTTO GLI ARABI
di Calogero
Taverna
La pagina più buia della storia di Racalmuto è
quella del dominio arabo. Può dirsi una storia quasi trisecolare completamente
oscurata.
Di certo sappiamo che caduta Agrigento attorno all’
828 in mano dei Musulmani, anche per il tradimento del greco Eufemio, quella
che dovette essere la popolazione bizantina sparsa per il territorio di
Racalmuto finì sotto il dominio arabo. Di certo, verso l’840 i nuovi e più
stabili padroni furono i Berberi, gente della famiglia camitica della stessa
schiatta dei moderni marocchini. Distrussero costoro religione, usi, costumi,
tradizioni, cultura, superstizioni dei nostri progenitori racalmutesi di lingua
greca? Noi pensiamo di no.
Pochi, di religione non missionaria, necessitanti di
imposte a carico dei ‘run’ (romani o cristiani che dir si voglia), alieni da
commistioni ed in un certo senso razzisti, non avevano alcun interesse a
consumare genocidi nella nostra landa o a imporre il loro modo di essere maomettani
a quelli che quella ‘grazia’ non era stata concessa, perché militarmente
sconfitti. Allah non poteva essere anche il Dio dei vinti. Ed i vinti servivano
- come in ogni tempo - per lo sfruttamento, per il discrimine sociale, per il
supporto schiavistico su cui, mascherato e variegato, si radicano le leggi
della economia.
Così poté
esservi convivenza tra le due religioni e i due popoli, anche se mancano
testimonianze per comprovarlo. Ma non ve ne sono neppure di segno contrario.
Forse le tante lucerne funerarie ed i resti archeologici delle zone del Giudeo
risalgono proprio a quei secoli arabi, anche se sono attestazioni cristiane o
ebree oppure appunto per questo..
Propendiamo a
credere che gli indigeni bizantini di Racalmuto rimasero sul luogo al tempo della
conquista saracena; essi continuarono a coltivare grano e vite nelle zone alte
del territorio. I vincitori, intere famiglie di coloni, si assestarono nelle
valli, vicino alle fonti d'acqua della Fontana, del Raffo ed anche di Garamoli
e della Menta, in zone appunto propizie alle loro colture d'ortaggi, in cui
erano maestri e che i Run (i Cristiani) ignoravano. Dai Run, l'emiro di
Girgenti esigeva la tassa capitaria della Gezia, il soldo per mantenere il
culto dei Padri e la fedeltà alla propria religione.
Forse semplici
congetture, ma ci appaiono fondate: i Berberi, insediatisi da noi, introdussero sistemi di coltivazione degli
ortaggi alla stregua di quanto avviene ancor oggi. Certi autori riportati
dall'Amari descrivono la coltura delle cipolle con porche e zanelle come
tuttora si usa negli orti sotto l'attuale Fontana. (Michele Amari: Biblioteca
Arabo-Sicula, Torino 1880 - pag.
305-306: dal Kitab 'al Falah (Libro dell'Agricoltura) di Ibn 'al Awwam).
I secoli dal Nono all'Undicesimo sono sicuramente secoli arabi per Racalmuto.
Un documento
greco del 1178, se per avventura si dovesse veramente riferire a Racalmuto come
autorevolmente sostiene il Garufi, proverebbe appieno queste nostre ipotesi.
In effetti, in
quel documento greco del 1178 abbiamo il primo attestato storico sul toponimo di
Racalmuto, e già siamo ai tempi di Guglielmo II, il Buono. Ebbe a pubblicarlo nel 1868 il grande Salvatore CUSA
(cfr. I diplomi greci ed arabi di Sicilia, Palermo 1868, pag. 657-658 e pag.
729): vi si parla di una vendita a Berardo, priore di S. Maria di Gadera, di un
fondo sito in RAHALHAMMUT, per il prezzo di 50 tarì. A venderlo, nel settembre
di quell'anno, fu tale Pietro di Nicola GUDELO, insieme alla moglie Sofia ed
ai figli Tommaso e Nicola.
Il
toponimo Rachal Chammoùt ( ammu) figura scritto in greco e
la vendita del terreno viene fatta al lontano monastero di S. MARIA di GADERA,
sito nei pressi di Polizzi Generosa. Per alcuni studiosi locali, affetti di
laico attaccamento alle loro pretese origini musulmane, vi sarebbero le
stigmate della sofferenza post-araba di Racalmuto. Terra ormai di schiavi, il
suo circondario sarebbe stato spartito tra chiese e conventi e già dal 1093
avrebbe, per di più, subito l'onta dell'assoggettamento alle decime del Vescovo
di Agrigento, di cui per volontà dell'invasore normanno era stato ridotto a
territorio diocesano subalterno.
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