GIOVANNI III
DEL CARRETTO
Figura centrale nello snodo dei feudatari di Racalmuto, fu anche
colui che seppe portare all’apice la signoria carrettesca della nostra terra.
Alla morte del padre s’insedia nel castello baronale con puntiglioso rispetto
della liturgia feudale. Invia a Palermo come suo procuratore il magnifico
Artale Tudisco - di cui sopra - ed il 28 gennaio 1519 ottiene la rituale
investitura.
Giovanni III del Carretto, appena barone, si sarebbe macchiato
della committenza di un delitto contro i Barresi di Castronuovo. Così racconta
il suo lontano pronipote Vincenzo di Giovanni. Ma sarà stato poi vero? Si dà il
caso che gli atti disponibili ce lo raffigurano - per quel che vedremo - un
uomo religiosissimo, al limite del bigottismo, prodigo con preti, monaci e
chiese. Anche con il suo notaio, quel Jacopo Damiano che finì sotto tortura
nelle segrete del Santo Uffizio. Per eresia, si scrisse. Per eccessiva
indulgenza verso gli eccessivi empiti di prodiga religiosità del suo assistito
in punto di morte, abbiamo voglia di pensare noi.
Il Baronio ce lo descrive ovviamente in termini esageratamente
elogiativi. Traducendo dal latino, per quello storico di casa del Carretto «Da
Ercole si ebbe Giovanni III, singolare figura per prudenza e per intemerata
virtù. Carlo V quando fu a Palermo lo coprì di mirabili onori. Di tal che, sia
per la propria che per l’avita nobiltà, fu degno di stare con grande onore tra
i Dinasti. Giovanni ebbe due figli: il primogenito Girolamo ed il glorioso
Federico che divenne barone di Sciabica.» (vedi op. cit. §§ 75 e 76)
Sul citato
Giovanni fornisce lumi il processo n.
1175.([1])
Ne abbiamo fatto già qualche richiamo. Siccome lo riteniamo basilare per la
storia racalmutese del secolo XVI, lo trascriviamo, traducendo, quando occorre,
dal latino.
«N.° 1175 - In
Palermo nell’ufficio del Protonotaro del
Regno di Sicilia, sotto la data del 28 gennaio, VII^ Ind., 1519.
«Memoriale
esibito e presentato nell’Ufficio del Protonotaro del Regno di Sicilia,
dall’ill. Artale de Tudisco, procuratore del magnifico signore don Giovanni del
Carretto, figlio primogenito, legittimo e naturale, unico ed universale erede
del quondam magnifico Ercole del Carretto, un tempo signore e barone della
terra di Racalmuto (Rayalmuti), che teneva e possedeva la detta terra di
Racalmuto con il suo castello e fortilizio, nonché con i suoi diritti e
pertinenze a seguito della morte del prefato quondam magnifico Ercole, suo
padre.
E tanto per prendere
l’investitura della detta baronia con i suoi diritti e pertinenze tanto per la
morte del signor nostro Re Ferdinando, di gloriosa memoria, quanto per la
successione delle maestà cattoliche, la Regina Giovanna ed il Re Carlo, signori
nostri invittissimi, quant’anche per la morte del prefato quondam magnifico
Ercole del Carretto, suo padre.
«Innanzitutto, si afferma
che il detto quondam magnifico Ercole del Carretto, padre del detto magnifico
don Giovanni, al tempo della sua vita, e fino alla sua morte, tenne e
possedette la terra di Racalmuto, con il
suo castello e fortilizio, nonché con i suoi diritti e pertinenze, cambiando
tutti gli ufficiali tutte le volte che piacque al medesimo quondam magnifico
barone Ercole e percependo e facendo percepire i relativi frutti, redditi e
proventi da vero signore e padrone.
«Del pari, si testimonia che
il prefato magnifico signore Giovanni del Carretto fu ed è figlio primogenito,
legittimo e naturale del detto quondam magnifico Ercole e come tale e per tale
lo teneva, trattava e reputava, così come era dagli altri tenuto, trattato e
reputato.
«Del pari, si
afferma che il detto quondam magnifico Ercole del Carretto, un tempo signore e
barone della detta terra e padre del detto magnifico signor Giovanni del
Carretto, quando piacque al Signore, morì e defunse nel castello della predetta
terra di Racalmuto, sotto la data del mese di gennaio, VI^ Ind., 1517,
lasciando superstite e successore in detta baronia il detto magnifico quondam
Giovanni del Carretto, dello stesso quondam magnifico Ercole figlio unico,
legittimo e naturale, ed avendo prima redatto testamento solenne in mano del
notaio Antonio Quaglia del città di Agrigento, sotto il giorno 27 del predetto
mese di gennaio, testamento nel quale venne istituito suo universale erede il
detto magnifico signor Giovanni.
«Del pari, si afferma che,
morto e defunto il detto magnifico Ercole, il detto magnifico don Giovanni del
Carretto, quale figlio legittimo e naturale del detto quondam magnifico Ercole,
e come successore legittimo in detta baronia, ebbe per il tramite del suo procuratore, prese e conseguì l’attuale, reale e corporale possesso della
detta terra di Racalmuto con il suo castello e fortilizio, nonché con i suoi
diritti e pertinenze, secondo quanto risulta dal rogito celebrato nella terra e
nel castello predetti dal notaio Antonio Quaglia della città di Agrigento in
data 16 di gennaio VI^ Ind. 1517.
«Del pari, si afferma che in
questo regno di Sicilia fu ed è fama pubblica e voce notoria che il prefato
cattolico Re Ferdinando, di gloriosa memoria, morì e che il suo ultimo giorno
di vita cadde nel mese di gennaio della IV^ indizione [1516] passata prossima
ed a lui successe in tutti i suoi dominî
e regni la serenissima Regina donna Giovanna, sua figlia legittima e naturale,
nonché il cattolico ed invittissimo Re Carlo, della stessa regina Giovanna
figlio primogenito e naturale. Così fu ed è la verità.
«Del pari, si afferma che al
fine di prestare il debito giuramento e l’omaggio della dovuta fedeltà e del vassallaggio, nonché di
ottenere l’investitura della predetta terra e castello, con tutti i suoi
diritti e pertinenze - tanto per la morte di Re Ferdinando, di gloriosa
memoria, quanto per la morte del proprio padre - seriamente creò ed istituì suo
procuratore il magnifico illustre Artale de Tudisco, come risulta dalla procura
agli atti dell’egregio notaio Giovanni de Malta, in data 26 del presente mese
di gennaio VII^ Ind. 1519.
«Testi ricevuti ed esaminati nell’ufficio del
Protonotaro del Regno a richiesta ed istanza del magnifico don Giovanni del
Carretto, figlio legittimo e naturale del quondam magnifico don Giovanni del
Carretto, al fine di prendere l’investitura della baronia di Racalmuto, tanto
per la morte del Re Ferdinando, di gloriosa memoria, quanto per la morte del
magnifico Ercole del Carretto, suo padre e signore di detta terra.
«Il Nobile Alonsio de Calderone giura solennemente
per testimoniare che: “stando ipsu
testimonio como uno degli domestichi di lo quondam magnifico Herculi lu
Garretto baruni di Rayhalmuto vidia dicto magnifico regiri et governari la
dicta terra et in quella permutari li
officiali et rescotiri et fachendosi
rescotirj li renditi et proventi di dicta terra comu veru signuri et patruni;
et canuxi lo dicto don Joanni de Carrectis esseri figlo primogenito et unico di
dicto quondam signuri Erculi lu
Garrecto, a lo quali lo dicto quondam magnifico Herculi tenia et reputava per
figlo unico et primo genito et da tucti accussì era tenuto, trattato et
reputato; lo quali dicto quondam
magnifico Herculi baruni fu mortu in lo castello di dicta terra et lo presenti
testimonio lo vitti sepelliri et secondo intisi dicto testimonio dicto
magnifico Herculi innanti sua morti fichi testamento ...”
«Francesco Maganero giura solennemente per
testimoniare in modo del tutto conforme
alla testimonianza resa prima.
«Il nobile Andrea de Milazzo giura solennemente per
testimoniare in modo del tutto conforme
alle testimonianze rese prima.
«I nobili Antonino Palumbo, Alonso de Silvestro e
Gaspare Sabia giurano solennemente per testimoniare che: “in questo Regno di Sicilia fu ed è fama pubblica e voce notoria che il
prefato cattolico Re Ferdinando, di religiosa memoria, haviri
passato de questa vita in sancta gloria in lo misi di ginnaro anni IIIJ Ind.
proximae decursae a lu quali successiru in tutti soj reamj et segnurij la
serenissima regina dop.na Johanna sua figla legittima et naturali et lo
catholico et invictissimo re Carlo della
stessa Giovanna figlio primogenito, legittimo e naturale ... “
«E’ da sapere come fra gli altri capitoli del
testamento del quondam spettabile Ercole del Carretto, barone della terra di
Racalmuto, vi è l’infrascritto capitolo.
«Nel nome del Signore nostro Gesù Cristo, amen.
Nell’anno dall’incarnazione 1517, nel mese di gennaio, il giorno 27, VII^
indizione, in Racalmuto e nel castello del magnifico e spettabile signor Ercole
del Carretto [si raccolgono le ultime volontà testamentarie], accese tre
candele verso la quinta ora della notte.
«E poiché capo e principio di ogni testamento fu ed
è l’istituzione dell’erede universale, così il detto magnifico e spettabile
signor Ercole, testatore, istituì, fece ed ordinò suo erede universale il
magnifico e spettabile signor D. Giovanni del Carretto, suo figlio legittimo e
naturale, nato e procreato da lui e dalla quondam magnifica e spettabile donna
Marchisa del Carretto, un tempo prima moglie dell’illustre e spettabile
testatore sopraddetto.
«E tale eredità si estende sopra tutti i beni suoi,
mobili e stabili, presenti e futuri, amovibili ed inamovibili, nonché in ordine
a tutti i debitori ovunque esistenti e meglio individuabili e designati, e
principalmente nella baronia, nei feudi e nei territori di Racalmuto, con tutti
i suoi diritti, redditi, emolumenti, proventi, onori ed oneri della detta
baronia a giusto titolo spettanti e pertinenti,
secondo la serie ed il tenore dei suoi privilegi e dei suoi indulti e
concessioni, in una con l’amministrazione della giustizia giusta la forma dei
suoi privilegi.
«Dagli atti miei, notaio Antonino Quaglia
agrigentino.
«26 marzo - VI^ Ind. - 1518.
«A tutti e singoli i chiamati ad ispezionare
seriamente, vedere e leggere il presente atto pubblico, sia evidente e noto che
esso fu redatto da me notaio, con i
testimoni infrascritti, presso il
castello della terra e baronia di Racalmuto nel Regno di Sicilia.
« Si è costituito il magnifico signor Cesare del
Carretto quale procuratore del magnifico
e spettabile signor don Giovanni del Carretto, signore e barone della predetta
terra e baronia di Racalmuto, figlio primogenito, legittimo e naturale del
magnifico e spettabile quondam signor
Ercole del Carretto, morto di recente nella detta terra e dipartitosi da questa
vita adempiendo tutte le formalità necessarie per conferire alle sue ultime
volontà la totale validità.
«Peraltro, con pubblico strumento redatto in carta
membrana, sono state espletate le conseguenti formalità in modo solenne presso la città di Napoli il
primo marzo VI^ indizione 1518 per mano del nobile ed egregio Bartolo Carloni
della stessa città di Napoli, abilitato notaio per tutto il regno di Napoli .
«Di tal che è stato preso, recepito e tenuto - così come si prende, si recepisce e si
tiene - il naturale, reale e corporale possesso della predetta terra e baronia
di Racalmuto per tatto e tocco delle chiavi del castello della stessa terra e
baronia, nonché della porta e del cantone
dello stesso castello, aprendo e chiudendo, entrando ed uscendo dal
castello ad libitum senza
l’opposizione di alcuno.
«Se ne attesta quindi il possesso con tutti i
singoli relativi diritti e pertinenze. E se ne redige atto in segno di vera
presa del possesso naturale, reale e corporale della predetta terra e baronia,
con tutti i singoli suoi diritti e pertinenze, acquisendone l’integrità dello
stato della stessa terra e baronia sotto il profilo del dominio, quale
configuratosi con le sue spettanze e pertinenze giusta la forma, la serie ed il
contenuto dei privilegi della ripetuta baronia.
«E continuando nella presa di possesso, fattane
l’acquisizione, il procuratore mutò e depose nella detta terra gli ufficiali;
in essa quindi nominò altri ufficiali e cioè: innanzitutto istituì e nominò
capitano della medesima terra Nardu lu Nobili; giudice il nobile Scipione lu
Carretto; giudice ordinario e militare,
il magnifico signore don Paolo de Mistrectis.
«Del pari, nominò Giurati: Enrico lu Nobili; Pietro
d’Acquisto, Vito Taibi e Andrea Gulpi. Come Castellano del predetto castello fu
chiamato il magnifico signore don Giovanni Benigno de Tudisco; come
Segreto, il magnifico Silvestro de Urso;
come Maestro Notaro il magnifico Gilberto de Tudisco.
«E per segno di quanto precede, il predetto
procuratore - a tal ultimo titolo - fece redigere il presente atto pubblico da
valere per ogni luogo e tempo.
«Testi: il magnifico Matteo del Carretto, il
magnifico Jo: Artale Tudisco, il magnifico Teseo de Torres ed il nobile Giacomo
de Alletto.
«Dai miei atti, notaro Antonino Quaglia agrigentino»
«26 gennaio VII^ Ind. 1519
«Il magnifico don Giovanni del Carretto, barone e
signore della terra di Racalmuto, presente innanzi a noi, spontaneamente -
con ogni miglior modo e forma con cui
più preclarmente può essere detto e fatto - costituì, scelse, creò e
solennemente nominò come suo vero ed indubitato procuratore, attore, nuncio
speciale il magnifico Giovanni Artale Todisco.
«Questi, presente ed accettando l’onere della
infrascritta procura del tutto volontariamente, compare a nome e per conto e parte del predetto magnifico costituente
dinanzi l’ill. signor Viceré per
prendere l’investitura della terra e baronia con relativo castello di
Racalmuto, nell’integrità del suo stato e nella pienezza dei suoi diritti e pertinenze,
sia per la morte di Re Ferdinando, di gloriosa memoria, sia per la successione
delle invittissime cattoliche maestà, la regina Giovanna ed il Re Carlo,
signori nostri invittissimi, e sia per la morte del quondam magnifico Ercole
del Carretto, il di lui padre.
«Al contempo, il procuratore, in nome e per parte
del predetto magnifico mandante, si presenta per prestare il giuramento e
rendere l’omaggio di debita fedeltà e vassallaggio nelle mani dell’illustre e
potente signore viceré, nonché per svolgere quant’altro occorra per prendere la
predetta investitura, non mancando il detto magnifico mandante di
obbligarsi sotto vincolo di ipoteca
etc. Così giurò etc.
« Testi: nobile Pietro Pasta e magnifico Vito
Paladello.
«Ex actis meis
no. Joannis de Malta de Panhormo,
extratta est praesens copia manu aliena. -
Collatione salva.»
«Pro Magnifici don Joannis de
Carrectis baronis Rayhalmuti investitura
VII^ Ind. 1519 - 1518-19 - p.° februarii VII^
ind. [1519] : fiat investitura
solemnibus adimpletis processibus».
Da questo processo, che - pur nella sua contorsione
- è il meno complesso dei processi d’investitura dei Del Carretto, emergono due
o tre istituti molto peculiari del diritto feudale della nostra terra di
Racalmuto:
1.
Diritto dei baroni all’amministrazione della giustizia. Un secolo dopo,
il pingue vescovo di Agrigento Horozco cerca pretestuosamente di contrastarlo,
fingendosi paladino di un omicida, il
chierico Jacobo Vella.
2.
Diritto alla destituzione e nomina di tutte le cariche, civili e
militari, di Racalmuto. I Tudisco, i Promontorio, i Piamontesi, i Neglia, i
Puma, i Nobili, gli Acquisto, i Taibi, i Fanara, i La Licata, i Gulpi, i Rizzo, i Morreali, i
Vaccari, i Capobianco etc. hanno, tra il XIV ed il XVI secolo possibilità di
farsi apprezzare dagli stravaganti baroni di Racalmuto: ne diventano fiduciari;
spesso si arricchiscono alle loro spalle; in ogni caso attecchiscono nella
fertile terra del grano. Poi tanti svaniscono nel nulla. Qualcuno resta
tuttora, ma senza più il ruolo di profittatori del regime.
3.
Non emerge ancora un chiaro affermarsi del diritto al terraggio ed al terraggiolo [prestazioni in natura da parte dei coltivatori delle
terre del barone, nel primo caso, e fuori la baronia, nel secondo - stando
almeno alla volgarizzazione della fine del Settecento].
4.
Il mero e misto impero dei baroni fa capolino nel Cinquecento, ma
piuttosto tardivamente.
Giovanni
III del Carretto eredita la boronia di Racalmuto qualche tempo prima
dell’iniziale investitura; alla morte del padre Ercole e cioè il 27 gennaio (o
un paio di giorni dopo) del 1517. Il 16 marzo di quell’anno il neo barone manda
come suo procuratore Cesare del Carretto per la formale acquisizione della
baronia. Il relativo atto viene stilato
con rogito del notaio Bartolo Carloni di Napoli in data 1° marzo 1518. Il successivo
26 gennaio 1518 nomina procuratore il già detto Giovanni Artale Tudico per gli
adempimenti presso la curia vicereale di Palermo. L’investitura risulta
definita il 31 gennaio del 1519. “Fiat investitura” la nota finale del
processo. Ina ricostruzione del 1558 si dice che Giovanni fu costretto
all’investitura “per la morte del cattolico ed invittissimo re Ferdinando di
gloriosa memoria e per la successione delle cattoliche maestà la regina
Giovanna ed il re Carlo”. Adempimenti che comportavano aggravi fiscali in prima
battuta per il barone, ma per ricaduta sui malcapitati nostri compaesani del
‘500. E poi si vuol far credere che i grandi eventi della storia non avessero
incidenza sulla villica popolazione racalmutese!
Ma non è
finita: l’11 marzo 1558 Giovanni III del Carretto è costretto a rifare il
giuramento di fedeltà nella forma solenne, come attesta un diploma rilasciato a
Messina. Altre formalità, altre spese, altre tasse.
Il 2
gennaio 1560 Giovanni del Carretto cessava di vivere: aveva tenuto saldamente
in pugno la baronia di Racalmuto per oltre quarantatré anni, un’egemonia
lunghissima specie se si tiene conto della irrisoria vita media di quel tempo.
Ebbe a
sposare una signora di riguardo, tale Aldonza, nome spagnoleggiante, di cui
sappiamo ben poco. Alla data della morte del marito era già deceduta: quoddam spectabilis Domina Aldonsia, la si indica nel
testamento.
Nulla ha a
che fare con la celebre Aldonza del Carretto, questa moglie di Giovanni III:
trattasi della nipote. Ella lascerà un legato per la costruzione della badia di
Racalmuto, ed al contempo inguaierà fratello, nipote e pronipote per il suo
bizzarro disporre dei beni di “paraggio” che le spettavano. Ma questa è storia
del Seicento.
Nel 1375 la
terra di Racalmuto contava appena 136 fuochi cui si possono attribuire non
più di n.° 500 abitanti, elevabili a
600/700 se si vuol credere ad errori dell’arcidiacono Bertrando du Mazel,
inviato dal papa di Avignone per una tassazione dei singoli fuochi in cambio
della rimozione dell’interdetto. In quel tempo non vi erano più di due chiese,
fragili e malandate.
In piena
signoria di Giovanni III del Carretto, le cose erano notevolmente cambiate a
Racalmuto: la popolazione si era enormemente accresciuta.
Abbiamo
pubblicato nel citato nostro lavoro sul Cinquecento racalmutese dati e note sul
censimento del 1548 - Giovanni III del Carretto era barone già da 31 anni - che
sintetizziamo con questa tavola:
Censimento del 1548
|
Ceti paganti
|
ceti esenti
|
evasori
|
totali
|
N.°
Fuochi
|
896
|
0
|
90
|
986
|
Abitanti
(fuochi * 3,53)
|
3.163
|
0
|
316
|
3479
|
Dai 1600
del 1505 ai quasi 3500 abitati del 1548 il salto era stato rimarchevole: non
poteva trattarsi solo di normale crescita demografica; sotto il barone di
Racalmuto si erano quindi determinate condizioni di vita accettabili, da
preferire a quelle dei feudi circostanti; contadini, mastri e forse anche
mendicanti ebbero ad affrottarsi nei quattro quartieri che ormai si erano
stabilmente definiti: a) Santa Margaritella, tra l’attuale Carmine, bar Parisi
e la Guardia; b) San Giuliano, tra Guardia, tabaccheria Fantauzzo, Collegio,
Fontana e attuale chiesa di San Giuliano; c) Fontana o quartiere fontis, l’altro spicchio di nord-est tra
la Fontana, il castello, la Matrice e l’attuale chiesa dell’Itria; d) quartiere
del Monte o montis comprendente
l’ultimo quarto a ridosso dell’omonima chiesa esistente anche allora.
Era tutto
suolo baronale; per ergervi una casa occorreva pagare uno jus proprietatis ai del Carretto; se poi si era contadini e si
andava a coltivare terre altrui nell’ambito del feudo (o Stato di Racalmuto)
scattavano tributi in natura; se la coltivazione avveniva in feudi circostanti
(Gibillini, Cometi, Grutticelli, Bigini, Aquilìa, Cimicìa, ed altri ancora), il
tributo raddoppiava: terraggio
(quello infrafeudo) e terraggiolo
(quello extrafeudo) furono termini presto entrati in uso, a significare
balzelli che pur tuttavia si accettavano non essendo diverso altrove. Sfuggì il
particolare a Tinebra; vi fece eco Sciascia e l’odiosità delle presunte
angherie comitali cade tuttora sul malaticcio Girolamo II del Carretto, quello
ucciso dal servo arbitrariamente chiamato con il rispettabile patronimico Di
Vita.
Un vescovo
agrigentino del tempo, il nobile Tagliavia nutrì eccessivo interesse per la
comunità ecclesiastica di Racalmuto. Nel 1540 mandò suoi pignoli visitatori;
tre anni dopo fece visita inquisitoria lui stesso. Poteva considerarsi
apparentato con il bigotto Giovanni III del Carretto, ma il barone non viene
neppure adombrato nelle relazioni episcopali che per nostra fortuna si
conservano nell’archivio vescovile di Agrigento.
In tali
atti vescovili viene descritta piuttosto diffusamente la condizione
dell’organizzazione ecclesiale di Racalmuto.
Un fenomeno
nuovo emerge con il suo peso sociale, economico e soprattutto bancario: quello
delle confraternite. Le confraternite cinquecentesche di Racalmuto nascono come
associazioni per garantire la “buona morte” che è come dire una onorevole
sepoltura - il culto dei morti da noi è stato sempre presente, ossessivo,
dispendioso - ma subito, venute in possesso di disponibilità finanziaria e
monetarie, cosa di gran rilievo in
un’angusta economia curtense, assurgono a potentati economici molto simili alle
attuali banche: finanziano, danno in affitto gli immobili di proprietà (sia
pure relativa), fanno committenze per costruire chiese (fonte prima del loro
guadagno per le sepolture a pagamento che vi vengono fatte), le fanno riparare,
e così via di seguito. Non sono corporazioni di arti e mestieri, anzi sono
essenzialmente interclassiste. Il prete visvolge un ruolo, ma solamente
religioso: è soltanto il cappellano spirituale. Nasce da qui il detto tutto
racalmutese: monaci e parrini, vidici la
missa e stoccaci li rini. Come dire i preti ed i monaci nelle confraternite
ci stano per celebrar messa, ma dopo bisogna loro “stuccarici li rini” beffarda espressione per specificare che ognuno
deve poi girarsi su se stesso per le mansioni e competenze proprie, in assoluta
indipendenza. I preti infatti non potevano inserirsi nella gestione economica,
tutta affidata al governatore laico ed agli altrettanto laici deputati che ogni
anno si eleggevano. Il vescovo Tagliavia cerca di irreggimentare il tutto, ma
con evidente scarso successo.
Dai rapporti episcopali
emerge questo interessantissimo quadro delle caratteristiche istituzioni e
affiorano, sia pure con una fioca luce questi nostri antenati ([2])
:
·
Luminaria del Santissimo Corpo di Cristo,
istituita nella chiesa maggiore di S. Antonio (che però essendo pressoché
distrutta [v. op. cit. pag. 210] non era praticabile ed al suo posto operava
provvisoriamente l’ “Ecclesiola” dell’Annunciazione della Gloriosa Vergine
Maria): ne era Governatore mastro Antonino La Licata, che introitava la detta
luminaria sopra alcune case di Racalmuto, che erano costituite in 17 corpi di
fabbricati, e che si solevano locare per circa otto once, con affitti peraltro
crescenti. In più il Governatore raccoglieva le elemosine giornaliere e curava
i legati.
·
Nella detta ecclesiola vi era anche la
confraternita della Nunziata: ne erano i rettori:
1.
Montana mastro Paolo;
2.
Cacciatore mastro Paolo;
3.
Santa Lucia Cesare;
4.
Vaccari Giovanni.
Avevano
dodici once di reddito sopra diverse case che appartenevano alla detta
Confraternita, che si solevano locare per le stesse dodici once.
· Confraternita della
chiesa di Santa Maria del Monte: ne
erano rettori:
1.
Cacciatore mastro Pietro;
2.
Vaccari Pietro;
3.
de Agrò Mirardo;
4.
Fanara Addario.
Erano
al contempo Governatori ed avevano quattro once e venti tarì di reddito sopra
diversi possedimenti terrieri.
·
Confraternita di Santa Maria di Gesù: ne
erano rettori:
1.
de Agrò Natale;
2.
Vurchillino (Borsellino) Antonino;
3.
Murriali Giuliano;
4.
de Alaimo Michele.
Erano
al contempo Governatori ed avevano dodici carpi di case in Racalmuto che
solevano locare per dieci once all’anno.
·
Confraternita di S. Giuliano: ne erano
rettori:
1.
Curto Angelo;
2.
Lauricella Andrea;
3.
Curto Stefano;
4.
Picuni Antonino.
Avevano
una certa somma di rendita. Fu loro imposto di esibire il legittimo inventario,
sotto pena d’interdetto.
Gli aridi inventari episcopali del 1540 e del
1543 ci consentono comunque di fare una ricognizione critica - senza le grandi
sbavature cui gli storici locali indulgono - delle chiese veramente esistenti
all’epoca. Abbiamo innanzitutto la vetusta chiesa di S. Antonio: è
parrocchiale, risale ad epoca immemorabile (noi pensiamo alla prima metà del
Quattrocento). Al tempo di Giovanni III del Carretto è fatiscente; nessuno
pensa a ricostruirla; la si lascia in abbandon0 ma alla fine la solerzia del
vescovo Tagliavia è tale che risorge a nuova vita e il culto in essa perdura
sino alle soglie del Settecento.
Monsignor Pietro Tagliavia ed Aragona, nel tempo in cui fu
vescovo di Agrigento curò molto le visite pastorali. Racalmuto fu prima, nel
1540, assoggettato ad un’ispezione sommaria la cui verbalizzazione è contenuta
in cinque fogli ove è riportata, in sostanza, una secca inventariazione dei
beni delle più importanti chiese di allora: Nunziata, Santa Maria di Gesù,
Santa Margherita, Madonna del Monte e San Giuliano. [3]
Tre anni dopo, il paese subì, come si è accennato, una più seria indagine da
parte del vescovo in persona, che vi si recò il giorno 11 giugno 1543. Il
taglio del resoconto è ora molto più articolato, e viene fornito uno spaccato
della vita religiosa locale di grande interesse.[4]
Al centro della locale comunità religiosa è l’arciprete don
Nicolò Gallotto (o de Gallottis). E’ originario della terra di San Marco,
diocesi di Messina; è anche canonico agrigentino (“est etiam canonicus
agrigentinus”). Non riusciamo a sapere, però, se risiede in paese. Gode di metà
delle rendite e degli emolumenti, perché l’altra metà serve per il
sostentamento di quattro cappellani che accudiscono alla chiesa e amministrano
tutti i sacramenti all’intera popolazione (“dictus dopnis Nicolaus habet
dimidiam omnium redditum et emolumentorum ... alia dimidia est assignata
quatuor capellanis qui serviunt dicte ecclesie et administrant populo
ecclesiastica Sacramenta.”).
Ricade su Racalmuto l’onere del sostentamento del suo
arciprete, cui spetta per antico diritto (“ex disposictione”), il beneficio
della “primizia”. E’ questo un gravame tributario in forza del quale ogni fuoco
(famiglia) è assoggettato alla corresponsione di un tumolo di frumento ed un
altro di orzo all’anno; le vedove sono obbligate solo per il tumolo di
frumento; i non abbienti sono esonerati (”primitiam .. contigit dictus
archipresbiter seu eius locum tenentes unaquaque domo dicte terre et illam
solvunt hoc modo: unaqueque domus solvit tumulum unum frumenti et unum ordei,
exceptuatis viduis, que solvunt tumulum unum frumenti tantum singulo anno”.)
Nella visita del 1540 era stato precisato che il Gallotto
percepiva annualmente tale primizia nella misura di 25 salme di frumento e 22
di orzo. Considerando una salma formata di 16 tumoli, avremmo 400 fuochi di cui
48 quelli di vedove capo-famiglia. La popolazione abbiente ascenderebbe quindi
a circa 1600 abitanti. Ma siamo molto lontani dai dati disponibili per
quell’epoca. Nel rivelo del 1548,
sotto Carlo V, Racalmuto risulta forte di 890 fuochi per oltre 3100 abitanti.
Non crediamo che vi fossero 490 case di indigenti; il numero degli esonerati e
degli evasori doveva essere molto elevato. Ed il fenomeno dovette essere
duraturo. Un paio di secoli dopo, nel 1731, l’arciprete Algozini dava i
seguenti ragguagli sulla primizia di Racalmuto, un diritto che evidentemente si
perpetuava: «questa chiesa non ha decime ma la Matrice solamente ha ogni anno
in primizie, tolti li miserabili e
fuggitivi, formenti di lordo in circa salme quarantaquattro, in orzi salme
sedici in circa, dovendo pagare ogni capo di casa tum.lo uno di formento e
tum.lo uno d’orgio.» Tradotto in statistica demografica, abbiamo una
popolazione di 2800 abitanti, a fronte di una popolazione effettiva dichiarata
dallo stesso Algozini in 5134 anime suddivisa in 1200 famiglie. Sorprendono le
analogie e le concomitanze con il fenomeno elusivo del 1540. A meno che in
entrambi i casi si dichiarasse soltanto la metà (la dimidia pars di spettanza
dell’arciprete).
Oltre alle primizie, l’arciprete Gallotto percepiva i
proventi per quelli che l’Algozini due secoli dopo chiama diritti di stola: i
proventi cioè dei funerali e dell’amministrazione dei servizi religiosi
(“mortilitia et alia provenientia ex administratione cure”).
Nel 1540 si constatava che la chiesa dell’Annunziata
dell’omonima confraternita fungeva anche da chiesa parrocchiale al posto della
Matrice intitolata a S. Antonio e non si aveva nulla da eccepire. Visitata per
prima, se ne annotava la doppia funzione: «Ecclesia di la Nuntiata confraternitati et servi pro maiori ecclesia
di ditta terra». E’ comunque alla chiesa maggiore che spetta il diritto delle
primizie: essa, in quanto “maior ecclesia”, «habet primitias videlicet salme 25
frumenti et salme 22 ordei in persona domini Nicolai Gallocti cum onere unius
misse quotidie» Ma tre anni dopo, il
vescovo Tagliavia ha di che ridire: per lui, l’Annunziata è “ecclesiola” e
quindi non può fungere da chiesa madre; è un tempio «valde parvulum et angustum
pro tanto populo”. La vecchia matrice di S. Antonio è diruta; ma poiché essa
sarebbe adeguata alle esigenze di spazio dell’accresciuta popolazione, viene
ordinato dal presule che venga restaurata e riedificata. «Et quia .. ecclesia
[maior] est diructa, et hec que servit pro maiori ecclesia est valde angusta,
ideo iussit provideri quo dicta maior ecclesia restauretur et reedificetur.»
Non si mancò di eseguire gli ordini vescovili: sappiamo di certo che nel 1561
la chiesa Madre è proprio S. Antonio.
Le nostre
notizie sull’arciprete venuto dalla diocesi di Messina sono tutte qui. Non
abbiamo neppure un appiglio per formulare un qualsiasi giudizio sulla sua
figura. Poté essere un bravo sacerdote, ma poté essere un semplice percettore
di benefici ecclesiastici. Dei quattro cappellani che lo coadiuvarono (o lo
sostituirono) non sappiamo neppure i nomi.
Le carte episcopali richiamate a proposito dell’arciprete
Gallotto contengono accenni ad altri sacerdoti racalmutesi della metà del
Cinquecento: fra loro spicca don Francesco de Leo, vicario foraneo della terra
di Racalmuto. Si sa quanto importante fosse il ruolo del vicario che fungeva da
rappresentante del vescovo sul luogo. A
lui venivano demandati i compiti esecutivi della giurisdizione della Curia
agrigentina, specie in materia penale. Il vicario era uomo temuto e rispettato,
forse ancor più dell’arciprete, che spesso si limitava a percepire i frutti del
beneficio ottenuto per entrature curiali e non metteva neppure piede nella
parrocchia di cui era titolare.
Il de Leo era vicario, dunque, al tempo dell’arciprete
Gallotto. Tra gli altri compiti aveva quello di curare gli interessi del
canonico don Giovanni Puiates, titolare del beneficio di Santa Margherita.
Naturalmente, anche questi si limitava a percepire i pingui proventi racalmutesi
senza interessarsi neppure della chiesa che sorgeva accanto a quella di Santa
Maria di Gesù: a ciò pensava il vicario d. Francesco de Leo ed era incarico che
espletava encomiabilmente. Il vescovo Tagliavia nel visitare, nel 1543, la
chiesa di Santa Margherita la trova «satis bene compositam» ed il merito
l’attribuisce al vicario, «hoc propter bonam curam dopni Francisci de Leo,
vicarii dicte terre.»
Del solerte vicario, oltre a questa notizia, non sappiamo
null’altro. Possiamo giudicarlo, comunque, positivamente e tutto fa pensare che
fosse racalmutese. Si spiega così perchè tenesse alla vetusta chiesa di S. Margherita che, se
è da dubitare che risalisse al 1108 come scrisse nel 1641 il Pirri, era pur
sempre un luogo di culto di cui ad un diploma del 1398. Il de Leo sembra avere
care le tradizioni indigene. La chiesa, varie volte rinnovata e ricostruita,
era da tempo immemorabile sede di un titolo canonicale agrigentino. «Ecclesia
Sancte Margarite - si sa dalla visita del 1543 - est titulus canonicatus” che
al tempo spettava al cennato canonico Pujades. I contadini racalmutesi dovevano
corrispondere le decime al canonicato della Cattedrale di Agrigento e non
risulta che il beneficiario sia stato mai un racalmutese. Quando si trattò di
giustificarne il titolo originario, si assunsero a documenti due antichissimi
diplomi del 1108. In essi si descrive la donazione di un fondo da parte di
Roberto Malconvenant ad un suo parente, il milite Gilberto, a condizione che vi
edificasseuna chiesa. Gilberto accetta, si fa chierico ed inizia, costruisce e
completa un tempio nella sua terra intitolandolo a Santa Margherita Vergine. Il
vescovo Guarino in una domenica del 1108 consacra chierico e chiesa inquadrandoli nella giurisdizione della
Cattedrale agrigentina.
L’ubicazione del centro agricolo è di ardua individuazione.
Nel diploma viene così descritta l’estensione del fondo: se ne specificano i
confini; emergono quindi punti di riferimento e località che nulla hanno a che
vedere con Racalmuto. Quella antica chiesa “normanna” non è posta pertanto
vicino a Santa Maria, non ci compete e lasciamola al suo destino. Il fascino
della storia racalmuetese non si appanna certo per il venire meno di una tale
tradizione.
Resta
assodato che a Racalmuto il culto di Santa Rosalia è ben antico. Non sembra,
però, che vi sia qualcosa su S. Rosalia nelle primissime visite pastorali
agrigentine del 1540-3, dato che in quella del 1543 si accenna solo alle
seguenti chiese racalmutesi:
1) Chiesa
Maggiore, sotto il titolo di S. Antonio;
2) “Ecclesiola”
sub titulo Annuntiationis Gloriose Virginis Marie, da tempo sede di una
Confraternita e dove era stato trasferito il Santissimo , chiesa adibita ormai
al posto di quella Maggiore, a quanto pare fatiscente;
3) Chiesa di
Santa Maria del Monte;
4) Chiesa di
santa Maria di Gesù;
5) Chiesa di
Santa Margherita;
6) Chiesa di San
Giuliano;
Nella
precedente visita del 1540 abbiamo:
1) Chiesa della
“NUNTIATA”
2) Chiesa di
Santa Maria di Gesù (Jhù)
3) Chiesa di
Santa Margherita;
4) Chiesa di
“Santa Maria di lo Munti”;
5) Chiesa di S.
Giuliano.
(Cfr. le pagine 196v-198v della Visita)
|
Passando al
setaccio i radi accenni delle carte episcopali del 1540-1543 abbiamo che non
proprio recenti erano le chiese quali:
·
la Nunziata,
visto che vi si trovava una vecchia tunichella di damasco turchino ( Item uno paro di tunichelli una di villuto
iridato cum soj frinzi di varij coluri et l’altra di damasco turchino vechia);
·
Santa Maria
di Gesù col suo vecchio paramento di borchie stagnate (Item uno casubolo di borcati vecho stagnato);
·
Santa Margherita sia per quel che sappiamo dalle
antiche fonti sia come testimoniano i “avantiletto” lisi (item dui avantiletti vechi). Significativo invece che a S. Giuliano
non v’era nulla di vecchio.
Di Giovanni
del Carretto è consultabile il testamento ([5]) steso sul
letto di morte: a raccoglierlo il notaio Jacopo Damiano, quello finito sotto le
grinfie del Santo Ufficio. L’inventario della vita del barone viene in qualche
modo stilato.
In
epigrafe, la data: 2 gennaio 1650. Riguarda il “molto spettabile signor D.
Giovanni de Carrectis, domino e barone della terra di Racalmuto, cittadino
della felice città di Palermo, dimorante nel Castello della detta terra e
baronia di Racalmuto, che fa testamento dinanzi il notaio ed i testi”. “Sebbene infermo nel corpo, è tuttavia sano
di mente ed intelletto, con la parola ed i sensi integri”.
Il
testamento esordisce con una sorpresa: erede universale non viene nominato il
primogenito (Girolamo, futuro primo conte di Racalmuto), ma il secondogenito,
“lo spettabile signor don Federico de Carrectis barone di Sciabica,
secondogenito legittimo e naturale nato e procreato dallo stesso spettabile
signor testatore e dalla fu spettabile donna Aldonza consorte del medesimo”.
Ripete in
dialetto, il morente barone: “legitimo e naturali, procreatu da me e dalla condam Aldonsa mia mugleri in tutti e singuli
beni, e cosi mei mobili e stabili presenti, e futuri, e massime in la Vigna e
loco chiamato di lo Zaccanello, con tutti soi raggiuni e pertinentij, e suo
integro statu, pretensioni, attioni, e ragiuni, frumenti, orzi, cavalli, e
scavi; superlectili di casa, massarij, boi et altri animali, et instrumenti di
massaria, vasi di argento manufatti esistenti in lo detto Castello con li nomi
di miei debitori ubicumque esistenti e meglio apparenti”.
Se si è
avuta la pazienza di scorrere questa specie d’inventario, si ha un’idea di
quanto ricco e bene arredato fosse il Castello; vi era una frotta di servitù e
vi erano veri e propri schiavi (“scavi”).
A don
Federico vanno 200 once di rendita annuale, oltre alla definitiva proprietà di
mille once promesse a suo tempo dal testatore come dote assegnata nel contrarre
matrimonio con donna Eleonora di Valguarnera.
“Del pari
il prefato signor testatore volle e diede mandato che lo stesso spettabile D.
Federico erede universale abbia e debba sopra la restante eredità versare al
signor don Girolamo del Carretto la somma occorrente per le spese del funerale
quale dovrà essere celebrato in relazione alla qualità della persona dello
stesso spettabile testatore sino alla somma di once 100 da prelevarsi da quelle
600 once che stanno nella cassaforte (in
Arca) del medesimo testatore ed
essendoci più bisogno di più si aviranno da pagare communiter da entrambi
gli eredi don Federico e don Girolamo”.
“Del pari
il prefato testatore istituisce suo erede particolare il molto spettabile
signor D. Girolamo de Carrectis suo figlio dilettissimo primogenito, legittimo
e naturale nato dal medesimo Testatore e dalla spettabile quondam Donna D.
Aldonza sua consorte, cui va la baronia nonché i feudi della terra di Racalmuto
con tutti ed ogni giusto diritto, con le giurisdizioni civili e criminali, il
mero e misto impero giusta la forma dei privilegi ottenuti nella regia curia,
con le prerogative sui feudi, sul Castello, sugli stabili e con tutti gli altri
diritti quali il terraggiolo, le
gabelle ed ogni altra consuetudine spettante alla predetta baronia. A questo
del Carretto suo indubitato figlio primogenito spetta pertanto nella detta
Baronia ogni pretesa, azione, ed imposizione: Gli competono altresì denaro,
frumento, orzo, servi, suppellettili di casa, buoi e messi ovunque esistenti,
nonché gli animali ovunque si trovino, come i frumenti nelle masserie, i vasi
d’argento esistenti nel Castello e tutte le ragioni creditorie con le eccezioni
che seguono”.
Giovanni III morente pensa alla sua cappella privata nel
castello e la dota: «Item praefatus spectabilis dominus Testator voluit, et
mandavit quod omnes raubae sericae, et jugalia Cappellae existentes in Castro
dictae Terrae quae inservierunt pro Culto Divino, etiam illae raubae quae sunt,
ut dicitur de carmisino, et imburrato remanere debeant in Cappella dicti Castri
pro uso dictae Cappellae in Culto divino.»
“E così il predetto testatore volle e diede mandato,
ordinò e invitò come ordina ed invita il detto spettabile don Girolamo suo
figlio primogenito, futuro ed indubitato successore nella detta Baronia
affinché voglia e debba bene trattare, reggere e governare tutti ed ogni
singolo vassallo della predetta terra e non permettere che vengano molestati da
chicchessia, e ciò per amore di nostro
Signore Gesù Cristo e per quanto abbia cara la salute dell’anima del
testatore.»
Non crediamo che Girolamo I del Carretto abbia dato
troppo peso alla retorica raccomandazione paterna. Se ne dipartì anzi per
Palermo e Racalmuto fu solo il luogo da dove provenivano le sue cospicue
disponibilità liquide, spese soprattutto per ottenere prestigiosi quanto tronfi
titoli dalla corte spagnola.
“Del pari il testatore lascia il legato a carico di
Girolamo di far dire tante messe nel
convento di San Francesco di Racalmuto. Là doveva pure essere eretta una
Cappella bene adornata per cui dovevano essere spese almeno 100 once.”
“Al Convento dovevano pure andare le 7 once di reddito
annuole cui era tenuto il magnifico Giovanni de Guglielmo, barone di Bigini.”
Di quella Cappella a San Francesco, nulla è dato sapere:
crediamo che Girolamo del Carretto aveva ben altro a cui pensare a Palermo per
spendere soldi per una tomba regale nel lontano e spregiato Racalmuto.
Crediamo, anzi, che di quell’eccesso di devozione sia stato considerato
artefice ed inspiratore il notaio. Come familiare del Santo Ufficio, Girolamo I
del Carretto ebbe quindi modo di incolpare il malcapitato Jacopo Damiano e
farne un eretico che ebbe il danno della privazione dei beni e la beffa del
sanbenito. Leggere il commento di Sciascia per la letteraria rievocazione
storica.
Il morente barone dichiara di avere speso 130 once nella
compera di legname e tavole per il tramite di mastro Paolo Monreale e mastro
Giacomo Valente. Sancisce che devono essere bonificate 27 once per la
costruzione della chiesa di Santa Maria di Gesù e 11 once per completare il tetto “della chiesa
di Santa Maria di lu Carminu”.
Giovanni del Carretto ha anche figlie femmine da dotare:
1.
donna Beatrice del Carretto, moglie di don Vincenzo de
Carea, barone di San Fratello e di Santo Stefano (150 once in contanti da
prelevare dalle casse del castello);
2.
donna Porzia del Carretto, moglie di don Gaspare
Barresi (altro che lotta intestina con i Barresi, dunque). Si parla di altre 50
once in contanti da erogare;
3.
Suor Maria del Carretto, dilettissima figlia
legittima, monaca del convento di Santa Caterina della felice città di Palermo. Oltre alla
dote per la monacazione, altre 20 once a carico dell’erede Girolamo;
Il notaio Jacopo Damiano fu forse anche un tantinello venale:
introdusse una clausola che, se non fu determinante, contribuì quasi certamente
alla sua rovina ed al suo deferimento al Santo Uffizio da parte dei potenti ed
ammanigliati del Carretto. La clausola in latino recita: «Item ipse spectabilis
Dominus testator legavit mihi notario infrascripto pro confectione praesentis,
et inventarij, et pro copijs praesentis testamenti, et inventarij uncias
quinque, nec non relaxavit et relaxit
mihi infrascripto notario omnia jura terraggiorum, censualium, et gravorum
omnium praesentium, et praeteriturum anni praesentis tertiae inditionis pro
Deo, et Anima dicti Domini Testatoris per
esserci stato buono Vassallo, et Servituri, et ita voluit et mandavit.»
Vada per le cinque once di parcella: cara ma tollerabile; l’esonero dal
terraggio e dai censi, no. Francamente era troppo. Ed a troppo caro prezzo
Jacopo pagò quella sua cupidigia. Un accenno veloce alle sue disavventure:
Jacopo Damiano, notaro fu imputato di opinioni luterane ma “riconciliato” nell’Atto di fede che si
celebrò in Palermo il 13 di aprile del 1563 (tre anni dopo la morte ed il
testamento di Giovanni III del Carretto). Ebbe salva la vita, ma non i beni né
l’onore. Impetra accoratamente: «... per
molti modi ed expedienti che ipso ha cercato, non trova forma nixuna di
potirisi alimentari si non di ritornarsi in sua terra di Racalmuto [in
effetti ci sembra originario di Agrigento, n.d.r.].
.... [ed i parenti, uomini d’onore] vedendo
ad esso exponenti con lo ditto habito a nullo modo lo recogliriano, anzi lo
cacciriano et lo lassiriano andar morendo de fame et necessità ...».
Tanta la beneficenza del barone morente (ma era compos sui, o
il ‘luterano’ notaio inventava?):
·
5 once al venerabile convento di San Domenico della
città di Agrigento;
·
5 once alla venerabile chiesa di Santa Maria del
Monte;
·
10 once al venerabile ospedale della terra di
Racalmuto;
·
5 once alla venerabile confraternita di San Nicola di
Racalmuto;
·
5 once alla venerabile chiesa di San Giuliano; inoltre
poiché il testatore ha una certa quantità di calce e detenendo una fabbrica di
calce (“calcaria”) esistente in territorio di Garamuli, dispone che se ne dia
sino a concorrenza di 500 salme per la chiesa di San Giuliano
·
5 once alla chiesa di S. Antonio (che quindi è
ritornata in auge);
·
5 once in onore del glorioso Corpo del Signore quale
si venera nella Matrice.
Al servo di provata fedeltà debbono andare ben 20 once per i
tanti servizi prestati; 10 once, invece, al servo (famulus) Francesco de Milia.
Il barone è grato al clero; gli è stato vicino ed amico. Ecco
perché raccomanda al successore d. Girolamo del Carretto «quod omnes et singulae Personae
Ecclesiasticae dictae Terrae Racalmuti sint, et esse debeant immunes, liberi,
et exempti ab omnibus, et singulis gabellis, et constitutionibus solvendis
spectabili Domino eius successori, videlicet à gabella saluminis, vini, carnis,
granorum, et olei, et hoc pro usu tantum dictarum personarum ecclesiasticarum,
et ita voluit, et mandavit.»
I preti debbono dunque essere immuni dai balzelli baronali
come la gabella dei salami, del vino, della carne, del grano, dell’olio: una
sfilza di tasse sui consumi che la dice lunga sull’assetto fiscale della realtà
feudale di metà secolo XVI a Racalmuto.
Il barone ha due consanguinee nel convento di Santo Spirito
di Agrigento: suor Scolastica e suor Giovanna Nudizzo. Se ne ricorda in punto
di morte stabilisce un legato di 5 once per ognuna di loro. Ne avrà avuto
preghiere ardenti.
Il barone ha un obbligo di coscienza: deve chiarire le dubbie
ascendenze di don Matteo del Carretto. «Item
praefatus dominus Testator - ha voglia di dichiarare - ad
instantiam Magnifici Domini Matthei de Carrectis, et Dominae Antoninae eius
filiae dixit et declaravit qualiter tempore vitae condam spectabilis Cesaris de
Carrectis audivit ab eodem domino Cesare, qualiter ipse dominus Cesar erat
filius Dominae condam Contissae de Valguarnera, cuius pater erat olim filius
dominorum Sigismondi, et Valentini de Valguarnera condam Cesaris [...]Unde ad instantiam dictorum
Magnificorum Matthei et Antoninae
Patris, et filiae pro eis stipulantibus me notario publico, factum est praesens
capitulum pro exoneratione conscientiae jacens in lecto infirmus, confessus et
contritus ut dixit etc.»
Il barone resta, comunque, legato alla sua terra; vuole
essere seppellito nella chiesa di San Francesco, vestito con l’abito di San
Francesco (dobbiamo almeno ammettere che alla fine dei suoi giorni, la sua fede
era intensa): «Item elegit eius corpus
sepelliri in Ecclesia Sancti Francisci dictae Terrae indutus ordinis ditti
Sancti Francisci et ita voluit, et mandavit.»
Ancora un ritorno alla beneficenza: «Item dictus dominus Testator dixit et declaravit quod super bonis
praedictis Petri de Cachertone habet uncias duas censuales, annuales, et
rendales. Ideo de eis legavit, et legat Venerabili Conventui di lu Carmino
unciam unam. et tt. sex [f. 56] pro illis uncia una et tt. sex quos restabunt
super eius bonis Sanctae La Lomia quae bona voluit quod intelligantur, et sint
de cetero dissobligata, restans supradictorum reddituum ad complementum
dictarum unciarum duarum relaxavit, et relaxat heredibus dicti condam de
Cachertone, quia fuerunt male impositae et ita voluit, et mandavit.» [6] Sembra una
resipiscenza; un volere riparare nel terrore della morte a malefatte, o almeno
a qualcuna delle malefatte, delle vessatorie imposizioni, degli arbitrii
predatori.
Fiducia al prete De Leo, di cui abbiamo detto sopra: «Item instituit in eius fideicommissarium et
praesentis testamenti exequutorem Reverendum D, Franciscum Deleo, Vicarium
praedictae Terrae Racalmuti cum pacto intradicto.» Come si vede,
l’arciprete non è neppure considerato: era un burocrate in abito talare; a
Racalmuto era presente solo per riscuotere.
La chiusa del testamento è rituale, con i testi e la firma,
con l’indicazione del notaio redigente: Testes
sunt hij Videlicet Ego frater Sigismundus de Agrigento testor; Ego Antoninus de
Russis U.J. Doctor interfui et testor; Ego Sacerdos de Leo interfui, et testor;
Ego Marcus Piemontisius interfui, et testor; Ego Vincentius Damianus interfui,
et testor; Ego Mattheus Damianus interfui, et testor.
Ex actis
condam Jacobi Damiano copia per me notarium Michaelem Angelum Vaccaro notario
Racalmuti dictorum et aliorum act. conservatorem generalem. - Coll. Salv. .
Il
processo d’investitura del successore Girolamo I del Carretto ci attesta che in
gennaio del 1560 Giovanni III del Carretto cessò effettivamente di vivere; morì
in Racalmuto e fu davvero sepolto nella chiesa di San Francesco.
[1])
Archivio di Stato di Palermo: PROTONOTARO REGNO INVESTITURE - BUSTA 1487 -
PROCESSO n.° 1175 - ANNO 1518-21
[2])
Fontana Rosa (tesi di laurea) - Relatore: prof. Paolo Collura - La visita
pastorale di Mons. Pietro di Tagliavia e d’Aragona - Parte II (A. 1542-43) -
Università degli Studi di Palermo - facoltà di Lettere e Filosofia - Anno
Accademico 1981-82 - pag. 206-218.
[3])
ARCHIVIO VESCOVILE DI AGRIGENTO - "GIULIANA" - VISITA- DEL 1540 - f. 196 v - 198v.
[4])
Cfr. «LA VISITA PASTORALE DI MONS. PIETRO DI TAGLIAVIA E D'ARAGONA - parte II
(Anno 1542-43)» - tesi di laurea di Rosa Fontana, relatore Paolo Collura
dell'Università degli Studi di Palermo - facoltà di lettere e filosofia - anno
accademico 1981-1982. Racalmuto risulta trattato nelle pagine 207-218.
Inoltre: ARCHIVIO VESCOVILE DI AGRIGENTO - "GIULIANA" - VISITA 1542-43 - colonne 190v-193v.
[5]
) Archivio di Stato di Palermo - Fondo Palagonia - Atti privati n. 630 - anni
1453-1717 - ff. 44r - 56v.
[6]
) Del pari il predetto testatore disse e dichiarò che sopra i beni di Pietro
Cacertone vanta due once censuali, annuali e reddituali. Di tali once
costituisce un legato di once una e tarì sei in favore del venerabile convento
del Carmelo, redditi che residuano sopra i beni di Santa Lumia. Detti beni
vuole che s’intendano per il resto liberati e vengano considerato disobbligati.
Per la parte residua quindi, quella a complemento delle due once, dichiara di
averla relassato e la relassa agli eredi del predetto quondam de Cacertone,
perche fu male imposta. Così volle e diede mandato.
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